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E-book241 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Nel clima placido e lussuoso di un’Inghilterra che riposava su allori faticosamente conquistati nel passato, si erge con prepotenza la figura di Angela Maxell, giovane rampolla di una famiglia nobile inglese. Ragazza poco dedita allo studio, ma propensa a soddisfare la sua innata curiosità verso tutto ciò che la circonda, è decisa ad intraprendere ciò che sarà per lei il viaggio verso la scoperta di se stessa. L’occasione si offre con l’invito di uno zio che nel lontano Brasile si era stabilito in cerca di fortuna: Angel, non senza dubbi e titubanze, con l’assenso dei suoi genitori prende il largo tra le acque tormentate dell’oceano. Scopre sensazioni che non conosceva, ma soprattutto si scopre donna, scopre la malizia, il gioco delle parti, è ora ben lontana dalla Angel che aveva lasciato in provincia di Liverpool! Se per lei l’amore era un mistero, tutto da esplorare e da vivere, ora è la certezza di un rapporto basato sulle sensazioni dove tutto è svelato, la razionalità e la consapevolezza prendono il sopravvento su questa giovane donna, che con forza e decisione elaborerà decisioni importanti e inderogabili. Il testo di Rosemy Conoscenti è un’esplosione di vita, ricco di particolari, di espressioni ed emozioni, l’Autrice ha saputo trasmettere la vitalità dei suoi personaggi donando ad ognuno personalità e tono; gradevole ed elegante nelle descrizioni dei luoghi, puntuale ed efficace nei dialoghi. Sarà sicuramente una gradevole lettura da gustare in ogni luogo e in ogni momento.

Rosemy Conoscenti nasce ad Ameglia (sp) il 25 ottobre del 1959, pubblica la sua prima raccolta di poesie I richiami del tempo nel 1988. Nel 1998 esce una seconda raccolta di poesie Antares dello scorpione. Nel 2018 pubblica Hotel Meridiano. Ha partecipato con successo a vari premi letterari aggiudicandosi il S. Domenichino nella categoria poesia singola. Dopo il successo del suo libro La casa di Cerri edito nel 2020, Angel è la sua ultima pubblicazione con il gruppo Albatros Il Filo.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2021
ISBN9788830649002
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    Anteprima del libro

    Angel - Rosemy Conoscenti

    LQconoscenti.jpg

    Rosemy Conoscenti

    Angel

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-4194-5

    I edizione agosto 2021

    Finito di stampare nel mese di agosto 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Angel

    Ad Annarita Malfanti e Rita Medda, mie care amiche

    che sempre mi sopportano e mi supportano, grazie.

    Amore dove porti le tue carezze di soffici piume?

    All’amore, Rosemy Conoscenti

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov".

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    parte i

    Capitolo primo

    Scivolava lentamente sulle acque, con noncuranza, simile ad un’elegante signora lungo una strada affollata, una donna altera e allo stesso modo dolce e disinvolta come un’attrice di teatro che ben sa di piacere e si compiace degli sguardi altrui.

    Il porto di Liverpool era immerso nella nebbia grigia delle prime ore dell’alba di quello che sarebbe stato un mattino come tanti, umido ed uggioso a meno che il sole non si fosse fatto spazio tra i banchi di nebbia allontanandone la minaccia.

    Gli operai e gli scaricatori di porto cercavano di scrollarsi di dosso, ancora assonnati, il freddo quasi innaturale per essere il mese di maggio, scuotendo le braccia e sfregandosi le spalle con forza. Un via vai di gente indifferente percorreva gli undici chilometri dei docks oltre il molo di New Price, la nebbia avvolgeva, in una atmosfera di sogno, i bacini ordinati in una doppia serie di docks sul Mersey mentre i bar accoglienti di un caldo invitante lanciavano la loro sfida al problematico risolversi del tempo.

    Eccolo il porto di Liverpool: uno dei più importanti centri focali in cui convergerva, fino ad una quarantina di anni prima, l’ignobile mercato degli schiavi tra il versante occidentale dell’Africa e le regioni del Midlands. Il suo sviluppo era iniziato verso la seconda metà del xix secolo quando, per ragioni più o meno importanti, la vicina città di Chenter era andata via via decadendo sia come porto industriale che come centro urbano.

    La città di Liverpool stava conoscendo una vera rinascita grazie anche alla ferrovia inaugurata nel 1830 che la collegava alla città di Manchester. Se all’inizio il suo scopo fu solo quello di permettere lo sviluppo commerciale del trasporto di merci, ben presto visto il successo di quella nuova linea fu aperta al traffico passaggeri solo dopo il primo anno di attività.

