Cardinali e cortigiane
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Un libro di denuncia storica e sociale che smaschera la stretta connessione tra potere clericale e depravazione: cardinali gaudenti, vescovi donnaioli, preti pedofili e diaconi omosessuali. Uomini di fede circondati da donne affascinanti, libertine e dissolute. Il lungo periodo che si snoda tra il Quattrocento e i nostri giorni è stato teatro di vizi e crimini di ogni tipo: dai comportamenti lussuriosi di Imperia e Veronica Franco agli assassinii e alle cospirazioni dei cardinali Borgia e del camorrista Carlo Carafa, dai traffici commerciali di Pietro Aldobrandini e Scipione Borghese alle trame politiche di Richelieu, Mazzarino e Talleyrand, dagli intrighi di Donna Olimpia Maidalchini e Madame de Pompadour a quelli della contessa di Castiglione e dei cardinali dell’Opus Dei. Una parabola sconvolgente che svela seicento anni di corruzione e perdizione. Un’indagine sulle perversioni nascoste dei custodi della fede cristiana.
Dall’autore del bestseller La santa casta della Chiesa una nuova indagine sugli scandali della chiesa cattolica
Claudio Rendina
scrittore, poeta, storiografo, vaticanista e romanista, ha legato il suo nome a opere di successo, pubblicate dalla Newton Compton, tra cui ricordiamo: I papi. Storia e segreti; La grande guida dei monumenti di Roma; Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità di Roma; Guida insolita ai misteri, ai segreti alle leggende e alle curiosità del Tevere; Alla scoperta di Roma; Le chiese di Roma; Storie della città di Roma; Le grandi famiglie di Roma; Cardinali e cortigiane; La vita proibita dei papi; 101 luoghi di Roma sparita che avresti voluto e dovuto conoscere; 101 misteri e segreti del Vaticano che non ti hanno mai raccontato e che la Chiesa non vorrebbe farti conoscere; La santa casta della Chiesa; I peccati del Vaticano e L’oro del Vaticano. Ha diretto la rivista «Roma ieri, oggi, domani» e ha curato La grande enciclopedia di Roma. È socio del centro studi G.G. Belli. Attualmente firma per «la Repubblica» articoli di argomento storico, artistico e folkloristico.
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Anteprima del libro
Cardinali e cortigiane - Claudio Rendina
30
Prima edizione ebook: ottobre 2012
© 2007 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-4698-3
www.newtoncompton.com
Edizione digitale a cura di geco srl
Claudio Rendina
Cardinali e cortigiane
Storie libertine di principi della Chiesa e donne affascinanti:
vescovi e diaconi gaudenti, prostitute e nobildonne spudorate,
tra intrighi politici, traffici commerciali e avventure galanti
Introduzione
Il luogo di riferimento non è in esclusiva la Chiesa. Con la quale hanno immediato collegamento i cardinali come principi della Chiesa
, là dove il papa è il sovrano di una corte, della quale fanno parte anche vescovi e monsignori. Cardinali come uomini di corte, quella di un qualunque altro sovrano, in veste di nunzi apostolici, ovvero ambasciatori, e ministri di un re. E in simili ambienti si accompagnano ad altri cortigiani, conti, marchesi, duchi, scrittori, musicisti, artisti e perfino giullari, ma anche a donne, come mogli di nobili, nonché nubili, qualificate cortigiane perché dame di compagnia della regina o favorite del sovrano, ovvero amanti di nobili laici ed ecclesiastici, tra i quali appunto i cardinali.
In sostanza appare evidente una connessione tra cardinali e cortigiane nel corso della storia, ma non è una condizione essenziale della loro esistenza, perché sono personalità in grado di esprimere anche singolarmente la propria vita, affermandosi in un contesto che le distingue ed esalta su un piano culturale. Oltretutto gli uni e le altre hanno sempre una propria corte nelle personali dimore, a cominciare dai cardinali, autentici principi mondani e indipendenti dall’autorità pontificia. Essi abitano nei propri palazzi splendidamente arredati con un seguito di segretari e ministri e sono in contatto con gli Stati stranieri. Così le cortigiane possiedono case e ville sontuose, dove ospitano il loro amante ufficiale, ma anche la clientela selezionata, allestendo un salotto culturale frequentato da artisti e politici, dove loro stesse coltivano la musica, la poesia e la politica.
