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Il giorno in cui morì Alejandro Jodorowsky
Il giorno in cui morì Alejandro Jodorowsky
Il giorno in cui morì Alejandro Jodorowsky
E-book391 pagine27 ore

Il giorno in cui morì Alejandro Jodorowsky

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Info su questo ebook

La storia eccentrica di una separazione coniugale dal punto di vista di Marco, il figlio quattordicenne.

Una serie di eventi casuali e apparentemente insignificanti svela un intreccio temporale e affettivo, nel quale i protagonisti cambiano e si ripropongono vicendevolmente, in una dimensione dei ricordi che dalla vita adulta di Marco, scrittore astratto di professione, si trasforma in un viaggio iniziatico fino all’infanzia dei genitori.

Una rete di relazioni e vite parallele sorregge e incatena la trama famigliare, incontri fatali nei quali trovare significati e riferimenti, la narrazione dei sentimenti come filo conduttore nella ricerca impossibile del valore contraddittorio di domande ineluttabili.
Alejandro Jodorowsky diventa un personaggio della fantasia, il sinonimo imperfetto della sincronicità, mediante il quale scoprire un possibile legame fra gli eventi senza alcun nesso di causa ed effetto, e rivelare verità senza nome.

Questo romanzo è stato presentato come inedito al Premio Letterario Città di Siena 2019, dove in qualità di finalista ha ricevuto il Premio della Critica.
LinguaItaliano
Data di uscita5 ott 2020
ISBN9788868674908
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    Anteprima del libro

    Il giorno in cui morì Alejandro Jodorowsky - Franco Brighi

    136

    UNO.

    Avevo quattordici anni quando i miei genitori si sono separati; dopo l’estate, anzi, all’inizio di novembre. Quell’anno non eravamo andati in vacanza come d’abitudine. Avevo appena cominciato il liceo e mi sentivo grande.

    Come un fulmine a ciel sereno, io ho soltanto seguito gli eventi.

    Il babbo è andato via di casa.

    Ricordo che pochi mesi prima avevo preparato l’esame di terza media comodamente seduto in poltrona, un antico trono rivestito di velluto beige, consunto ma ancora vivo. Mi sentivo protetto mentre studiavo, l’eredità rimasta del nonno paterno, per modo di dire, non c’entrava niente con il resto dell’arredamento, è stata la mamma a volerlo conservare, una decisione preziosa come una fotografia d’epoca, un fantasma sempre presente ci guardava. Davvero un altare da rispettare, in un angolo della sala, di fianco al mobile della tivù, davanti alle mensole di una libreria. Il babbo l’avrebbe abbandonato al suo destino, come se non riconoscesse il valore affettivo degli oggetti, per lui i ricordi erano fastidiosi. Così ho pensato che studiando lì seduto, su quel trono tanto autorevole, avrei assorbito la forza e la sicurezza necessarie per affrontare il primo esame della mia vita. E così è stato.

    Quando il babbo e la mamma si sono lasciati hanno fatto tutto disordinatamente, anche se immagino non esista un ordine preciso e prevedibile per affrontare situazioni del genere. Una rivelazione formale e strozzata, secondo canoni condivisi e con un tono di voce artificiale e morigerato.

    Mi hanno fatto accomodare in sala, e io ho pensato bene di adagiarmi sull’atavico altare, come legato a un totem per il sacrificio. Loro sul divano, uno accanto all’altro, di fronte a me. Io però conoscevo già l’ineffabile verità e dovevo fingere, proprio come loro, incapace di agire diversamente.

    Era successo che qualche giorno prima il babbo mi avesse chiesto di aiutarlo a mettere alcuni libri, CD e DVD in uno scatolone; aveva una lista di quelli da prendere e portare via. Io non ho chiesto spiegazioni e l’ho aiutato a trovare quello che cercava. Abbiamo spostato la poltrona sacra dal suo angolo, temevo si lamentasse con qualche scricchiolio, ma probabilmente aveva voglia anche lei di sgranchirsi.

    Nelle mensole nascoste della libreria c’erano allineati tanti DVD, sono stato maldestro e nella fretta della curiosità ne ho lasciato cadere uno a terra, un film di Alejandro Jodorowsky , manco sapevo chi era. Nell’urto il disco è uscito dalla custodia e si è rotto, s’intitolava La montagna sacra. Il babbo si è arrabbiato senza farlo vedere, come sempre, era affranto e ha cambiato respiro, ma non ha avuto il coraggio di prendersela con me, si sentiva già troppo in colpa. Ha sollevato lo sguardo da terra ‒ dal disco spezzato ‒ e mi ha fissato negli occhi. Io lo stavo guardando immobile, aspettando la sua reazione. Dopo alcuni secondi di silenzio ha detto soltanto: «Mi dispiace, non ho mai visto quel film, e neanche gli altri di quell’autore. È l’ultimo regalo di Massimo, un amico importante, anche per te, è stato lui a farmi conoscere la mamma».

