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Alla scoperta dei segreti perduti di Roma
Alla scoperta dei segreti perduti di Roma
Alla scoperta dei segreti perduti di Roma
E-book479 pagine6 ore

Alla scoperta dei segreti perduti di Roma

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Info su questo ebook

Itinerari per scoprire nuovi scorci, leggende, aneddoti e tradizioni

Roma è unica: in nessun’altra città si può camminare dentro la storia, accanto alla storia, sopra la storia. I nostri passi si muovono sopra ville, tombe, terme, chiese, templi. Ci sono luoghi in cui la storia è stata scritta: a largo Argentina, per esempio, proprio davanti al teatro, nel punto in cui Cesare venne pugnalato, o nella basilica di San Pietro, dove si è conservata la Rota Porfiretica, il grande cerchio di porfido sul quale Carlo Magno si inginocchiò per essere incoronato la notte di Natale dell’800 d.C. Luoghi in cui la storia ha conosciuto i suoi bivi più tragici, come ponte Milvio, presso cui Massenzio annegò, dando campo libero a Costantino e al trionfo del Cristianesimo, o che conservano memorie incredibili: sul Palatino vi sono ancora i fori della capanna attribuita a Romolo, sotto Villa Torlonia c’è il bunker di Mussolini, a Casal de’ Pazzi troviamo zanne di elefanti di 200.000 anni fa, accanto a installazioni di street art. I monumenti che incontreremo in queste pagine non sono descritti tecnicamente, ma “ascoltati”: ogni antica pietra ha da raccontare un avvenimento, un evento o anche solo un particolare della vita di un anonimo cittadino. Gli stessi romani più appassionati della loro storia non possono dire di sapere tutto di Roma, perché c’è sempre qualche angolo sconosciuto da scovare, da esplorare, da amare. Questo libro vi aiuterà a trovare molte di queste tracce, sfatando luoghi comuni e rivelando particolari ancora ignorati di quella che fu l’Urbs, la “città” per eccellenza, destinata, per volere stesso degli dèi, a essere caput mundi.

Un libro indispensabile per scoprire i segreti della Città Eterna

• Quando Google Maps era di marmo (La Forma Urbis Romae)
• Qui (non) riposano le ossa di Scipione (Il sepolcro degli Scipioni)
• Il bambino morto per aver studiato troppo (La Porta Salaria)
• La ninfa che pianse troppo (La Caffarella)
• La prima parolaccia detta pure in chiesa (La basilica di San Clemente)
• Un tombino che nasconde un tesoro (L’ipogeo di via Dino Compagni)
• L’isola che non c’era (L’Isola Tiberina)
• Le piramidi di Roma erano più di quelle di Giza! (Le tombe piramidali)
• La caserma dei pompieri (L’excubitorium della VII coorte)
• Quando le fogne a Roma funzionavano e le donne erano furbe (La Cloaca Maxima)
• «Fin qui arrivò Fiume» (Le inondazioni del Tevere)

…e tanto altro ancora
Flavia Calisti
è laureata in topografia antica e scienze storico-religiose. Dopo aver conseguito un dottorato in storia religiosa e vinto una borsa di perfezionamento, ha lavorato per alcuni anni in ambito accademico. Dal 2008 è guida turistica abilitata della Provincia di Roma e fa scoprire le bellezze della sua città a grandi e bambini. Ha al suo attivo molte pubblicazioni sia scientifiche che divulgative.
LinguaItaliano
Data di uscita12 ott 2016
ISBN9788854199132
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    Anteprima del libro

    Alla scoperta dei segreti perduti di Roma - Flavia Calisti

    Introduzione

    Roma è davvero una città unica, in nessun altro luogo si può camminare dentro la Storia, accanto alla Storia, sopra la Storia. Forse non vi siete mai soffermati a pensare a quali tesori si trovino non solo intorno a voi, ma anche sotto i vostri piedi (a meno che, forse, non lavoriate per l’ente Roma Metropolitane s.r.l). Con una stratigrafia che scende anche per 10/20 m noi camminiamo ogni giorno su ville, tombe, terme, chiese, templi. Anche i luoghi più insospettabili nascondono meraviglie inaspettate, raccontano storie forse mai ascoltate prima. Un esempio?

    Un tombino in via Dino Compagni, anonimo ingresso per uno dei più bei musei d’arte tardo-antica che abbia mai visto, con affreschi pagani e cristiani del iv secolo d.C. di una bellezza inattesa anche per chi, come me, gira per far conoscere questa città da quasi un decennio. O gli affreschi dell’antica basilica di San Clemente, posta sotto l’attuale chiesa e sopra un antico mitreo, nei quali si trova una delle più antiche attestazioni del volgare italiano… volgare in tutti i sensi verrebbe da dire, visto che in quel luogo santo si legge, come in un fumetto, una bella parolaccia: Fili de le pute, traite!

