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Il libro dei viaggi nel tempo di Roma
Il libro dei viaggi nel tempo di Roma
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E-book511 pagine7 ore

Il libro dei viaggi nel tempo di Roma

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Info su questo ebook

Rivivi la storia di Roma in prima persona

Una serie di avvincenti viaggi nel tempo per essere protagonisti di quei momenti che hanno fatto la storia di Roma e del mondo intero: immaginate di assistere in prima persona all’omicidio di Giulio Cesare, o di passeggiare tra i vicoli di Trastevere nel Medioevo, o ancora di stare a fianco dei nostri avi nelle sommosse popolari del Risorgimento, durante gli assedi stranieri, oppure stretti nel buio di un rifugio antiaereo mentre tuonano le bombe su Trastevere. Percepirete l’angoscia dei rastrellamenti nazisti, per poi ritrovarvi, spensierati, a partecipare ai giochi olimpici di Roma, al carnevale romano o a goliardiche serate all’osteria nell’Ottocento. Sarete viaggiatori di tutti i tempi, vi unirete all’autore fino a incrociare lo sguardo di Romolo, ammirare le movenze degli imperatori in corteo trionfale, la regalità dei papi e la nascita dei capolavori dell’arte italiana. Pagina dopo pagina, Roma sarà sempre con voi, così come la gente comune di ogni epoca, a condividere questo meraviglioso viaggio senza tempo, a spasso attraverso la storia. Per rivivere Roma in prima persona: dall’antichità fino ai giorni nostri. Avventure incredibili che, come per magia, faranno immergere il lettore in un mondo lontano

- La scoperta dell’obelisco più grande del mondo
- L’esecuzione di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori
- L’assassinio di Giulio Cesare
- L’alluvione più devastante del Tevere
- I funerali segreti di Bartolomeo Pinelli insieme al Belli
- Una giornata al porto di Ripa Grande
- L’incredibile Maratona di Abebe Bikila
- L’inaugurazione dello Stadio dei Marmi
- La vittoria italiana della prima coppa del Mondo a Roma

e molti altri viaggi...
Claudio Colaiacomo
è nato a Roma nel 1970. Laureato in Fisica, dirigente d’azienda, coach professionista e Counselor. I suoi interessi spaziano dalla storia di Roma antica e moderna, la cultura popolare romana, la fisica quantistica, la mindfulness e il dialogo tra scienza, filosofia e religione. È sposato e vive a Roma. Con la Newton Compton ha pubblicato Il giro di Roma in 501 luoghi, Roma perduta e dimenticata, I Love Roma, Keep calm e passeggia per Roma, Il romanzo della grande AS Roma e Il libro dei viaggi nel tempo di Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2017
ISBN9788822715326
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    Anteprima del libro

    Il libro dei viaggi nel tempo di Roma - Claudio Colaiacomo

    Introduzione

    Viaggiare nel tempo è un sogno che ci portiamo dentro fin da bambini. Immaginare di vivere in prima persona epoche antiche, respirare atmosfere solo immaginate, riportare in vita fredde pagine di polverosi libri di scuola, toccare con mano, percepire i suoni e gli odori di tempi andati è una fantasia che condiziona e ispira l’uomo da tempo immemore. Il tempo, entità evanescente che esiste solo in virtù del nostro esclusivo modo di percepire l’universo. Scorre perché sono le nostre piccole menti a immaginare eventi in sequenza e dare l’impressione di un unico ininterrotto flusso dall’origine dei tempi al presente. Einstein ci ha giocato a dadi, ne ha compreso la sua relatività e ha postulato che il suo scorrere dipende dalla velocità e che il tempo si lega indissolubile alla dimensione dello spazio. Scienza popolare e neointerpretazioni della teoria dei quanti immaginano universi paralleli e viaggi all’indietro nelle epoche a bordo di fantasiose macchine del tempo o attraverso buchi neri e stringhe cosmiche. Scienza e teoria della cospirazione a parte, gli unici capaci di viaggiare nel tempo, almeno finora, sono i creativi di ogni età, i poeti, gli scultori, i pittori, i registi e gli scrittori liberi da ogni vincolo di spazio e di tempo. Già a fine Ottocento H.G. Wells scriveva La macchina del tempo e anche Mark Twain immaginava un uomo del suo tempo viaggiare fino all’Inghilterra medioevale nel romanzo Un americano alla corte di re Artù. Non poteva mancare all’appello Isaac Asimov che agli sgoccioli del xix secolo scriveva La fine dell’eternità immaginando una società futura capace di viaggiare nel passato per correggere gli errori che avrebbero influenzato il futuro.

