L’isola della libertà: Un viaggio in Inghilterra
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Info su questo ebook
Angelo Michele Imbriani, storico, insegna presso il liceo classico “P. Colletta” di Avellino. Ha pubblicato numerosi saggi sul fascismo e sul Mezzogiorno nel dopoguerra, tra cui Gli Italiani e il Duce. Il mito e l’immagine di Mussolini (1938-1943) – per Liguori – e Vento del Sud. Moderati, reazionari, qualunquisti (1943-1948) – con Il Mulino.
Si è poi dedicato a studi di geopolitica, pubblicando articoli su “Giano” e “Il Ponte”, e di teologia, presso la Facoltà Valdese, con ricerche su Moltmann e Bonhoeffer
È approdato recentemente alla narrativa, pubblicando, sempre con il Terebinto, Nel Nido dell’Aquila, un viaggio in Germania sulle tracce di D. Bonhoeffer, teologo e martire della Resistenza al nazismo, e curando l’antologia di racconti, Le porte dell’orrore.
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Anteprima del libro
L’isola della libertà - Angelo Michele Imbriani
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Prologo
Passavamo le sere a parlare del tramonto. No, non del calare del sole, sebbene in quella primizia di estate, in quelle interminabili giornate, il sole regalasse magnifici colori alle nostre montagne quando infine si decideva a nascondersi dietro di loro. Parlavamo di quel tramonto in metafora che da più di un secolo era stato profetizzato e che forse adesso incombeva davvero. Il tramonto dell’Occidente, il tramonto della nostra civiltà, che eravamo i primi a trovare criticabile e di fatto avevamo a lungo e accanitamente contestato, ma alla quale ci eravamo infine accorti di dovere tutto, tutto quel che eravamo e che avevamo e perfino gli strumenti critici e la libertà che ci consentivano di metterla in discussione. Ce n’eravamo accorti ora che il tramonto si avvicinava di quanto ci fosse stato caro e bello e prezioso quel giorno che si stava spegnendo. E avremmo voluto prolungarlo con tutta la nostra anima. Non ci rassegnavamo al fatto che l’Occidente dovesse finire così, imbelle, infiacchito, annegato nella stupidità e nella finzione, incapace perfino di un sussulto di orgoglio, masochista, autolesionista. Tutto preso a vigilare su parole ormai destituite di ogni rapporto con le cose, in una versione grottesca e stolta del vecchio nominalismo degli Scolastici. Accusandosi di ogni misfatto, di ogni male della storia, reale o immaginario, e cieco di fronte a ogni suo merito e contributo di civiltà, in una smania perversa di autoflagellazione. Incapace di riconoscere ciò che aveva donato al mondo intero il suo dominio, pur duro e spesso ingiusto e talora spietato, come non può non essere un dominio; e soprattutto incapace di accorgersi di ciò che quella signoria occidentale aveva risparmiato al mondo, del male ben più letale che sarebbe accaduto se a comandare fossero stati altri. Il male che forse si stava preparando, che era in agguato nella tenebra che sarebbe seguita al tramonto.
– Forse possiamo solo pregare e affidarci al Signore. Non tanto per noi, che almeno la parte maggiore e migliore della nostra vita l’abbiamo vissuta quando il sole splendeva ancora, ma per i più giovani, per le future generazioni.
– Già, ma la fede non è cieca, contrariamente a ciò che tanti credono. E la preghiera deve avere un senso. Dovremmo sapere o capire meglio ciò in cui crediamo, ciò in cui possiamo ancora credere e che dovremmo impegnarci a salvare. Solo così sapremmo per cosa dovremmo pregare.
– Sì, fides quaerens intellectum, come diceva quel monaco medioevale.
La mia amica sapeva che avevo in programma un viaggio in Inghilterra quell’estate.
– Vai a Londra?
– No. Ci sono stato l’anno scorso. Ora che ho due settimane di tempo, voglio noleggiare un’auto e visitare altri posti.
– E che hai visto a Londra?
Le feci un elenco sommario. Lei scosse il capo.
– Se vuoi davvero pregare per l’Occidente e per il mondo, se vuoi cercare di capire ciò in cui ancora dovremmo credere, ciò per cui vale forse ancora la pena vivere e lottare, fai bene ad andare in Inghilterra. E se vuoi dare un senso alla tua preghiera, devi farlo in un luogo che sta a Londra e che non hai visto ancora. Vacci.
