Cuore di piombo
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Anteprima del libro
Cuore di piombo - Rosa Maria Ponte
Da sinistra: Gaspare Ponte (Carletto), Giusy Barbarino (Angelina),
Rosa Maria Ponte (Flavia).
Foto scattata a Palermo, nel parco della Favorita, alla fine degli anni Cinquanta, da Nino Ponte, zio dell’autrice.
Ai miei genitori e a Violetta
Le rose son rosse,
le violette son blu,
lo zucchero è dolce
come sei tu.
(versi tradotti dall'inglese
da Giuseppina Ponte)
In ogni istante della nostra vita
abbiamo un piede nella favola
e l’altro nell’abisso.
Paulo Coelho
1
Angelina
La stanza era illuminata dal chiarore incerto del PC che disegnava sulle pareti strane ombre pietrificate capaci di risvegliare memorie sepolte sotto schegge informi che, un tempo, rappresentavano le tessere del mosaico perfetto della sua infanzia felice.
I ricordi incalzanti, impropriamente resuscitati, proiettandola in un tempo fatto di cose colme di senso, le avevano messo la voglia, nonostante l’ora, di parlare con Angelina, l’amica di sempre, che viveva lontano e non vedeva da tanto. Ci rifletté un momento, era davvero tardi, ma prese lo stesso il cellulare e digitò il numero.
«Pronto!» rispose Angelina.
«Sono Flavia, scusami, forse ti ho svegliata, ma avevo desiderio di sentirti.»
«Oh, Flavia, che bella sorpresa mi fai! No, non dormivo, anzi ti stavo pensando. Come va la salute, ti senti meglio?»
«Proprio meglio, non direi. Sto come al solito, l’ultimo ricovero in ospedale non è servito a niente, ma non importa, non vi avevo fatto alcun assegnamento, rientrava nella routine, nel protocollo. Del resto, sono rassegnata, ma non ti ho chiamata per rattristarti, le cose andranno come devono andare, cosa vuoi farci? Vedi, in quest’ultimo periodo, costretta come sono a stare in casa, ho dato la stura ai ricordi traendone un certo conforto. Posso dire che, ormai, solo loro mi fanno compagnia e tu ne fai parte, diciamo pure che sei la protagonista indiscussa delle mie memorie d’infanzia, ma questo lo sai già!»
«Oh, sì, so bene cosa vuoi dire. Anche per me, del resto, i ricordi sono diventati importanti! Sapessi quanto tempo passo a rammentare fatti antichi ora che non devo più badare ai nipotini che si sono fatti grandi tanto che già vanno alla scuola media. Per dire la verità, mi sento una cosa inutile, un oggetto inservibile che forse, tra non molto, sarà di peso ai figli. Comunque, ora come ora, non posso lagnarmi della salute: i soliti problemi di cuore e di pressione che, però, riesco a mantenere sotto controllo con una massiccia dose di pillole! L’unica cosa di cui mi lamento è che mi sento troppo sola, forse perché nella mia vita piuttosto che coltivare veri interessi, mi sono dedicata interamente ai figli e ai nipoti, trascurando persino di curare qualche amicizia. Ed ecco i risultati: i figli sono grandi, i nipoti non sono più bambini da accudire, mio marito è venuto a mancare quando era ancora giovane, ed io mi ritrovo più sola di un cane al quale non manca certamente la compagnia dei suoi simili o l’attenzione del padrone, mentre a me non restano che le riunioni settimanali della Caritas e la messa della domenica e, qualche volta, come diversivo, il cinema, anche se ormai i film non sono più quelli di una volta. Oh, dio, quanto parlo! Non vorrei che tu mi ritenessi una vecchia brontolona logorroica!»
«Oh, no! Non parliamo di esser soli, a trent’anni lo ero già quando, uno dopo l’altro, ho perso i genitori. È difficile abituarsi, lo so, ma io ho avuto tutta una vita per farlo tanto che la cosa non mi pesa o, almeno, non sempre. Ma stanotte i ricordi…»
«Eh, la tua mamma e il tuo papà erano così amici dei miei! Ti ricordi le tombolate nelle sere d’inverno e il sette e mezzo e il mercante in fiera? Ma questi giochi esistono ancora? C’è qualcuno che tuttora li fa? Com’era bello allora! Anche se a quei tempi non esisteva la televisione trovavamo lo stesso il modo per divertirci. Allora c’erano tutti, anche il povero Luigino, mio fratello, sempre preso di mira durante la tombola, poveretto!»
«Certo che mi ricordo, negli ultimi tempi ci ho pensato spesso. E tu, ti ricordi di zia Violetta?»