    L’ingegnere George Stephenson, tra l’altro inventore della prima locomotiva a vapore, la famosa Rocket, fu incaricato della posa in opera di quella che fu la prima ferrovia al mondo, operazione che richiese sforzi notevoli di uomini e di denari con lo scavo di ben quattro gallerie e la costruzione di sessantaquattro opere tra ponti e viadotti in muratura tranne il ponte di Water interamente costruito in travate metalliche.

    Come ogni invenzione nuova ebbe la sua vittima: proprio durante uno dei primi viaggi si verificò un incidente mortale in cui perse la vita un parlamentare. A causa del quale furono rivisti e messi a punto i primi sistemi di sicurezza, man mano resi sempre più sofisticati, fino ad arrivare ad un sistema a palette multicolori per l’attraversamento pedonale dei binari e la partenza dei treni.

    Il mondo stava cambiando rivolto ad una società più evoluta e tecnologica: i vecchi omnibus a cavallo ormai erano solo un ricordo, nuovi tram mossi da motore a vapore attaccati ad una locomotiva tramviaria a due assi, con carrozze ad assi trasversali spesso recuperate dai vecchi tram trasportavano i passeggeri in carrozze coperte per l’inverno e aperte per l’estate, comodamente seduti in lunghi panconi separati da un corridoio. Nella capitale, Londra, la metropolitana, nata ormai da qualche anno, proseguiva la sua crescita tra tunnel e gallerie, rotaie ferrate e carrozze sempre più capienti.

    Una sirena fischiò.

    La Great Queen, l’altera signora, entrava in porto. Il tender, piccolo battello per il servizio della Steam Ship aveva già fissato le pesanti e nodose gomene alle bitte del bastimento e dalla ciminiera della nave usciva un fumo nero e greve che si addensava nel grigiore del cielo rendendo l’aria ancora più pesante.

    La nave con la sua capiente mole rientrava vittoriosa dopo l’ennesimo viaggio attraverso l’Atlantico, e quanti ancora ne avrebbe fatti! Sul ponte maestro, spazioso e delimitato da ringhiere lucenti, affluivano i numerosi passeggeri impazienti di salutare parenti ed amici che in attesa del loro ritorno si erano assiepati sulla banchina del molo. Alcuni negri, malandati nell’aspetto, stavano accovacciati su ruvidi sacchi di iuta sistemati dirimpetto alle luci e ai rumori ovattati dei pub, stringendo tra le mani misere ceste di vimini contenenti ciò che era rimasto loro dopo le vicissitudini che avevano coinvolto i loro cari durante la guerra di Seccessione, terminata solo una quarantina di anni prima. Uno di loro, il cui nome forse era John, tirò fuori da una delle tasche della sua giacca di tweed sdrucita, una vecchia armonica a bocca arruginita ai lati e prese a suonarla. Quel suono intriso di sofferenza e d’amore trasmetteva tuttavia speranza e strappava un sorriso a chi, passando di là, ne udiva la melodia.

    Il prolungato fischio della sirena lacerò nuovamente il silenzio.

    L’attracco era concluso, le corde erano state legate alle bitte della banchina e a gli anelli, il tender dopo aver tirato e spinto lateralmente la nave le riposava accanto. Solo tra tre mesi la Great Queen avrebbe riaperto i suoi ponti ai nuovi passeggeri, ancora il tender avrebbe sciolto le gomene, di nuovo si sarebbero schiusi i boccaporti e la meravigliosa distesa dell’oceano si sarebbe offerta, immensa ed insidiosa, alla prua affusolata della nave. Lo scalandrone fu fissato a bordo e subito gruppi di persone si precipitarono in avanti cercando ciascuno nel più caotico dei modi di posare per primi il piede sui gradini e cominciare così la discesa a terra.

    Stretto nella sua uniforme bianca Mr. Elliott, dimostrava più dei suoi quarant’anni: guardava con aria di rimpianto il ponte di comando scrutando poi ad uno ad uno gli oblò delle cabine ormai deserte. Rifletté con senso di disgusto sul grigiore squallido della città soffermando lo sguardo sull’agglomerato di case presso l’angiporto. Mr. Elliott amava il mare più di quanto un padre possa amare il proprio figlio e il distaccarsene, seppure per breve tempo, era per lui un dolore insopportabile.

    Fin da bambino, nei suoi giochi, aveva comandato un battello in rotta sugli oceani, assaporando l’aria salmastra che l’infrangersi delle onde contro i fianchi della nave faceva salire sino alle narici dispersa in minuscole goccioline salate.