    Ci sono luoghi in cui la storia è stata scritta: a largo Argentina, proprio davanti all’omonimo teatro, nel luogo in cui Cesare venne pugnalato, o nella basilica di San Pietro, dove si è conservata, nonostante i rifacimenti cinquecenteschi, la Rota Porfiretica, il grande cerchio di porfido sul quale Carlo Magno si inginocchiò per essere incoronato la notte di Natale dell’800. Luoghi in cui la Storia ha conosciuto i suoi bivi più tragici, come ponte Milvio, presso cui Massenzio annegò, dando campo libero a Costantino, e con lui al trionfo del cristianesimo.

    Tutta la Storia si trova rappresentata da tracce piccole o maestose. Sul Palatino vi sono ancora i fori della capanna che si credeva di Romolo, sotto Villa Torlonia c’è il bunker di Mussolini, a Casal de’ Pazzi troviamo zanne di elefanti di duecentomila anni fa accanto a installazioni di street art.

    Questo libro vorrebbe aiutarvi a scovare molte di tali tracce, raccontandovi storie della Roma che fu, ma che ancora vive accanto a noi, con i suoi resti e i suoi testi che oggi ci aiutano a ricostruire la vita e le atmosfere dell’Urbs, la città per eccellenza, la città che per volere stesso degli dèi fu un tempo destinata a diventare Caput Mundi.

    In queste pagine tenterò di far rinascere per voi da piccoli muri e solitarie colonne alcuni dei monumenti più grandiosi dell’antichità. Vi accompagnerò a conoscere quei luoghi, magari oggi totalmente anonimi, che sono stati i set su cui la Storia si è mossa per secoli. Infine, ed è il compito più difficile, cercherò di ricostruire, mediante monumenti, semplici reperti e fonti letterarie le atmosfere che Roma ha saputo regalare ai suoi abitanti: voci, storie, odori, sensazioni che ancora in certi vicoli, in alcuni scorci, si aprono davanti agli occhi di chi li sa guardare. Ma, prima di partire, permettetemi una breve nota dell’autrice: il libro che tenete in mano non è una guida della città, non propone infatti itinerari ma storie. I monumenti che incontreremo non vi sono descritti tecnicamente, ma sono lasciati parlare, perché ognuno di essi ha da raccontare un avvenimento, un evento storico o anche solo un particolare della vita di un anonimo cittadino. Per questo ogni capitolo non segue un itinerario topografico, ma tematico, per cercare di far conoscere quanto più possibile ogni aspetto della città, della sua storia grande o minuta, attraverso ogni possibile spunto. In queste pagine non troverete citati – se non marginalmente – la maggior parte dei siti che rendono Roma famosa nel mondo ma sarà dato spazio a quelle tracce che spesso sembrano insignificanti, a luoghi ritenuti periferici e a volte sconosciuti ai più, perché anch’essi sono parte integrante della città e contribuiscono anzi a renderla ancor più speciale. Un contenuto insolito dunque, trattato anche in un modo insolito, quello con cui da dieci anni provo a raccontare, divertendomi e cercando di divertire, la città più bella del mondo a chiunque abbia voglia di venire a scoprirla con me. La forma vuole essere leggera, il contenuto no, quello si avvale di una conoscenza scientifica e di un metodo. Il tentativo di far sposare due approcci tanto differenti è la vera scommessa di quest’opera e di chi la scrive.

    Questo libro vorrebbe essere un regalo per i Romani, non solo quelli che vivono dentro il gra, ma tutti quelli che vivono all’interno del limes, perché oggi non ci sarebbe l’Europa senza la storia che comincia con Roma; è rivolto a chi pensa che con la cultura non si mangi, perché credo dimostri invece quale sia il potenziale e la ricchezza straordinaria, e spesso inaspettata, della quale disponiamo; è dedicato a coloro che ritengono che tutto ciò che ha a che fare con l’antichità (autori latini in testa) sia di una noia mortale, perché spero di poterli far ricredere, come mi sono ricreduta io, semplicemente leggendoli…

    Questo libro è scritto infine per alcuni addetti del settore, quelli che vedono la loro professione come un eterno esame universitario nel quale snocciolare quanti più date, dettagli, minuzie. Vorrei convincerli che il loro compito è un altro, assai più importante. La guida turistica non deve fornire nozioni, quelle saranno presto dimenticate, deve piuttosto offrire chiavi di lettura, porgere a chi la segue una lente che permetta di cogliere quegli aspetti che altrimenti il visitatore non avrebbe la possibilità di apprezzare da solo, regalare suggestioni che terranno poi vivo nella memoria il ricordo di quanto visto. Che un tempio è periptero octastilo sine postico uno può vederlo da sé (a patto che sappia cosa vuol dire!), ma che in quel tempio l’uomo più potente della città firmò probabilmente la sua condanna a morte, no, quello dovete raccontarglielo voi, aedi del ventunesimo secolo.

