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La meraviglia: Dodici erramenti
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La meraviglia: Dodici erramenti
E-book469 pagine7 ore

La meraviglia: Dodici erramenti

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Info su questo ebook

Una raccolta di saggi filosofici che indagano i grandi concetti della vita, dell'uomo, del tempo e della sua fugacità.

Il tempo e le sue aporie, la relazionalità profonda che attraversa la realtà a tutti i suoi livelli, il problema della coscienza e del suo statuto nella trama dell'universo, la responsabilità dell’uomo verso se stesso e il proprio mondo, le tangenze fra l’inesausto domandare della filosofia, i rigori della scienza e i misteri della teologia: il pensare questi temi declina, ancora una volta, la meraviglia filosofica, e lascia emergere tutte le inquietudini correlati all’accezione greca del "thauma", quella meraviglia dalla quale, secondo Platone e Aristotele, origina la domanda filosofica.

Gli scritti raccolti in questo volume nascono come privato esercizio di pensiero e, sviluppando un tentativo di meditazione intorno a un concetto o a un problema, cercano di illuminare lo spazio lasciato aperto da quelle domande, e mostrarne la profondità.

LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2019
ISBN9788869345234
La meraviglia: Dodici erramenti
Autore

Daniele Caroppo

Nato a Torino, insegna Storia e Filosofia presso il Liceo Monti di Chieri (TO). Recentemente ha curato i testi dello spettacolo teatrale Selene, dedicato alla Luna tra mito, filosofia, letteratura e scienza. La meraviglia è la sua prima pubblicazione.

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    Anteprima del libro

    La meraviglia - Daniele Caroppo

    Daniele Caroppo

    La Meraviglia

    Dodici erramenti

    Filosofia

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, giugno 2019

    Isbn libro 9788869345227

    Isbn ebook 9788869345234

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti sono riservati.

    Curatore della collana: Pietro Ratto

    In copertina: Raffaello Sanzio, Scuola di Atene, 1509-1511, affresco

    Roma, Palazzi Apostolici, Stanza della Segnatura

    Progetto grafico: Eureka3 S.r.l.

    www.eureka3.it

    Skepsis

    Skepsis è la collana editoriale di Bibliotheka che raccoglie studi e saggi nati da una voglia matta di rimettere in discussione tutti quei temi e tutti quei contesti che, da troppo tempo, la nostra cultura trasmette in maniera disincantata e stereotipata.

    Argomenti tutt’altro che scontati come quelli dell’educazione dei giovani, della didattica, della ricerca del significato dell’esistenza umana in tutte le sue declinazioni e della sua affascinante comprensione filosofica.

    Una collana frizzante e vivace cui accostarsi con genuino entusiasmo e onesta apertura mentale.

    Daniele Caroppo

    Daniele Caroppo, nato a Torino, dopo gli studi di Filosofia ha conseguito l’abilitazione in materie letterarie e poi in Filosofia e Storia, discipline che attualmente insegna presso il Liceo Monti di Chieri (Torino). Si interessa anche di musica e astronomia e recentemente ha curato i testi dello spettacolo teatrale Selene, dedicato alla Luna tra mito, filosofia, letteratura e scienza. La meraviglia è la sua prima pubblicazione.

    A Rossella

    Prefazione

    Che noi si sia disposti ad ammetterlo o no,

    siamo piante che debbono crescere radicate nella terra,

    se vogliono fiorire nell’etere e dar frutto.

    Fu proprio richiamandosi a questi versi del poeta Johann Peter Hebel che Martin Heidegger - il 30 ottobre 1955, nella sua Meßkirch - tenne il suo discorso commemorativo per il 175° anniversario della nascita del concittadino musicista Conradin Kreutzer (1780 - 1849).

    Fu un discorso memorabile, destinato a lasciare un segno indelebile. Uno di quei discorsi che solo un grande filosofo sa elaborare, riuscendo a coniugare perfettamente l’intento celebrativo e divulgativo tipico di un contesto come quello di una manifestazione civica, con il delicato e complesso approccio che un’elevata e profonda comunicazione filosofica richiede.