    Io non capivo di cosa stava parlando, ma ho pensato che dovevo riparare alla mia disattenzione: avrei cercato una copia di quel DVD per sostituire quella che avevo distrutto. Intanto il babbo aveva già raccolto i due pezzi rotti per riassestarli dentro la custodia, come niente fosse; evidentemente non aveva intenzione di vedere quel film. Che comportamento strano, sembrava non voler accettare che le cose cambiano inevitabilmente. Nascondere serve soltanto a rimandare, magari qualche volta sarà anche necessario, ma io ero ancora troppo giovane per comprenderlo. Avrei dovuto parlarne alla mamma, raccontarle il guaio che avevo combinato per farmi dare il denaro utile a rimediare. E poi chissà perché pensavo che quel tale Jodorowsky fosse morto, era un film molto vecchio, non capisco come possono articolarsi i pensieri e le associazioni in funzione di oscure finalità, ma in quel momento non m’importava di certo.

    Percepivo la tensione nell’aria dentro casa, una rabbia sottile e invadente che squartava parole e sguardi, soprattutto quando in giro c’erano entrambi i miei genitori.

    Da un po’ di tempo le cose andavano così, non bene. Io m’isolavo per farmi i fatti miei, ma se il babbo chiedeva un favore non potevo certo rifiutare. Lui metteva a posto i suoi scatoloni, in mezzo alla sala. Li riempiva con ordine, ma non era una situazione normale, quotidiana, dunque ho voluto credere che avesse intenzione di liberare un po’ di spazio, rinnovare qualcosa finalmente; per non dover credere altro, perché ho avuto paura dei miei presentimenti, li chiamavo con questo nome per scaramanzia, sapevo come sarebbe andata.

    Non gli ho chiesto nulla per non metterlo in imbarazzo, non c’era bisogno, mi mostravo tranquillo, neanche rassegnato per non lasciar presupporre una possibile delusione. Non volevo affatto infastidirlo, andava tutto bene, fino alla morte, e io non ce la facevo proprio a raccontarmi ‒ e soprattutto dire a lui ‒ che il suo comportamento era assurdo, superficiale e rozzo. Non potevo pensare che mi avesse chiesto di aiutarlo a portare via la sua roba senza spiegare perché, allora ho preferito illudermi che magari credeva che la mamma me ne avesse già parlato, e lui non voleva certo tediarmi ripetendomi più o meno lo stesso discorso. Anzi era pure premuroso, perché se mi avesse detto le stesse cose in maniera diversa ‒ che poi avrebbe significato distorta ‒ io mi sarei confuso e si sarebbe generata ansia dentro di me, sufficiente a mettermi ulteriormente in difficoltà in un momento già difficile. Osservavo i suoi gesti con tenerezza mentre sistemava ordinatamente i CD; un uomo assiduamente preciso, anzi ossessivo. Non riusciva più a guardarmi, era diventato sfuggente, allora gli chiesi di raccontarmi cosa accadde quella volta, quando il suo amico gli presentò la mamma.

    «Non me l’ha presentata formalmente, non ho mai capito che rapporto ci fosse fra di loro, si conoscevano praticamente da sempre, un’amicizia speciale, la chiamavano così, compagni di classe al liceo. Anzi no, mi confondo, hanno condiviso un sacco di cose, dopo l’esame di maturità la mamma è andata con lui a fare un viaggio di iniziazione e di liberazione, un mese in Spagna, chissà come funzionano certe storie, tenda e ostelli, affinità elettive.»

    Incredibile, il babbo non mi aveva mai detto tante cose importanti tutte in una volta. Era capace di parlarmi per ore di qualsiasi argomento sportivo, poi di cinema e musica rock, e bla bla bla, ma di se stesso o comunque di qualcosa che riguardasse la sua vita mai. Neanche sapevo come si erano conosciuti i miei genitori.

    Io per proteggerlo immaginavo un possibile discorso di mia madre, mentre depredavo le mensole dell’elegante libreria in ciliegio.