I cardinali sono nati nel Medio Evo. Come autentici principi della Chiesa
, subentrando ai vescovi nella funzione collegiale del governo e dell’elezione pontificia. Classificati nei tre ordini di vescovi, preti e diaconi, costituiscono un baluardo intorno alla persona del papa come classe emergente che raggiunge il suo vertice a metà del Quattrocento. Sono veri e propri signori feudali e, come vescovi, sbandierano la loro signoria da vescovi-conti e vescovi-principi, eletti in tale veste poco per vocazione e più spesso per interessi familiari e finalità politiche. La loro autorità è legittimata non tanto dal papa, quanto dal sovrano, cosicché diventano autentiche autorità temporali nel territorio del loro episcopato. Dove dispongono di personali milizie per la difesa del territorio, battono moneta e possono imporre tasse, raggiungendo una prosperità che si fonda anche sul commercio delle indulgenze e sui balzelli. Essere cardinali-vescovi comporta infatti la gestione di un potere economico, culturale e politico che dal Cinquecento assume un valore veramente internazionale.
Se avere la porpora con un incarico di prestigio a Roma significa spesso il controllo su gran parte dello stesso potere pontificio, appendere il cappello ovvero il galero a Madrid, Parigi o Londra, fino al voltafaccia di Enrico VIII, significa avere voce nelle decisioni di governo dei grandi Stati europei, con una dedizione rimasta in alcuni casi leggendaria. «Se avessi messo al servizio di Dio la metà dello zelo messo al servizio del mio re, il Signore non mi avrebbe abbandonato alla mia età, nudo davanti ai miei nemici», dice il cardinale Thomas Wolsey quando cade in disgrazia dopo aver guidato, come lord cancelliere, la politica inglese per quindici anni. Ad Enrico VIII, in rotta con il papa Clemente VII, deve cedere anche Hampton Court, proprio da lui edificata.
È un fatto che tra tanti indegni, la porpora riesce anche a valorizzare qualcuno all’altezza di quel colore, simbolo di un martirio sempre ipotizzato dal momento della nomina. Quelli riuniti in conclave per l’elezione di Adriano VI nel 1521 sembrano a Pietro Aretino di ben altra pasta, immersi nei sette vizi capitali e certo senza virtù adatte a farli salire al trono pontificio. Si ha a che fare con donnaioli e pederasti, crapuloni e falsari, politicanti e simoniaci:
... sempre ha moglie accanto
questo, e quel volentier tocca il garzone,
l’altro a mensa disputa d’un boccone
e quel d’inghiottir pesche si dà il vanto.
Uno è falsario, l’altro è adulatore,
e questo è ladro e pieno di eresia,
e chi di Giuda è assai più traditore.
Chi è di Spagna e chi di Francia spia,
e chi mille volte a tutte l’ore
Dio venderebbe per far simonia.
Versi destinati a restare mitici che squalificano i cardinali come omosessuali e frequentatori di cortigiane, dediti ad attività commerciali e a veri e propri furti, con finalità politiche tese a conservare la conquista di beni materiali. Ma la posizione di prestigio in seno al governo della Chiesa si incrina dopo il concilio di Trento, via via che aumenta quella del papa; chi è veramente capace riesce a rimanere uomo di fiducia di uno dei tre sovrani degli stati cattolici che contano nei rapporti con la Chiesa: Austria, Francia e Spagna. Questi sovrani tendono infatti a gestire un certo monopolio nelle nomine cardinalizie, come anticamera a quella papale: il diritto di veto o exclusiva contro l’elezione al pontificato di qualche candidato sgradito a questo o quel sovrano rappresenta la nuova arma in mano ai cardinali in seno al conclave. È un momento di gloria, un gioco di potere che dura poco, ma che è indice di un conclave non visto in chiave tutta religiosa, stravolto com’è dalla politica fino ai nostri giorni.
E poi c’è il cardinale segretario di Stato, che passa dal cardinal nepote al vero e proprio capo di un governo articolato in congregazioni, segretariati, tribunali, commissioni e uffici. È quello che sarà definito anche il viceré del Vaticano
, il che è vero nella misura in cui, su specifica delega del papa, si fa strumento responsabile della politica del Vaticano. È in sostanza il primo ministro, con funzioni di carattere laico. Le porpore più geniali in politica fanno strada per conto loro lontano da Roma; è il caso di Richelieu, di Mazzarino, dell’Alberoni. Il cardinale allora non è più un principe della Chiesa
, ma di uno Stato e naturalmente fa il gioco del sovrano, mettendo da parte gli interessi pontifici. Fino ai porporati del XX secolo impegnati nell’economia di vari Stati, ufficialmente come intermediari delle proprietà religiose, manager di concordati politico-finanziari. Il carattere laico delle loro personalità a questo punto è fuori discussione; l’origine ecclesiastica del cardinalato viene messa sotto i piedi. E capita che anche il più in linea con lo spirito religioso della porpora s’impelaghi in interessi materiali, impegnando in essi la propria fortuna finanziaria, come lo zio di Napoleone, il cardinal Fesch, che spende tutti i suoi denari in una preziosa e voluminosa collezione di quadri.