    Insomma, se amate Roma e avete voglia di sentirvela raccontare in una maniera inusuale questo è il libro che fa per voi. Buona lettura.

    Quando i Romani stavano a sinistra e gli Etruschi a destra

    Un tempo il sito di Roma era diviso tra due popoli. Il Tevere era infatti un naturale confine che separava Roma dall’odiata e pulcherrima (bellissima) Veio. Guardando la foce a sinistra stavano i Romani, a destra gli Etruschi. Il litus tuscus o ripa veientana era dominio di una tra le più ricche e popolose città etrusche, «la più potente città dei Tirreni», come la definì Dionigi di Alicarnasso. Ricca e potente perché commerciava con qualcosa di veramente prezioso… il sale! Gli ipertesi oggi cercano di evitarlo, gli chef ne usano di rosa dell’Himalaya o di nero del Pakistan per sfruttarne l’aroma, ma in un tempo in cui il frigorifero era ancora di là da venire, il sale non era roba da salutisti o gourmet, quanto un alimento indispensabile, necessario conservante per cibi che non ammettevano lo spreco. Le saline si trovavano alla foce di quel fiume conteso, ed è per questo che già dalla sua fondazione Roma sentì la presenza degli Etruschi al di là del Tevere come una spina nel fianco. Livio racconta che già Romolo decise di risolvere il problema con le armi, ma fu costretto alla fine a pattuire una tregua di cento anni. Fatto sta che nei due secoli successivi vi furono altre quattordici guerre contro Veio. Nel 477 a.C. ci fu addirittura una spedizione punitiva compiuta da una sola gens romana, la Fabia, che decise di risolvere il problema a suo modo. Fu così che trecento membri della famiglia, tutti i maschi, partirono da Roma, uscendo dalla Porta Carmentale, per combattere i nemici: morirono tutti in un’imboscata. Da allora la porta che li vide partire baldanzosi e tornare cadaveri fu detta Scaelerata. Che dire, «eran trecento, erano giovani e forti e sono morti…», numero quanto meno sospetto, vero? Come i Greci di Leonida alle Termopili, come i giovani di Pisacane a Sapri. Anche ai Romani la storia sembrava poco convincente, perché a ben vedere la famiglia continuò tranquillamente a esistere. Si disse allora che a casa era rimasto in quello sfortunato giorno un bambino, troppo piccolo per combattere, ma evidentemente abbastanza prolifico da ripopolare l’intera gens. Comunque stessero realmente le cose, Veio doveva essere sconfitta. Prese in carico il nuovo scontro Furio Camillo, che prima di diventare una fermata della metro A e una piazza in cui per gli automobilisti è impossibile orientarsi, fu un grande generale. Camillo pose dunque l’assedio alla città di Veio e per restare con il fiato sul collo dei nemici decise di prolungare la ferma anche nei mesi in cui in genere Marte riposava. Per indennizzare i cittadini-soldati tenuti lontano dai loro campi introdusse il salario (ovvero la distribuzione di un tot di sale pro capite) e soldi che li resero soldati, ovvero militari di professione. Ma Veio resisteva. Con un’altra sospetta somiglianza con l’epica greca resistette per ben dieci anni, quando alla fine, proprio come Troia, cadde grazie a un espediente: non un cavallo di legno, ma un semplice cunicolo… Racconta Livio che a forza di trovarsi gli uni di fronte agli altri, Romani e Veienti avevano iniziato a fraternizzare. Così un soldato romano venne a sapere che un vecchio andava profetizzando che la guerra sarebbe stata vinta da chi fosse riuscito a domare le acque del lago di Albano. Coloro che conoscono l’ameno laghetto dei Castelli saranno ora un po’ perplessi, visto che non c’è nulla di più placido delle acque di questo ormai spento cratere vulcanico. Ma dovete sapere che proprio nei giorni in cui l’anziano straparlava, invasato da un dio, le acque del lago avevano iniziato a crescere, crescere, crescere e, senza nessuna umana spiegazione, stavano addirittura per tracimare, benché la stagione fosse secca. Il Senato volle comunque chiedere la conferma dell’Oracolo per antonomasia, quello con la O maiuscola, quello infallibile di Apollo a Delfi. La delegazione tornò con il responso che sì, il vecchietto aveva ragione. Gli ingegneri romani diedero allora avvio a un’opera che ha dell’incredibile, un cunicolo di ben 1425 m, un emissario che riversò nella campagna, irrigandola, tutta quell’acqua in eccesso (che secondo alcuni sarebbe stata frutto di una qualche attività del cratere non ancora totalmente inattivo… mah…). Se andrete, come vi consiglio di andare, al piccolo ma ben allestito Museo apr dell’Università di Tor Vergata (di cui si parla in un altro capitolo), troverete le foto e una ricostruzione 3D di uno dei canaloni scavati nella campagna per questo colossale deflusso.