«Come no! Era la sorella di tuo padre. Aveva sposato un tizio di dieci anni meno. Quante corna, poverina, aveva dovuto sopportare! Ti ricordi di quella storia della macchina rossa posteggiata ogni giorno, alla stessa ora, sotto gli alberi nel parco della Favorita? Alcuni che, passando da quelle parti, l’avevano notata avevano spettegolato che era l’auto del professore e che lui stava, sicuramente, in compagnia di una donna, sennò che ci stava a fare tra i cespugli? Allora le macchine rosse e, per giunta, di quel tipo erano poche, quindi c’erano scarsi dubbi che non fosse quella di tuo zio. Purtroppo le voci, gira e rigira, erano arrivate alle orecchie di tua zia che ne aveva fatto una tragedia. Tu mi dicesti che una volta l’avevi vista piangere davanti a tuo padre e che lui, invece di consolarla, aveva rincarato la dose! Chissà poi se quella storia era vera! Era davvero lui o qualcun altro con l’auto dello stesso colore? Questa cosa non si è mai saputa, è rimasta un mistero. Ora mi viene in mente tua zia quando usciva, di pomeriggio, con la cagnolina, lasciandosi appreso una scia profumata. Mi pare di sentire, in questo momento, quel buonissimo odore. Una volta, ci siamo accorte che, prima di andar fuori, si spruzzava un po’ d’essenza nel palmo della mano e la passava sul pelo della cagnetta. Anche il cane profumava! Un giorno, potevamo avere nove o dieci anni, curiosando nella toilette della sua camera, abbiamo scoperto che il profumo si chiamava Notte di Venezia. Aveva un flacone blu con l’etichetta dorata… Era così buono! Sai che, una volta, l’ho cercato in profumeria? Mi hanno detto che da tempo era stato tolto dal mercato. Anche i profumi passano di moda, chi l’avrebbe detto!»
«Questa storia del cane profumato non la ricordo anche se la zia, negli ultimi tempi, mi è stata presente quasi come da viva tanto che la considero la mia guida spirituale che mi conduce attraverso una ricerca che oserei definire molto azzardata per non dire pazzesca, perché non so ancora a cosa mi porterà.»
«Di che si tratta? Temo di non capirti.»
«Ti ricordi che una volta ti dissi di uno scatolone di libri che avevo trovato davanti alla sua porta di casa dopo la morte del marito che le era sopravvissuto una decina d’anni?»
«Altroché, lo ricordo perfettamente! Il fatto mi colpì molto. A quei tempi ero incinta di Marco e da poco ci eravamo trasferiti. Allora mi telefonasti per parlarmi di questo ritrovamento. Eri molto emozionata, ma io sapevo che per te i libri sono sempre stati la cosa più importante.»
«Tra quei libri ce n’era uno che la zia mi aveva mostrato una delle tante volte che ero andata a trovarla. Abitando al piano di sotto, non c’era giorno che non scendessi a casa sua. Si trattava di una novella di Oscar Wilde, Il Principe Felice…»
«Oscar Wilde? Ah, sì! Non era quel gay mezzo matto finito in prigione, perché aveva avuto una storia con un poeta giovanissimo? Grande scrittore, però! Conosco qualcosa di lui, delle commedie da cui hanno tratto film che certe volte danno alla televisione, ma questa del Principe non la sapevo. Hai detto che è una novella? No, non mi pare di averla letta. Che intendi dire quando parli di ricerca
, è qualcosa che riguarda il tuo lavoro di traduttrice o cos’altro?»
«In un certo senso sì, riguarda il mio lavoro, anche se non si tratta delle solite traduzioni che faccio per arrotondare la pensione. Il lavoro che ho iniziato questa mattina e che sto per finire, è una cosa che riguarda solo me.»
«Intendi dire che vuoi pubblicarlo a tuo nome? Brava, sono orgogliosa di te, tu almeno hai un’occupazione interessante!»
«No, non sarà mai pubblicato, è un lavoro privato che ho intrapreso per scoprire un messaggio che si trova racchiuso nel racconto anzi, penso che l’autore lo abbia scritto spinto dall’urgenza di comunicare la sua scoperta circa il destino dell’uomo e, nel caso particolare, per quanto mi riguarda, voglio credere che l’abbia fatto solo per me, quasi che sapesse che un giorno proprio io avrei avuto bisogno della sua confortante intuizione. Penso che, al punto in cui mi trovo, più di là che di qua, sia opportuno darmi da fare per conoscere in tempo quel che mi accadrà e, infine, credo di esserci riuscita.»
«Che cosa strana mi stai dicendo, Flavia! Quest’autore avrebbe scritto un racconto intorno alla scoperta del mistero che riguarda l’aldilà, vuoi dire questo, no? Mi fai venire i brividi, sai!»