Piuttosto resta valida la definizione che di questi cardinali dà Giuseppe Gioachino Belli a metà dell’Ottocento come «scimmie de sovrani», senza arrivare alla qualifica scopertamente demistificante nell’anagramma del loro nome in «Ladri-Cani». È che in definitiva se l’autorità del papa fa ombra sulle porpore, queste hanno pur sempre modo di muoversi ai margini. Restano fondamentalmente degli esecutori, ma dei quali è meglio non fidarsi: «Amici inutiles, nemici terribiles»; così un vecchio detto di Curia. E il fatto che, come amici, questi cardinali siano inutili, ma restino dei terribili nemici, vuol dire che, a loro modo, hanno pur sempre un potere, la cui forma cambia nel tempo.
La loro riaffermazione si è avuta nella seconda metà del XX secolo, quando il cardinalato si è accresciuto in termini più internazionali, con le porpore del Congo e del Kenia, del Pakistan e del Vietnam. E tutto a scapito anche del gruppo europeo. Il carattere da Terzo Mondo assunto, in parte, dalle nomine cardinalizie ha cancellato con un colpo di spugna il tono aristocratico e d’élite che questo senato deteneva in seno alla gerarchia ecclesiastica; anche se è sempre presente l’impegno politico, che è poi l’altra faccia di quello economico, mai cancellato e sempre squalificante delle mistiche funzioni di un principe della Chiesa
. Peraltro va segnalato che si è imposto dopo il Concilio Vaticano II il potere dei vescovi, anche se non sono rivestiti dalla porpora, che oggi assommano nel mondo a circa cinquemila; e la loro assemblea all’insegna della CEI è impegnata in senso tutto temporale, portavoce delle trattative politiche con gli Stati in sostituzione del cardinale segretario di Stato.
A fronte dei cardinali, le cortigiane, che dalla fine del Quattrocento frequentano i palazzi apostolici del Vaticano, dopo essersi segnalate come amanti di cardinali a Roma, prima fra tutte una Fiammetta destinata ad essere immortalata nel toponimo di una piazza. Alcune di loro sono nobildonne, oltretutto debitamente coniugate, e diventano amanti di cardinali e di papi, più che mai ben distinte dalle cortigiane di origine proletaria. Vengono definite come nuove etere, nel senso tutto culturale che il termine aveva in antico, qualificate intellettualmente, e meno che meno possono esser dette puttane, anche se tutti i termini tendono a confondersi.
Questo il fascino di chi è «tanto puttana in letto quanto donna da bene altrove», secondo la sentenza lapidaria della Nanna nei Ragionamenti di Pietro Aretino. E ancora il Burcardo, maestro di cerimonie di Alessandro VI, se ne esce con questo paradosso: «Cortigiana, ovvero prostituta onesta». Sempre che non si voglia una spiegazione tecnico-linguistica, come quella che offre l’autore del dialogo Vita delle cortigiane di Roma, lo Zoppino, pseudonimo di Francisco Delicado, sacerdote e scrittore spagnolo, ma anche protettore di cortigiane, per il quale l’etimologia dei due sostantivi offre una chiara identità di significato: «Puttana è un nome composto di vulgare e di latino. Perché ano
in latino si dice quel che in nostra lingua si chiama culo
, dove che si compone di potta
et ano
: et in vulgar nostro puttana vuol dire che li pute la tana
e cortigiana cortese dell’ano
». Piuttosto una distinzione c’è a livello di categorie, collegate al modo in cui le prostitute caratterizzano la loro attività. Così ci sono quelle a porta chiusa, da candela, da gelosia e da impannata, oltre alle domenicali, guelfe e ghibelline.