    Senza pretesa alcuna di immaginarmi parte di questo fecondo filone, ho immaginato la storia di Roma semplicemente cambiando la prospettiva. Non più quella di un commentatore esterno che, come attraverso un’impenetrabile vetrina, osserva senza influenzare ciò che vede, ma al contrario quella di un protagonista della storia, che interagisce con quegli eventi, che diventano parte del mio presente e di quello del lettore che mi accompagna. Ci immergeremo quindi nella Storia, mani e piedi, con tutti e cinque i sensi e con i pensieri che ci seguiranno dal presente. Ci troveremo immersi non solo in eventi cardine della storia della città eterna ma anche in eventi minori e persino eventi qualsiasi purché utili ad aprire una finestra temporale su un passato a noi sconosciuto. Ogni viaggio ha un obiettivo, un itinerario da seguire, un’avventura da vivere insieme ai nostri antenati, alla gente comune che incroceremo e ai protagonisti della storia di cui saremo testimoni nel loro presente. Roma è lo sfondo, il palcoscenico dove ogni viaggio ha luogo, sempre lo stesso nello spazio ma profondamente mutato nel tempo. Visiteremo i medesimi luoghi con straordinari balzi temporali. Vedremo la pianura del Campo Marzio come una distesa di alberi e cespugli per poi incontrarla secoli più tardi teatro dell’omicidio di Giulio Cesare. Riavvolgeremo la bobina del tempo fino a materializzare davanti ai nostri occhi il collasso del ponte Senatorio che diede origine a uno degli angoli più caratteristici della città, il ponte Rotto. Piazza del Popolo si trasformerà sotto i nostri occhi, le nostre mani toccheranno i suoi marmi mentre muta da semplice piazza a monumentale teatro per la partenza della corsa dei cavalli del carnevale romano. Incontreremo anche piazza Campo de’ Fiori quando era ancora una distesa di fiori selvatici per ritrovarla mezzo secolo più tardi nell’austerità di una notte illuminata dal rogo che arse vivo Giordano Bruno.

    Per compiere ogni viaggio ho dovuto vagabondare in lungo e in largo tra archivi fotografici, vecchie incisioni e soprattutto mappe antiche. Dove la cartografia non era d’aiuto ho dovuto ricorrere a resoconti di antichi viaggiatori, acquerelli e vedute. In ogni angolo descritto ho compiuto un viaggio, reale, concreto, non immaginato, per toccare con mano ciò che resta del passato, verificare prospettive e calarmi nella realtà dei luoghi. Ho passato ore nel buio delle chiese in cerca della giusta atmosfera o all’alba tra antiche rovine per tentare di percepire situazioni intatte e non sporcate dal trambusto moderno. Nonostante non si tratti di un saggio storico, ho comunque tentato in ogni modo di rimanere fedele ai fatti storici in tutte le dimensioni che mi trovavo ad affrontare, non solo nell’accuratezza degli eventi ma nel vestiario dei personaggi, nel loro parlare e nell’ambiente circostante. Spero di esserci riuscito.

    Il saltarellare per gli angoli del tempo si propaga dalla Roma di Romolo fino a quella delle Olimpiadi del 1960. Per riportare in vita il secolo appena passato ho fatto ricorso alla cronaca dei giornali dell’epoca, ai videogiornali e, dove possibile, ai resoconti di chi li ha vissuti in prima persona o conserva ancora vivo il ricordo di amici e parenti. È stato così, nei viaggi durante la seconda guerra mondiale e la presenza nazista a Roma, per riportare in vita il clima del regime fascista o l’euforia degli anni della ripresa economica.

    Scrivere di Roma in prima persona è stato un viaggio reale che mi ha fatto distinguere scorci e dettagli di tempi passati che credevo del tutto scomparsi. Ho ritrovato i resti della gabbia che conteneva la Lupa del Campidoglio, percepito lo strapiombo della rupe Tarpea, scovato le porzioni che ancora sopravvivono del vecchio stadio Olimpico, riportato alla luce le sirene della contraerea, vecchi rifugi antiaerei e persino i fori dei proiettili di quando Roma era sotto l’assedio nazista. Ho ritrovato i segni di antichi terremoti e le tracce di bombardamenti ottocenteschi, fino a rinvenire le medesime statue e i medesimi monumenti testimoni di eventi cardine della storia cittadina. Per questo motivo, alla fine di ogni racconto, ho sentito l’esigenza di condensare in un breve resoconto, ciò che il tempo ha conservato fino ai giorni nostri, sperando di fare un piccolo regalo al lettore che, dopo aver viaggiato idealmente nel tempo insieme a me, potrà realmente esplorare il presente alla ricerca di ciò che il passare degli anni ha lasciato intatto.

    C’è una Roma stratificata tra le vie del suo tessuto urbano, una sovrapposizione di epoche visibile non solo nella sua forma fisica ma anche nelle sfumature delle atmosfere che magicamente sono rimaste, nella totalità o solo in parte, immutate. Tornano vive, si manifestano con la cura e l’amore del visitatore. Basta amarle dal profondo del cuore con la consapevolezza del loro passato, con gli occhi della gente che le ha vissute, e lasciare che si manifestino.

    Con l’espediente del viaggio nel tempo ho voluto aiutare il lettore a innamorarsi della Roma di tutti i tempi, a percepire il vibrare della vita passata attraverso quelle strade e quelle rovine che sono ancora parte del nostro presente. Passeggiare nel buio dei sotterranei di una chiesa può rivelare l’atmosfera impercettibile di quando quegli ambienti erano usati come rifugio antiaereo. Il banale portone di un palazzo ci commuove se lo percepiamo come l’ultima dimora di uomini e donne rastrellati dai nazisti e stipati su vagoni diretti ad Auschwitz. Il ferro arrugginito di un lampione ravviva emozioni se lo immaginiamo a illuminare le barche in navigazione verso il porto di Ripetta. Il marmo seminascosto dalle erbacce parla dritto al nostro cuore se comprendiamo l’edificio di cui era parte in tempi antichi. In questo senso, viaggiare nel tempo, anche solo con l’immaginazione, si rivela un valido espediente per raggiungere il cuore del lettore oltre che il suo intelletto.