«Sì, è così, e i personaggi e tutte le cose che descrive nella novella sono dei puri simboli, allegorie di una realtà segreta in grado di assumere varie forme. Nella pagina in cui sono arrivata dice la frase chiave: "non è la Morte sorella del Sonno?" Con questo vuole, di certo, significare che dalla morte ci si risveglierà come dal sonno e, poi, parla di un cuore di piombo spezzato, il cuore della statua del Principe che, gettato nella fornace di una fonderia non vuole saperne di sciogliersi, a rappresentare con ciò l’indistruttibilità dello spirito… Credo proprio che si tratti di questo.»
«Oh, sì, Flavia! Sono certa che questo racconto contiene un messaggio, ma, del resto, tutto ciò che un autore esprime in un suo scritto, romanzo, racconto o commedia, non racchiude sempre un qualcosa che vuole condividere con altri? Riguardo al nostro destino comune, è consolatorio pensare che esiste un risveglio. Anche la religione, del resto, lo promette e con ciò non voglio parlare di paradiso e di inferno semmai di una vita che continua in altri luoghi e in altre dimensioni… ma tu, Flavia, cerca di non scervellarti troppo, conserva le tue forze, fai di tutto, magari per distrarti. Un libro, un buon programma televisivo, non so… ma non ti fissare su cose che accadranno, quando verrà il momento che, magari, è più lontano di quanto immagini.»
«Sì, Angelina, sì, forse hai ragione, non bisogna affrettare i tempi. Ma ora devo interrompere, mi dispiace. Torno al mio lavoro, vorrei concluderlo in nottata. Addio, amichetta mia, addio!»
«Mi hai chiamato amichetta mia come una volta, perché? Mi dai da pensare, Flavia, che ti succede? Non ti ho mai sentito dire certe cose! In genere sei così serena, così forte… Cerca di stare tranquilla, magari nella novella troverai una notizia che ti consolerà, Dio lo voglia! Ti chiamerò domani, cerca di dormire bene stanotte, promettimelo. A domani, Flavia, a domani!».
2
Non è la Morte sorella del Sonno?
Un angolo della stanza era sempre illuminato dallo schermo del PC, ma le ombre avevano cambiato forma.
Flavia sollevò la testa dalla tastiera e guardò il cielo attraverso la finestra aperta. Sull’infinita distesa di stelle si stagliava, più nera della notte, la cima seghettata del banano che cresceva al centro del cortile.
Un tempo, guardandolo, le veniva in mente il viaggio a Cuba, l’unico viaggio che nella sua vita aveva intrapreso, pur avendo sempre desiderato di farne diversi. Ma questo, poi, non era accaduto, era rimasto soltanto un episodio al quale ormai non pensava quasi più, perché anche i ricordi importanti avevano perso la capacità di darle emozione. Ormai del povero banano, solitario, slanciato e bello, percepiva soltanto la sterilità, l’inutile sforzo stagionale di creare abbozzi di frutti che non sarebbero mai pervenuti a maturazione.
«Stupido albero, il solo guardarti mette tristezza!» mormorò.
Fece uno sbadiglio: aveva riletto tutta la traduzione prima di concluderla con le ultime righe, ma quando aveva incontrato la frase "Death is the brother of Sleep, is he not?" le dita le erano rimaste sospese sulla tastiera e il cuore le aveva fatto un balzo: finalmente aveva trovato le parole su cui si reggeva la fiaba e, forse, di conseguenza, anche la sua vita.
«Ah, ecco il segreto racchiuso nel racconto, non lo avrei mai immaginato, ma ora capisco!» aveva sussurrato.
C’erano voluti settant’anni di un’esistenza mediocre e la rilettura del testo nel momento estremo, perché scoprisse che la chiave della narrazione era la morte, il sonno portatore di oblio e la speranza nel risveglio, e non l’amore, come le era sembrato di comprendere, da bambina, quando zia Violetta, tra una lacrima e l’altra, le raccontava la fiaba del Principe, sedute, nel giardino dei ricordi, all’ombra del grande pino dai rami scuri e bassi che propagavano un odore ecclesiastico di resina e incenso.
E come avrebbe potuto recepire questo messaggio, se allora, per lei, la morte non era che una festa, la più bella dell’anno, da celebrare con mele verdi e olive, frutti di marzapane, un paladino di zucchero con piume sul cimiero e doni nascosti sotto il letto?
