Portami dove non serve sognare
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Anteprima del libro
Portami dove non serve sognare - Jennifer Sorgia
Portami dove non serve sognare
di
Jennifer Sorgia
Pubblicato da Pubme © – Collana rosa Un cuore per capello
Prima edizione 2020
Copertina creata da: Angel Graphics- cover your book
Sito web: http://uncuorepercapello.pubme.me/
Pagina Facebook: https://www.facebook.com/Un-cuore-per-capello-218110230877…/
Email: uncuorepercapello@gmail.com
Questa è un'opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti, luoghi o persone è puramente casuale.
È vietata la riproduzione completa o parziale dell’opera ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941)
Sinossi:
Flora e la sorella erano molto legate.
Amavano i fiori e le piante, una passione ereditata da una delle loro zie.
Sognavano entrambe di aprire un negozio di fiori, ma Flora prese una strada diversa e diventò medico.
A un certo punto della sua vita, accadde però qualcosa di straziante.
Lei, sentendosi in colpa, decise di andar via portando con sé anche il dolore, quel dolore che la stava distruggendo.
A cambiare radicalmente la sua vita fu Denton, un giardiniere che un giorno, per sbaglio, bussò alla sua porta e, da quel momento, tutto cominciò a cambiare…
Prologo
Le foglie morivano sugli alberi e il vento stava iniziando a farsi sentire sempre di più. Arrivava l’autunno, quel periodo era buio, almeno per me.
Avevo perso tutto, non avevo più niente e nessuno: una nuova vita, sola, con i miei sensi di colpa e le mie paure.
Ero andata a vivere in un paesino in montagna, dove abitava pochissima gente. Non avevo voglia di vedere persone, né di fare amicizia; anzi, era già troppo dover vivere con me stessa ogni giorno.
Non capivo perché tutto ciò fosse successo proprio a me, non riuscivo a mettermi l’anima in pace o a trovare qualcosa che mi facesse sentir meglio. Era tutto un disastro, un disastro a cui non c’era rimedio.
La mia casetta non era tanto grande, ma era più che sufficiente per me e il mio cagnolino Dex, che avevo trovato nei pressi di un ruscello da quelle parti; da allora me ne ero sempre presa cura. Dex aveva il pelo marroncino chiaro, doveva essere un incrocio con un volpino; sembrava un peluche: tenero e adorabile. Tornando alla mia casetta, anche se non era molto grande, avevo una stanza, il bagno, il salotto e la cucina. Era quasi tutta in legno e io avevo imparato ad amarne ogni singolo angolo.
CAPITOLO UNO: Flora
Mi chiamo Flora.
Sono una ragazza di ventotto anni, non sono molto alta, anzi tutt’altro.
Ho gli occhi marroni, a mandorla; tutti mi dicevano che gli occhi li ho presi da mio padre, il naso all’insù invece da mia madre. I miei capelli, per mia sfortuna, sono leggermente mossi, quindi la maggior parte del tempo li raccolgo in una coda alta visto che sono anche molto lunghi.
Se dovessi parlarvi del mio carattere, non saprei da dove cominciare, non saprei cosa dire e come definirmi.
Con il tempo, o per meglio dire, dopo quello che è accaduto, è mutato: in quel periodo ero chiusa come una serratura a due mandate; non riuscivo a parlare con nessuno, non volevo nessuno che mi stesse vicino solo per compassione o per il semplice fatto che facevo pena.
Avevo perso mia sorella.
Me lo ricordo bene quel giorno, quel momento, quell’impatto.
Le immagini sono ancora vivide nella mia memoria. La scena, quella scena crudele, mi tormentava tutti i giorni, mattina, pomeriggio e sera.
Eravamo solo io, lei e nostra madre.