    Nel corso di quella mattina di sessantaquattro anni fa, Martin Heidegger pronunciò più volte, con devozione e riguardo, la sua Parola magica. Gelassenheit.

    Disse così, il grande filosofo. Disse che il pericolo era in agguato. Avvertì l’uomo che in quella Era atomica, in quella Notte nera in cui era tragicamente piombato, la sua imperante ossessione per la Tecnica (e per quell’idea di dominio, di controllo, di costruzione imperialistica di prevaricanti immagini del mondo ad essa connessa) avrebbe presto assestato il colpo decisivo a quel Pensiero meditante ormai sempre più accantonato, in favore dell’unico pensiero ormai vigente, scrupolosamente perseguito, capillarmente insegnato. Il Pensiero calcolante.

    La lotta di cui parlò, davanti a migliaia di sguardi straniti, era insomma quella che vedeva contrapposti l’antico e ormai pressoché sconfitto meditare sul senso dell’esistenza - che sgorga da facoltà sempre meno incoraggiate, oggi ancor più di ieri, come quella dell’Attenzione a ciò che ci circonda - e quel superficiale e chiassoso calcolare, che sempre tiene avvinta a sé l’illusione di catturare il mondo misurandolo, e che troppo spesso attiene a convenienze e tornaconti(1).

    Gelassenheit. Questa fu, invece, la medicina che prescrisse: Abbandono.

    Perché se c’è un modo, uno soltanto, per trasformare il mondo, esso consiste nell’abbandonarvisi. Nell’arrendervisi. Nel senso, letterale, del rendersi ad esso: del riconsegnarvisi. Un Abbandono, questo, che certo non esclude la lotta, la voglia di cambiar le cose, di migliorarle ancora. Ma che richiede presa di coscienza sovrarazionale, concentrazione, circospezione addirittura. Che si traduce in quel lungo e innocente sguardo di adorniana memoria. E che reclama Attenzione, appunto.

    Solo l’Abbandono di fronte alle cose, solo un’Apertura al Mistero di tutto ciò che ci circonda e ci pervade - atteggiamenti, questi, tutt’altro che spontanei al giorno d’oggi; atteggiamenti che richiedono impegno e mai avvengono senza il nostro consenso - potremo raggiungere quella via che conduce a un nuovo fondamento, spiega Heidegger(2).

    Dunque, il Mistero. Quello che va accolto lasciando addormentata la fredda logica del calcolare. Quel Mistero che si coglie con gli occhi; che si ascolta, si annusa. Il Mistero che si percepisce, insomma. E che, se soltanto si prova a razionalizzare, irrimediabilmente genera scandalo. Kierkegaardianamente, scandalo.

    È molto bello questo errare meravigliato di Daniele Caroppo. Perché il suo filosofico stupore per questo Mistero che ci circonda - e che produce, appunto, Thaumàzein: Meraviglia - respira in ogni pagina di questa raccolta.

    Thaumàzein. Una Meraviglia che, come Daniele ricorda, non è soltanto dolce incanto ed estatico stupore, ma che non va esente da un tratto di inquietudine e di sgomento, di fronte al vertiginoso scenario della realtà. Che spesso incute Timore e Tremore. Ma che, proprio in quanto tale, si pone come imprescindibile, tormentato, incantevole sentiero di ogni autentico filosofare. Come condizione necessaria per sviluppare radici e dare frutto.

    Un meditare urgente e a un tempo pacato, un osservare attento, appassionato e grato, quello che Caroppo ci propone in questo libro. Che visita e respira, rispettoso, il Mistero in molte delle sue infinite declinazioni. Dall’universo, all’origine della vita. Dall’impermanenza dell’esistenza, soffiata via in un baleno dal più cieco e immediato cataclisma, alle insondabili e sfuggenti dimensioni dello Spazio e del Tempo. Dalla Fisica dei quanti alla Musica di Bach. Dalla Genetica all’Intelligenza artificiale. Dall’Antropologia alla Teologia. Dal regno dell’impercettibilmente piccolo a quello dell’altrettanto impercettibile, meravigliosamente affascinante, immensità dell’Essere.