Ma per dare un’indicazione precisa di quello che interessa mettere in risalto, cioè il rapporto delle cortigiane con i cardinali e il mondo ecclesiastico, è importante ricordare, come scrive Georgina Masson, che «le cortigiane erano assidue frequentatrici di chiese, dato che era anche questa un’eccellente forma di pubblicità, forse la migliore». E, anziché esser viste di malocchio dalle autorità ecclesiastiche, le loro visite erano più che beneaccette, tra l’altro «perché la loro presenza serviva a riempire le chiese», arrivando ironicamente a compiere opera di apostolato. Avevano a volte posti riservati in chiesa, come a Sant’Agostino, dove «tutto lo spazio compreso tra l’altare e i posti nei quali sedevano i cardinali era occupato da cortigiane».
Altra città dal Quattrocento ricca di cortigiane è Venezia, dove esiste una netta distinzione tra «le meretrici, altrimenti dette puttane, e le cortigiane», e dove è qualificata meretrice, ovvero puttana, una donna non sposata che abbia relazioni con uomini. Fino a ritenere legale la presenza in chiesa delle cortigiane, ma non delle meretrici, il che la dice lunga sul rapporto diretto esistente, pure in una città così laica nel suo sistema politico, tra il mondo ecclesiastico e le cortigiane.
Subentra comunque dal Seicento un rinnovamento definitivo della classe delle cortigiane, il cui ruolo viene interpretato alla corte dei sovrani e nei salotti dei cardinali dalle donne nobili e borghesi dichiaratamente laiche nella vita di meretricio. Si qualificano Donne e Dame in Italia, Madames in Francia, Miladys nei paesi britannici, e sono perlopiù sposate, là dove il marito arriva a considerare un onore il fatto che la moglie sia una favorita del sovrano o di un porporato, traendone oltretutto indirettamente tutti i vantaggi economici e di prestigio. Queste cortigiane rivalutano in pieno il loro salotto, che diventa un luogo di appuntamento ben preciso all’insegna del fasto degno del prelato e dell’aristocratico che viene a far loro visita per la cosiddetta conversazione
; senza problemi se la donna è nubile o vedova, ma con l’accorto allontanamento del marito all’insegna del nobile perbenismo, a meno che egli stesso non sia impegnato a far visita a sua volta ad una collega
della moglie. Là dove peraltro l’invitato alla conversazione
, prelato o aristocratico che sia, si finge nelle mentite spoglie del cavalier servente, ovvero del cicisbeo, apparentemente innocuo.
A questo punto le cortigiane nobili o borghesi sono più che mai distinte dalle meretrici, ovvero dalle puttane, come a Roma e Venezia, ad esempio, mentre in Francia si arriva a stilare una precisa graduatoria. E se le Madames sono le amanti del re o di un cardinale, le chèvres coiffées sono le amanti di nobili di corte ed ecclesiastici, le pétrels hanno il loro campo d’azione nel ceto borghese, mentre le povere pierreuses sono destinate alla plebe. E queste Madames sono emblematiche della loro laicità per come vivono senza rimorsi di coscienza religiosa, che affiorano perlopiù in fin di vita. Così accadrà alla Pompadour, la favorita del re Sole, e, in maniera quasi comica, a Marion Delorme, una delle cortigiane di prestigio di Luigi XIII, che Victor Hugo qualificherà «sublime». Di lei si racconta che sul punto di morte si sia confessata dieci volte, perché ad ogni gesto assolutorio del paziente sacerdote le veniva in mente qualche peccato fino ad allora involontariamente taciuto.
In Italia appare anche più fortemente sentito il rapporto che le donne hanno con il mondo religioso, a livello di cardinali, in uno scenario culturale che rende eccitante anche l’andare a letto con il sacro
; incarnato in una serie di porporati famosi, che vanno dal Pamphilj all’Albani, dal Mazzarino all’Antonelli, segretario di Stato di Pio IX, definito un malato di satiriasi. Fino al travestimento di certe donne in dame di compagnia. E si va dalla moglie di Gaetano Moroni, segretario di Gregorio XVI, al secolo Clementina Verdesi, qualificata dal Belli come «puttana santissima», a Maria Sung Ryen che con il vescovo Emanuel Milingo corona borghesemente nel matrimonio la sua love story, provocando peraltro la scomunica dell’ex esorcista dello Zambia. Ma quest’ultimo caso rappresenta il tramonto della cortigiana nel contesto religioso, mentre prosegue fuori del sacro il glorioso cammino della cortigiana laica di professione: velina, valletta, letterina televisiva e fotomodella per calendari. È colei che si dichiara compagna
di capitani d’industria e calciatori miliardari, dando fondo alle loro risorse economiche con tanto di sostanziosa liquidazione di fine rapporto, a meno che non riesca ad approdare al matrimonio, magari per poi divorziare con altrettanto sostanzioso assegno vitalizio.
