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Dizionario delle feste
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E-book630 pagine9 ore

Dizionario delle feste

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Info su questo ebook

Ogni religione e ogni cultura hanno sempre scadenziato i tempi dell’anno identificando periodi particolari e festività che formano l’itinerio religioso della comunità e del credente. La festa è dunque un momento particolare che sorprende la normalità. Può riguardare un mistero, un’occasione gloriosa o una memoria dolorosa. È però sempre motivo di pausa dalla routine del lavoro umano. Il percorso delle feste nell’anno è un itinerario temporale e spirituale che fa via via incontrare il credente con i punti di riferimento della sua cultura.
Le feste esistono da quando esiste l’uomo, l’arte preistorica lo dimostra. Esse esprimono, a un tempo, quanto c’è di comune, come esigenza di fondo del rapportarsi col mistero e col senso del vivere in tutte le religioni, e mostrano la diversità inventiva e dottrinale delle varie culture (dalle grandi civiltà alle popolazioni più isolate). Le feste sono il luogo dove il religioso e il profano si mescolano.
I lemmi che compongono questo Dizionario delle feste, curati dai principali esperti internazionali sotto la supervisione di Mircea Eliade e Julien Ries, sono state tratte principalmente dall’edizione dell’Enciclopedia delle Religioni diretta da M. Eliade, articolata in 17 volumi di cui 15 pubblicati, curata per l’Italia da Dario M. Cosi, Luigi Saibene e Roberto Scagno, e dal Trattato di Antropologia del Sacro (TAS) pubblicato in 10 volumi, curato da Julien Ries con Lawrence E. Sullivan e Michel Masson, opere fondamentali, di riferimento per studiosi e cultori della vasta materia antropologica e religiosa.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita14 ago 2021
ISBN9788816802995
Dizionario delle feste
Autore

Mircea Eliade

Mircea Eliade (1907-1986), formatosi come filosofo e storico delle religioni all’Università di Bucarest, insegnò Storia delle religioni all’École des Hautes Etudes di Parigi e all’Università di Chicago. È considerato uno degli storici delle religioni più importanti del Novecento. Famoso per i suoi studi sulle religioni indiane e lo sciamanesimo, Eliade è noto anche come scrittore di romanzi e racconti, pubblicista, saggista, autore di letteratura diaristica e memorialistica. Tra le sue opere ricordiamo Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi e Mefistofele e l’androgine pubblicate in Italia dalle Edizioni Mediterranee.

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    Dizionario delle feste - Mircea Eliade

    A

    AFRICA, CULTO DEI DEFUNTI

    Un’indagine sulle credenze africane tradizionali presenta numerose difficoltà, a causa della varietà e della natura delle testimonianze etnologiche, molte delle quali provengono da miti di tradizione orale e da proverbi, da inchieste e da testimonianze personali. L’Africa subsahariana, inoltre, comprende più di duemila gruppi etnici diversi, distinti sulla base di significative differenze particolari: ogni indagine sulle credenze tradizionali presuppone perciò, necessariamente, un grande numero di scelte e di omissioni.

    Uno degli elementi che caratterizzano le credenze africane sull’immortalità deriva dal loro specifico interesse escatologico. Per gli Africani, infatti, vi sono due tipi di tempo: il tempo mitico, che è il tempo eternamente valido del gruppo sociale e della sua continuità; e il tempo reale, nel quale si situano la vita dell’individuo e la frattura costituita dalla morte. Tra questi due tempi si pongono come mediazione simbolica i riti funerari, attraverso i quali il defunto abbandona il tempo contingente e passa al tempo mitico, il tempo della struttura piramidale degli esseri. I riti funerari costituiscono la risposta collettiva alla morte di un individuo: essi permettono al gruppo di conservare la sua solidità. Nella maggior parte delle cosmogonie africane si incontra già questa concezione dell’immortalità del gruppo etnico, insieme all’idea della duplice realtà del tempo.

    Accanto a questa visione dell’immortalità dell’ethnos, esiste però anche la credenza nell’immortalità dell’essere personale, indispensabile per la continuità del gruppo. Fra i Bobo del Burkina Faso, per esempio, il tempo reale si trova sotto il segno di Dwo, una divinità immutabile che domina gli spiriti, le forze vitali (nyama) e gli antenati. Ancora nel Burkina Faso, l’escatologia dei Daga prevede una concezione ciclica del tempo, accompagnata dalla nozione della reincarnazione del defunto: ogni nuovo nato proviene dalla trasformazione degli antenati. Dopo la morte, infatti, il defunto passa immediatamente nel regno degli spiriti, per diventare un antenato a pieno titolo o per reincarnarsi nel corpo di un animale totemico. Anche tra i Luba e altri popoli di lingua bantu dello Zaire, il muntu, cioè l’essenza di ciascun individuo, dopo la morte si reca nel mondo degli antenati o in quello delle ombre. In occasione di ciascuna nuova nascita, un antenato trasferisce nel neonato la sua forza vitale. I Samo insegnano invece che il mere, il doppio immortale di ogni persona defunta, soggiorna dapprima in un villaggio dei morti e poi, dopo una seconda morte, in un altro villaggio. Al termine di questo doppio ciclo di vita e di morte, il mere prende dimora in un albero; se poi quell’albero viene distrutto, il mere si trasferisce in un altro albero della stessa specie. Gli Yoruba, infine, credono che emi («respiro»), cioè la forza vitale, abbandoni il corpo e passi nella dimora degli antenati beati, dove si unisce con ori («capo»), il suo spirito tutelare. In tutte le culture africane, comunque, il defunto malvagio, la cui energia vitale è stata bandita dalla società, vaga nell’aria e viene infine catturato dalle forze del male. In Africa, dunque, l’immortalità è sempre contrassegnata da un riferimento al passato, attraverso il quale i defunti svolgono ancora un ruolo importante nella società dei viventi. La reincarnazione, per esempio, riporta simbolicamente il morto nella cerchia dei sopravvissuti, cosicché la vita invisibile sussiste fianco a fianco con la vita visibile (Thomas, 1982, pp. 122-36).

    Un secondo elemento fondamentale dell’immortalità è la credenza negli antenati. Vi sono due categorie di antenati, quelli mitici e primordiali e quelli che sono diventati tali dopo un’esistenza terrena. Il culto degli antenati occupa di certo il primo posto tra le credenze e i riti africani. La concezione dell’antenato è costituita da due componenti: da una parte la purezza dell’ideale sociale e religioso; dall’altra il rapporto con la continuità e l’identità del gruppo sociale. L’insieme di queste due componenti produce il concetto di immortalità, individuale e collettiva. L’antenato rappresenta infatti la trasposizione simbolica della condizione umana sul piano del numinoso, mentre ancora continua a far parte del mondo dei viventi. Proprio nel ruolo di antenato, dunque, si realizza la tappa più importante del destino del singolo, dopo la morte. Un’autentica solidarietà, infatti, collega insieme i defunti che hanno raggiunto la condizione di antenati con tutti i viventi che rimangono in comunione con loro, in modo da poter vivere secondo il passato esemplare, il che costituisce il più alto ideale dell’esistenza. Il mondo degli antenati è organizzato e regolato in una complessa gerarchia, familiare e sociale, basata sul lignaggio e sulla funzione.