    Alle curiosità, di cui sono solito arricchire i miei libri, questa volta ho aggiunto le emozioni vive di chi quei luoghi li ha vissuti in prima persona, passeggiandoci insieme, spalla a spalla nella folla o semplicemente incrociando i loro sguardi. Questa magia d’amore ha funzionato per me che l’ho scritto, mi auguro funzioni anche per voi che sceglierete di leggerlo.

    Prologo

    A zonzo nel tempo prima di Roma tra leggenda e realtà

    È una fresca mattina primaverile nella valle del Tevere, il fiume scorre lento, lambisce le rive spoglie e rocciose dell’Isola Tiberina. Tutto intorno solo aperta campagna, il canto degli uccelli e il frusciare del vento tra la ricca vegetazione.

    Roma non è ancora stata immaginata. Della futura città si riconoscono solo i tratti naturali, quelli che oggi stentiamo a distinguere sommersi dalla moderna metropoli: le pendici scoscese del colle Palatino, la valle che lo divide dall’Aventino, le spiagge sabbiose del fiume e il profilo dei Colli Albani sullo sfondo.

    Una recente inondazione, ha portato le acque bionde del fiume fino alla valle dove oggi sorge il Circo Massimo, formando un acquitrino.

    Udiamo dei passi nel fango… Un uomo si fa strada a fatica tra le canne, tiene in mano una cesta fatta di paglia intrecciata mista a foglie. Dentro due gemellini appena nati; ignari di ciò che sta accadendo tutt’intorno, ignari di essere parte di un momento storico che diverrà leggenda. L’uomo ha l’ordine esplicito e rigoroso del re di Alba, Amulio, di gettare i piccoli nel fiume.

    Forse fu umana pietà oppure banale incompetenza, non lo sapremo mai. I piccoli vengono adagiati nelle acque quasi stagne, la corrente smuove la cesta fragilmente sospesa sull’acqua, come sospesa è la loro vita. La morte è a un passo.

    Lasciamo per un momento la cesta cullata dal fiume e cerchiamo di capire perché i piccoli sono segnati da un destino così crudele. Dal letto del Tevere ci spostiamo magicamente nello spazio e nel tempo sui vicini Colli Albani, esattamente nella città di Alba Longa, qualche anno prima.

    Amulio, fratello di Numintore re di Alba, è un uomo senza scrupoli, crudele e avvezzo al potere. Usurpa la sovranità al fratello e per assicurarsi che non possa esserci nessun pretendente al trono fa uccidere tutti i figli maschi di Numintore, suoi nipoti.

    All’unica femmina, la bellissima Rea Silvia, il re riserva, con arroganza e disprezzo, l’onore – suo malgrado – di diventare vestale. Un ruolo di altissimo prestigio che però impone molti doveri rituali e il voto di assoluta castità almeno fino ai trent’anni di età.

    Adesso… rimanere vergini per ben sei lustri non è impresa facile, specie se l’anima non è mossa da sincera vocazione ma dalla forzatura, tutta terrena, di un uomo attratto solo dal potere: Rea Silvia rimane incinta, dà alla luce due gemellini… e questo manda Amulio su tutte le furie! Non basta a placarne l’ira neppure il fatto che a sedurla non sia stato un qualsiasi latino di passaggio… ma Marte, il dio della guerra in persona!

    L’ordine è categorico e spietato: «Uccidete la donna e i bambini!». La crudeltà si mescola alle severe necessità rituali per cui le vestali non potevano essere uccise per azione diretta dell’uomo. La poveretta viene così sepolta viva e i gemellini abbandonati in balìa delle acque.

    Torniamo sulle rive del Tevere, la poca corrente ha trascinato la cesta non lontano da dove è stata abbandonata e si è arenata nei pressi del colle Palatino, più o meno dove oggi c’è la bocca della verità e dove si allunga l’area del Circo Massimo. Intorno regna il silenzio, il sole è già alto, il verde della campagna primaverile domina la scena. Il tenero vagito dei piccoli si sente appena tra il mormorare del vento e il gorgogliare del fiume.

    Ecco che tra i cespugli si materializza la lupa, che famelica si aggira muovendo il capo mentre avanza decisa tra la sterpaglia. L’istinto la guida, l’olfatto da vera cacciatrice percepisce qualcosa d’insolito nell’aria, le orecchie captano curiosi suoni. Si ferma appena scorge il movimento delle piccole membra, gli occhi fissi su quell’insolito spettacolo. Forse esita, combatte immobile il suo istinto, si muove appena, il muso umidiccio è ormai a pochi centimetri dai due teneri corpicini. Poi, come per incanto, li accarezza con la lingua, una, due volte… si avvicina ancora un po’ fino ad acciambellarsi attorno alla cesta. È l’istino materno che protegge la vita. I piccoli, racconta il mito, vengono premurosamente allattati.