CLAUDIO RENDINA
Cardinali e cortigiane
Nella pagina precedente: A. de Neuville, Entrata della Cappella Sistina.
Il cardinale Pietro Riario: un principe
rinascimentale
Pietro Riario non è suo figlio. Ma lo considera tale il Padre Maestro Francesco della Rovere, frate francescano dei Minori Conventuali di Savona, nonché docente di Teologia e Sacra Scrittura nello Studio conventuale di Siena. Pietro è il terzo figlio di Paolo Riario, artigiano di Savona, che si è sposato tre volte; vedovo di Violante della Rovere, una cugina di Francesco, dalla quale ha avuto nel 1439 una figlia, chiamata Violante come la madre, e della seconda moglie, Bianca Beccalla, che gli ha dato due maschi, Girolamo nel 1443 e Pietro nel 1445, e una femmina, Petruccia, nel 1447, si è sposato una terza volta con Bianca della Rovere, la sorella appunto di Francesco. E questa si è presa cura dei quattro figli ereditati
, che il fratello ama come nipoti diretti
, considerandosi zio materno
. Così che quando Paolo muore nel 1457, l’impegno educativo dello zio verso i nipoti diventa più diretto, per un futuro delle femmine come spose in nobili famiglie e dei maschi nel campo politico con Girolamo, che avrebbe acquisito la contea di Imola, e nel campo ecclesiastico con Pietro, che è il prediletto.
Pietro fino a 14 anni frequenta la scuola conventuale di San Francesco a Savona, quindi viene affidato a un insegnante di latino a Chieri, andando poi a studiare filosofia nel convento di Pavia e successivamente a Padova e di qui a Venezia, a Bologna, a Perugia, a Siena e a Ferrara, presso le migliori cattedre di Arti e Sacre Lettere. E queste variegate sedi di studio, mentre lo educano culturalmente, ne nobilitano l’animo, lo sprovincializzano dalla natia Savona, facendolo entrare in contatto con le corti aristocratiche degli Sforza, degli Estensi e di Venezia, dove viene assimilando quella magnificentia, che impara a valutare come elemento distintivo dell’esistenza.
Il fatto importante, che determina un cambiamento nella vita del frate Pietro studente, è l’elezione a cardinale dello zio il 18 settembre 1467: padre Francesco della Rovere, ministro generale dei Minori Conventuali, riceve la porpora con il titolo di San Pietro in Vincoli, dove fissa la sua residenza con una corte di segretari per la stesura di documenti e dispute culturali. E il primo dei segretari è Pietro, che a Roma completa gli studi laureandosi in filosofia e teologia e viene ordinato sacerdote nel 1470. Ma vivere a Roma costituisce per Pietro un’altra convivenza con la magnificentia rinascimentale, che vede ora espressa nella corte del papa regnante Paolo II, dove essere cardinale o vescovo significa usufruire di commende e mense episcopali, ovvero incassare rendite da abbazie e monasteri.
E con quanta invidia guarda il cardinale Jacopo Ammannati che ha la sua corte in un palazzo vicino al Tevere e in una vigna presso la Porta Viridaria del Vaticano; lì il porporato riceve spesso letterati come Poliziano, Francesco Filelfo, Marsilio Ficino, lo storico Platina, il vescovo e poeta Giovanni Antonio Campano, ai quali si accompagna anche il cardinale Bessarione, una sorta di nume tutelare della cultura umanista di quegli anni a Roma. Peraltro anche lui ha una dimora prestigiosa in un palazzetto presso la basilica dei Santi Apostoli, frequentata dagli stessi uomini di cultura amici dell’Ammannati e arricchita da una grandiosa biblioteca. In quelle aristocratiche dimore con la poesia si esalta la bellezza del mondo terreno come manifestazione della perfezione divina, tanto che il cristianesimo appare mascherato con le parole dei poeti pagani; la stessa Vergine Maria viene invocata come Giunone, madre degli dèi
. A quelle riunioni partecipano anche delle donne, prese a simbolo della bellezza terrena, ma che in sostanza sono amanti di prelati e letterati; le chiamano cortigiane e, con termine popolare, puttane. Vivono perlopiù nel rione di Tor Sanguigna e vanno a messa nella chiesa di Sant’Agostino; si dice che l’Ammannati conviva con una di loro, così anche il Platina, mentre il Campano è omosessuale e il suo amante è il fiorentino Francesco Lapi.