    Vi sono antenati prossimi e immediati, che sono morti di recente, e antenati lontani, che costituiscono una schiera indistinta. I più importanti tra i defunti sono gli antenati attivi e vigilanti, mentre tutti gli altri sono morti comuni e indistinti, che non abbandonano mai la massa di una collettività del tutto anonima. Nel pensiero africano, inoltre, gli antenati vengono classificati secondo l’intensità della loro forza vitale: per esempio le popolazioni di lingua bantu distinguono i vidye, esseri spirituali che prendono parte attiva nella vita della comunità, dai fu, i morti comuni. Fra i primi vi sono i fantasmi, che devono essere placati con offerte e con sacrifici.

    Gli antenati godono dunque di una speciale immortalità, personale ed etnica. La loro comunità gerarchica costituisce il deposito della conoscenza accumulata dal succedersi delle generazioni: in questo senso rappresenta la memoria del gruppo etnico, il prodotto delle sue origini e del suo passato. Tale comunità rappresenta la legge dei padri ed esercita una permanente funzione di regolazione sulla vita del gruppo. Questo fatto spiega l’importanza del culto degli antenati nella società africana.

    Prima di poter ottenere un riposo finale e duraturo, i morti subiscono profondi cambiamenti. Il loro riposo dipende in parte dal ricordo dei vivi e dalla loro capacità di mantenere viva la memoria di coloro che sono trapassati. Fino a quando i loro discendenti li onorano e li pregano, infatti, i defunti rimangono dei «morti viventi»; non appena cadono nell’oblio, essi entrano in una futura esistenza collettiva. Secondo i Bambara del Mali, per esempio, soltanto ai migliori tra gli antenati è concesso di vedere Dio. In ogni caso, il mondo degli antenati fornisce alla comunità un modello, una tradizione di norme e la sicurezza della continuità. L’ancestralità e l’immortalità sono, insomma, profondamente connesse tra loro.

    Un altro aspetto dell’immortalità degli antenati si può trovare nelle credenze africane sulla reincarnazione. Gli etnologi hanno messo in evidenza la complessità della concezione secondo la quale l’individuo è un composto costituito da una molteplicità di elementi (cfr. Zahan, 1963). Si può dire che ciò che subisce la reincarnazione è la forza vitale dell’individuo, ma le condizioni effettive della reincarnazione dipendono da molteplici situazioni particolari o da esplicite scelte, come ad esempio il sesso, l’età e la condizione del defunto o del suo gruppo. La reincarnazione produce una sorta di riattualizzazione del defunto, che interrompe temporaneamente il suo destino dopo la morte. È però necessario che l’antenato che ritorna sia riconoscibile e presente nella memoria dei viventi, e ciò può accadere soltanto in un bambino della medesima famiglia e dello stesso sesso. L’antenato trasmette, in altri termini, una parte dell’eredità genetica: per questo i diversi gruppi etnici attribuiscono grandissima importanza al rispetto per il corpo e alla sua conservazione, sia al momento della morte sia durante le cerimonie funerarie. L’antenato trasmette però anche l’elemento spirituale: il kili, secondo i Serer del Senegal, il ri, o «pensiero», per i Samo del Burkina Faso. E peraltro l’antenato reincarnato continua a vivere nell’aldilà. «La credenza nella reincarnazione serve a riportare indietro il morto, a restituirlo, almeno simbolicamente, alla cerchia dei viventi» (Thomas, 1982, p. 135).

    In tutte le culture i riti funerari servono principalmente a esprimere la credenza nell’immortalità, ma contemporaneamente sono degli strumenti che aiutano a rendere tale immortalità effettiva, con lo scopo di assorbire in modo simbolico il trauma provocato dal decesso. Come anche i riti di nascita e di iniziazione, quelli funerari rendono effettivo un passaggio, costituito nello stesso tempo da una separazione e da una riaggregazione. In tutte le comunità africane, infatti, i riti funerari sottolineano i successivi stadi attraversati dal defunto. Gli attori sono molti: il defunto stesso, in primo luogo, ma anche il maestro della cerimonia, i seppellitori, i costruttori della tomba, la famiglia, il clan, gli amici del defunto, i sacerdoti e i capi. Nella celebrazione del rito, grande importanza ha, in genere, il sottofondo sonoro di canti e di grida, che vengono considerati una liberazione collettiva, ma che costituiscono al tempo stesso anche un simbolo di fertilità. Intervengono inoltre la purificazione del cadavere, un gran numero di oratori, riti che illustrano le circostanze della morte, la sepoltura del corpo; in alcuni casi viene anche celebrato un secondo funerale, nel corso del quale le ossa vengono estratte dalla tomba, lavate, adornate e poste infine sull’altare degli antenati. In occasione di questo secondo funerale, i Fali del Camerun preparano ritualmente il teschio, lo collocano in un’urna e infine lo depongono di nuovo nella tomba.

    Soprattutto attraverso i riti di rivitalizzazione celebrati sul defunto noi possiamo percepire le credenze concernenti la sua trasformazione e gettare uno sguardo sulle sue nuove modalità di esistenza. La preparazione del cadavere è condotta con grande cura, per non sciupare il corpo e conservare il suo aspetto, come si farebbe per il bagno di un neonato. Il rituale continua con il trucco e l’ornamento del corpo, fatti con cenere, caolino, ocra rossa o polvere d’oro. Il caolino è un simbolo di vita, usato spesso nei riti di fertilità per aspergere i campi seminati. Con esso sono ricoperti anche il sacerdote e i fedeli durante le cerimonie di iniziazione. Applicato sul corpo, il caolino bianco significa, infatti, rinascita e vita. L’ocra rossa, invece, viene usata comunemente per il trucco del viso. I sacrifici e i pasti funebri forniscono le provviste necessarie per il viaggio; il bagaglio del defunto è costituito da gioielli di metallo e di cornalina e da statuette di uccelli, serpenti e coccodrilli, animali che simboleggiano l’eternità.

    I riti di separazione e di conclusione pongono il defunto sulla strada che conduce all’aldilà, attraverso numerosi stadi graduali che si estendono nel tempo. Tutti i riti che seguono la morte assicurano il passaggio da uno stadio a quello successivo. L’altare familiare, le maschere e le raffigurazioni sacre richiamano la presenza degli antenati: nel Benin tale presenza è simbolicamente costituita dagli ases, una sorta di alberi genealogici fatti di metallo. Nel Gabon, invece, i Mpongwe conservano le reliquie dei defunti in speciali contenitori, in cui i teschi dipinti di rosso sono deposti su un panno. Usanze analoghe sono presenti anche fra le tribù vicine dei Mitsogo e dei Fang. L’esecuzione dei riti funerari aiuta, in Africa, a conservare l’equilibrio fra i due elementi che costituiscono la società, i vivi e i morti.

    La percezione del tempo, il culto degli antenati e riti funerari sono dunque i tre elementi essenziali della cultura e della religione dell’Africa subsahariana. Tal elementi presentano una notevolissima convergenza di azioni e di simboli, che illustrano la concezione dell’immortalità, sia quella del gruppo sia quella dell’individuo. Il tempo, per esempio, è il sostegno delle generazioni. Passato, presente e futuro, i tre momenti del procedere del tempo, possono essere pensati soltanto in termini umani, ma devono essere considerati nella loro relazione col mondo degli antenati, il mondo ideale dei viventi. Per questo l’immortalità è collegata al passato e alla tradizione degli antenati. E questa tradizione è il risultato di successive generazioni: costituisce la somma globale della sapienza e il fondamentale valore dell’esistenza.