    Passa da quelle parti il pastore Faustolo con il suo gregge, appena in tempo per cogliere pochi istanti dell’insolita scena, la lupa che si dilegua nella sterpaglia. Prende i piccoli e li porta alla moglie Acca Larenzia. I piccoli hanno finalmente una famiglia che si prende cura di loro fino all’età adulta. I loro nomi echeggiano nella storia dell’umanità, attraversano i secoli, trascendono lo spazio e il tempo fino ai giorni nostri: Romolo e Remo.

    I romani stessi, quasi un secolo più tardi, gettano indecenti sospetti sulla leggenda, pensando che Acca Larenzia fosse la vera lupa, e che non fosse proprio la fedelissima moglie di Faustolo… in altre parole una prostituta. È Tito Livio in persona, a mettere nero su bianco il lecito dubbio.

    Prostituta o lupa, Romolo e Remo crescono vigorosi. Si dedicano alla caccia e a piccole scorribande differenziandosi dalla comunità di pastori di cui erano ormai parte integrante. Sono due leader naturali dal carattere forte e deciso.

    Un giorno, durante una festa, Remo si caccia in una zuffa perché accusato di furto. Catturato, viene portato al cospetto di Numintore che guarda caso era il proprietario dei terreni depredati.

    Per la serie tutti i nodi vengono al pettine e le bugie hanno le gambe corte, Remo si trova ignaro al cospetto del nonno che, venuto a sapere del gemello Romolo, si convince si tratti proprio dei nipotini, brutalmente strappati a sua figlia e abbandonati qualche anno prima.

    Allo stesso modo Faustolo, nutrendo il medesimo sospetto di Numintore, confessa a Romolo le sue probabili origini. È qui che la leggenda prende contorni epici. Presi dalla sete di vendetta, sia Romolo sia Remo muovono verso il palazzo del re Amulio, lo sconfiggono e, acclamati dalla folla, restaurano il nonno Numintore al potere.

    Giustizia fatta! I due ragazzi tornano dalla loro gente sulle rive del Tevere, adesso sanno con certezza chi sono, non ci sono più dubbi da dove vengono. Germoglia in loro l’esigenza di fondare una città tutta loro, esattamente nel luogo dove sono cresciuti.

    A chi l’onore della fondazione? I due hanno la medesima età, dunque nessun diritto di anzianità. hanno inoltre le medesime origini, dunque nessun diritto di discendenza. Non resta che affidarsi agli dèi super partes la cui volontà può essere interpretata unicamente attraverso segnali ben precisi, come il volo degli uccelli.

    Remo sale sull’Aventino e Romolo si arrampica in fretta sul Palatino, entrambi accompagnati da un piccolo gruppo di pastori a loro fedeli. È Remo ad avvistare per primo sei avvoltoi. Romolo ne vede dodici poco dopo. I due riescono a vedersi, Palatino e Aventino sono separati solo dalla valle del Circo Massimo, ma sono troppo distanti per comunicare. Per farla breve, Remo è riconosciuto re dal suo gruppo e lo stesso accade a Romolo. Una bella incomprensione che solo il sangue riesce a risolvere.

    I due cominciano a segnare i confini della nuova città: Remo fonda Remuria e Romolo traccia i confini sacri di Roma. Remo vede nella distanza il fratello intento a solcare il terreno con l’aratro trainato da due buoi… Inferocito, si precipita giù dall’Aventino, supera la valle, le sterpaglie e gli acquitrini e si arrampica fino in vetta al Palatino dove trova il fratello trincerato all’interno di un solco quadrato. Quel solco rappresenta le mura primitive di Roma. Preso dall’impeto, aggredisce Romolo. Lo scontro fratricida si conclude con Remo colpito a morte da Romolo che con crudeltà e orgoglio pronuncia la leggendaria frase Così d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura. Roma è nata, è il 21 aprile del 753 a.C.

    La magia del numero sette

    Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo… questi sono i nomi di sette uomini, sospesi tra leggenda e realtà, che governano Roma per duecentoquarantatré anni, forgiano il suo carattere, e le donano un ordinamento militare, politico e sociale. Roma depone l’ultimo re cinquecento anni prima della nascita di Cristo, pronta e determinata a conquistare il mondo.

    Immaginiamo per un momento di poterli incontrare uno a uno. Ecco Romolo, il padre della patria. Giovane, fiero e di bell’aspetto. Ha lo sguardo severo ma deciso, chissà forse ha nel cuore la tristezza per aver ucciso il fratello Remo e dolore per l’abbandono forzato della madre. Ha una città che porta il suo nome e un popolo a lui devoto. Pastore a quel tempo era sinonimo di uomo solitario ed è questo il primo cruccio di Romolo: la sua città può fiorire solo se cresce la popolazione e per fare questo ha bisogno di donne.

    Ve lo immaginate il primo re di Roma, in cima al Palatino, fuori dalla sua capanna, contornato dai suoi uomini che discutono su come rimediare delle donne?

