La gemella sbagliata
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LE LORO ESISTENZE SI INCROCERANNO SULLO SFONDO DI TRAGICI EPISODI DI TERRORISMO
CHE HANNO SEGNATO LE LORO VITE E LA STORIA NEL NOSTRO PAESE.
Sara, una borghese di buona famiglia, un lavoro che non le piace, separata, apprende dai giornali che la sorella gemella, Marianna, è uscita di prigione dopo aver scontato una trentina d’anni per partecipazione a banda armata e concorso nel rapimento e omicidio di un industriale.
Luglio 1970.
Quattro donne, allora giovani, Maria, Marta, Sara e Marianna, dividono casualmente lo stesso scompartimento sul treno Milano-Roma. Il treno si ferma in piena campagna perché, si dice, a Gioia Tauro si è scatenato l’inferno. Un attentato.
Le quattro donne passeranno la notte in treno e avranno il tempo di conoscersi.
Da quel giorno, e nel corso degli anni, le loro storie si incrociano sullo sfondo dei tragici avvenimenti di terrorismo che hanno sconvolto le loro vite e la storia del nostro Paese.
Si ritroveranno tutte e quattro molti anni dopo e Sara e Marianna finalmente si diranno tutto quello che in trent’anni non sono riuscite a dirsi. Solo allora Sara, la gemella sbagliata, decide con serenità di fare quello che aveva sempre pensato di fare ma che non ha mai avuto il coraggio di portare a termine.
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Anteprima del libro
La gemella sbagliata - Rossana Carturan
RINGRAZIAMENTI
- 1 -
ACCESSORIO
Mi svegliai con il pensiero che mi aveva perseguitato per tutta la notte: ero un accessorio.
Ci sono persone che attendono e altre che sono attese, persone che per qualcuno hanno un valore unico, nel bene e nel male e altre che, come me, hanno la sola funzione di essere un accessorio e, come tali, utili nella loro inutilità, quella di far sentire gli altri con un pizzico di vanità in più, speciali.
Beh, tutto sommato non era male a vederla così ma, chissà come mai, non mi consolava. Percepivo in quell’accessorio una condizione di estremo fallimento, come quella di chi non sa collocarsi se non a lato della vita, oppure sopra o sotto, ma mai dentro. Illudersi di potersi insinuare in qualche feritoia dell’anima per poi, alla fine, nulla, scoprire di essere solo un superfluo accessorio.
Sgusciai dal letto e, a occhi chiusi, mi infilai sotto la doccia.
Mi costrinsi a non pensare concentrandomi a lungo sul colore delle piastrelle poi sotto lo scrosciare dell’acqua bollente, nel vapore, a tastoni, cercai l’accappatoio e uscii dalla doccia. Feci un gran bel respiro e aprii con decisione gli occhi: l’orologio segnava le sette in punto. La mia tabella prevedeva, come ogni mattina, un caffè veloce, uno sguardo al quotidiano del giorno prima, che mia figlia generosamente lasciava sul tavolo ogni sera quando rincasava dal lavoro, e poi via, in ufficio.
Sorseggiai il caffè e svogliatamente sfogliai le pagine, finché non mi apparve la notizia: Marianna Guidi è uscita questa mattina dopo aver scontato... Per poco non mi andò di traverso, tanto ebbi un sussulto. Non mi avevano avvertita, nessuno lo aveva fatto. Nessuno della mia famiglia. Rigirai quell’articolo tra le mani, ma non diceva nulla di preciso, nessun dettaglio, nessun indirizzo dove poterla contattare. Un’idiozia solo pensarlo, ovviamente. Di certo non sarebbe tornata da me o da nostra madre, men che meno da mio fratello.
I conti li avevo fatti non so quante volte; pur non avendo più sue notizie da un po’– anche perché, oltre a essermi proibito dal regolamento carcerario, lei aveva espressamente dichiarato di non volermi più vedere – ero certa che ci sarebbe voluto ancora tempo, almeno un altro anno.