    Attraverso l’esperienza del defunto e la comunità degli antenati, che aumenta in continuazione, i viventi, a loro volta, accrescono continuamente la loro ricchezza spirituale. Il tempo lineare e il tempo ciclico si intersecano fra loro per costituire l’asse dell’immortalità. L’altro mondo è connesso con la nozione di riposo, tranquillità e pace: un paradiso verso il quale la società dei viventi procede fino a quando si comporta in modo conforme alla tradizione. Proprio attraverso questa comunità con gli antenati e grazie alla loro venerazione, l’africano raggiunge l’immortalità.

    BIBLIOGRAFIA

    L.V. Thomas, R. Luneau, La terre africaine et ses religions, Larousse, Paris-Lausanne 1975, pp. 214-238.

    D. Zahan, Religion, spiritualité et pensées africaines, Payot, Paris 1970, 1980².

    JULIEN RIES

    AFRICA, RITI DI INIZIAZIONE

    In Africa l’iniziazione costituisce un elemento essenziale dell’educazione. Essa infatti mette in movimento il processo di personalizzazione e di socializzazione. L’incarico di formare la personalità del giovane viene assunto dal gruppo nella sua globalità. L.V. Thomas e R. Luneau hanno dimostrato che in Africa nei riti di iniziazione si mescolano profondamente l’individuale e il sociale, il profano e il sacro, il reale e l’immaginario. Secondo questi studiosi è necessario considerare due distinti livelli. A livello individuale, il rito iniziatico è un insieme complesso di tecniche rivolte a umanizzare, a culturalizzare e a socializzare l’essere umano, attraverso una conoscenza liberatrice e grazie a prove efficaci, al fine di orientarlo verso le sue responsabilità di adulto. A livello di gruppo, invece, questi riti rappresentano un insieme di procedimenti attraverso i quali la società assume il controllo del proprio destino.

    Gli stessi autori insistono sulle difficoltà incontrate dagli etnologi e dagli antropologi nell’avvicinarsi ai riti dell’Africa nera: mancanza di informazione su molti riti praticati nei recinti sacri; carattere segreto delle cerimonie; esoterismo delle liturgie; costante riferimento ai miti; uso di lingue accessibili soltanto ai «detentori di un sapere profondo»; varietà delle forme; pluralità di situazioni e di tecniche; oscillazioni secondo le età e i sessi. Il rito di iniziazione è destinato a regolare l’ordine e il disordine, a mantenere e a riprodurre, a vitalizzare e a rinserrare i legami. L’iniziazione è una scuola incaricata di istruire e di educare. Il suo insegnamento riguarda il corpo, la struttura del mondo, l’organizzazione del gruppo, i suoi miti e le sue leggi. Si tratta di un’educazione che forma la personalità del giovane e può realizzare veramente una trasformazione. L’iniziazione ha anche lo scopo di facilitare la procreazione. Infine, in quanto rito di passaggio, essa sacralizza l’essere umano attraverso una rinascita simbolica e lo mette in contatto con il trascendente.

    Il contributo di F. Rodegem, Iniziazione alla saggezza nella società africana (pp. 91-104), affronta una questione raramente trattata dagli africanisti: il ruolo della parola iniziatica, elemento importante, anzi essenziale in ogni iniziazione. Nella società africana il patrimonio culturale è un patrimonio orale. Se ogni parola è di per sé importante, la parola degli antenati, presente nei riti di iniziazione, possiede un valore eccezionale.

    Lo scopo principale dell’iniziazione è quello di assicurare il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza: richiamare le regole del clan; formare individui conformi al modello culturale tipico del gruppo. Per questo è necessario addestrare il giovane a osservare la saggezza tradizionale, sulla quale si fonda la vita del gruppo. Questo insegnamento non si realizza attraverso una forma di discorso morale, ma grazie ai miti, ai racconti, ai giochi, canti, litanie e proverbi. Il proverbio, in particolare, si presta a rappresentare in modo astratto alcuni elementi presenti nei riti. Tutti i proverbi africani mostrano una identica struttura ed esprimono immagini simili.

    La saggezza che viene trasmessa nel corso dell’iniziazione è destinata a orientare il comportamento degli individui e del gruppo. Si tratta di una parola ereditata dagli antenati. L’osservazione della natura, del comportamento degli animali, dei banali avvenimenti della vita quotidiana, costituiscono gli argomenti di questi proverbi. L’iniziazione è una forma di pedagogia attiva che trasmette la conoscenza e conduce ciascun individuo a identificarsi nel modello culturale del suo gruppo. I valori collettivi fissati dalla comunità degli antenati costituiscono la tradizione normativa, che coincide con un’etica capace di assicurare la sopravvivenza dell’individuo e del gruppo. I riti di iniziazione trasmettono un insegnamento ritualizzato.

    L’articolo di Rodegem illustra perfettamente l’affermazione di Thomas e Luneau: «L’iniziazione rimane il più significativo e il più spettacolare di tutti i riti di passaggio» (ibid., p. 236). Legata ai racconti mitici, agli archetipi simbolici, alla saggezza ancestrale, essa è la chiave di volta del sistema religioso tradizionale. Dal punto di vista dell’homo religiosus troviamo in essa preghiere, sacrifici e offerte, riti di riparazione e di consacrazione, tecniche di divinazione e una certa liturgia della nascita e della morte. I diversi riti di iniziazione rimangono comunque legati ai valori prodotti da ciascuna etnia.

    BIBLIOGRAFIA

    L.V. Thomas, R. Luneau, La terre africaine et ses religions, Larousse, Paris-Lausanne 1975, pp. 214-238.

    D. Zahan, Religion, spiritualité et pensées africaines, Payot, Paris 1970, 1980².

    JULIEN RIES

    ALL FOOLS’ DAY (PESCE D’APRILE)

    Il primo giorno di aprile, noto come Pesce d’aprile, è tradizionalmente caratterizzato dall’abitudine di fare scherzi (di solito ad amici) e di impegnarsi in attività frivole. Rimane una delle poche feste primaverili dell’Europa cristiana indipendente dalla ricorrenza della Pasqua. Il Pesce d’aprile non va confuso con la Festa dei Folli, la farsesca ricorrenza medievale in cui si inscenavano capovolgimenti gerarchici e parodie della Chiesa ufficiale da parte di officianti di basso rango di cattedrali ed altre persone (calendarizzata in prossimità, o il giorno stesso, della Festa della circoncisione, il primo gennaio). L’essenza delle attività del Pesce d’aprile è comunque legata a questo tipo di eventi derisori, di tanto in tanto concessi da parte del potere. Le reali origini delle pratiche del Pesce d’aprile e il loro rapporto con il primo aprile sono sconosciute. La data e le tradizioni sembrerebbero riflettere alcune delle caratteristiche festive di celebrazioni religiose non cristiane, quali le Hilaria dell’antica Roma (25 marzo) e la festa di Holī dell’India (che termina il 31 marzo). A determinare il periodo dell’anno e la persistenza delle abitudini del Pesce d’aprile potrebbero avere contribuito celebrazioni tradizionali connesse con l’equinozio invernale e con l’arrivo della primavera nell’emisfero settentrionale, complice il tempo atmosferico allegro e spesso volubile della stagione.