    Intorno solo campagna, acquitrini, pascoli e zanzare, non proprio il posto ideale per cercare delle donne! Qualcuno alza la mano e dice «le Sabine?»… il gruppo confabula e mugugna un po’. I sabini sono un popolo che ha le proprie città nell’area a Nord di Roma. Una di queste è Antemnae, la città davanti ai due fiumi dal latino Ante Amnes che si trova pressappoco dove oggi sorge villa Ada sullo sperone che domina la valle dove l’Aniene confluisce nel Tevere.

    Si pianifica immediatamente una spedizione per rapire le donne, nonostante Antemnae è già fortificata, protetta da possenti mura. Inoltre gli antemnati sono più dei romani… Insomma l’azione militare è forse un’impresa ancora fuori dalle capacità militari di Roma. E poi l’intento è quello di trovare donne con cui metter su famiglia, espugnare la loro città non sembra proprio l’inizio migliore per una sana relazione.

    Da bravi nuovi arrivati, i romani organizzano una festa alla quale accorre tutto il vicinato dalle città di Caenina, Crustumeria, Antemnae e persino un gruppetto che viveva in cima al colle Quirinale. Tutte genti di origine sabina, tutti raccolti nella valle, dove qualche anno più tardi sorgerà il Circo Massimo, a danzare e divertirsi insieme ai nuovi arrivati. È il 21 agosto di una torrida estate.

    Al segnale di Romolo scatta l’imboscata, le spade taglienti dei romani luccicano contro le mani degli invitati che stringono calici pieni di vino. Si scatena un parapiglia, le donne sono rapite, gli uomini indifesi scappano. Lo storico ratto delle Sabine è compiuto. Non sappiamo esattamente di quante donne sia il bottino, alcuni sostengono una trentina altri addirittura ottocento! Tra di loro la più nobile e bella, Ersilia, che diventa la sposa di Romolo.

    Primo problema risolto, i romani adesso hanno una città e tante donne per dare alla luce la loro seconda generazione. Ma hanno anche un’intera regione piuttosto adirata e piena zeppa di uomini assetati di vendetta. La guerra è feroce e c’è il rischio di distruggersi a vicenda. È Ersilia a mostrare tutta la sua leadership, è influente sia tra i romani sia tra i popoli da cui proviene. La guerra si placa, dopotutto le donne non stanno così male con i romani. Pace fatta! Roma è cresciuta, nella popolazione e nell’animo, astuto e guerriero. Romolo adesso si può dedicare a un po’ di sana politica: divide la gente in classi sociali e riorganizza l’esercito.

    Una mattina di luglio del 716 si svolgono le esercitazioni militari nel Campo Marzio. È la zona pianeggiante chiusa tra il Tevere e il Campidoglio, la spianata dove oggi sorge piazza Navona e il Pantheon. Romolo sta guidando i suoi uomini nell’addestramento, quando vede addensarsi all’orizzonte grossi nuvoloni. Si ferma, esita un attimo, non è certo un temporale in arrivo a preoccuparlo, il giovane re sente che qualcosa di sinistro sta per accadere. Le nuvole corrono veloci, si arrovellano una sull’altra, si gonfiano rapide verso di lui. Sotto lo sguardo incredulo dei soldati si trasformano in un turbine di vento e nebbia che avviluppa Romolo. Si sentono tuoni, si vedono fulmini, la pioggia si fa battente, grandina. Poi, il silenzio. Il cielo improvvisamente torna azzurro, l’aria immobile. Nella spianata del Campo Marzio rimane solo un manipolo di soldati terrorizzati e increduli. Del loro capo, nessuna traccia, scomparso nel nulla, asceso al cielo.

    È la fine perfetta per l’uomo più simbolico di Roma, suo fondatore, figlio del dio Marte. Pochi giorni più tardi Romolo appare ai suoi uomini per dare voce alla volontà degli dèi: Roma deve diventare la capitale del mondo e la sua forza militare non deve avere rivali in nessun dove. L’assunzione in cielo e l’apparizione le ritroveremo settecentoquarantanove anni più tardi in Giudea… ma questa è tutta un’altra storia…

    Morto un re se ne fa un altro… Ma sostituire Romolo non è impresa facile. La sete di potere è tanta e in molti vorrebbero occupare la sua poltrona. Roma è divisa tra genti di origine diversa. Ci sono i latini, qualche etrusco e i sabini. È proprio tra questi che viene scelto il nuovo sovrano. Numa Pompilio.

    Lo incontriamo nella sua capanna di sera. Il suo volto è illuminato solo dalla luce traballante di poche fiaccole. La barba folta e i capelli riccioluti spuntano da un candido velo bianco che gli copre il capo. Se ne sta seduto contemplando le immagini dei suoi antenati e degli dèi. Numa è un uomo saggio, religioso, sereno, un pensatore affascinato dal divino e dalle profondità dello spirito.

    Quando gli viene offerta la leadership romana esita. Quel giorno è a Cures, sua città natale, non distante da Roma. Non riesce a immaginarsi a capo di un popolo così riottoso, e avvezzo alla guerra, lui che ama dedicarsi alla cura dell’anima a allo sviluppo delle virtù. Forse accetta nella speranza di portare saggezza tra i romani, non per calmare i bollenti spiriti ma per aggiungere un contributo spirituale, il seme della saggezza necessaria per il futuro glorioso della città.