Invece no, come una notiziola sbatacchiata tra la cronaca nera e l’annuncio di un matrimonio tra signorotti di zona, si annunciava la liberazione di Marianna, mia sorella. Ed ero anche in ritardo di un giorno. Non mi capacitai.
Più veloce che mai mi vestii mentre con il cellulare tentavo di chiamare Leonardo, mio ex compagno, padre di mia figlia e avvocato di Marianna. Neanche a dirlo il suo telefono era spento. Perché non mi avesse avvertita che mia sorella, la mia gemella, la donna che aveva cambiato il mio modo di ragionare, di vivere e di sopravvivere, a cui avevo pensato quasi ogni giorno negli ultimi trenta anni, ora era fuori, fuori chissà dove, non mi tornava. Guardai nuovamente l’ora, non potevo assentarmi dal lavoro senza avvertire, per cui decisi di andare comunque in ufficio e da lì chiamare chiunque potesse ragguagliarmi. Mentre guidavo, in una città caotica, in un giorno feriale e in un orario di punta, mi tornò in mente il concetto di accessorio
e pensando a lei, a Marianna, conclusi che nella vita ci sono vesti importanti, necessarie direi, che abbigliano le nostre vite a tal punto da diventarne parte, e il corpo, l’anima, la testa e tutto ciò che ha un’esistenza non se ne può separare, e lei era questo.
Pensieri scombinati tra un semaforo e l’altro, tra un incrocio e un passaggio a livello, che continuavano a ronzarmi dentro. Le vedevo le nostre vite, la mia e quella di Marianna, la sua in un abito impeccabile, la mia solo l’ombra di un oggetto che si affaccia timido al mondo. Arrivata, salutai frettolosamente i colleghi e mi chiusi nella mia stanza al secondo piano di una palazzina fatiscente, che rappresentava la Asl di zona, e iniziai a telefonare.
«Mamma? Sì, sono Sara».
«Sara, hai saputo?», mi rispose Anna, mia madre, in tono squillante. Aveva avuto me e mia sorella che era una ragazzina e oggi vantava ancora una presenza accattivante e giovanile, grazie a ore di palestra, creme e trattamenti ristrutturanti. Si era sottoposta a varie operazioni di ricostruzione del fisico, non sempre con risultati soddisfacenti e ora, anche d’estate, indossava abiti velatamente coprenti a nascondere le imperfezioni.
«Ho saputo dai giornali, mamma, nessuno ha avuto il buon gusto di avvertirmi. Neanche Leonardo!».
«È stata Marianna che non ha voluto, me lo ha detto tuo marito».
«Ex, mamma, ex da trent’anni!». E su questo agganciai la cornetta senza neanche salutarla.
Lo sapevano tutti tranne me, era qualcosa che mi mandava in bestia. Chiamai mio fratello per sfogare la rabbia: «Giulio? Sono Sara... fammi capire, ero l’unica a non sapere?».
«Ciao, Sara... Sapere cosa?».
«Non prendermi in giro... Marianna».
«Marianna cosa?».
Anche questa volta riagganciai, avevo vissuto in una famiglia di matti egoisti e puntualmente, proprio come ora, la mia opinione non veniva smentita.
Rimasi chiusa nella stanza a pensare e a cercare un modo per rintracciarla senza render conto a nessuno. Sapevo che Marianna voleva essere lasciata in pace ma io no, io avevo atteso trent’anni questo momento e ora dovevo parlare con lei, guardandola negli occhi. Non era certo facile uscire da un carcere e, dopo così tanto tempo, ritrovarsi in un mondo che non solo non ti appartiene – perché ha fatto i suoi conti senza di te – ma che non riconosci più come tuo. Trent’anni erano l’infinito. Erano l’età di mia figlia, erano i premi Nobel, il ponte su un passaggio di millennio, il cambio di una moneta, un presidente americano nero. Trenta anni erano il dolore di guerre perpetue in ogni luogo: di regressioni storiche e culturali. Ebbi un brivido all’idea di quanto Marianna avesse perduto e un poco di sollievo per un minimo che era riuscita a sapere, filtrato fra i mille rivoli che oltrepassano le sbarre di una prigione.