    Ma torniamo alle mura di Veio. Ora che anche gli dèi erano propizi, Camillo capì che era il momento di agire. Fece scavare un altro cunicolo (evidentemente ormai erano tutti ben allenati a farlo!) per giungere con questo stratagemma nel cuore stesso della città nemica. Anche qui l’eco del cavallo di Troia omerico (o meglio virgiliano, visto che nell’Odissea vi si accenna appena, mentre nell’Eneide gli è dedicato un canto tra i più belli mai scritti!) è come detto assai sospetta. Fatto sta che il cunicolo fu pronto in tempi record, grazie a sei squadre di scavatori che si alternavano ogni sei ore, giorno e notte. Quando i soldati furono pronti all’assalto, avendo scavato fin sotto al cuore della città assediata, sentirono che, nel tempio sovrastante il tunnel, il sacerdote si apprestava a offrire un sacrificio agli dèi, che avrebbe assicurato la vittoria a chi lo avesse compiuto. Fu così che, da bravi e pii Romani, gli armati balzarono fuori e, rubata la vittima, la portarono a Camillo, che la immolò¹. Con tutti quei colpi di fortuna lo stesso dittatore si stupì e, prima di vibrare il colpo decisivo contro il povero animale, chiese agli dèi di prendersela con lui, se troppa fosse sembrata la sua buona sorte, ma non con il suo popolo. Non fece in tempo a terminare la preghiera che subito scivolò. Rialzatosi, disse agli astanti di non preoccuparsi per lui, anzi di gioire, perché quello era il segno inviatogli dai celesti, piccola punizione per la grande fortuna che di lì a poco gli sarebbe toccata: la conquista di Veio². Veio cadde, era il 396 a.C. ma, a differenza di ciò che credeva Camillo, il prezzo da pagare per i Romani sarebbe stato assai più alto.

    Nel 390 a.C. infatti, a seguito di un grave atto di violazione del diritto internazionale, i Galli di Brenno giunsero in città e assediarono i Romani, arroccati sul Campidoglio con le famose oche. Camillo, mandato nel frattempo in esilio perché ritenuto troppo superbo, riuscì a tornare appena in tempo per salvare la situazione e cacciare Brenno e tutti i suoi.

    La città liberata era però ormai un cumulo di macerie e i Romani, davanti a tanta devastazione, chiesero al Senato se non fosse meglio spostarsi a Veio. In tale circostanza Camillo pronunciò una delle più belle dichiarazioni d’amore alla Città Eterna. Così egli arringò la folla dei suoi scoraggiati concittadini:

    Quiriti […] anche se mi aveste richiamato con mille decreti senatori e mille deliberazioni popolari, mai sarei tornato. A spingermi a rientrare non è stato un cambiamento della mia volontà ma il volgere della vostra fortuna. E questo era il punto: la patria doveva rimanere nella propria sede, e ben poco importava che io, a qualunque costo, fossi restituito alla patria. E anche ora, quanto volentieri me ne starei tranquillo e zitto! Ma anche ora si sta combattendo per la patria una guerra davanti alla quale, finché c’è vita, per chiunque sarebbe turpe tirarsi indietro, ma per Camillo sarebbe addirittura sacrilego. Ma perché mai siamo venuti a riconquistarla, a strapparla all’assedio nemico, se noi stessi, dopo averla recuperata, la abbandoniamo? Quando la vittoria dei Galli sembrava irrimediabile e tutta la città era in mano loro, almeno gli dèi e gli uomini continuavano ad occupare e ad abitare la rocca e il Campidoglio: adesso che i Romani si sono presi la rivincita e hanno riconquistato la città, abbandoneranno anche la rocca e il Campidoglio? E anche se il popolo romano non avesse contratto obblighi religiosi quando questa città è sorta, anche se questi obblighi non fossero stati tramandati di generazione in generazione, tuttavia a tal punto è indiscutibile che la potenza divina ha assistito in questo momento di grande perturbazione le sorti di Roma, che mi chiedo come si possa concepire che un intero popolo si faccia prendere dalla voglia di trascurare il culto degli dèi. […] Questa è la nostra città, fondata con regolari auspici e augurii; qui ogni luogo è abitato dagli dèi e richiama il loro culto […]. Qualcuno, forse, potrebbe dire che noi questi riti li potremmo celebrare anche a Veio o mandare da lì in questa città i nostri sacerdoti per compierli: ma né l’una cosa né l’altra può essere fatta senza una grave infrazione al cerimoniale. […] Voi dite: qui ogni cosa ci appare contaminata e non esiste espiazione possibile; è la situazione stessa in cui ci troviamo a costringerci a lasciare una città devastata da incendi e distruzioni, a migrare a Veio, dove tutto è intatto, a non opprimere i plebei obbligandoli a ricostruire qui la città. Quello che voi, Quiriti, sbandierate è un motivo più fittizio che reale […]. Se i Galli hanno potuto distruggere Roma, volete che si possa dire che i Romani non l’hanno saputa ricostruire? […] Anche se in tutta la città non fosse possibile costruire una sola casa più bella e più grande di quella del nostro fondatore, non sarebbe sempre meglio abitare in capanne come i pastori e i contadini, tra i nostri oggetti sacri e i nostri penati piuttosto che andare in esilio per una sorta di decisione pubblica? I nostri antenati, stranieri e pastori, in poco tempo hanno costruito qui una nuova città dove altro non si trovava se non selve e paludi. E noi troveremo faticoso ricostruire le case incendiate, avendo la rocca e il Campidoglio ancora incolumi, avendo i templi degli dèi ancora in piedi? E ciò che avremmo fatto come singoli cittadini se le nostre abitazioni private fossero bruciate, ci rifiuteremo di fare tutti insieme, dopo un incendio che tutti ci riguarda? […] Così poco ci sentiamo legati al suolo e a questa terra cui diamo l’appellativo di madre? O l’amor di patria è solo qualcosa che si lega a travi impiantati su un pezzo di terreno? Vi voglio fare una confessione, anche se mi piace poco ricordare le mie sventure e ancor meno le vostre ingiustizie contro di me: quando ero in esilio e la patria mi tornava alla mente, ecco le immagini che mi venivano agli occhi: i colli, le campagne, il Tevere, il paesaggio familiare alla vista, questo cielo sotto il quale sono nato e cresciuto. Ed è bene che queste cose, queste immagini affettuose, Quiriti, vi spingano ora a restare nella vostra patria, piuttosto che macerarvi nello struggimento, dopo che l’avrete lasciata³.