    Chissà come si sente, quali sono le sue emozioni, cosa dimora nella mente e nel cuore del secondo re di Roma. Quali le sue ambizioni, le sue paure, cosa si augura per se stesso e per la sua gente. Siamo faccia a faccia nella quiete della sua capanna, ma lui non sa che siamo qui, ci separano quasi tremila anni di storia. Numa regna per cinquantasei anni senza neppure una guerra. Governa il suo popolo nella serenità, apporta riforme religiose e sociali che perdurano nei secoli. È lui che s’inventa l’area sacra del foro, centro pulsante della vita di Roma e di ogni città fondata dai romani da quel momento in poi. Istituisce il collegio dei Pontefici con a capo il Pontefice Massimo, un ordinamento pensato per vigilare sulla moralità e sui riti sacri.

    Muore di vecchiaia, nessuna ascensione celeste o apparizione mistica, semplicemente si spegne lentamente tra la sua gente. Le sue spoglie sono sepolte all’interno di un mausoleo sul Gianicolo, che deve il nome a Giano, uno degli dèi a cui Numa si ispirava. I suoi resti e quelli del mausoleo non sono mai stati rinvenuti, però mi piace pensare che su quel colle che ha la città adagiata ai suoi piedi, riposa in pace il re di Roma dall’animo quieto.

    È il momento di fare la conoscenza di Tullo Ostilio, e già il nome è tutto un programma. In realtà tra tutti i sette re c’è sempre la curiosa alternanza tra il despotismo e la ragionevolezza, in qualche modo l’alternarsi del bene e del male, lo Yin e lo Yang, la dualità della vita terrena.

    Tullo è di origini latine ed è un guerrafondaio. Lo incontriamo nel Campo Marzio mentre si esercita con le sue milizie come tempo prima fece Romolo. È un uomo dall’aspetto atletico e vigoroso, negli occhi ha il fuoco dell’ambizione. Si muove agevolmente sul campo di battaglia e sa come gestire le milizie con abilità. È un leader, un motivatore, ha il rispetto del suo esercito. Forse percepisce nell’animo il destino di Roma e in qualche modo si sente responsabile.

    Provate a immaginare lo sguardo penetrante dell’uomo che incarna l’eredità guerrigliera di Romolo, è lui che per primo estende i confini di Roma oltre le mura dichiarando guerra alle città vicine, tutte nel raggio di pochi chilometri dal foro. Cadono città potenti, come Fidene, Veio e la città d’origine di Romolo e Remo, Alba Longa. La guerra contro Alba è atroce, i combattimenti sono così sanguinosi e le perdite così ingenti che le due fazioni decidono di fermare ogni ostilità e affidare la sorte del conflitto a un unico combattimento tra un ristretto gruppo di soldati. Soluzione geniale che avrei voluto vedere applicata in tante altre guerre… anzi meglio non farle per niente le guerre…

    L’evento è leggendario: la battaglia tra Oriazi e Curiazi. Le regole sono semplici, tre gemelli di Alba, i Curiazi, contro altrettanti gemelli romani, gli Orazi. Alle prime ore del mattino, come in un evento sportivo ante litteram, le due fazioni s’incontrano in territorio neutro, in una spianata fuori dalle due città più o meno a metà strada. In palio c’è la supremazia sul Lazio.

    Immaginiamo di trovarci lì, in trepidante attesa insieme a migliaia di altri spettatori provenienti da ogni luogo. Ci ammassiamo animatamente lasciando solo lo spazio per i sei combattenti. Eccoli, in due linee parallele uno di fronte all’altro, statue in carne e ossa con muscoli vigorosi, tesi e vibranti, pronti per la battaglia. L’adrenalina scorre nelle vene, la paura e il coraggio già si contendono l’animo, mentre intorno è tutto immobile, si attende la prima mossa, c’è apprensione, trepidazione.

    Sono gli Orazi a compiere la prima manovra, avventata ma di successo. I Curiazi vengono feriti. La reazione è rapida e feroce, si scatena un combattimento corpo a corpo, degno delle future lotte che vedranno impegnati i gladiatori secoli più tardi nel Colosseo. Due Orazi cadono a terra senza vita, un tonfo nella polvere che si alza in un nuvolo tra gli schizzi di sangue. Tre feriti contro uno, Roma è spacciata.

    L’unico superstite è chino, il capo basso, respira affannato, tiene la spada stretta tra le mani e gronda sudore. Davanti a sé ha i tre Curiazi che lentamente stanno raccogliendo le forze, anche se feriti e i loro movimenti sono impacciati. Li guarda uno a uno, li scruta negli occhi, studia le movenze. Capisce che l’unica via di uscita è una strategia, antenata delle grandiose tattiche militari che eserciti e legioni compiranno per il millennio a venire. Scappa verso Roma, la folla è incredula e veniamo strattonati mentre tentiamo di seguire la scena che si allontana dalla nostra vista.