    «Caro Marco, tuo padre andrà via di casa per un po’, fra me e lui le cose non vanno bene e abbiamo bisogno di riflettere.»

    Non si dice così in queste occasioni? Forse l’ho letto, oppure visto al cinema, sentito dire in giro, non cambia nulla. Poi ho pure pensato che fosse opportuno soprassedere su tanta stupidità ammucchiata in una frase ancorché semplice, meglio lasciar perdere. Non riuscivo a immaginare parole più intelligenti, o anche solo più originali e ricercate, insomma che dimostrassero che la mamma si era impegnata per trovare un modo giusto per dirmi il necessario. Anche se è impossibile non significa che non valga la pena provarci.

    E invece vedevo solo la loro tristezza, la frustrazione e tutto il resto, una rassegnazione irrimediabile che li invecchiava soltanto, in questo erano simili, il babbo davanti a me, già sudato e affaticato, e la mamma dentro la mia testa. Due sere prima eravamo andati a cena fuori, un’abitudine inveterata e piacevole. A tavola si stava bene, degustavamo cibi e vini, e si facevano commenti su argomenti inutili, le chiacchiere amabili del niente, una fuga indispensabile. Abbiamo continuato per anni ad andare a cena al ristorante una sera alla settimana, solo noi tre, l’ultima volta il giorno del mio ventesimo compleanno, una giornata particolare per altri motivi, che ho scoperto poi, una realtà diversa e parallela, la magia è necessaria alla sopravvivenza.

    Ho sempre creduto a mio padre, nonostante il suo lavoro. Un avvocato affermato e temuto, ben retribuito, al punto che potevamo considerarci quasi ricchi, ma per non pronunciare quella parola tanto brutta e malaugurante in famiglia si diceva solo che eravamo benestanti, per rasserenarci.

    Con il suo mestiere parlava spesso della giustizia e della verità, ma ho imparato che non c’entrano l’una con l’altra. Ho continuato a credere alle sue parole perché mi piaceva ascoltarlo, del resto era il suo lavoro, anche se avevo capito che la ricerca della verità non era il suo scopo, ma il raggiungimento del suo scopo doveva essere la verità. Fittizia, buona o cattiva, tutti aggettivi superflui. Anche per questo motivo probabilmente mi andava bene così, che lui non parlasse oppure che parlasse del niente, era pure un tifoso di calcio, e addirittura ogni volta che c’erano le Olimpiadi prometteva che per l’edizione successiva, cioè quattro anni dopo, si sarebbe organizzato per andarci tutti insieme, in vacanza per tre settimane. Mai fatto, ma non m’importava, quando lo diceva era entusiasta e quindi lo ero anch’io.

    In quei giorni ho spesso cercato una finestra nell’aria, per guardare fuori, ammirare curioso una realtà diversa, un possibile mondo altro, virtuale o reale, magari vedere un padre che se ne andava via, quale strada avrebbe preso, io avrei potuto seguirlo. Una parete della sala era una grande porta finestra affacciata sul giardino, in quella stagione ancora completamente chiuso dalla folta siepe di vite americana le cui foglie rigogliose cambiavano colore prima di cadere, il momento più spettacolare del ciclo vitale di quella pianta, da verdi sgargianti le foglie diventavano gialle, arancioni, blu, viola e rosse, un carnevale fuori stagione. Mi piaceva stare alla finestra all’inizio di novembre ad ammirare quell’arcobaleno di colori felici. Ho immaginato di vedere mia madre, in quel momento al lavoro in sala operatoria, medico anestesista che gestiva la vita e la morte delle persone, e lo fa tuttora, ma lei per sopportare una responsabilità così grande usa altre parole: lei addormenta le persone e poi le risveglia, le fa dormire quando occorre, e robe del genere che non c’entrano. Solo maschere per coprire la realtà.

    È diventata un’abitudine, una comodità per evitare sussulti, poi una necessità. Il tempo che passa è una strada che diventa sempre più impervia, la vita e la morte sono parole difficili, come giustizia e verità per mio padre; per sopravvivere a cose troppo grandi i miei genitori hanno dovuto mistificare la realtà fino a perdersi, dentro questa famiglia perfetta, lieta, protettiva. Sembra che sia crollato tutto all’improvviso per colpa di un terremoto, un evento catastrofico fortuito e imprevedibile, ma non è vero niente, la distanza è una contemplazione anche attraverso finestre immaginarie disegnate nell’aria solo con la fantasia, qualche volta è possibile attraversarle, non c’è mai il tempo.