    Il significato del Pesce d’aprile è stato interpretato a livello popolare in svariate maniere. La data festiva è stata vista come commemorazione dei vagabondaggi da luogo a luogo del corvo e della colomba che Noè inviò dall’arca alla ricerca di terra dopo il diluvio biblico. Oppure la si è considerata un rievocazione irriverente del trasferimento di Gesù dalla giurisdizione di un personaggio politico o religioso a quella di un altro nelle ore immediatamente precedenti la crocifissione. In entrambi i casi si credeva che gli eventi fossero accaduti verso il primo giorno di aprile. Una affascinante spiegazione delle tradizioni del Pesce d’aprile in Francia riguarda la confusione sul cambiamento della data per la celebrazione del Nuovo Anno. Per chi considerava il 25 marzo come inizio dell’anno (nell’Europa medievale vi erano numerose divergenti date per celebrare l’evento) gli otto giorni di celebrazioni culminavano in corrispondenza del primo giorno di aprile. Quando, nel 1564, Carlo IX fissò al primo gennaio l’inizio dell’anno, non tutti accettarono la novità e molti non riuscivano a ricordarsi la nuova data. Tale confusione portò all’abitudine di scambiarsi falsi auguri in occasione del primo dell’anno del vecchio calendario (primo aprile), nonché di mandare falsi doni, come scherzo, a coloro i quali si aspettavano la festa tradizionalmente osservata in quella data. Alcuni studiosi credono che ben presto vennero associati a quel giorno ogni sorta di scherzi. Da ciò deriverebbe l’espressione poisson d’avril, «Pesce d’aprile», adoperata per descrivere la sprovveduta vittima di burle della festa.

    Le tradizioni del Pesce d’aprile, note e praticate in molti Paesi europei, vennero introdotte da coloni inglesi negli Stati Uniti d’America. Negli Stati Uniti chiunque, quale che sia la sua età e la sua posizione sociale, può essere il Pesce d’aprile. La tradizione, tuttavia, esige che gli scherzi abbiano luogo soltanto durante le dodici ore dalla mezzanotte a mezzogiorno (con il resto della giornata consacrato, senza dubbio, alle scuse). La pratica è ormai di solito limitata ai bambini, benché vi siano adulti che continuino a fare semplici scherzi o a escogitare sofisticate beffe a danno di persone ignare o dimentiche della ricorrenza.

    BIBLIOGRAFIA

    In tema di Pesce d’aprile è stato prodotto poco di scientificamente valido. Una fonte datata di informazioni, in inglese, sulle abitudini della festa è R. Chambers (cur.), The Book of Days, I-II, Philadelphia (1862-1864) 1914, rist. Una riflessione più aggiornata sulle tradizioni del Pesce d’aprile si può trovare in Christina Hole, British Folk Customs, London 1976. Hertha Wolf-Beranek, Zum Aprilscherz in den Sudetenländern, in «Zeitschrift für Volkskunde», 64 (1968), pp. 223-227, fornisce un riassunto, breve ma utile, dei mutamenti che hanno avuto luogo, in Europa, nelle espressioni che definiscono gli individui di cui ci si prende gioco il primo aprile. L’articolo intitolato April Fools’ Day che si trova in Catherine H. Ainsworth, American Calendar Customs, I-II, Buffalo/N.Y. 1979-1980, I, benché inadeguato nello spiegare le origini della tradizione, contiene informazioni raccolte dall’autrice sulla celebrazione della ricorrenza negli Stati Uniti.

    [Aggiornamenti bibliografici: A. Aveni, The Book of the Year. A Brief History of Our Seasonal Holidays, New York 2003; J.J. Farrell, April Fool’s Day, in «Clergy Journal», 77 (2001), p. 12].

    LEONARD NORMAN PRIMIANO

    ANNO RELIGIOSO EBRAICO

    Il termine ebraico ḥodesh, impiegato nella Bibbia con il valore di «mese», significa «ciò che viene rinnovato» e fa riferimento al periodo di luna nuova. Quindi il calendario ebraico segue le fasi lunari, dal momento che il primo giorno di ogni mese è chiamato Ro’sh Ḥodesh («nascita della luna»). Alcuni mesi comprendono ventinove giorni, altri trenta. Quando il mese precedente conta ventinove giorni, Ro’sh Ḥodesh viene celebrato per due giorni come una festività minore, se invece i giorni sono trenta la celebrazione della festa ne occupa uno solo. Nel Pentateuco (Es 12,2) il mese in cui il popolo di Israele fuggì dall’Egitto viene contato come il primo dell’anno, quindi quando la Bibbia fa riferimento al terzo mese, al settimo e così via, inizia il computo dal mese dell’esodo. Ma la festività della Pasqua, che celebra l’esodo, in Deuteronomio 16,1 viene fatta cadere nel mese di Abib (’Av, «maturazione»). Si ipotizza che questo particolare esprima l’esigenza che la Pasqua cada sempre in primavera, e che quindi il calendario lunare ebraico presupponga un calendario solare naturale, analogo a quelli utilizzati in gran parte delle società antiche. Di conseguenza venne introdotto un sistema di intercalazione che consentisse all’anno lunare di mantenere il passo di quello solare. Il metodo consisteva nell’inserimento di un ulteriore mese a sette su diciannove anni lunari. Durante il periodo della cattività babilonese, dopo la distruzione del Primo Tempio, per i mesi vennero adottate, e sono utilizzate tuttora, le denominazioni babilonesi. I nomi sono Nisan, ’Iyyar, Siwan, Tammuz (la sua derivazione dal nome di una divinità babilonese era sconosciuta o ignorata), ’Av, ’Elul, Tishri, Marheshwan, Kislew, Ṭevet, Shevat, ’Adar. Quando alla fine di un anno bisestile viene intercalato un mese aggiuntivo, questo è chiamato ’Adar Sheni, o «secondo ’Adar».

    L’evoluzione del calendario. Nel computo degli anni non è stato applicato un sistema uniforme fino al periodo medievale, quando si è optato per il metodo, ancora oggi utilizzato, che si basa sulla data (biblica) della creazione del mondo. I commenti francesi del Talmud (tosafot al T.B., Giṭṭin 80b) rilevano che, nella Francia del XII secolo, la datazione dei documenti a partire dalla creazione era una pratica ormai consolidata. Nella letteratura talmudica è oggetto di discussione l’ipotesi che la creazione abbia avuto luogo nel mese di Nisan (il primo mese) o di Tishri (il settimo), ma ai fini della datazione si segue la seconda eventualità, cosicché il nuovo anno inizia il primo giorno del mese di Tishri. In questa data si celebra la festività di Ro’sh ha-Shanah (anno nuovo). Quindi l’anno 1240 d.C. corrisponde all’anno 5000 dalla creazione. Allo stesso modo il 1986 d.C. dal 1° gennaio al 3 ottobre corrisponde all’anno 5746 dalla creazione; dal 4 ottobre (la data di Ro’sh ha-Shanah) è il 5747. Questo sistema di datazione è impiegato nei documenti legali, nelle lettere e nei giornali, ma non ha valore dottrinale, cosicché normalmente non crea disagio ai tradizionalisti, che preferiscono un’interpretazione non letterale della testimonianza biblica, tale da dare spazio alle convenzioni scientifiche che attribuiscono alla terra un’età di gran lunga maggiore.