    I tre, ormai certi della vittoria inseguono il fuggiasco per dargli il colpo di grazia, ma sono feriti… nella rincorsa si distanziano l’un l’altro. Il Romano li osserva con la coda dell’occhio e quando il primo inseguitore è ormai alle sue spalle, rallenta… poi si gira d’improvviso e lo trafigge con la spada. Ha solo il tempo di ricomporsi, giunge il secondo nemico e infierisce ancora con un fendente deciso al torace. I due corpi esanimi in una pozza di sangue misto a fango sono raggiunti dal terzo fratello, che li salta fino a raggiungere il rivale. I due superstiti si scrutano ancora una volta come due leoni inferociti, solo per pochi secondi, poi il romano balza in avanti e con il terzo colpo di spada trafigge l’ultimo dei Curiazi. Roma ha vinto, Alba Longa sarà distrutta. Brividi corrono lungo la schiena di noi spettatori dal futuro.

    Tullo Ostilio muore a quasi cento anni dalla fondazione della città colpito da un fulmine scagliato da Giove in persona. La sua colpa è di aver trascurato gli dèi ed essersi concentrato solo sul suo tornaconto. Una lezione per i sovrani a venire che dovranno trovare l’equilibrio tra la saggezza di Numa e la durezza di Tullo.

    Sale sul palco della Storia Anco Marzio, marito della figlia di Numa Pompilio e anche lui di stirpe sabina. È un uomo dall’aspetto mite, il naso pronunciato, indossa una veste bianca e un copricapo che gli lega i capelli. Lo incontriamo mentre cammina sulle pendici dell’Aventino dove oggi sorge il Roseto Comunale di Roma.

    Anco si muove con fare regale, al suo fianco un uomo di bassa statura, scuro di carnagione con capelli lunghi. È il suo fedele braccio destro. Se ne sta silenzioso ma con sguardo attento osserva tutto, vigila sul re, è suo consigliere. È un etrusco, si chiama Tarquinio Prisco, sarà il prossimo Re di Roma. Per adesso i due passeggiano nella valle Murcia molto a cara al Re, perché è qui che ha dato alloggio alla gente delle città che ha soggiogato. È dal tempo di Remuria che i romani non tornavano su questo colle, i solchi della città che non fu mai, sono ancora visibili nel terreno. Molta della gente che abita sull’Aventino viveva fino a pochi anni prima in piccole comunità tra Roma e la foce del Tevere. È lì che Anco Marzio ha concentrato la sua breve campagna militare, è lui che ha dato lo sbocco al mare a Roma fondando la città di Ostia.

    Per la prima volta nella sua storia, a Roma fiorisce il commercio. Carovane di carri che vanno e vengono dalle saline di Ostia lungo la primitiva via Ostiense, bastimenti trainati da buoi che portano legname in città. Viene persino costruito il primo attraversamento sul fiume, per commerciare con la riva etrusca al di là del Tevere o – come dicevano i nostri antenati – trans Tiberim, ovvero la riva che poi diventerà Trastevere: ponte Sublicio, realizzato in legno pochi metri a valle dell’Isola Tiberina, dove oggi sorge il ponte rotto. È qui che un secolo più tardi Orazio Coclite s’immolerà eroicamente per fermare l’assedio degli Etruschi. Ma andiamo per ordine, un passo alla volta.

    Anco Marzio, a differenza del suo predecessore, muore di vecchiaia in tranquillità, sereno tra la sua gente. Il suo braccio destro, Tarquinio Prisco, che abbiamo già incontrato, adesso è sovrano di Roma e stentiamo a riconoscerlo… voglio dire… l’aspetto è lo stesso, così come la capigliatura fluente sulle spalle muscolose, ma è chiaramente inorgoglito dal suo ruolo, forse ne percepisce la responsabilità, dopotutto è il quinto re di Roma e, francamente, ci sentiamo anche noi un po’ in soggezione nonostante i duemila cinquecento anni che ci separano.

    È un predestinato, gli dèi lo hanno benedetto molti anni prima quando nessuno sospettava il suo glorioso futuro: quel giorno il giovane Tarquinio si trova sulle alture del Gianicolo, davanti a lui i sette colli, l’Isola Tiberina e Roma, forse è incantato, assorto nella meraviglia dello scenario… all’improvviso un’aquila gli ruba il copricapo e vola via, poi torna, lo sorvola di nuovo e gli posa il copricapo in testa. È il segno degli dèi, quell’uomo è destinato a far parte della storia di Roma. Anche se il nome stesso ci dice che è di Tarquinia e nelle sue vene scorre sangue etrusco.

    Ah gli etruschi! Popolo misterioso e ricco di fascino le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Quanto sarebbe meraviglioso chiarire proprio con lui gli innumerevoli misteri che ancora avvolgono la sua cultura! È grazie a Tarquinio Prisco che gli etruschi entrano a far parte integrante della vita politica della città, della Roma che conta. Sempre grazie alle sue gesta e ad alcune guerre, Roma si espande, ancora a spese dei poveri sabini e latini ormai flagellati da oltre un secolo, ma anche gli stessi etruschi assaggiano la spada romana. Cadono una dietro l’altra le città di Chiusi, Volterra e Arezzo con cui vengono stipulati patti di non belligeranza.