Perduta tra ricordi e cattivi pensieri, il cellulare iniziò a vibrare, detestavo le suonerie. Guardai il display e lessi: Leonardo.
«Pronto? Mi spieghi perché non mi hai detto nulla?», esordii aggressivamente senza neanche dargli il tempo di rispondere.
«Perché lei non ha voluto».
«Ripeti?».
«Perché lei non ha voluto».
Ammutolii, come se d’improvviso mi avessero aspirato l’aria dai polmoni. Chiusi anche questa chiamata con uno scatto d’ira. Aveva ragione mia madre, era lei che non voleva vedermi.
Presi la borsa, il cappotto e scesi al piano di sotto. Entrai nella stanza dell’ufficio del personale e balbettai un malore, avvertendo che sarei tornata a casa. Il volto doveva essere assai convincente perché il dottor Palombi, il responsabile, mi guardò preoccupato e con un cenno del capo mi fece segno di andare, senza alcuna obiezione. Scesi le scale di corsa, rabbiosa all’inverosimile. Non accettavo questo rifiuto, perché di rifiuto si trattava. Avevo atteso trenta maledetti lunghissimi anni questo momento e ora lei aveva deciso di no, che io non esistevo più. Appena salita in macchina cacciai un urlo talmente forte da sentire le corde vocali tendersi. Mi ricomposi e avviai l’auto per tornare a casa. Aprii la porta e, senza neanche spogliarmi, mi lasciai cadere sul divano nel salone. Chiusi gli occhi per un po’ e quando li riaprii guardai l’orologio: avevo dormito per più di un’ora. Avevo freddo e decisi di indossare un pigiama, era mattina ma sapevo che la giornata si sarebbe conclusa così, con me a gironzolare per casa, in cerca di nulla. Il freddo aumentò, non era spossatezza, o meglio non solo, era una bella influenza che mi aveva colpita. Non ci voleva. Dovevo essere reattiva, arrabbiata, ma il fisico lottava contro e cedetti. Mi infilai a letto, concedendomi un bel pianto sofferente. C’era un non so che di piacevole in quelle lacrime, mi cullai in quel dolore malaticcio fino a riaddormentarmi di nuovo. A svegliarmi questa volta fu mia figlia Virginia che, ansiosa come suo solito, continuava a strattonarmi.
«Mamma! Mamma, rispondi? Sei bollente!».
«Certo che lo sono – farfugliai con ironia – ho la febbre, puoi smetterla di urlare e scuotermi, grazie».
«Pure? Mi fai preoccupare e devo anche starmi zitta! Sono ore che ti chiamo!».
«Esagerata».
Virginia uscì dalla stanza imprecando. Si domandava perché continuasse a preoccuparsi per una madre che, nonostante fosse adulta, si comportava, a suo dire, come una ragazzina irresponsabile, incapace di badare a se stessa. Per lei, qualsiasi cosa fosse al di fuori delle regole del giusto vivere, che aveva coniato seguendo un suo particolare sistema fatto di orari, cibo sano e corretto movimento, significava essere immaturi; mentre io, fin da ragazzina, avevo scelto uno stile libero, artistico
, fatto di teatro, musica, vissuto alla giornata fino a quando non scoprii di essere rimasta incinta, allora tutto cambiò. Decisi di abbandonare l’università, la mia laurea in architettura e il padre di Virginia, per dedicarmi solo a lei. Feci un concorso pubblico alla Asl e lo vinsi. Tutto si sistemò, come volevano le buone norme borghesi delle mie origini. Avevo ora un lavoro stabile, una dimora fissa e una figlia poco meno che trentenne, ingegnere, e salutista.