    Nell’ambito degli studi critici incentrati sulla Bibbia è comunemente riconosciuta l’ipotesi che la formula più volte ricorrente nel primo capitolo del Genesi – «e fu sera e fu mattina» – significasse che quando la luce del giorno si trasfigurava nella sera e la notte svaniva nel mattino era trascorso un giorno intero. Ma secondo l’interpretazione fornita dalla tradizione talmudica questi versetti significano che la notte viene prima del giorno. Per questa ragione il giorno, ai fini religiosi, inizia al calar della notte e dura fino al tramonto successivo. Il Sabato inizia al tramonto del venerdì e si protrae fino alla sera del sabato. Lo stesso criterio viene seguito per le festività. Il periodo del crepuscolo è legittimamente incerto, e vige inoltre l’obbligo di anticipare l’inizio del Sabato e delle celebrazioni di festività e posticiparne la conclusione. Di conseguenza i calendari ebraici fissano l’apertura del Sabato poco prima del tramonto e il termine a notte fonda. Gli Ebrei osservanti, in assenza di un calendario, proseguiranno il Sabato finché l’oscurità non sarà tale da poter distinguere nel cielo notturno tre stelle di medie dimensioni in stretta vicinanza tra loro.

    Prima dell’istituzione del calendario attualmente fissato (metà del IV secolo d.C.), il giorno di luna nuova veniva ricostruito in base all’osservazione. Se dei testimoni vedevano la luna nuova il ventinovesimo giorno del mese, presentavano la propria testimonianza di fronte all’alta corte e quel giorno veniva dichiarato Ro’sh Ḥodesh, l’inizio del nuovo mese. Se la luna nuova non veniva avvistata il ventinovesimo giorno, il trentesimo diveniva automaticamente Ro’sh Ḥodesh. Poiché le festività che cadevano all’interno del mese erano stabilite in base a Ro’sh Ḥodesh, permaneva una certa incertezza nella scelta di un giorno o di un altro per le celebrazioni. Fatta eccezione per Ro’sh ha-Shanah, che si celebra proprio nel giorno di luna nuova, speciali messaggeri erano deputati a fornire agli Ebrei della Palestina informazioni sulla corretta data di una festività. Ma per gli Ebrei della Diaspora, che vivevano in terre troppo distanti per poter essere informati in tempo, divenne un’abitudine protrarre le celebrazioni per entrambi i giorni, ed evitare così ogni possibile errore. Anche dopo l’istituzione del calendario, stando a quanto affermano le fonti talmudiche, le autorità palestinesi raccomandarono agli Ebrei della Diaspora la continuazione delle tradizioni dei loro avi e l’osservanza dei «due giorni della Diaspora». Una spiegazione razionale di epoca successiva alla compilazione del Talmud per i due giorni della Diaspora chiarisce che al di fuori della Terra Santa il giorno di festa supplementare compensa l’assenza di un territorio sacro. Nello Stato di Israele si ha quindi l’abitudine di osservare un solo giorno di celebrazioni (tranne che per Ro’sh ha-Shanah), mentre gli Ebrei stanziati altrove ne osservano due. Nelle fonti giuridiche si assiste a una intensa discussione riguardo alla pratica che un ebreo che vive al di fuori di Israele deve adottare in caso di visita in Israele durante una festività, e viceversa. Gli Ebrei riformisti preferiscono seguire soltanto le prescrizioni bibliche, e non praticano l’osservanza dei due giorni della Diaspora. Anche alcuni Ebrei conservatori hanno caldeggiato l’abolizione del secondo giorno, in considerazione dell’anomalia insita nel fatto di considerare festivo un giorno che non viene celebrato come tale in Israele.

    I giorni festivi. Ricorrenze analoghe presenti nel Vicino Oriente antico inducono a pensare che le festività bibliche fossero in origine feste agricole trasformate poi in celebrazioni di avvenimenti storici. L’aspetto più straordinario del calendario religioso ebraico consiste in questo passaggio dal ciclo delle stagioni al riconoscimento dell’azione di Dio nella storia dell’uomo – nel passaggio, per così dire, dallo spazio al tempo.

    I giorni festivi dell’anno ebraico si possono distinguere in due categorie: festività bibliche e postbibliche, o maggiori e minori (Purim, benché affondi le sue radici in Ester, un testo del periodo biblico, viene considerata da questo punto di vista una festività postbiblica e quindi minore). Il primo e l’ultimo giorno di Pasqua e di Sukkot, Shavu‘ot, Ro’sh ha-Shanah e Yom Kippur sono festività maggiori, e in queste occasioni il lavoro (tranne quello richiesto per la preparazione del cibo, e durante Yom Kippur persino quello) è proibito. Nei giorni di Pasqua e di Sukkot compresi tra il primo e l’ultimo sono permesse solo le attività strettamente necessarie. Durante le festività minori come Purim e Ḥanukkah è permessa ogni occupazione.

    Ogni festività ha il suo specifico rituale e la sua peculiare liturgia. Tutte le festività, tranne Ro’sh ha-Shanah, Yom Kippur e Purim, prevedono la recitazione dello Hallel («lode»), composto dai salmi 113-118, nella sinagoga. Una parte soltanto dello Hallel viene ripetuta durante Ro’sh Ḥodesh, quando il lavoro è permesso, e negli ultimi sei giorni della Pasqua, poiché è considerato disdicevole rallegrarsi cantando le lodi di Dio per intero dal momento che gli Egizi, che sono anch’essi creature di Dio, sono stati annientati. I banchetti sono all’ordine del giorno in occasione delle festività (tranne, ovviamente, durante Yom Kippur), e la giornata è caratterizzata dall’impiego delle proprie vesti migliori. Lo studio dei passi significativi delle fonti ebraiche durante ciascuna festività è considerato un’azione meritoria. Durante i giorni di digiuno non vengono assunti né cibo né bevande dall’alba al tramonto (in occasione di Yom Kippur e di Tish‘ah be-Av dal tramonto del giorno precedente).

    Nel seguente elenco sono illustrate tutte le festività maggiori dell’anno religioso, mese per mese:

    • 15-22 di Nisan (15-23 per le comunità della Diaspora): Pasqua (ebr. Pesaḥ), che celebra l’esodo dall’Egitto.

    • 6 di Siwan (6-7 per le comunità della Diaspora): Shavu‘ot, anniversario della teofania al Sinai.

    • 17 di Tammuz: il digiuno di Tammuz, che ricorda lo squarcio apertosi nelle mura di Gerusalemme al tempo della distruzione del Primo Tempio (587/6 a.C.) e del Secondo Tempio (70 d.C.).

    • 9 di ’Av: Tish‘ah be-Av (nono giorno di ’Av), giorno di digiuno che commemora la distruzione del Primo e del Secondo Tempio e altre calamità nazionali.