    Un libro di innumerevoli domande, e di pochissime risposte. Come nella migliore tradizione della Filosofia.

    Pietro Ratto

    (1) Cfr. a tal proposito il mio Della Filosofia e del suo inalienabile diritto all’Inutilità, in P. Ratto, BoscoCeduo. La Rivoluzione comincia dal Principio, Leucotea - EBK, Sanremo, 2017, pag. 12.

    (2) Cfr. M. Heidegger, L’Abbandono, Il Melangolo, Genova, 1998, pag. 40

    Premessa

    Raccolgo in questo volume testi che nascono come privato esercizio di pensiero e che affrontano una serie di concetti e problemi tra i quali, come m’è parso a posteriori, è possibile reperire un tratto unificante – tra diversi altri, senza dubbio – nel motivo, che spesso ritorna, della meraviglia, nell’accezione del greco thauma che secondo Platone e Aristotele è all’origine dell’impulso a filosofare, ma che insieme non va esente da un tratto di inquietudine e di sgomento di fronte al vertiginoso scenario della realtà. Sono ricognizioni, prospezioni, senza dubbio erramenti come recita il sottotitolo, nel senso di itinerari che forse non solo in ragione dell’errabonda curiosità dell’autore potranno apparire divaganti o circolari, ma anche in conseguenza della sua ambizione (a suo modo filosofica, quanto meno nelle intenzioni) di ampliare lo sguardo, di cercare di cogliere le interazioni fra i livelli della realtà, mutare e moltiplicare i punti d’osservazione in vista di opportuni spiazzamenti.

    L’esito non è tuttavia affatto quello di dissolvere tale meraviglia e placarla nel raggiunto possesso di presunte cause, spiegazioni, certezze. Ciò non è dato, neppure laddove si tenti di lasciar risuonare, accanto all’inesausto domandare della filosofia, le suggestioni delle scienze e delle loro ipotesi più sconcertanti e controintuitive. È vero che queste ultime, pur nella consapevolezza che la ricerca non abbia mai fine, mirano comunque a cogliere, nei propri limiti e ambiti, qualcosa di simile, se non proprio alla verità, almeno all’esattezza; tuttavia, anche là dove gli esatti rigori delle procedure scientifiche sembrino azzardare univoche risposte alle antiche domande (sull’origine del mondo, sui fondamenti ultimi della realtà, sul tempo, sulla coscienza, sul pensiero, sui loro rapporti coi soggiacenti traffici della materia, o sul medesimo retaggio naturalistico – biologico, etologico – che si ritiene presente nelle nostre tavole di valori), di fronte allo sguardo che non rinunci alla tentazione di sollevarsi al di sopra degli specialismi disciplinari, di osservare quanta imprevedibile realtà emerga dalla connessione e interazione delle parti, di innescare cortocircuiti tra le intrecciate gerarchie di un universo complesso che trova nella petizione di principio, nella ricorsione e nell’autoriferimento alcune delle sue cifre costitutive, si paleserà un elusivo panorama in cui le domande della filosofia, quando anche paiano aver ottenuto risposta, sembrano restare, nella loro sostanza più profonda, del tutto inevase.