    Restò immobile, perso in chissà quali anatemi da scagliare contro la crudeltà del tempo, finchè, smaltita la folla, vide gli scaricatori salire a bordo. Si rianimò un poco e prese a camminare sbirciando con la coda dell’occhio le grosse mani degli uomini di fatica sollevare, all’apparenza senza il minimo sforzo, le pesanti casse di mercanzia varia: le loro facce tese e lucide, simili a lune piene parevano non accorgersene del freddo mentre si rimboccavano le maniche delle camicie lise e unte di grasso. Non alzavano mai lo sguardo sulla gente che passava dietro alle loro schiene curve sul lavoro, non parlavano neppure tra loro limitandosi a cenni sgarbati e mal date pacche sulle spalle.

    Scese lo scalandrone e si diresse ciondolando verso il molo di New Price: sentiva di essere stanco ma non si lasciò tentare dal sonno. Oltrepassò le banchine imboccando poi l’angusto vicolo che lo avrebbe riversato con tutto il suo disgusto nel marcio putrido dell’angiporto.

    La solita fila di puttane!. Pensò tra sé mentre percorreva la via a grandi passi la solita fila… le soliti liti… il solito identico tran tran.

    No, decisamente quello non era il suo mondo, la città, e non solo quella città, non era il suo mondo!

    Il mare… pensò solo il mare può darmi ciò che desidero.

    Scalciò un mozzicone di sigaro davanti ai suoi piedi e si sforzò di fischiettare. Quando, oltre ogni previsione, la nebbia cominciò a diradare facendo largo ad un pallido sole Mark era già all’ufficio navigazione.

    Un gruppo di ragazzini avevano già occupato assieme ai loro schiamazzi, ogni entrata del porto cercando, a gruppi divisi, con i loro occhi languidi e le loro scarpe aperte, di commuovere gli ignari viaggiatori. I più grandi facevano lavoro di mano con agilità di gatto e i gonfi portafogli di ricchi avventurieri e attempati uomini d’affari, scivolavano con rapidità sorprendente tra le loro dita ossute, i più piccoli stillavano finte lacrime dai loro occhioni scuri tendendo le mani. Poi il fuggi fuggi generale: i ladruncoli scappavano ridendo sguaiatamente lasciando le loro vittime con un palmo di naso ad imprecare contro la polizia che non prendeva provvedimenti. Qualcuno gridava al ladro cercando di distogliere i gendarmi dalle loro chiacchiere appassionate con le prostitute.

    Le entrate degli uffici cominciarono ad aprirsi, in meno di mezz’ora sarebbe stato il caos.

    E il caos scoppiò irrefrenabile all’interno degli uffici, lungo le vie risorte all’improvviso dopo il torpore dell’alba.

    Il campanile della chiesa suonò le otto e lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli trainanti carri pieni di merce, di rimando popolò il silenzio delle vie e dei vicoli. I negozi si offrivano al desiderio di occhi attenti e luminosi e le vetrine erano uno spettacolo che ogni giorno si rinnovava attraverso la lucentezza della seta e dello chiffon, nella varietà di forme e di colori. Nel suo lento sparire la nebbia aveva trascinato con sé anche le scuri nubi che minacciavano pioggia e il sole, con i suoi tiepidi raggi, inondò di speranza il cuore malato di Liverpool.

    Un treno lanciò il suo sibilo lungo ed acuto: non sarebbe stato il solo in quella giornata. Agli sportelli delle biglietterie alcune persone attendevano il loro turno: alcune nervose, ed altre apparentemente quiete, mentre l’addetto alle pulizie bestemmiava contro i distratti che insozzavano di continuo con mozziconi e cartacce il marciapiede esterno della stazione ed i locali adibiti a sale d’attesa. Insomma era la quinta volta che spazzava nello stesso punto!

    Tutto sommato non era una mattina diversa dalle altre.

    Angel, come consuetudine, era uscita da poco per fare delle compere. Passando davanti ad uno degli edifici universitari pensò con tono vagamente irrisorio che lei ne era fuori. Fondata nel 1881 come University College Liverpool aveva ammesso i primi studenti nel 1882.

    Lei aveva avuto il suo bel daffare nel convincere suo padre che l’università non era nei suoi progetti, ma alla fine aveva trionfato la sua cocciutaggine, e la severa stirpe dei Maxell si era lasciata convincere all’idea che uno di loro non si sarebbe mai laureato.

    Avvolta nel suo vestito di popeline bianco su cui poggiava una elegante mantella dello stesso colore, si avvicinò ad una vetrina e guardandosi nel vetro, cercò di aggiustare la larga tesa del cappellino che sua madre le aveva regalato qualche giorno prima. Nel farlo atteggiò il suo viso in una smorfia compiacente.