    • 1-2 di Tishri: Ro’sh ha-Shanah, la festività del nuovo anno.

    • 3 di Tishri: Som Gedalyah (digiuno di Godolia), che rievoca l’assassinio di Godolia descritto in Geremia 41,1-2 e 2 Re 25,25, un evento che caratterizzò la fine della prima confederazione.

    • 10 di Tishri: Yom Kippur (giorno dell’espiazione), il grande giorno di digiuno.

    • 15-23 di Tishri (15-24 per le comunità della Diaspora): Sukkot (festa delle capanne), che rievoca il tempo in cui il popolo di Israele dormiva in capanne durante il suo viaggio nel deserto dopo l’esodo.

    • 25 di Kislew: primo giorno di Ḥanukkah (festa della riconsacrazione), che celebra la vittoria sui Maccabei e la riconsacrazione del tempio. Ḥanukkah dura otto giorni.

    • 10 di Ṭevet: ‘Asarah be-Ṭevet (digiuno del decimo giorno di Ṭevet), che commemora l’assedio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor prima della distruzione del Primo Tempio nel 587/6 a.C.

    • 15 di Shevaṭ: Ro’sh ha-Shanah le-Ilanot (nuovo anno degli alberi), una festività minore, reminiscenza delle leggi sulle decime in uso nei tempi antichi. Al giorno d’oggi, questa festività è una celebrazione della generosità di Dio, un rendimento di grazie per i frutti della terra.

    • 13 di ’Adar: Ta’anit Ester (digiuno di Ester), che riprende la narrazione di Ester (4,16).

    • 14 di ’Adar: Purim (sorti), la festività che celebra la vittoria su Aman, che gettò le sorti per annientare gli Ebrei, secondo quanto riferito in Ester (3,7).

    • 15 di ’Adar: Shushan Purim (Purim di Susa), che ha la le sue radici nel passo di Ester (9,18) che descrive come gli Ebrei celebrarono in questo giorno nella capitale Susa la propria liberazione.

    Festività e giorni di digiuno maggiori. Le tre festività di Pasqua, di Shavu‘ot e di Sukkot formano un nucleo unico, dal momento che, all’epoca del Tempio, erano feste di pellegrinaggio, durante le quali i fedeli venivano in adorazione per offrire sacrifici nel Tempio. La connessione fra queste tre festività si mantiene nella liturgia, in cui sono presenti riferimenti alla posizione occupata da ciascuna festività nel ciclo annuale. Così nella liturgia della Pasqua si fa riferimento al «tempo della nostra liberazione», in quella di Shavu‘ot al «tempo della concessione della nostra Torah» e in quella di Sukkot al «tempo della nostra gioia», poiché Sukkot, in quanto culmine del ciclo, è il tempo caratteristico della gioia.

    Le tre festività maggiori del mese di Tishri sono considerate un gruppo omogeneo di diverso tipo. Ro’sh ha-Shanah, la prima delle tre, è reputata una festa della ragione, in cui l’uomo riflette sul proprio destino e decide di condurre una vita migliore nell’anno successivo. Yom Kippur, il giorno in cui vengono suscitate le emozioni, è considerato una festa del cuore, perché è il giorno del perdono e della riconciliazione con Dio. Sukkot, la terza di questa triade, implica una partecipazione attiva ai preparativi per le capanne e i banchetti che vi si svolgeranno, ed è quindi interpretata come la festa della mano. In questo modo ragione, cuore e mano sono richiesti nel servizio di Dio.

    I giorni compresi tra Ro’sh ha-Shanah e Yom Kippur, estremi inclusi, sono conosciuti come i dieci giorni di penitenza. Questo è un solenne periodo di riflessione sul significato della vita e di sincero pentimento. Allo stesso modo l’intero mese di ’Elul, l’ultimo dell’anno vecchio, è una fase di penitenza in vista del periodo solenne all’inizio dell’anno nuovo. Di conseguenza Ro’sh ha-Shanah e Yom Kippur sono noti come Yamim Nora’im, giorni del timore riverente.

    Festività e giorni di digiuno minori. Nel ciclo annuale vi sono due periodi di lutto durante i quali non si celebrano matrimoni e i segni di cordoglio vengono rispettati. Il primo di questi è il periodo di tre settimane che va dal diciassettesimo giorno di Tammuz a Tish‘ah be-Av, il periodo di lutto in ricordo della distruzione del Tempio e della sofferenza della comunità nelle epoche successive. In molti luoghi questo periodo diviene più sentito dal primo giorno di ’Av, in quanto viene bandito il consumo di carne e vino. Il secondo periodo di lutto, di minore importanza, è conosciuto come periodo di ‘Omer, e dura quarantanove giorni a partire dal secondo giorno della Pasqua fino alla festività di Shavu‘ot (benché ovviamente non si osservi il lutto durante la Pasqua stessa). Lo ‘omer era una misura di farina da portare in offerta all’epoca del Tempio, e una prescrizione biblica impone il computo di questi quarantanove giorni (Lv 23,9-16; noto come «conteggio dello ‘Omer»). Si è ipotizzato che il costume del lutto durante lo ‘Omer abbia le sue origini nell’antica credenza, condivisa da molti, che portasse sfortuna unirsi in matrimonio durante il mese di maggio. Le fonti tradizionali affermano che il lutto commemora i molti discepoli di ‘Aqiva’ ben Yosef morti di peste nel II secolo d.C. I mistici introducono una visione differente. Esistono nella natura divina sette poteri o facoltà inferiori, le sefirot, che si incrinano in conseguenza dei peccati degli uomini. Ognuno di questi contiene anche gli altri, cosicché ognuno dei quarantanove giorni di ‘Omer invita al pentimento allo scopo di ricomporre queste fenditure. I mistici di Safed nel XVI secolo sostenevano che il diciottesimo giorno di Tyyar, il trentatreesimo dello ‘Omer – Lag ba-‘Omer – fosse l’anniversario della morte del grande mistico Shim‘on bar Yoh’ai, un discepolo di ‘Aqiva’ e presunto autore dello Zohar. La credenza che descrive il ricongiungimento in cielo dell’anima del santo con la sua fonte al momento della morte viene definita «il matrimonio di Shim‘on bar Yoḥ’ai». Di conseguenza questo giorno divenne una festività minore e nel corso della giornata vengono celebrati matrimoni.

    Il giorno di luna nuova, Ro’sh Ḥodesh, è anch’esso una festività minore. In base all’accostamento di Ro’sh Ḥodesh con il Sabato in una serie di passi della Bibbia, molti studiosi biblici presumono che nei tempi antichi Ro’sh Ḥodesh fosse una festività maggiore al pari del Sabato. In ogni modo, attualmente questo giorno è contraddistinto solamente da celebrazioni in tono minore e da appendici liturgiche.