Ora invece la maledetta se la portava dentro, annidata nella parte bassa della pancia, da dove comandava a un muscolo di rattrappirsi fino allo spasimo, a membrane di lacerarsi al punto da strozzarle il respiro, alle vene di trasformarsi in filoni di lava, ma, dopo tutto, si era talmente abituata, che i dolori lancinanti le sembravano gli unici segnali di vita ancora percepibili che il suo corpo si degnava di emettere. Allora, quando non ne poteva più, si iniettava una dose di calmante e tirava avanti per un po’. Così man mano che il dolore si attenuava, riprendeva il controllo del corpo, ma non della sua mente, che sembrava appartenere a una zona estranea al suo dominio, per cui non riusciva sempre a frenarla. Le pareva che questa, talvolta, si trovasse sul punto di imboccare strade di non ritorno che, a stento, arrivava a sbarrare per tempo. Almeno, fino a quel momento, era successo così. Ma dopo? A quello che sarebbe accaduto in seguito non voleva pensare, non ne valeva la pena, anche perché l’inutile arzigogolare riusciva solo a stancarla.
Nell’ultima parte della giornata aveva lavorato senza sosta alla traduzione non concedendosi neppure un bicchiere di latte o un caffè, solo pochi attimi per riempire la siringa e poi, a notte fonda, una telefonata ad Angelina per comunicarle la sua intuizione e ora, si erano fatte le due, le due di notte, e c’era silenzio.
Improvvisamente, quella calma inquietante fu sovrastata da un frullio che le veniva da dentro. Sentiva, nel petto, agitarsi qualcosa come se una falena, in cerca di luce, dopo essersi intrufolata nel suo torace, restandone prigioniera, cercasse, inutilmente, di uscirne.
In quel mentre, la pendola del salotto batteva i colpi: don! don! le due di notte.
Quel suono che da bambina le dava sgomento, quando restava a dormire dalla nonna, ora, nel silenzio della casa le provocava paura, perché sapeva che quello era il momento in cui il mistero schiude la sua corolla rivelando un cuore nero, l’attimo dei fantasmi manifesti, l’ora in cui l’orologio, dopo i due colpi, interrompe lo scandito ticchettio, perché nell’assoluta sospensione temporale il Granchio Nero, correndo a sghimbescio, deponga uova letali tra i petali di fiori di velluto, esposti nelle vetrine di certi atelier di lusso della città, luogo che nei suoi sogni non era mai la stesso.
Quante volte aveva vissuto tutto questo nelle notti insonni e ogni volta col medesimo turbamento!
Ecco che l’ultimo rintocco, echeggiando nel vuoto, apriva le porte al cuore della notte, l’istante in cui tutto si interrompe per poi riprendere a segnare il tempo senza nulla cambiare dell’ordine naturale delle cose. Allora, dopo anni di ostinata, inutile lotta contro il passato, stanca di asfissiare con vani cavilli spettri tenaci, Flavia affidava, al momento conclusivo della vita, il carico degli eventi che avevano strutturato la fragile intelaiatura della sua esistenza nella speranza dell’oblio, se non di una rinascita, sotto qualsiasi forma, durante il ciclo perenne rinnovato dalla ruota del tempo.
Ancora lei non sapeva che, presto, tenuta per mano da chi nella sua vita aveva contato di più, avrebbe imboccato un tunnel lungo e buio prima di uscire, interamente rinnovata, a ritrovare la luce.
3
Anche il Principe Felice un giorno sarà così
Un sole pallido, scivolando sui tetti, si infiltrava tra i rami dei platani, disegnando sul marciapiede ritagli di merletto tremolanti al venticello di una tarda primavera.
Alta sulla città, su un’elevata colonna, dominava la statua del Principe Felice. Era tutta coperta di lamine d’oro, per occhi aveva due zaffiri splendenti e un grande rubino divampava sull’elsa della spada.
Così narrava zia Violetta, ripetendo l’incipit del racconto di Oscar Wilde, Il Principe Felice.
Seduta sulla panchina, sopra un tappeto di foglie riflesse, lei dondolava le gambette, coperte a metà da un gonnellino di lana azzurra riadattato da un vestito della mamma e con gli occhi rivolti in alto guardava affascinata la statua del cavaliere dentro la nicchia che adornava il prospetto del palazzo di fronte, nel Viale della Libertà.
Credendo che zia Violetta raccontasse di lui, con tono saccente che solo nei bambini riesce spontaneo, disse:
«Zia Violetta, ma il Principe non è come dici: non è d’oro, non ha occhi e non c’è una pietra rossa sopra la sua spada. È proprio malridotto, poverino, non sembra per niente un principe!»
«Anche il principe della fiaba un giorno diventerà così: perderà gli occhi, la doratura e il rubino sulla spada. In pratica resterà nudo. Aspetta la fine della storia e vedrai, Flaviuccia,» rispondeva zia Violetta, carezzandole la testa.
4
Assomiglia a un angelo
"Alta