    Il testo continua, splendido, lo vedrei bene inciso su una targa, per ricordare ai romani di oggi quale sia la bellezza della loro città, anche se appare devastata, anche se si avrebbe voglia di andarsene…⁴.

    Le parole di Camillo suscitarono grande emozione nel popolo. Servirono a rammentare quanto a rendere speciale Roma non fosse solo la sua privilegiata posizione geografica, ma soprattutto la sacralità del suo stesso suolo, il quale in più occasioni era stato eletto dagli dèi come sede di un impero che non avrebbe avuto mai limiti, né spaziali né, tanto meno, temporali. E fu proprio un messaggio inviato dal cielo (omen) a convincere i Romani che lì dovevano restare, che quello e solo quello era il luogo che li avrebbe resi grandi.

    Mentre il Senato dibatteva la questione nella Curia, un centurione che guidava al suo esterno un’esercitazione militare, esclamò a gran voce: «Signifer, statue signum, hic manebimus optime», ovvero «Alfiere, configgi l’insegna; qui staremo benissimo!». I senatori accolsero dunque l’augurio e – dice Livio – «si incominciò alla bell’e meglio la ricostruzione di Roma». E ora si capisce il perché della sua eternità quanto di quel suo carattere disordinato e confusionario…

    La proposta di andare a Veio fu bocciata e cominciò, ma piuttosto caoticamente, la ricostruzione della città. Le tegole furono offerte dallo Stato e fu concesso che ognuno prendesse legittimamente pietre e travi dove gli fosse più comodo, dietro la garanzia che gli edifici fossero portati a termine nel giro di un anno. La fretta impedì di tracciare vie dritte perché ognuno, senza badare se era possessore o meno di quel terreno, costruiva dove trovava spazio libero. Questo è anche il motivo per cui le vecchie cloache che prima passavano sotto il suolo delle pubbliche vie, ora passavano anche sotto le case private; e la città ha l’aspetto che deriva da una casuale occupazione del suolo invece che da un piano preordinato⁵.

    Che dire, i piani regolatori non sono mai stati il nostro forte… Un’ultima curiosità: ai tempi in cui Nerone costruiva la sua Casa d’Oro su ben tre colli della città, un Pasquino ante litteram metteva così in guardia i suoi concittadini: «Tutta Roma diventerà casa sua; Romani scappate a Veio, sempre che anche Veio non diventi parte della casa di Nerone!»⁶. Se volete visitarla oggi, sappiate che Veio è ormai praticamente parte della periferia di Roma, in località La Storta. Un bellissimo Parco Regionale vi attende, così come un originale restauro che permette di apprezzare quelle che dovevano essere le volumetrie del bellissimo e coloratissimo tempio da cui proviene il celebre Apollo di Veio (capolavoro che, come le altre statue che decoravano parte del tetto dell’edificio di culto, troverete invece al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia). Il tempio veiente ci ha anche restituito un altro reperto eccezionale, un frammento ceramico con dedica di un certo Aulo Vibenna. Forse non ricorderete il suo nome, ma quello del fratello di certo sì: è quel Celio che con la sua tomba diede il nome a uno dei sette colli, ma questa è un’altra storia…

    1 Per inciso, immolare vuol dire semplicemente cospargere di mola (salsa), ovvero di un impasto di sale e farro realizzato appositamente dalle vestali per preparare le vittime al sacrificio.