    Quella mattina quando abbiamo terminato di riempire i tre scatoloni che mio padre aveva portato, ho alzato gli occhi verso di lui, che era assorto nei suoi pensieri, poi ho guardato intorno, avevamo preso un bel po’ di libri dalle mensole, forse altri oggetti, non si notava la differenza. Il vuoto era stato scavato dentro di me, una vertigine fra il cuore e lo stomaco. Ho sentito una tristezza improvvisa, forse c’era già ma io me ne sono accorto soltanto in quel momento, una tristezza glaciale e paralizzante, quasi una difesa da un mistero trasparente. Mio padre e mia madre si stavano separando e io non ne sapevo nulla, potevo solo inventare il futuro. Credevo di averli visti felici, come nelle favole, in un tempo remoto e impalpabile, chissà se era vero, le foto appese alle pareti c’erano ancora, loro due abbracciati e sorridenti, la mamma le ha tolte pochi giorni dopo. Mettevano di buonumore.

    Ho vaneggiato smanioso che mio padre si aspettasse altro da me. Il suo sguardo m’incuriosiva, era capace di trasmettermi inquietudine e malinconia, guardava oltre, attraverso una porta invisibile, o forse una finestra, un punto preciso e indefinito, nell’aria. E intanto era presente, osservava attento, posso soltanto considerarlo un padre amorevole e premuroso. Ma sempre altrove, un pezzo del suo cervello, una parte dei suoi pensieri, finanche del suo sistema sensoriale e percettivo, addirittura della sua anima ‒ si potrebbe raccontare in tanti modi, le parole sono ingannevoli ‒ una parte di lui era assente, concentrata su un punto misterioso del mondo, forse dove avrebbe voluto stare, e andarci probabilmente da solo. Odiavo quella parte di lui che non conoscevo, che nascondeva eppure mostrava, sentivo di essere un estraneo, non so perché. Ero suo figlio. Raccontava che insieme eravamo una famiglia felice, io lo ero. Un’illusione.

    Un ricordo d’infanzia: io abbastanza piccolo che ancora lui mi portava sul sellino agganciato al manubrio della sua luccicante bicicletta nera, come intercalare capitava spesso che mi portasse a fare una passeggiata fino all’aeroporto, poco distante da casa. Ci fermavamo poi sull’ampio terrazzo panoramico che sovrastava le piste di decollo per guardare gli aerei che si alzavano in volo. Era uno spettacolo bellissimo, potevamo andare ovunque, a mio padre piaceva molto, e quindi anche a me. Sembrava stupirsi ogni volta, chissà se fantasticava di viaggi lontani verso mondi sconosciuti, comunque era lì con me, e vedendolo felice anch’io ero felice, gli aerei non li capivo ma non mi annoiavano come la televisione.

    Ho insistito, ho chiesto di nuovo al babbo come aveva conosciuto la mamma, volevo tornare indietro nel tempo per salvare il presente, chiamavo ancora presentimento quello che stava già accadendo. Gli scatoloni traboccanti, mio padre si è accasciato nella poltrona del nonno, non lo faceva mai, forse non se n’è accorto, allora mi sono seduto anch’io, sul divano di fronte a lui, mi ha raccontato una favola.

    «Nel 1980, al cinema, è stata la prima volta che l’ho vista. Io ero con un amico e compagno d’appartamento ai tempi dell’università, qualche volta si usciva alla sera, ricordo ancora il film, Chiedo asilo di Marco Ferreri . Lei è capitata seduta accanto a me, già in compagnia di Massimo. Ci siamo guardati, un’occhiata rapida e folgorante, le luci della sala erano accese, e morbide. Poi lei si è subito scambiata di posto con il suo amico, o accompagnatore. Ebbene, io ho cercato il mio pacchetto di sigarette nella tasca del giubbotto, appoggiato sullo schienale della fila davanti, ma non l’ho trovato, anzi l’ho tirato fuori ma era vuoto, un accidente impossibile, mai accaduto prima, e neanche dopo. C’era ancora qualche sala cinematografica trasgressiva, per fumatori. Il mio estemporaneo vicino di posto si è rivolto a me con gentilezza: Se ti vanno bene io fumo queste…. Teneva in mano il suo pacchetto di sigarette, neanche a farlo apposta le stesse che fumavo io, Camel senza filtro, non ricordo se gliel’ho pure detto, comunque ne ho presa una, ovviamente l’ho ringraziato e ho cercato il mio accendino. Assurdo, neanche quello avevo, la serata doveva fatalmente andare così, chissà perché. Impeccabile il mio vicino è stato di nuovo tanto gentile quanto rapido a porgermi il suo Zippo, e qui è intervenuto l’imprevedibile. Le luci in sala si stavano spegnendo, la mia attenzione vagamente distolta, ho acceso la sigaretta e invece di riconsegnare l’accendino al suo proprietario l’ho messo incautamente e sfacciatamente nella tasca del mio giubbotto, un gesto abituale, senza pensarci, non l’ho fatto apposta, sono stato sbadato. È cominciato il film, chissà cosa avrà pensato il mio vicino di posto."