    Tarquinio si dedica ad abbellire la città. È lui che costruisce il Circo Massimo e progetta una moderna rete fognaria, quella che oggi è la Cloaca Massima. Getta anche le fondamenta per il tempio più grande di tutti i tempi, quello intitolato a Giove Capitolino sulla vetta del Campidoglio, rivolto verso i colli albani per sottolineare la supremazia ormai consolidata su Alba Longa. Lo possiamo vedere ancora oggi… basta fare visita ai musei capitolini nella sala che custodisce la statua originale di Marco Aurelio a cavallo. Qui, nel silenzio, si ergono ancora le fondamenta del gigantesco tempio di Giove… severo e vigoroso proprio come le ambizioni del re.

    A differenza dei suoi predecessori, Tarquinio muore vittima di un complotto architettato dai figli di Anco Marzio, che evidentemente non hanno ben digerito di non essere potuti succedere al padre. Non ci riescono neanche questa volta. Alla morte di Tarquinio sale al trono Servio Tullio, suo genero e di umili origini. La dinastia etrusca continua…

    Servio diventa re, si dice, con uno stratagemma che gli crea non pochi problemi con le città etrusche soggiogate da Tarquinio. Andiamo in ordine. Alla morte del suo predecessore, Servio Tullio si sarebbe inventato un fantomatico passaggio dello scettro del potere.

    Verità o finzione gli etruschi non ci stanno, non credono alla storia di Servio e rompono il patto di non belligeranza con Roma. Al giovane re tocca muovere guerra contro i popoli riottosi delle sue origini. In breve riporta all’ordine città del calibro di Veio e Tarquinia.

    Incontriamo Servio sul colle Celio, dove oggi si dirama via San Paolo della Croce. È qui che si trova ancora oggi l’arco di Dolabella, sorto – si dice – sopra una delle quattro antichissime porte che si aprivano nella cinta muraria di Servio, le Mura Serviane, appunto. L’uomo ci appare piuttosto schivo, forse a causa delle sue origini umili. O semplicemente si prende gioco di noi? È scuro di carnagione, riccioluto con due grosse sopracciglia, ma irradia serenità. Chissà se può comprendere che le sue mura attraverseranno oltre due millenni di storia fino a oggi. Per un attimo i nostri sguardi si incrociano, i suoi occhi scurissimi sono fissi dentro ai miei.

    Il sesto regno di Roma scorre con relativa calma per quarantaquattro anni ma finisce nel sangue. Il re cade vittima di un complotto di cui gli artefici sono la figlia Tullia e suo marito Lucio Tarquinio, usurpatore del trono. Servio, braccato nel foro e ferito, tenta la fuga… è ansimante, ha paura… cade più volte mentre corre lungo l’Argiletum, antica via che oggi corrisponde a via di San Martino ai Monti, poi decide di rifugiarsi sulle pendici dell’Esquilino e percorre in salita il Vicus Sceleratus, l’odierna via di san Francesco di Paola. Non è più giovane e vigoroso come una volta, l’età si misura con l’affanno e il ritmo del cuore è alle stelle, la sua corsa stenta, cade ancora una volta. Qui in un luogo che tutt’oggi conserva un’aria piuttosto sinistra, dove s’inerpica la Salita Borgia, viene raggiunto dal carro guidato dalla figlia che, spietata, lo investe e infierisce più volte su di lui, fino a ridurlo un cumulo di membra maciullate.

    Tarquinio sale al trono ancora grondante di sangue, con il medesimo nome del quinto sovrano della città, e i romani lo soprannominano il Superbo. È così che passa alla storia l’ultimo re di Roma, è il 534 a.C., incutendo timore a tutta la città. È un tiranno in piena regola e a dire il vero non ho tutta questa voglia di incontrarlo.

    Facciamoci coraggio e andiamo a trovarlo nel suo palazzo sul palatino. A proposito, il colle si chiama così proprio perché qui sorgeva il palatio, la residenza dei re e in futuro di molti imperatori. È buio sul colle, ci avviciniamo con cautela, sospetto e trepidazione fino a entrare nella sua dimora sorvegliata da un manipolo di energumeni suoi fedeli. Sembra incredibile trovarsi nel medesimo luogo dove abbiamo incontrato il mite Numa Pompilio nella sua capanna.

    Ora siamo davanti a un palazzo in solidi mattoni, illuminato dal fuoco delle fiaccole e da lunghe ombre traballanti che rendono tutta la scena degna di un girone dantesco. Troviamo Tarquinio con un gruppo di amici, sono tutti ubriachi e parlano a voce alta. Inveiscono contro gente che non conosciamo mentre scivolano viscidi tra le braccia di peccaminose prostitute.

    Meglio non turbare la scena, nel bene o nel male si sta compiendo la Storia, un altro capitolo di quel monumento che è Roma. Tarquinio il Superbo! Solo il nome fa venire i brividi… regna per ventiquattro anni di pura tirannia, compiendo solo azioni volte ad accrescere il proprio potere e a smantellare quanto di grande e meraviglioso avessero fatto i suoi predecessori.

    D’un tratto, si manifesta un nuovo attore sulla scena… è il popolo di Roma, quei pigmenti che finora sono stati il mero sfondo colorato al ritratto dell’Urbe. È in loro che s’incarna l’amore per la città e la

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