Non volle dirmi qual era il posto. Pensai a una chiesa, mi lanciai in elucubrazioni mentali per provare a indovinare dove mi stesse mandando e perché proprio lì si dovesse pregare per l’Occidente. E intanto lei, chiedendomi di scusarla, aveva preso a digitare sul suo smartphone, come se si fosse ricordata di qualcosa di più urgente. Dopo un minuto estrasse una penna dalla borsetta, prese la mia scatola di sigari e ci scrisse sopra un indirizzo. Una strada di Londra, il luogo misterioso dove sarei dovuto andare a pregare.
– Quando sei lì, cerca le scale – mi disse. – E non provare a cercare sul web o su google maps che cosa c’è in corrispondenza di questo indirizzo – continuò con un sorriso, – altrimenti il luogo magico scomparirà.
Sorrisi anch’io.
– Davvero – concluse facendosi di nuovo seria. – Sarà un patto tra noi: vincerai la tua curiosità fino al momento debito.
Non ci fu bisogno di giuramenti.
* * *
Le pratiche al banco della compagnia di noleggio sono state rapide come al solito. Il noleggiatore mi ha lasciato le chiavi di una Mitsubishi Colt, un’auto mai guidata e della quale ignoravo persino l’esistenza: sarà mia compagna di viaggio per parecchi giorni. Manterrò fede alla promessa fatta alla mia amica e andrò a Londra, ma solo verso la fine del viaggio. E fino ad allora non cercherò di capire quale possa essere il luogo misterioso. Anzi me ne dimenticherò del tutto. Del resto, non avevo intenzione di andarci a Londra e ho già da tempo un biglietto low cost per Liverpool… Vuol dire che mi avvicinerò lentamente e seguendo un percorso non proprio lineare alla capitale, immergendomi nel paesaggio e nella storia inglese.
Metto in moto e mi accingo a partire non senza una qualche trepidazione: i britannici, come si sa, guidano dall’altra parte della strada ma per loro siamo noi che guidiamo dalla parte sbagliata, è ovvio, e mi sovviene quanto ho letto nella guida Routard. Al paragrafo pericoli e seccature
, paragrafo che per molti altri paesi è piuttosto corposo e spesso assai utile, la guida Routard della Gran Bretagna riporta solo questa frase lapidaria: se girate in automobile, il pericolo siete piuttosto voi!
. In realtà, si fa subito l’abitudine a circolare contromano
: solo per pochissimo tempo si ha l’impressione di vivere in uno stato allucinatorio e in una sorta di mondo alla rovescia! E per un paio d’ore si continua a cercare il cambio a destra e ci si imbatte, invece, nella maniglia della portiera! Occorre qualche giorno, però, per fare l’occhio ed evitare di strisciare i pneumatici del lato sinistro contro i marciapiedi. Questi ultimi, infatti, e non solo nei centri urbani, delimitano spesso senza alcun margine di sfogo la corsia, solitamente pure strettissima, delle strade britanniche (in sostanza corsia e carreggiata tendono a coincidere).
Primo giorno: Chester
Chester è la mia prima tappa, la romana Deva o Castra Devana, massimo centro fortificato della Britannia di allora, sede della XX Legio, la Valeria victrix. I pochi resti romani, quelli tra l’altro di un imponente anfiteatro, sono salvaguardati con cura scrupolosa e formano, fra prati e aiuole fiorite, i cosiddetti Roman Gardens. Chester fu ancora potente e prospera in età medioevale, prima che l’interramento del porto sul fiume Dee non ne determinasse il declino, a tutto vantaggio della vicina Liverpool. E Chester ha il fascino malinconico della nobiltà decaduta e l’intatta preziosità dei molti centri europei – penso a Bruges, per esempio – che proprio la decadenza ha salvato dagli assalti talora irriguardosi della modernità. Non bisogna tuttavia pensare che la città sia rimasta inerte a contemplare solo le glorie passate e a sopravvivere di turismo: no, qui non usa. Ha piuttosto mantenuto o riscoperto e rilanciato quella vocazione commerciale che ne aveva segnato le fortune fino al Quattrocento. Con una sapiente opera di ristrutturazione, incominciata già nel Settecento, le antiche botteghe degli artigiani medioevali sono state riadattate a negozi-dimore dei nuovi mercanti borghesi, con i magazzini nei sotterranei, il negozio al piano terra, gli ambienti per l’esposizione della merce nei portici-galleria del primo piano e le abitazioni ai piani superiori. Sono così nati i Rows, le file
di negozi nelle case a graticcio che si ammirano ancora oggi nelle quattro strade del centro che seguono la pianta ortogonale dell’antica città romana. Le caratteristiche insegne in ferro battuto e caratteri in oro segnalano le ditte più prestigiose: antiquari, orologerie, la casa d’abbigliamento Browns of Chester, tra le più eleganti della Gran Bretagna.