    Raccontava la storia come una favola, senza leggere da nessuna parte. Il suo sguardo era malinconico. Mi sono sentito in imbarazzo, andava tutto bene, che bisogno aveva di farsi conoscere proprio da me? Ormai sono arrivato con l’esperienza a credere davvero che nelle relazioni importanti, quelle dove i sentimenti ti fanno sentire vivo e speri non finiscano mai, i cosiddetti valori come la sincerità o la verità sono determinanti qualche volta, e qualche altra invece le bugie e le parole non dette sono fondamentali per la sopravvivenza, come l’anestesia prima di un intervento chirurgico per evitare di soffrire. Avrei preferito non sapere tutta quella storia che mio padre mi stava raccontando, l’ho capito mentre lui me la svelava. Ho sentito un peso allo stomaco, una specie di nausea che conoscevo già, e avevo imparato a riconoscerla come un segnale, ogni volta che succedeva dovevo allontanarmi dal contesto nel quale mi trovavo, aprire la porta d’ingresso e uscire per respirare mi faceva apprezzare il sapore dell’aria divorata a bocca aperta, il corpo si acquietava.

    Mio padre ha continuato a raccontare. «Poi mi sono lasciato coinvolgere dal film e ho ripensato all’accendino solo quando si sono accese le luci, mi sono alzato e ho preso la giacca, allora mi sono girato ma il ragazzo seduto accanto a me era già andato via. L’ho cercato con lo sguardo, era in fondo alle scale ormai vicino all’uscita, insieme a tua madre. Anche a venti metri di distanza lei era molto bella, come avvolta da un’aura. L’ho seguita con gli occhi mentre usciva dalla sala, mi sono voltato verso il mio amico, ancora seduto che leggeva i titoli di coda, e gli ho detto: Cazzo, gli ho rubato lo Zippo. Lui mi ha guardato ma non ha risposto, chi si ricorda. Il mio amico Davide un dotto letterato, mi ci aveva portato lui al cinema, se ne intendeva e io lo seguivo. Abbiamo fatto il liceo insieme, siamo arrivati entrambi in ritardo il primo giorno di scuola, e così ci siamo accomodati all’unico banco ancora vuoto, in prima fila. Insomma, siamo diventati subito compagni per caso, gli unici posti non occupati, una condanna, non per noi. Invece siamo stati bene, eravamo complici, è stata una bella amicizia, è andata avanti per molti anni dopo la fine del liceo, non lo so perché ci siamo persi di vista, ormai non è importante."

    Si è fermato un attimo e ha abbassato lo sguardo come se cercasse qualcosa.

    «Comunque, anche il suo ruolo quella sera è stato decisivo, fuori dal cinema ci siamo fermati in un locale lì vicino per prendere un caffè, ricordo bene che è stato lui a insistere, io sarei tornato subito al mio appartamento. Dentro il bar, in piedi al bancone, mi ha detto: Guarda là chi c’è! indicando con un cenno del capo due ragazzi seduti a un tavolino. Erano proprio loro, tua madre e il proprietario dello Zippo. Li ho osservati sereno, poi ho guardato Davide e gli ho detto: Che faccio, vado? e lui Andiamo!. Ci siamo avvicinati ai due ragazzi e io ho tirato fuori dalla tasca della giacca l’accendino per restituirlo al legittimo proprietario, il quale ha sorriso e ha cominciato a parlare senza indugio: Davvero un bel film, originale e appassionato.