Pietro assapora quell’adorazione della bellezza e dell’amore, e così pure è affascinato dall’ostentazione del lusso delle cerimonie ecclesiastiche, tra i preziosi abiti pontifici culminanti nella tiara tempestata di gioielli. Tutto è splendido in una «corte licenziosa», come scriverà lo storico Ferdinand Gregorovius sulla base di cronisti del tempo, con il papa stesso «dedito a soddisfare i piaceri dei sensi». E si festeggia il Carnevale «secondo un carattere pagano dei ludi carnascialeschi» per un godimento di tutti i cittadini fino al lauto banchetto di ecclesiastici e nobili intorno a lunghe tavolate sotto la loggia del palazzo di Venezia, «da dove Paolo II lancia monete alla plebaglia, che fa ressa per impadronirsi dei resti del banchetto».
Quando Paolo II muore, il cardinale Francesco della Rovere entra in conclave il 6 agosto 1471 portando con sé il nipote prediletto Pietro Riario come maestro di camera. È l’accesso alla gloria pontificia per l’uno e a quella vescovile e cardinalizia per l’altro. Infatti il 9 agosto Francesco viene eletto papa con il nome di Sisto IV e, di conseguenza, Pietro viene subito istradato ad una carriera ecclesiastica redditizia nell’arco di tre mesi e mezzo. Il fraticello il 28 agosto riceve la commenda ovvero la rendita dell’abbazia benedettina di San Vincenzo a Metz; il giorno dopo sono nelle sue mani le commende dell’ospizio di Sant’Andrea di Vercelli e del monastero benedettino di San Pietro di Monte Gianeri, presso Tolosa. Ma ancora, il 4 settembre è nominato vescovo di Treviso, il 18 settembre riceve la commenda del priorato di San Donato nella diocesi di Vienne e il 7 novembre quella dell’abbazia benedettina di San Pietro in Modiano nella diocesi di Cremona. E tutto questo è già la base di una ricchezza per una vita ecclesiastica da godere all’insegna di quella magnificentia che Pietro ha fino ad allora solo ammirato.
Sisto IV (da Platina).
Il massimo arriva nel primo concistoro, il 16 dicembre 1471; Pietro ottiene la porpora con il titolo di San Sisto e così verrà chiamato il cardinale di San Sisto. Insieme a lui è eletto il cugino Giuliano della Rovere, ma non ha nulla da temere dalla sua concorrenza: a Pietro viene assegnato anche l’incarico di Segretario per i rapporti con gli Stati, che è una sorta di ministro degli Esteri. Questa nomina però non è ben vista dai decani del collegio cardinalizio, dei quali si fa portavoce proprio il cardinale Ammannati tanto ammirato dal giovane Pietro. E sono accuse nei confronti dell’inesperto neoporporato, che da subito «eccede nel lusso difficile da credere, ma anche da raccontare», come Ammannati scrive in una lettera al cardinale Francesco Gonzaga; e si diffonde la voce infamante che Pietro è stato eletto perché è figlio del papa e di una monaca e soprattutto perché ha offerto il suo corpo alle voglie di sodomia del papa. Come segnalerà subdolamente il perverso cronista Stefano Infessura, facendo riferimento anche al fratello Girolamo, al quale verrà assegnata la contea di Imola: «Per quale altro motivo, come qualcuno dice, il papa ha voluto tanto bene al conte Girolamo e al frate Pietro, suo fratello germano, poi cardinale di San Sisto?». E lo dice chiaramente Giovanni Antonio Campano in un epitaffio per il papa, scritto quando Sisto IV è ancora vivo:
Piangano il papa, Salviato, Tiresia e Agnella
l’uno fu ruffiano, l’altra puttana, l’altro cinedo.