E la Gran Bretagna non poteva che accogliermi con la pioggia, che si sta facendo anche insistente: è quindi il caso di trovare riparo nel primo dei non pochi pub che mi riprometto di conoscere in questo viaggio. Chester mi dona l’opportunità di incominciare da uno dei più autentici e suggestivi di tutta l’isola. L’Albion, così si chiama, è addossato al tratto sud-orientale delle mura, non lontano dal fiume, in luogo appartato e noto solo ai frequentatori abituali. Il suo gestore si ostina a resistere eroicamente a tutte quelle perverse innovazioni che per attirare una clientela soprattutto giovanile o turistica hanno finito per violentare e snaturare molti dei pub britannici. Chi ci capitasse per caso è ammonito, già sull’uscio, da una lavagna che informa l’avventore, con garbata ironia, di tutto ciò che assolutamente non troverà all’interno: "niente lager (n.d.A.: ciò richiederà una doverosa, imprescindibile digressione storico-sociologica sul mondo britannico della birra!), niente sky tv, niente playmachines, niente juke-box, niente musica, niente cibo da design (n.d.A: anche qui sarà necessaria una breve spiegazione), niente bambini, i cani sono benvenuti se conducono al guinzaglio i loro proprietari!. Che cosa allora si garantisce? Ecco:
cibo reale, real ales, ambiente di fascino come il fascino del suo Landlord (gestore, proprietario)!". Null’altro. E del resto: what else?
Entro e mi appare una sorta di bottega d’antiquario! Gli unici oggetti che avranno meno di cinquant’anni sono i bicchieri ove viene servita la birra, le stoviglie (immagino) e, forse, le tante bandierine inglesi sparse qui e là. Ah, mettiamoci pure le due ragazze che spillano le ales. Non discuto il loro fascino ma sarei stato curioso di conoscere il landlord, che invece non c’è (è ancora presto). Oltre a me, la clientela è formata solo da una coppia attempata che, ben presto, accoglie un’altra coppia sopraggiunta e che evidentemente stava attendendo. I primi devono essere del posto, i secondi loro ospiti. Gli uomini bevono birra, anzi ale, le signore sherry.
E veniamo alle necessarie precisazioni, incominciando da quella che richiederà meno parole. A che diavolo allude questo bel tipo del landlord quando parla di cibo da design
? Ho formulato un’ipotesi che, più tardi, nel corso del viaggio, mi è stata sostanzialmente confermata da una landlady (proprietaria) di uno dei bed and breakfast dove ho alloggiato e con la quale ho scambiato due parole. Negli ultimi anni in Inghilterra si è diffusa la moda dei gastro-pub
, pub ove si propone una cucina che vorrebbe essere raffinata e addirittura di ricerca. Alcuni di questi posti sono particolarmente trendy, hanno chef di grido e prezzi esorbitanti. Il cibo, immagino, sarà pure un’opera d’arte ma con il rischio che questo capolavoro si collochi nella corrente del surrealismo o addirittura dell’astrattismo, che apprezzo molto in pinacoteca, un po’ meno a tavola. In ogni caso, niente più a che vedere con la tradizionale cucina da pub. Ora, è vero che certi pub di una volta potevano pur essi considerarsi gastro-pub
, nel senso che rischiavi la gastrite, ma tali pericoli sono ormai quasi scomparsi, ragion per cui ho preferito restare alla larga dai nuovi gastro-pub, che pure sono apprezzabili come espressione della nuova ricerca gastronomica che fiorisce in Inghilterra, e frequentare i posti più tradizionali. Come l’Albion, appunto.