    Diverso da quello che mi aspettavo da Marco Ferreri, e anche Roberto Benigni una rivelazione, sembrava curioso. Massimo, poi si è presentato con questo nome, anche se ho pensato che forse non era quello vero, ci ha invitato a sederci al loro tavolino per chiacchierare un po’, sempre un piacere conoscere persone nuove, Massimo e Davide hanno continuato il loro discorso sul film, tua madre restava in silenzio, io anche, ci siamo guardati, prima di sfuggita, poi più decisi, alla fine abbiamo cominciato a chiacchierare, per forza, mica potevamo stare lì a osservarci e basta, io l’avrei anche fatto, ma diventava una situazione imbarazzante. Non ricordo certo di quale pretesto abbiamo parlato, lei portava i capelli a caschetto, quasi neri e fulgenti, come gli occhi scuri e luminosi, e gli orecchini d’oro pendenti con una pietra preziosa incastonata rossa. Il suo amico frequentava il DAMS, aveva qualche anno più di lei sicuramente, forse la mia età; si conoscevano dall’infanzia, vicini di casa, lui una specie di fratello maggiore, o di principe azzurro, comunque è stato per lei un riferimento eterno da cui si sentiva protetta, insostituibile. Un intrattenitore simpatico. È saltato fuori durante la conversazione improvvisata di quella sera che stava giusto preparando la tesi di laurea sulla poetica del cinema di Ferreri, aveva pure in programma di andare a incontrare il grande regista a Roma per un’intervista. Indubbiamente cortese e garbato, conosceva il galateo, ma sempre un accentratore, un istrione da salotto. Già quella sera ho capito che fra tua madre e quel ragazzo c’era un legame profondo, scavato nella memoria evidentemente, loro due non c’entravano nulla l’uno con l’altro, lei così delicata e timida eppure attratta dall’esuberanza di quel gigione. In realtà non ci avevo capito niente, ero superficiale e frettoloso, ho sentito la smania di conquistare lei quasi come una sfida.»

    Io non avevo certo bisogno di quel disordine, non aveva alcun senso che mi raccontasse i fatti in quel modo tanto nostalgico e intimista, come se stesse parlando con un amico invece che con un figlio quattordicenne. È sempre stato così in casa mia, un ordine luccicante e rassicurante, inventato per nascondere un disordine interiore, profondo, la mancanza di un centro di gravità, o di una direzione da seguire, e i rapporti costruiti per mascherare la fragilità, la precarietà, l’angoscia. Sembrava tutto bellissimo. Quasi per forza, come un ritornello, i miei genitori erano forti, un ruolo sociale sicuro, e un mondo interiore dimenticato, con sentimenti impazziti e ingestibili che alla fine hanno travolto tutto, come un refolo di vento invisibile che abbatte inesorabilmente un mirabile castello di carte.

    Allora ho provato a cambiare discorso, non volevo ascoltare mio padre nostalgico come un adolescente; era frastornato. Ecco, spesso ho percepito i miei genitori fuori tempo, fra di loro, con me, nelle occasioni della vita, come se avessero suonato strumenti in playback, qualcosa del genere, meglio fingere per non stonare.

    «Quindi senza i vostri amici non vi sareste mai conosciuti quella sera, forse erano angeli custodi!»

    Credevo di scherzare, non ero dell’umore giusto ma avevo imparato anch’io ad andare fuori tempo all’occorrenza.

    «Quando ho cominciato a uscire con tua madre gli incontri con Davide si sono diradati, con la scusa del lavoro. Gli ho detto che avevo una ragazza e lui si è dileguato, non avevo capito di avergli fatto del male. Un po’ alla volta ci siamo persi di vista, senza bisogno di dire sciocchezze, negli anni ho continuato ad avere sue notizie solo occasionalmente, quasi per abitudine; lui ha lavorato come ricercatore in università, poi è finito a insegnare lingua e letteratura italiana a Londra. Vive là da anni ormai, spero stia bene, non ho più avuto notizie. Se quella sera non avesse avuto un impellente bisogno di un caffè non avrei mai conosciuto tua madre.»

    «E io non sarei mai nato, dovrei ringraziarlo.»

    Ho sentito la chiave nella serratura del portone d’ingresso, il quale si affacciava direttamente sulla sala, dove noi ancora brancolavamo in cerca di un senso. Mia madre è rientrata al suo orario abituale, mio padre credo volesse essere già fuori prima che lei tornasse, o forse no, abbiamo perso tempo per incontrarla, senza pensarci, per vedere cosa sarebbe successo, le storie hanno sempre un finale diverso quando sono vissute invece che raccontate.