Nostro padre era mancato molti anni prima a causa dell’Alzheimer. Il sintomo precoce più frequente di questa malattia è la difficoltà nel ricordare eventi recenti. Con l’avanzare dell’età, poi, si presentano sintomi come afasia, disorientamento, cambiamenti repentini di umore, depressione, incapacità di prendersi cura di sé, problemi di comportamento. Ciò porta il soggetto inevitabilmente a isolarsi nei confronti della società e della famiglia. A poco a poco, le capacità mentali basilari vengono perse. Non si tratta di un’esperienza semplice, su questo non c’è alcun dubbio.
Insomma, eravamo rimaste solo noi tre, noi donne, a darci forza ogni giorno.
Passavamo quasi tutte le giornate a fare shopping o a parlare, oppure a sorseggiare tè caldo.
Io e mia sorella ci confidavamo sempre l’una con l’altra: per ogni cosa lei c’era e non mi lasciava mai sola. Quando, però, accadde che mi abbandonò, fu per sempre. La colpa era solo mia.
Dopo quel tragico incidente, mia madre divenne fredda, distaccata; addirittura non mi parlava: il nostro legame era andato in frantumi come un piatto di porcellana dopo una brutta caduta.
E quella donna, con quel carattere forte, non mi avrebbe mai perdonata, mai. Ed ero finita lì, sperduta tra le montagne, abbandonando anche il mio lavoro che un tempo amavo tanto.
Sapevo che era un’impresa complicata, difficile, forse addirittura impossibile, ma dovevo provarci, dovevo provare a ritrovare me stessa.
In quel paesino di montagna, dove le strade, per carità, non erano asfaltate e c’erano solo viuzze nei boschi che portavano al paese, dove non c’era nulla tranne una piccola chiesa e un negozietto in cui vendevano un po’ di tutto.
E a me bastava quello: il mio pacchetto di sigarette e qualcosa da mangiare.
Sì, stando lì e parlando solo con il mio cane Dex avevo iniziato a fumare nonostante fossi consapevole che era sbagliato e faceva davvero male, ma in fondo che mi importava? Avevo perso tutto.
Non era di certo una sigaretta o venti a spaventarmi, ma ben altro.
Quella mattina mi alzai dal letto più nervosa del solito.
Maledetto incubo! Si ripeteva sempre, ogni notte. Non era possibile, non era più possibile vivere così. Durante il sonno sudavo talmente tanto da dover cambiare le lenzuola e farmi una doccia ogni mattina.
E l’incubo non cambiava mai, era sempre la stessa scena, sempre la stessa voce e sempre le stesse parole.
Quell’incubo mi complicava solo le cose.
Feci una doccia e, ancora in accappatoio, preparai il caffè nella mia caffettiera rossa.
Dopo essermi vestita e aver indossato qualcosa di decente e abbastanza pesante, bussarono alla porta, ma io non ero sicura di voler aprire. Ma poi chi poteva essere che bussava alla mia porta? Sicuramente qualcuno che si era sbagliato. Presi coraggio.
«Chi è?» urlai in modo da farmi sentire.
«Sono io, Denton» rispose una voce sicura di sé.
Ma chi dannazione era Denton?
«Mah… Ci conosciamo?» chiesi io perplessa.
Ok, sicuramente era un ladro o un truffatore, dovevo mantenere la calma, pensai tra me e me. Ero in uno stato di panico totale.
«Ma come, mi ha chiamato lei!» insisteva lui.
Io non avevo chiamato proprio nessuno.
«Assolutamente no!» esclamai decisa.
«Apra la porta, magari si ricorda di me!» continuò lui con un tono piuttosto sconcertato.
Sì, la porta l’avrei aperta, ma diciamo che per sentirmi più sicura avevo afferrato un oggetto tra le mani… un mattarello, per essere precisi.
Aprii la porta lentamente. Non so ben descrivere quello che mi ritrovai davanti.
Un uomo di media altezza, con un corpo atletico, i capelli corti e un po’ arruffati di colore marrone scuro.
Gli occhi chiari, sul verde-grigio e luminosi, decisamente grandi e con la forma un po’ allungata, rivelavano un lieve imbarazzo e un po’ di timidezza. Eppure il suo