Là dove, a parte il lenone e la meretrice in veste di cortigiani, cinedo è propriamente l’effeminato che subisce la sodomia; senza contare che con la cortigiana Tiresia entrerà in rapporto lo stesso Pietro nel contesto della corte che il neoporporato organizzerà però solo l’anno dopo in un lussuoso palazzo cardinalizio. Perché inizialmente la sua dimora è un palazzetto in Borgo di scarso prestigio, tanto che preferisce passare le sue giornate nel palazzo apostolico in Vaticano alla corte dello zio. Nel frattempo Pietro si arricchisce accumulando quel denaro che gli occorre per predisporre una vita all’insegna della magnificentia che ha sempre sognato. Lo zio infatti, in aggiunta a quanto già concesso, gli offre il godimento delle rendite dalle diocesi di Siviglia, Burgos, Toledo, Salamanca, Cordova e Piacenza, che gli potranno fruttare almeno 200 ducati d’oro l’anno; quindi gli assegna una prima pensione annua di 300 ducati d’oro sul reddito del monastero cistercense della Vergine De Precibus
nella diocesi di Vannes e una seconda di 200 ducati d’oro sul reddito del monastero cistercense di Begardo a Tréguier.
Di una prestigiosa sede come specchio della magnificentia, Pietro prende possesso il 23 novembre 1472, cinque giorni dopo la morte del cardinale Bessarione, commendatario della basilica dei Santi Apostoli; lo zio infatti lo nomina nuovo commendatario con il titolo di patriarca di Costantinopoli, facendolo entrare in possesso del palazzetto già abitato dall’illustre porporato. E Pietro lo ingrandisce estendendone la costruzione sulla piazza, fino alla facciata della basilica, e sul retro, grazie alla demolizione di alcune case espropriate ai Colonna, che le usavano come magazzini. Il palazzo, costruito a tempo di record, non va comunque oltre il primo piano, ma in compenso è ricco di uno splendido arredamento, che giustifica la spesa di 12.000 ducati segnalata dal nobile Marco Altieri coetaneo di Pietro. E come scrive l’umanista napoletano Porcellio de’ Pandoni nei versi dedicati proprio a quella dimora:
Ben presto va ad abitare la dimora del Bessarione
che Pietro innalza e rende più alta
decorando le stanze con marmo pigdonio e con oro.
Ed ecco eretta una possente colonna.
Si elevano torri e si ampliano grandi pareti
quali neanche Cesare costruì nella nuova Roma
e neanche furono fabbricate dal feroce Nerone.
Una dimora che viene esaltata anche dal Platina, servitori e frequentatori compresi, che osserva che Pietro ha sostenuto «ingenti spese per avere in casa una grande quantità di oro e argento, abiti sontuosi, cortine ed arazzi, cavalli aitanti, numerosi servitori in vesti di seta e scarlatto, giovani scrittori e artisti famosi». È la scenografia della magnificentia principesca messa in mostra da Pietro per l’esaltazione dell’occhio e del palato, in una fantasmagoria di elementi decorativi e gustativi in grado di sottolineare una esistenza fastosa; ovvero il cardinale ostenta tutta la sua magnificentia come principe della Chiesa alla pari di un principe laico rinascimentale in uno stile che sarà imitato. Là dove il pericolo è il travisamento dei valori religiosi propri di un ecclesiastico nelle feste allestite, che qualcuno potrebbe giudicare gozzoviglie, se non addirittura delle orge, per quanto assolte dal dominante pensiero umanistico che considera il mondo terreno come manifestazione della perfezione divina, anche nelle sue più materiali espressioni.
La basilica dei Santi Apostoli in un’incisione cinquecentesca: a sinistra della chiesa, il Palazzo Riario.
Che vanno dalle vesti tempestate di pietre preziose usate dal cardinale alla profusione di oro e argento degli apparati decorativi, con il contorno di efebi in veste di domestici, tutti azzimati e in abiti di velluto e seta, nonché cantori, ballerini, ballerine e musici. Infatti, come scrive il cardinale Jacopo Ammannati nella lettera al cardinale Francesco Gonzaga, «il Riario ha assunto e si avvale di tutto il virtuosismo dei Toscani», ovvero di teatranti in grado di recitare, ballare e cantare, tra i quali viene segnalata una certa Tiresia o Ciresia dai cronisti contemporanei, che peraltro non risultano essere stati tra i letterati che frequentano la corte di Pietro. Il genovese Battista Fregoso la qualifica «amica», che Pietro «mantiene con una prodigalità tale che si comprende dall’uso di scarpette ricoperte di perle». Il viterbese Giovanni di Iuzzo la presenta come «femina» ricoperta «addosso e nei piedi di gioie infinite», mentre il piacentino Alberto di Ripalta più esplicitamente la definisce scortum, ovvero prostituta, che possiede «gioielli del valore di 200.000 ducati». E infine per il senese Sigismondo Tizio quella ballerina è una pellex barbara, cioè una baldracca
e basta, senza un minimo di grazia cortigiana, mentre l’annalista Alberto di Ripalta riferisce che «la signora Ciresia, sua prostituta, come si racconta, spogliata dei gioielli del valore di 200.000 ducati, se ne partì messa in fuga», come a dire che, dopo la morte di Pietro, viene cacciata da palazzo. Evidentemente con tutta la troupe teatrale.