    La mamma è entrata in casa come tutti gli altri giorni, senza indugio o sorpresa, il babbo si è alzato, un attimo lunghissimo, un momento nuovo, si sono fermati entrambi, gli sguardi immobili, non so quali bugie volessero dirsi, forse nulla, oppure neanche loro sapevano. Ho potuto soltanto osservare e immaginare; non era una situazione normale. È strano il ricordo di momenti della vita per i quali le parole non esistono, soltanto una sospensione del tempo e pertanto di tutto il resto. In quella fusione di sguardi c’era una storia da rivelare, lunghissima ma durava solo un attimo; sì potrebbe anche dire così, e senza le parole per raccontarla. I sentimenti e il mondo interiore degli esseri umani nascondono misteri eterni e inesprimibili, dirlo in questo modo è più facile.

    Poi è tornato tutto nella normalità, concreta e reale. La mamma ha chiesto al babbo: «Ceni con noi?» una domanda senza alcun senso nella nostra abitudinaria quotidianità famigliare, ma in quel momento adeguata quasi per automatismo, l’espressione di un desiderio.

    Il babbo pronto a portare fuori di casa tre pesanti scatoloni pieni di roba sua e – questo lo aggiungo io – incerto sul da farsi. Credo che quella situazione fosse improvvisata, per modo di dire: non dovevano incontrarsi per caso, magari si erano messi d’accordo, e lui avrebbe dovuto essere già uscito quando lei tornava; conosceva bene i suoi orari, lo faceva apposta, e forse per questo motivo mi aveva chiesto di aiutarlo, aveva fretta, o forse no, magari desiderava altro, neanche sapeva il resto. Anche la mamma non è rimasta sorpresa di trovarlo lì quando è rientrata, sembrava pure contenta e arrabbiata, o almeno infastidita, non ci capivo niente, in certe situazioni apparentemente anomale i sentimenti sono talmente mescolati, confusi e contraddittori, persino indipendenti, al punto che non è possibile capirci qualcosa, bisogna difendersi e basta, aspettare che la tempesta passi senza restarne travolti, come in alto mare; ammainare le vele e starsene sottocoperta.

    Tuttavia lui mi ha risposto «Sì, torno a cena» poi ha guardato i suoi scatoloni.

    Ripensandoci con maggiore attenzione quella risposta si riferiva a un’altra domanda, che però la mamma non aveva fatto. Fra di loro funzionava spesso così: dialogavano e si impegnavano per ascoltare, come se il discorso seguisse un filo logico, ma in realtà ognuno parlava da solo, cioè faceva domande a qualcuno dentro di sé, non all’altro di fronte, e rispondeva a quel qualcuno dentro di sé e mai all’altro di fronte, solo con la voce.

    Si erano accordati perché mio padre venisse a casa a prendere le sue cose quando mia madre non c’era per non incontrarsi, come prescritto dal galateo. Uno stile e un ordine, e in quel momento lui era pronto per uscire e portare via gli scatoloni, ma lei gli ha chiesto Resti a cena?, che evidentemente contraddiceva tutto il resto. Ho pensato che in realtà la domanda fosse rivolta a qualcuno che lei non voleva andasse via, forse l’uomo in carne e ossa con il quale si era accordata. Oppure un altro dentro di sé, che mia madre immaginava non si trovasse lì per caso, ma che aveva intenzionalmente ritardato i tempi ‒ o anche no, magari esiste davvero l’inconscio che agisce per conto suo, non cambia niente ‒ ed era rimasto proprio perché desiderava incontrarla, e non andarsene. Solo una fastidiosa quanto misera cattiveria può indurre a credere che si tratti di abitudini. E lui che risposta ha dato? Sì, torno a cena, che non è una facile abbreviazione, non ha saltato un passaggio in maniera arguta ed elegante, ha semplicemente risposto a un’altra domanda; chi poteva avergliela fatta se non un’altra persona dentro di lui, anche soltanto fra i suoi pensieri. Era lui stesso, che aveva programmato di andare a prendere le sue cose per portarle via, in una casa diversa – questo facevo finta di non saperlo – ma poi avrebbe desiderato tornare nel luogo che nella realtà crudele non era più la sua casa, o forse sì ancora per un po’, per qualche giorno, ma nella sua testa, o nel suo cuore o chissà dove, per sempre.