    2 Livio, Storia di Roma dalla fondazione, v, 15-23.

    3 Ivi, v, 51-54, trad. di G.D. Mazzocato, Newton Compton, Roma 1997, pp. 593-601.

    4 Il testo assume per me un nuovo commovente significato dopo quanto accaduto nel Centro Italia il 24 agosto 2016. Credo che il discorso di Camillo incarni il sentire di tanti connazionali che vedono ora le loro case distrutte ma conservano l’incondizionato amore per i loro luoghi sacri…

    5 Livio, Op. cit., v, 55, p. 601.

    6 Svetonio, Vita dei Cesari, Nerone, 39 (se non altrimenti specificato, la traduzione dei brani riportati è dell’autrice).

    Quando Google Maps era di marmo

    La Forma Urbis Romae

    Avete presente quando vi trovate a visitare il cuore di Roma, tra palazzoni e strade d’asfalto a perdita d’occhio, e aprendo la vostra guida leggete che proprio lì sorgeva un tempio fatto così e cosà, un quartiere di botteghe o cose del genere? Se vi è capitato, magari vi avrà sfiorato il dubbio che gli archeologi abbiano dato sfogo alla loro immaginazione, visto che intorno a voi il reperto più antico visibile magari è un Ciao legato a un lampione. Ebbene sappiate che, forse, quella descrizione è stata presa consultando un Google Maps di quasi mille e ottocento anni fa (un tempo avrei scritto un Tuttocittà di pietra, ma oggi credo che pochi ricordino ancora le indispensabili tavole del prezioso libretto dedicato alla viabilità romana che campeggiava un tempo sui cruscotti delle auto, prima dell’avvento di navigatori e cellulari). Di cosa sto parlando? Della Forma Urbis Romae (nota amichevolmente agli addetti ai lavori come fur), una enorme planimetria marmorea della città imperiale, realizzata su 150 lastre per un totale di 13 × 18 m, che riproducono in scala 1:246 tutti, e dico tutti, gli edifici esistenti in città, pubblici o privati che fossero.

    Questa enorme planimetria era conservata in un ambiente laterale del tempio della Pace (che solo dal iv secolo d.C. sarà definito foro), realizzato da Vespasiano con l’ingentissimo bottino derivato dalla presa di Gerusalemme e oggi praticamente tagliato a metà da via dei Fori Imperiali. Qui l’imperatore sistemò l’ufficio del catasto, con la sua strabiliante pianta marmorea della città. I frammenti sopravvissuti sono solo il 10% del totale (1186 tessere di un preziosissimo puzzle), un’iscrizione ci ricorda che datano al regno di Settimio Severo (ma sono verosimilmente una copia di una precedente planimetria di epoca flavia). Se volete scoprire il luogo in cui un tempo essa era esposta recatevi in via dei Fori Imperiali e guardate la facciata della chiesa dei Santi Cosma e Damiano (accanto all’ingresso del Foro Romano). Tutti i buchi che vi vedrete sono gli alloggiamenti che ospitavano le grappe con cui le lastre di marmo erano fissate al muro. Per ammirare le copie di alcuni frammenti potreste andare invece al Museo della Civiltà Romana, ma se siete lontani dall’Urbe, o semplicemente un po’ pigri, potrete vedere l’intera pianta e i suoi frammenti superstiti su http://formaurbis.stanford.edu, progetto della Stanford University per catalogare tutto quanto della fur oggi si conserva.

    Un’ultima curiosità. Nell’ipotetica guida di cui parlavamo, magari avrete trovato non solo la descrizione delle planimetrie di monumenti ormai non più esistenti, ma anche quella della loro decorazione. Qui il sospetto di un fantasioso volo pindarico si sarà fatto più insistente, ma ancora una volta state pensando male inutilmente. Gli archeologi hanno infatti un’altra straordinaria fonte per colmare le lacune lasciate da duemila anni di Storia e cento di speculazione edilizia, ovvero le monete. Cosa c’entrano le monete con templi, teatri, circhi e quant’altro? Per i Romani i coni monetali non servivano solo per i commerci, ma erano preziosissimi strumenti di propaganda. Mancando i giornali bisognava trovare un modo per far sapere ai quattro angoli dell’impero tutto quello che l’imperatore di turno stava facendo per i suoi sudditi, pardon concittadini. Quale mezzo più rapido di una moneta, che di mano in mano viaggiava rapida per le vie dell’impero? E se pensate che lo spazio per la rappresentazione di un monumento fosse troppo esiguo, be’, vi sbagliate. Considerate che abbiamo una monetina in cui non solo si vede il Colosseo, con il Colosso e l’arco d’accesso alla tribuna imperiale, con tutte le statue decorative dei singoli archi (una diversa dall’altra!), ma addirittura con il pubblico assiso sulle gradinate e tanto di gladiatori intenti a combattere nell’arena, tutto in poco più di un centimetro⁷!