    Un’antica tradizione dispensa le donne dall’obbligo di lavorare durante Ro’sh Ḥodesh, e questo particolare potrebbe essere un residuo dell’antica sacralità di cui godeva questo giorno. La spiegazione ufficiale chiarisce che le donne rifiutarono di partecipare alla realizzazione del vitello d’oro, e che per questo motivo fu loro concesso un giorno di festa supplementare. Nella tradizione mistica la luna simboleggia la Shekhinah, l’elemento femminile nella divinità, controparte celeste della comunità di Israele, che attende la redenzione del popolo ebraico e di tutta l’umanità con l’armonia restaurata in tutta la creazione. La crescita e il declino della luna divengono quindi un potente simbolo mitologico. I mistici di Safed introdussero di conseguenza un nuovo rituale per la vigilia di Ro’sh Ḥodesh. Questo giorno è conosciuto come Yom Kippur Qatan (Yom Kippur minore). Come è implicito nel nome, è un tempo di pentimento e, per alcuni, di digiuno.

    Esistono numerose altre feste e giorni di digiuno di minore importanza. Il Digiuno del Primogenito ha origine nel primo Medioevo. Nell’Esodo (13,1-16) si riferisce che i primogeniti degli Israeliti sono particolarmente santificati perché Dio li risparmiò quando sterminò i primogeniti degli Egizi. Così si affermò l’abitudine di digiunare alla vigilia della Pasqua, il 14 di Nisan. Oggigiorno generalmente i primogeniti, invece di digiunare, prendono parte a una seduta di studio durante la quale viene analizzato interamente un trattato del Talmud. La partecipazione a un banchetto in questa occasione è considerata una prescrizione religiosa che prevale sull’obbligo del digiuno. Alcuni Ebrei osservanti digiunano il lunedì, il giovedì e il lunedì successivo alle festività della Pasqua e di Sukkot – Bet He’ Bet («due, cinque, due», in riferimento ai giorni della settimana). Questo comportamento si fonda sull’esigenza di espiare ogni frivolezza disdicevole compiuta durante il lungo periodo di festa.

    In molte comunità ebraiche la sepoltura dei morti è deputata a una organizzazione volontaria, l’appartenenza alla quale è concessa solo ai candidati più insigni. Questa organizzazione è nota come ḥevrah’ qaddisha’ («santa fratellanza»). I membri della ḥevrah’ qaddisha’ osservano il digiuno nel settimo giorno di ’Adar, anniversario della morte di Mosè, per riparare a ogni mancanza di rispetto che possono aver dimostrato nei confronti dei morti. Ma durante la notte successiva al digiuno tengono uno speciale banchetto per celebrare la loro posizione privilegiata.

    Ci sono anche festività minori celebrate da gruppi particolari. Ad esempio, sulla falsariga di Purim, molte comunità scampate miracolosamente alla distruzione celebrano da allora in poi il giorno della loro liberazione come un «Purim». Per esempio, il maestro hasidico Shne’ur Zalman di Lyady (1745-1813), fondatore della scuola hasidica Habad, fu liberato dalla prigionia in Russia il diciannovesimo giorno di Kislew, dopo il suo arresto con l’accusa di tradimento, e i suoi seguaci celebrano questo giorno come una festività.

    Due festività introdotte in epoca moderna sono Yom ha-Sho’ah (giorno dell’olocausto), celebrato il 27 di Nisan, che commemora lo sterminio di sei milioni di Ebrei durante il periodo nazista, e Yom ha-Aṣma’ut (giorno dell’indipendenza), il 5 di ’Iyyar, che è la celebrazione, specialmente nello Stato di Israele, della dichiarazione d’indipendenza di Israele avvenuta in quella data. In molti circoli religiosi questo giorno è considerato un vero e proprio yom ṭov, e vi si recita lo Hallel.

    BIBLIOGRAFIA

    Le voci Calendar, History of e Calendar, in Jewish Encyclopedia, New York 1906, sono ancora le migliori trattazioni generali. La voce Calendar, in Encyclopaedia Judaica, Jerusalem 1971, è più dettagliata, ma è così tecnica da essere comprensibile soltanto per gli esperti, che non ne avranno alcuna necessità.

    L’opera di H. Schauss, Dos yom-ṭov-bukh, New York 1933, tradotta in inglese da S. Jaffe con il titolo Guide to the Jewish Holy Days, New York 1962, è un saggio di impostazione razionalistica corredato da note critiche e storiche.

    Più attenti alla tradizione sono A.P. Bloch, The Biblical and Historical Background of the Jewish Holy Days, New York 1978, e A. Chill, The Minhagim. The Customs and Ceremonies of Judaism, Their Origins and Rationale, New York 1979.

    Una utile introduzione alla linea di pensiero tradizionalista in merito all’importanza delle festività è N. Walpin (cur.), Seasons of the Soul. Religious, Historical and Philosophical Perspectives on the Jewish Year and Its Milestones, New York 1981.

    Analoghe riflessioni sull’anno del calendario ebraico formulate da un noto teologo ortodosso del XIX secolo si possono trovare in Judaism Eternal. Selected Essays from the Writings of Rabbi Samson Raphael Hirsch, London 1956, I, pp. 3-152, tradotto dall’originale in tedesco da I. Grunfeld.

    L’opera di S.Y. Zevin, Hamo‘adim ba-halakhah, Jerusalem 1980, è una trattazione particolarmente accurata e popolare dei princìpi normativi sottesi all’osservanza delle festività e dei giorni di digiuno.

    Una parte di essa è stata pubblicata in traduzione inglese da M. Fox-Ashrei (trad.) e U. Kaploon (cur.) con il titolo The Festivals in Halachah, New York 1981.

    L’opera di S. Ganzfield, Qitsur Shulḥan ‘arukh, I-IV, New York 1948-1952, tradotta in inglese dall’originale in ebraico da H.E. Goldin con il titolo Code of Jewish Law (Qiṣur Shulḥan ‘arukh). A Compilation of Jewish Laws and Customs, ed. riv. e annotata New York 1961, III, è esaustiva e comprensibile, ma molto banale.

    LOUIS JACOBS

    ANNO LITURGICO CRISTIANO

    L’anno liturgico celebrazione dell’opera di salvezza. L’anno liturgico è la celebrazione dell’opera di salvezza da parte della Chiesa: «La santa madre Chiesa considera suo dovere celebrare con sacra memoria, in giorni determinati nel corso dell’anno, l’opera della salvezza del suo sposo divino» (Sacr. Conc., art. 102).

    I misteri di Cristo nell’anno liturgico

    Il centro della celebrazione dell’anno liturgico è il mistero della Pasqua, ricorrente in duplice commemorazione: settimanale, la domenica, e annuale, a Pasqua, la solennità originaria, fontale: «Ogni settimana, nel giorno a cui ha dato il nome di domenica, [la Chiesa] fa la memoria della risurrezione del Signore, che ogni anno, unitamente alla sua beata passione, celebra a Pasqua, la più grande delle solennità» (sollemnitas maxima [ibid.])¹. «Mai si era proclamata con tanto vigore la predominanza assoluta del mistero pasquale nel culto cristiano»².

    Questo testo della costituzione fissa la visuale esatta che occorre avere dell’anno liturgico e la sua ossatura fondamentale: esso è essenzialmente celebrazione della Pasqua del Signore, settimanale e annuale, e saranno gli attributi pasquali a prendere rilievo dinanzi ai fedeli perché ne informino la loro vita. È quanto troviamo nel nuovo calendario e nei testi del messale e della liturgia delle ore che li sostanziano.