    In fin dei conti nessuna logica poteva spiegare il senso di quel rapido botta e risposta: Resti a cena? rivolto a chi sta per andarsene e che si trovava lì ancora sul punto di uscire subito, e Sì, torno a cena appena dopo avere sistemato in tre scatoloni oggetti vari da portare via. Ho capito che non si trattava di una vacanza, una pausa di riflessione, come l’avrebbero chiamata loro qualche giorno più tardi seduti di fronte a me. Quando parti per una vacanza e qualcuno di famiglia ti chiede se resti a cena puoi rispondere Sì, parto domani oppure Non posso, devo partire, ma certamente non rispondi Sì, torno a cena. Senz’altro fra restare e tornare avevano fatto confusione, e io ho dovuto fantasticare tutte le possibili risposte e soluzioni ai miei dubbi. In quel momento non la chiamavo angoscia; il babbo che guadagnava un sacco di denaro e la mamma anestesista conoscevano bene come mascherare le sofferenze e nascondere i problemi, in questo erano simili, una bella intesa.

    Un attimo dopo la mamma ha fissato me, ma non aveva il solito sguardo beato e severo, era imbarazzata, un dolce saluto Ciao Marco e non ha detto altro. Allora anche il babbo mi ha guardato, poi si sono scrutati di nuovo, devono avere intuito che qualcosa non andava, una stonatura imprevista, avevano perso il controllo della situazione, non erano abituati, e io all’improvviso ero un problema da affrontare. La mamma si è rivolta e me: «Dobbiamo parlare».

    «Non adesso» è intervenuto il babbo.

    Non sapeva cosa dire, lui i discorsi li preparava la sera prima. Spesso dopo cena si chiudeva nel suo studio fino a tardi, lo so perché qualche volta sono rimasto sveglio apposta, per ascoltare quando usciva dallo studio e richiudeva la porta, poi entrava in camera mia per rimboccarmi le coperte e darmi un bacio piano, e io facevo finta di dormire. La mamma voleva essere conciliante: «Ok, domani sera».

    «Non posso, devo preparare un’udienza importante.»

    «E io la sera dopo faccio il turno di notte in ospedale.»

    Pertanto, quel dobbiamo parlare è stato rinviato a tre sere dopo, ma hanno sbagliato ancora, senza saperlo, quando si comincia con gli errori s’innesca un meccanismo a catena, un abbaglio dopo l’altro, un precipizio dove rotolare verso il basso senza possibilità di fermarsi. Io non potevo aspettare tre giorni per parlare, sapevo già quello che dovevano dirmi. E invece ho dovuto farlo, come niente fosse, loro erano capaci di riconoscere i loro errori ‒ ovviamente soltanto dopo averli fatti ‒ non serviva a modificare l’ordine degli eventi, ci sono errori che possono essere fatti una volta sola, non c’è nulla da imparare per non ripeterli, bisogna stare attenti. I miei genitori si sono separati una sola volta nella vita, l’unica volta che io ho avuto quattordici anni.

    Il babbo ha preso bruscamente il suo parka verde dall’attaccapanni, ma non voleva intendere un gesto di rabbia, più una frustrazione sommessa; l’ha indossato frettolosamente sopra la divisa Champion, lui non metteva mai la tuta da ginnastica quando usciva, e anche in casa soltanto quando era sicuro ma proprio sicuro di non dover uscire per forza. Quando stava comodo chiudeva anche il portone con il catenaccio e non rispondeva al telefono o al citofono. Non era mai possibile stare rilassati e tranquilli, una contraddizione incombente senza fine. Quel giorno però la situazione luccicava diversa dal solito, il babbo era arrivato da fuori in tuta ‒ chissà dove l’aveva presa ‒ ho pensato che arrivasse già da un’altra abitazione allora; un indizio inusuale. Io mi sarei anche rasserenato sapendo che non doveva andarsene, la sua presenza è sempre stata rassicurante, anche se non si stava concretamente insieme. Mi piaceva immaginarlo impavido, se non fosse che doveva rinchiudersi in casa e blindare la sua esistenza da presumibili imperscrutabili pericoli provenienti dall’esterno. Altrimenti no, era perpetuamente sul chi va là, pronto per uscire o ricevere chiamate improvvise che lo richiamavano all’ordine delle cose, quelle della sua vita dove io non c’entravo, per cui non poteva affatto starsene in tuta, neanche con le scarpe da ginnastica.

    Quel giorno quando ha indossato il parka ho pensato che se davvero arrivava da chissà dove allora si trattava per forza di una situazione assolutamente fuori dall’ordinario, anzi fuori dai principi che avevo abitualmente conosciuto.

    Poi ha aperto la porta, la mamma nel frattempo era andata in cucina e aveva scrutato la dispensa in cerca di un ordine, come sospesa in un tempo indefinito. Il babbo mi ha chiesto di aiutarlo a portare fuori

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