L’altra precisazione deve essere necessariamente più accurata, dato che avvicinarsi al mondo britannico della birra, fosse pure per assaggiare una sola pinta, richiede un minimo di cognizioni per non rischiare di compiere un’esperienza da sprovveduti e, quel che è peggio, deludente. E soprattutto, perché – come diceva Marx, che a Londra visse buona parte della sua esistenza – per capire l’anima di un popolo devi conoscere ciò che mangia e ciò che beve. Materialismo spicciolo che si può comprendere anche senza leggere L’ideologia tedesca, se non addirittura i tre grossi tomi del Capitale!
Dunque, la birra britannica è la ale, o meglio, deriva dalla ale che i Sassoni portarono nell’isola. La ale originaria era peraltro sensibilmente diversa da quella attuale, che è nata solo qualche secolo dopo, quando si è cominciato ad aggiungere il luppolo. Il luppolo ha dato alla ale il caratteristico aroma e retrogusto amarognolo; il motivo per cui si è incominciato a introdurlo nella fabbricazione della birra non ha, però, a che vedere con il gusto, ma piuttosto con la circostanza che il luppolo è un buon conservante naturale. Ci sono ovviamente tipi diversi di ale, più dolce (mild) o più amara (bitter), più chiara o più scura. Spesso ciò dipende dalla qualità locale dell’acqua: l’acqua di Londra è adatta a produrre una birra particolarmente scura, e da qui è nata la porter: birra tipicamente londinese di notevole corpo e struttura. Ciò che più interessa, per il momento, e che occorre sottolineare con forza, è l’abissale differenza che esiste tra una ale e una lager. E ciò servirà anche a capire un’altra iscrizione, altrimenti indecifrabile, che si trova all’interno dell’Albion e che è un’ulteriore e amabile testimonianza della strenua opposizione del suo landlord nei confronti della barbarie contemporanea! Che cosa è una lager? Lo sappiamo benissimo tutti: è il tipo di birra più diffuso sugli scaffali dei supermercati, quella che si vende anche in lattina, quella che ti propinano solitamente nelle pizzerie; le lager hanno indotto, specie da noi, la balzana convinzione che la birra sia una bevanda dissetante, frizzantina, da bere quasi ghiacciata, una bibita estiva da accompagnare alla pizza nelle sere d’agosto! Lager sono le marche di birra più note e più vendute e l’elenco lo conosciamo tutti. In sostanza, una ale sta a una lager commerciale in lattina come un vino di pregio sta a un Tavernello nel cartone e, se è una delle molte ales eccellenti che ancora si producono in Gran Bretagna, allora starà alla lager come un Barbaresco sta al suddetto vino di cartone. Le ales –attenzione! – non si bevono ghiacciate, non si bevono neanche fredde, poiché gusto e aroma si perderebbero irrimediabilmente: si servono a temperatura ambiente, o quasi (parliamo ovviamente di temperatura ambiente delle isole britanniche). Le ales non si tracannano, ma si sorseggiano. Una buona ale è in sostanza una birra da contemplazione. Le ales non sono adatte a sbronzarsi e ciò non solo e non tanto per il moderato grado alcolico – non raggiungono i 5 gradi, a parte le strong ale, ma la gradazione di molte lager è peraltro ancora inferiore – ma perché un bevitore, anzi un degustatore, di ale, concede alla birra il suo giusto tempo: una pinta bevuta correttamente richiede non meno di mezz’ora-tre quarti d’ora. Pertanto, un uomo di mezza età dai 70 ai 90 chili dovrebbe impegnarsi a fondo per raggiungere un elevato grado di ebbrezza nel tempo di una serata e se avesse tale vaghezza si indirizzerebbe verso altre bevande. Nel panorama internazionale della birra, la ale britannica a mio avviso sta al posto d’onore, insieme alle migliori pils bavaresi o boeme e a certe stupende birre fiamminghe, che è scontato accostare ai capolavori di Rubens o Rembrandt. Per quanto mi riguarda, ma a questo punto è solo questione soggettiva di gusto, la ale è la regina indiscussa delle birre. E c’è bisogno, davvero, di invocare salvezza per questa regina, dato che da un po’ di tempo anche la Gran Bretagna è stata invasa dalle lager.
I giovani, in pratica, bevono – o meglio – ingurgitano solo quelle. In effetti le lager si addicono molto all’uso del pub crawl che consiste, nei fine settimana, nel passare da un pub all’altro, cercando