    Non si poteva dire che Angel fosse una ragazza sofisticata, tuttavia le piaceva darsi quel certo tono di donna vissuta anche se con i suoi capelli biondi, quasi sempre raccolti in trecce e quel suo viso fresco e felice lasciavano trasparire la sua giovane età. I suoi occhi di un verde profondo fissarono per un momento ancora la vetrina gravida di abiti da sera, di scialli ricamati e di cappelli variopinti esagerati.

    Forse mamma sarebbe d’accordo pensò, ma non entrò nel negozio e riprese a passeggiare dopo aver sorriso con gentile indifferenza alla signora Ferst, la fioraia.

    I sole era ormai alto e se ne avvertiva il dolce calore, offrì il volto al leggero vento di maggio godendo di quella sensazione così tenera e deliziosa come al tempo in cui, sua madre le rimboccava le calde coperte per ripararla dal freddo delle notti invernali in cui la neve cadeva lenta imbiancando i tetti delle case e dei prati, poi, badando a non fare rumore usciva dalla stanza dopo averle dato il bacio della buonanotte.

    Cara mamma! pensò sorridendo. Si avviò verso i giardini. Adorava trattenersi al parco. C’era tutto un mondo lì, fatto di colori di suoni e di luci, di piccini mollementi adagiati nelle carrozzine, di nurse che tentavano di calmare il pianto dei bimbi affidati alle loro cure: altre bambinaie ancora accettavano cortesi avance da eleganti giovanotti e coppie ormai affiatate passeggiavano mano nella mano.

    Chissà se a Mark piaceva quel piccolo Eden in mezzo all’inferno della città!?

    Sulle verdi panchine signore eleganti parlavano con voci sommesse come mormorio di ruscello: grida gioiose di adolescenti riempivano l’aria per poi gettarsi, piene di vita, nell’alone giallastro di quel sole primaverile per poi rinfrascarsi, cariche di brio, nei freschi zampilli delle fontane.

    La signora Maxell, quella mattina, avrebbe atteso un bel po’ il rientro della figlia.

    Angel sedette sulla panchina accanto al gazebo della banda cittadina, sotto l’ombra di un vetusto faggio: tra i suoi rami si rincorrevano festosi gli uccellini. Quasi senza accorgersene sfiorò con la punta delle dita i capelli ricci e fluenti di un bimbo che ora la guardava curioso. Prese dalla graziosa borsetta di pelle marrone una caramella dall’involucro colorato e gliela porse. Non si parlarono, il bimbo prese la caramella e se ne andò correndo.

    Angel rimase delusa, immersa nei suoi pensieri. Si sistemò le pieghe del vestito congetturando tra sé di proporre in famiglia, una gita per il prossimo week-end.

    Avrei voglia di andare al mare!. Guardò l’erba tramutarsi nell’immensa distesa di sabbia di Crosby Beach, splendida spiaggia stabilizzata fin dalla metà del xix secolo per arginare le maree che in tempo di alta arrivavano fino alla prima fila di case. Vide la costa del Mersey Side a nord di Liverpool estesa per circa 2,5 miglia a nord-ovest di Seaforth Docks del porto, attraversare Waterloo luogo in cui il mare si separa dalla marina, e la baia che collega il fiume Mersey al mare d’Irlanda col suo canale navigabile, che corre parallelo alla spiaggia. Le sembrò che gli zampilli delle fontane diventassero onde violente che dopo aver torturato la rena, lambissero gemendo i suoi piedi, perdendo l’ardire iniziale.

    Quel bimbo con i biondi capelli altro non era che lei, la piccola Angel che correva verso quella grande distesa d’acqua che l’attirava a sé. Si scosse cercando di non pensare di non sognare più.

    Quante volte la madre le aveva ripetuto che per lei non era più tempo di sogni, che avrebbe dovuto guardare in faccia la realtà ora, subito, perchè dopo sarebbe stato tardi. E lei lo sapeva bene, tuttavia non le riusciva facile vivere nel concreto con la sua vita, ancora così giovane. Mai l’aveva sfiorata l’idea di un dolore che non si potesse contenere, di un amore deludente e fallimentare che non si potesse dimenticare con l’aiuto del tempo e della buona volontà. Non si era mai addentrata nei problemi affannosi e a volte terribili dell’esistenza umana: mai si era posta la domanda del perchè si dovesse comunque morire e del perchè si dovesse lottare e soffrire per la giustizia sociale.

    In fondo lei aveva avuto sempre tutto e sebbene non facesse di ciò una specie di vizio pernicioso era compiaciuta di vivere nella bambagia amorosa della sua famiglia.

    Certo non giudicava la gente più sfortunata di lei ma non sarebbe stata in grado di dire

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