    «Nel corso dell’anno – prosegue la costituzione – [la Chiesa] distribuisce tutto il mistero di Cristo, dall’incarnazione e dalla natività fino all’ascensione, al giorno di pentecoste e all’attesa della beata speranza e del ritorno del Signore» (ibid.). Il mistero pasquale, complessivo e sintetico, si puntualizza in diversi momenti: pur restando durante tutta la commemorazione dell’anno nella sua unicità, si rifrange in una molteplicità esemplare ed efficiente di altri misteri o «sollemnitates Domini», che salgono alla Pasqua o ne discendono, a comporre però sempre la grande trama unitaria del mistero di Cristo.

    Col prendere questa evidenza e questa forza costruttrice il mistero di Cristo, l’anno liturgico viene a costituire l’inesauribile causa della edificazione della pietà cristiana, operandosi con esso un’assimilazione e una conformazione sacramentale ed esemplare.

    San Tommaso parla di una triplice conformazione: sacramentale, mediante il merito, con la similitudine: tre concetti che offrono una risorsa magnifica di intelligibilità e di teologia dei misteri di Cristo (cfr. Scriptum super Sententiis, III, 22, 2, 2, sol. 4, ad 2).

    I fedeli, così, entrano personalmente in questo mistero, se lo «appropriano», e lo fanno fiorire e maturare in frutti di vita.

    Il testo della costituzione è denso di teologia: «Ricordando in tal modo i misteri della redenzione, [la Chiesa] apre ai fedeli le ricchezze delle azioni salvifiche e dei meriti del suo Signore, in modo tale da renderli come presenti a tutti i tempi [omni tempore quodammodo praesentia reddantur], perché i fedeli possano venirne a contatto [ea attingat] – san Tommaso parla della forza [virtus] dei misteri di Cristo, la quale con la sua presenza raggiunge ogni luogo e ogni tempo [praesentialiter attingit omnia loca et tempora: S. Th. III, 56, 1, ad 3] –, ed essere ripieni della grazia della salvezza».

    I misteri di Cristo – che sono veramente il tema teologico più sostanziale e avvincente, come storia di Dio fatto uomo, di Dio vissuto secondo l’antropologia, o come vive Dio da uomo – sono ri-presentati in un’attualità che supera i limiti del tempo e insieme vi si inserisce, per cui permangono, non riassorbiti, per comunicarsi con i fedeli, in maniera tale che questi ne percepiscano la virtù operativa (divitias virtutum atque meritorum).

    Ricostruito così, l’anno liturgico offre un fluire del tempo nel quale la comunità cristiana si muove e trae la sua linfa vitale.

    Le feste di Maria nell’anno liturgico

    Con i misteri di Cristo, l’anno liturgico celebra la «memoria» di Maria, considerata nella sua attiva comunione con l’azione redentrice del Figlio, come l’opera più riuscita della salvezza e come l’esemplare nel quale la grazia si trova al suo più alto livello.

    Le parole della costituzione liturgica: «Nella celebrazione di questo ciclo annuale dei misteri di Cristo, la santa Chiesa venera con particolare amore Maria SS.ma Madre di Dio, congiunta indissolubilmente con l’opera della salvezza del Figlio suo; in Maria ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione, ed in lei contempla con gioia, come in una immagine purissima, ciò che essa, tutta, desidera e spera di essere» (ibid., art. 103): è in nucleo tutta le teologia mariana.

    È quanto ora appare con più perspicace chiarezza nella liturgia. Il culto di Maria alimenta rettamente la pietà se un vincolo indisgiungibile lega Maria col mistero di Cristo, il quale rimane sempre e necessariamente l’unico centro e l’unica sorgente della spiritualità cristiana. Distaccarne la Vergine o isolarne un poco la «memoria», falserebbe il senso e l’efficacia medesima dell’azione materna di Maria nella Chiesa; collegarla coi misteri di Cristo e con l’organismo della Chiesa significa invece conferire un senso particolare e impareggiabile al suo culto, dal quale ogni cristiano non può prescindere, proprio per rendere un omaggio adeguato ai misteri stessi del Salvatore.

    Occorreva – sottolineando la più stretta congiunzione tra Maria e l’unico Mediatore, Cristo – riequilibrare un poco una certa ridondanza di feste mariane, derivate da un eccessivo proliferare di forme devozionali. Ne consegue la revisione della forma e del contenuto della predicazione che non deve mai trascurare i dogmi generatori della pietà mariana, con una teologia «fatta col cuore». Nei luoghi propri del culto alla Vergine, anzi lì, in certo qual modo più che altrove, bisogna che risalti la priorità ontologica e liturgica del mistero di Cristo. Con l’invasione delle messe votive nei santuari quasi in qualsiasi tempo dell’anno, con una iconografia priva per lo più di riferimento a Cristo, sovente si fa fatica a onorare Maria come la «Madre di Dio».

    Le feste dei Santi

    Ugualmente uniti con il mistero originario della salvezza sono i santi, «che, giunti alla perfezione con l’aiuto della multiforme grazia di Dio, e già in possesso della salvezza eterna, in cielo cantano a Dio la lode perfetta e intercedono per noi» (ibid., art. 104). Anzi, anche la loro memoria, secondo un modo felicissimo di esprimersi della costituzione, equivale alla proclamazione del mistero pasquale, alla sua espansione e riuscita, integrata com’è totalmente alla passione e risurrezione del Signore: «Nel giorno natalizio… la Chiesa proclama il mistero pasquale realizzato nei santi che hanno sofferto con Cristo e con lui sono glorificati» (ibid.).

    Per questa ragione, la liturgia annuale dei santi non deve intralciare lo svolgimento dei misteri del Signore, né mettere in discussione pratica la sua preminenza, né anche solo farla apparire meno evidente. In tal senso infatti è stata orientata la riforma del santorale, con grande vantaggio, anche in questo caso, della pietà cristiana, rivolta al Padre, per la mediazione di Cristo, dietro l’esempio e l’intercessione dei santi: «[la Chiesa] propone ai fedeli i loro esempi che attraggono tutti al Padre per mezzo di Cristo; e implora per i loro meriti i benefici di Dio» (ibid.).

    Le feste cattoliche solenni

    CAPODANNO (Festa di Maria Madre di Dio) (1° gennaio)

    EPIFANIA (6 gennaio)

    SAN GIUSEPPE SPOSO DI MARIA (19 marzo)

    ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE (25 marzo)

    DOMENICA DELLE PALME (domenica precedente la domenica di Pasqua)

    SETTIMANA SANTA: giovedì, venerdì, sabato santi

    PASQUA (domenica)

    ASCENSIONE (settima domenica di Pasqua)

    PENTECOSTE (domenica, 50 giorni dopo Pasqua)

    TRINITÀ (prima domenica dopo Pentecoste)

    SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO (seconda domenica dopo Pentecoste)

    NATIVITÀ DI SAN GIOVANNI BATTISTA (24 giugno)

    SS. PIETRO E PAOLO APOSTOLI (29 giugno)

    ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA (15 agosto)

    TUTTI I SANTI (1° novembre)

    COMMEMORAZIONE DI TUTTI I DEFUNTI (2 novembre)

    CRISTO RE (domenica XXIV del tempo ordinario)

    IMMACOLATA CONCEZIONE

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