    7 Troverete molte interessanti immagini alla pagina http://www.sesterzio.eu/rovesci/colosseo.htm. Nel medesimo sito vi attendono tante altre dettagliatissime raffigurazioni di monumenti antichi su coni monetali. Vi assicuro che rimarrete stupiti.

    Quando Nerone aveva la faccia di bronzo

    Il Colosso

    Che Nerone avesse la faccia di bronzo nel senso metaforico del termine è certo, già la frase con cui si congedò dal mondo lo indica senza possibilità di smentita: «Per Giove, quale artista muore con me!»⁸. Inutile sottolineare che, come ebbe a dire un sornione Seneca-De Sica in Mio figlio Nerone di Steno, l’imperatore come uomo di spettacolo era un vero «cane!», definizione che, con più aulici giri di parole, confermano anche le fonti antiche, da Cassio Dione⁹ (che cita la sua claque privata di 5000 giovani) a Svetonio (che ricorda il pubblico rinchiuso dentro al teatro perché non sfuggisse a una sua esibizione, con i più furbi che riuscirono a sottrarsi alla performance «fingendosi morti»¹⁰). Certo le fonti esagerano, non bisogna mai dimenticare che sono per lo più di parte avversa e amanti dello scoop e del pettegolezzo non meno di certe riviste patinate di oggi, ma la megalomania del personaggio doveva essere piuttosto pronunciata se si pensa alla casa in cui volle vivere e al ritratto che pose al suo ingresso. Dopo il terribile incendio che nel 64 d.C. rischiò di cancellare Roma, Nerone approfittò infatti dei grandi spazi urbani liberati dal fuoco per costruirsi una dimora a suo dire appena «degna di un uomo». Io aggiungerei degna del suo ego, visto che la casa in questione occupava tre colli (Esquilino, Palatino e Celio) e aveva decorazioni tanto belle e sfarzose da essere chiamata la Domus Aurea, la Casa d’Oro. Nell’atrio di cotanta dimora fece anche erigere una sua statua, alta più o meno come il Colosso di Rodi, in bronzo dorato. Marziale la descrive così: «Il Colosso adorno di raggi, felice di superare la mole di quello di Rodi»¹¹. Lo superava, seppur di poco, con i suoi 35 m, altezza eccezionale sulla quale, sempre Marziale, scherzava così, per canzonare una sua concittadina: «Avresti potuto eguagliare in altezza il Colosso del Palatino, se solo tu fossi stata più bassa di una spanna, Claudia!»¹².

    Non era questa statua l’unica stravaganza della casa, altre ne incontreremo nel corso di questo libro. Per ora ci focalizzeremo sul Colosso, tanto impressionante da aver oscurato con la sua mole il nome del vicino Anfiteatro Flavio, che infatti noi oggi chiamiamo abitualmente Colosseo. Caso raro per l’antica Roma, abbiamo il nome del suo autore: Zenodoro. Un restauro ben remunerato fu effettuato durante il regno di Vespasiano¹³, si trattò probabilmente di un maquillage finalizzato a trasformare l’odiato volto di Nerone in quello del dio Sole. La fisionomia della statua è deducibile da alcune monete sulle quali si vede che teneva un timone nella mano destra e probabilmente un globo nella sinistra. Le ultime notizie che ne abbiamo sono del iv secolo d.C., poi del Colosso si perderanno le tracce, rifuso in tante monetine, in palle di cannone o chissà cos’altro. L’autore si era evidentemente ispirato al Colosso di Rodi, una delle sette meraviglie del mondo antico, opera di Carete di Lindo realizzata nel iii secolo a.C. per ringraziare il dio Helios di una grande vittoria conseguita dai Rodiesi contro Demetrio Poliorcete. Alta 32 m, rimase in piedi per soli settant’anni, poi a seguito di un terremoto crollò, ma i suoi grandiosi resti furono ammirati fino al vii secolo d.C., quando furono venduti e rifusi.

    Oggi di statue in bronzo, colossali o no, ne vediamo ben poche in giro. Se volete ammirare due capolavori andate al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Qui una sala ospita il c.d. Principe ellenistico e soprattutto il meraviglioso Pugile. Si tratta di una straordinaria opera secondo alcuni del iv secolo a.C., rinvenuta sul finire dell’Ottocento sul Quirinale, ne riparleremo. Potete anche ammirare la grande testa bronzea di 1,77 m appartenente a una colossale statua di Costantino conservata ai Musei Capitolini, oltre, ovviamente, nello stesso museo, al celeberrimo Marco Aurelio.