Mi alzai a fatica, stordita raggiunsi la cucina dove Virginia era intenta, sempre borbottando, a preparare il giusto
pranzo.
«Marianna è uscita ieri...», dissi con voce spenta.
«Lo so».
«Lo sai? Anche tu? Ah, bene, molto bene! Qui tutti sanno tutto e io no e, di grazia, come fai a saperlo? Ah, certo... Tuo padre...».
«No. Dal giornale. Non lo compro soltanto, lo leggo ogni tanto», mi ribatté con quella ironia acuta che la faceva tanto mia figlia.
«E sai altro?».
«Cosa altro ci sarebbe da sapere?».
«Beh, per esempio, dove sia andata».
«Non mi pare che ci fosse scritto», continuò pungente.
«Anche spiritosa».
«Mamma, sono cresciuta nel sentir parlare di lei, di quello che eravate e di quello che siete. Tu e papà vi siete anche fatti la guerra per questo! Finalmente è fuori, tu ne sei contenta e anche io, credimi, perché, posso dirla tutta? Non ne posso più! Ora forse finirà tutto questo».
«Tutto questo, cosa?», sbraitai irragionevolmente.
«Questo». Rispose puntando il dito sulla mia veemenza, la mia ossessione e tutto quello che quei trent’anni avevano generato in me. Era solo l’inizio di quello che al momento appariva come il rigurgito di un passato che sarebbe esploso in tutta la sua prepotenza.
«Non sai niente, Virginia, non sai proprio nulla».
«Bene, meglio così».
Non replicai oltre e me ne tornai a letto. Sonnecchiando febbricitante, tutto il giorno e tutta la notte rimuginai sull’accaduto. La mattina dopo, se pur debole, avvertii che il malessere, quello fisico, stava migliorando, l’altro no, ma non potevo gestirne più di uno, per cui mi lavai, mi vestii e uscii. Virginia era già fuori, nessun ulteriore rimprovero mi avrebbe atteso. Adesso però volevo parlare con Leonardo, per cui decisi di raggiungerlo al suo ufficio.
Aveva lo studio in pieno centro, bello, accogliente e popolato di frenetiche segretarie dal seno traboccante e cosce lunghe esaltate da tacchi vertiginosi. Ero certa che molti dei suoi clienti avessero scelto di affidarsi a lui anche per il magnifico arredamento
. Ero invidiosa, questa era la verità. Invidiosa di quella bellezza fiorente, del benessere che mi mancava e che, per orgoglio, avevo rifiutato quando si offrì di mantenere me e Virginia. Un altro dei miei errori idioti che non facevano che confermare la teoria dell’accessorio.
Feci anticamera come una qualsiasi cliente, a Leonardo piaceva farsi attendere, soprattutto da me. Quando poteva, anche lui ci teneva a sottolineare che il suo ruolo nella vita non era di secondo piano, ma indispensabile.
«Può entrare, l’avvocato l’aspetta», cinguettò una degli orpelli. Mi alzai e con passo altezzoso e poco credibile raggiunsi la stanza in fondo al lungo corridoio, stretto e male illuminato, ornato qua e là di quadri di campagne romane in cornici di legno dorate da far inorridire ma che accentuava l’impronta barocca di tutto l’ufficio.
«Se sei qui per Marianna non ho altro da aggiungere», esordì il mio excompagnogentiluomo prima ancora di salutarmi.
«Beh, intanto buongiorno», ribattei con fare sarcastico accomodandomi sulla poltrona davanti a lui.
«Piantala, so bene perché sei qui».
«Se lo sai, allora rendimi felice e dimmi per quale diavolo di motivo Marianna non vuole vedermi. Sei stato tu, vero? Chissà cosa le avrai detto».
«Smettila, Sara! Il mondo non gira sempre intorno a te! Esistono gli altri, con le loro