Tutto questo complesso di persone è proposto da Pietro come apparato vivo della sua corte e può essere quanto mai vero che egli abbia rapporti con Ciresia, così come convivono con una cortigiana il cardinale Ammannati e altri prelati, nella cultura tutta umanistica della quale si è imbevuto anche il cristianesimo, in uno stravolgimento ovviamente della sua radice originaria. E che avrà un seguito in papi e cardinali con tanto di figli, almeno fino al Seicento. Peraltro la corte di piazza Santi Apostoli ospita anche letterati umanisti, che evidentemente non fanno che dare più concretezza a certa cultura materialista.
E sono alcuni dei letterati che fanno parte della corte dei cardinali Ammannati e Bessarione. Così il Platina, il Campano e il latinista Domizio Calderini, il marchigiano Ottavio Cleofilo, il napoletano Porcellio de’ Pandoni e il romano Paolo Emilio Boccabella. Tutte personalità della cultura romana degli anni in cui vive Pietro, in un miscuglio di letteratura, politica e religione, e che come tali hanno pure una loro vita non in linea con un misticismo medievale, ma piuttosto con un terreno umanesimo. Così l’omosessuale Campano, come già ricordato, ha un suo amante; il Platina frequenta una «turpissima fanciulla, simile ad un mostro»; il Porcellio è un pedofilo che abusa dei suoi scolari; il Boccabella ha il paggio Cinuzzi come amante e sodomizza a pagamento i bardassa
romani.
È in questa corte di personaggi che Pietro si fa anfitrione con un grande banchetto per festeggiare l’insediamento nel palazzo, ancor prima che questo prenda forma completa, e quindi nell’edificio del cardinal Bessarione, subito dopo i di lui funerali svoltisi il 3 dicembre 1472. Lo ricorda in una lettera il monaco umanista siciliano Giovanni Filippo de’ Lignami che vi aveva partecipato, insieme con porporati e ambasciatori, esaltandone le vivande e l’apparato scenografico.
Mitica peraltro è destinata a restare la festa di Carnevale che Pietro organizza la sera del lunedì 1 marzo 1473, quando i lavori del palazzo sono a buon punto, ma non ancora terminati. Numerose le testimonianze degli ospiti, a cominciare dalla lunga lettera scritta il giorno dopo ai marchesi di Mantova dal loro rappresentante al festino Ludovico Genovesi, il quale racconta che gli ospiti sono «cardinali, prelati, gentiluomini di ogni genere. Ricche le vivande, servite in una sala sontuosa, illuminata con grande sfarzo, da scalchi travestiti in diverse foggie; il suono di parecchi strumenti accompagna ogni piatto tra arpa e chitarrino, flauti e viola, arpa e viola, con il canto di molti stramotti sul chitarrino, alcuni de’ quali in lode del papa e del cardinale, nonché la canzonetta O Rosa bella del Giustinian. E per chiudere, moresche e sceneggiate».
Pittoresca la descrizione fatta al duca di Milano Galeazzo Maria Sforza dal suo ambasciatore, il vescovo di Novara Giovanni Arcimboldi, due giorni dopo. Infatti mentre ci precisa che il pranzo è iniziato alle ore 18 ed è durato tre ore e tredici portate, si sofferma sui particolari decorativi e i postumi curiosi del banchetto. Così le pareti della sala da pranzo presentano arazzi preziosissimi, mentre su un rialzo centrale sorge una tavola, alla quale siede il cosiddetto re di Macedonia in un costume quanto mai appariscente per preziosità, quindi seguono le tavole dei cardinali e degli altri ospiti; intorno, due credenze sovraccariche d’argenterie e numerose fiaccole. Dopo il banchetto si dà vita ad un ballo moresco e ad altre piacevoli danze. E tutto finisce con una grande sceneggiata. Si presenta un ambasciatore turco con tanto di credenziali e dragomanno, lamentandosi perché il cardinale Riario ha conferito al re di Macedonia il regno spettante per diritto ai Turchi, per cui, se il re non deporrà le insegne usurpate, scoppierà la guerra. Così la vertenza si decide con le armi, in un duello rappresentato a piazza Santi Apostoli, che si conclude con il