    Questa maestosa statua equestre, unica superstite delle almeno ventidue presenti nella Roma del iv secolo d.C., secondo le fonti dell’epoca, si è salvata solo grazie a un’errata identificazione che riconobbe nel barbuto cavallerizzo Costantino, l’imperatore campione della cristianità. Un paio di curiosità su questa meravigliosa statua, simbolo stesso della città. La prima riguarda il suo girovagare. Eh sì, perché il cavallo di Marco Aurelio, seppur di bronzo, ne ha fatta di strada prima di arrivare nella sua nuova, bellissima collocazione, nell’omonima sala dei Musei Capitolini inondata dal sole, pochi passi sopra le fondazioni del tempio di Giove Ottimo Massimo…

    Le fonti non ne fanno menzione (ennesima riprova di quanto ciò che per noi oggi è un capolavoro fosse in realtà la norma nella Roma imperiale, ovviamente insieme alla constatazione di quanta parte del patrimonio letterario antico sia andata persa…); probabilmente era solo uno dei tanti onori concessi all’imperatore per il trionfo sulle popolazioni germaniche o in occasione della sua morte. Le fonti medievali sono le prime a ricordarla, e la collocano in Laterano (come mostra il bell’affresco di Filippino Lippi nella cappella Carafa della basilica di Santa Maria sopra Minerva, all’interno di uno dei cicli pittorici più importanti dell’arte tardo-quattrocentesca a Roma), anche se gli studiosi ritengono che non fosse questa la sua ubicazione originaria, supponendo piuttosto che provenisse dal Foro Romano o dall’area presso la Colonna Antonina. La statua sarebbe stata spostata forse verso la fine dell’viii secolo, ciò è ipotizzato in base alla coeva scelta, fatta da Carlo Magno, di innalzare davanti al suo palazzo ad Aquisgrana una statua equestre assai simile (presa a Ravenna), a imitazione quindi di quanto forse visto a Roma nel Campus Lateranensis.

    Nel gennaio del 1538 Paolo iii Farnese fece trasferire la statua in Campidoglio e l’anno seguente Michelangelo la utilizzò come fulcro della sua riprogettazione dell’arredo urbano del colle.

    Lì cavallo e cavaliere sono rimasti finché, nel 1943, vennero spostati una prima volta per essere protetti da eventuali bombardamenti sulla città (su internet potrete trovare il video girato per l’occasione dall’Istituto Luce, Giornale C0353 del 01/06/1943) e poi nuovamente, a seguito di un attentato al Palazzo Senatorio nell’aprile del 1979 quando, cercando eventuali danni, ci si rese conto che la statua appariva minata dalla corrosione che, avendo intaccato soprattutto le zampe del cavallo, ne metteva a rischio la stabilità. Per sette anni la statua è stata allora curata dai suoi malanni millenari. Nel 1997, grazie al lavoro dei tecnici della Zecca dello Stato, fu possibile metterne una copia sul basamento al centro della piazza. Al contempo, nel Giardino Romano al primo piano del Palazzo dei Conservatori, si iniziò la realizzazione del padiglione progettato da Carlo Aymonino, che oggi con le sue vetrate protegge la statua dalle intemperie e permette alla sua doratura superstite di brillare inondata di luce.

    Ed è proprio da tale doratura che nasce la seconda curiosità legata alla statua. Leggenda vuole infatti che essa non sia ciò che resta del suo antico splendore, quanto piuttosto una patina che si va formando sul cavallo e sul suo cavaliere e profetizza che, quando finalmente tutti e due saranno interamente d’oro, la civetta sulla testa del cavallo (che in realtà è l’acconciatura della criniera del destriero) canterà, e sarà quello l’annuncio dell’arrivo della fine del mondo. Così la racconta Giggi Zanazzo:

    Er cavallo de Campidojo

    La statuva de Costantino imperatore, che sta in mezzo a la piazza de Campidojo, e cche mmó, j’hanno mutato nome, e la chiàmeno de Marcurejo, è ttutta de bbronzo. Mbè, ddice, che quela statuva, bbella che statuva, anticamente, pe’ ttre ggiorni sani, ha ccommannato Roma e li Romani de tutto er monno sano. Er cavallo, qua e llà, già incomincia a scropi’ in oro; e ddice che quanno cavallo e ppupazzo saranno diventati tutti d’oro, allora vienirà er giorno der giudizzio universale¹⁴.

    Direi che almeno sui rischi derivanti da una fine del mondo attribuibile alla statua di Marco Aurelio possiamo stare ben tranquilli.

    Un consiglio: andate un pomeriggio a visitare i Musei Capitolini, godetevi un tramonto dalla bellissima terrazza Caffarelli, poi scendete nella Sala del Marco Aurelio, sedetevi sui gradini, osservatela, e magari leggete qualche passo di colui che si fece qui effigiare come generale, ma che aspirava solo a esser filosofo…

    Da romano autentico e da vero uomo quale sei, in ogni momento della tua vita cerca di compiere con genuina e scrupolosa serietà, con amore, con giustizia e con spirito d’indipendenza, tutto ciò che stai facendo, mettendo da parte tutte le altre preoccupazioni. E potrai liberartene solo

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