    Come il tempo – alle cui aporie è specificamente dedicato uno dei testi – appare ad Agostino una realtà nota ed evidente solo finché non lo si indaghi, allorché rivela tutte le sue insidie, così è di ogni altra dimensione della realtà, come dell’esperienza che ce ne è concessa: specialmente quando si problematizzino non solo singoli aspetti parcellizzati del mondo, ma la loro vivente interrelazione, e si cerchi di pensare insieme tutti i livelli e le scale, dai quanti all’universo, passando per la mente che è parte della natura ma in altro e fondamentale senso la costituisce, quando ci si renda conto di come queste gerarchie si incurvino aggrovigliandosi e formando un anello – uno strano anello, direbbe Douglas Hofstadter, cui anche è dedicato un testo – allora questo tentativo di cogliere con un solo sguardo la complessità del mondo (quello sguardo che, forse in seguito ad un incauto sofisma, si sente legittimato a tale azzardo dal nostro presupposto che la realtà sia una pur nella sua labirintica molteplicità) sembra incorrere in un paradosso: quelle domande, quello sguardo che aspira a tutto connettere, a cogliere un panorama onnicomprensivo che non si risolva nel puro caos, hanno slargato uno spazio che resta totalmente aperto e problematico, perché colui che interroga e osserva è parte di quella medesima realtà e dunque non potrà che coglierne parzialissimi e forse fuorvianti isomorfismi.

    Eppure – se escludiamo vie di coglimento del tutto che prescindano dalla varietà a noi nota di ragione discorsiva e ritengano di poter attingere l’ultimo segreto dell’essere intuitivamente, in un meditante dissolvimento dell’io, oppure nel flusso prerazionale e irriflesso dell’istante vissuto, o infine rifugiandosi nell’acquiescenza a rivelazioni e dogmi e nella fede quia impossibile – il pensiero filosofico, determinato a percorrere la propria via e refrattario ad arrendersi al labirinto del mondo, dovrebbe pur sempre concepire il proprio compito nell’indagine su quel tutto, non negandosi vitali tangenze e liaisons con gli altri saperi e in primo luogo con le scienze della natura, per non girare a vuoto, ma essendo ben consapevole della paradossale ambivalenza delle proprie incursioni: queste ultime, mentre cercano di cogliere la realtà, con sguardo stellare, nella sua olistica globalità (approccio ora non più estraneo neppure alla hard science), sono anche ben consce, per esempio, di muovere da una mente implementata su un cervello che s’è evoluto per far fronte a problemi alquanto specifici, e che appartiene a un organismo che si sarà pur detto animale metafisico, ma che ha comunque sviluppato sensi e pensieri atti a fronteggiare non il micro o il macrocosmo, ma insidie e opportunità alla sua prosaica scala mesocosmica. Più in generale, potremmo vedere nell’uomo un sottosistema, pensante e senziente, di una realtà ben più vasta, che lo ha generato e che in un senso non secondario rinasce in lui, circolarmente, come oggetto d’esperienza. Come parte, per quanto monadica, di quel tutto, egli non può dunque pretendere di pronunciare, attraverso le proprie modellizzazioni di quella realtà, per quanto sofisticate e rigorosamente formalizzate, la parola definitiva sull’universo, o su se stesso.

    Chi voglia ciononostante, con la complicità di una buona divulgazione scientifica, mettere alla prova la sorprendente attitudine dei nostri concetti, nati per le contingenze sublunari, a trattare dei massimi sistemi e a cogliere qualche barlume della vertiginosa complessità che ci ricomprende in sé, dovrà dunque prendere atto di come le spiegazioni delle scienze, e anche le aperture delle filosofie, siano sempre situate, contestuali, tali da suggerire l’impressione che l’essenziale resti loro sempre celato, e che i loro risultati disegnino coerenze regionali che non possono restare isolate, ma che tuttavia proprio nel momento in cui sono fatte interagire fra loro iniziano a circolare, si suppone virtuosamente, lungo l’anello in cui vivono la cooriginarietà e la correlazione costitutiva e indissolubile di io e mondo, di parte e tutto, di materia/energia e pensiero: in direzione di una sorta di convoluto monismo che pure ricomprende in sé, legittimandoli pienamente ai rispettivi livelli, tanto il realismo ingenuo del senso comune, quanto il realismo più sottilmente ingenuo della scienza. Sul terreno di quella sibillina circolazione può forse divenire plausibile e fecondo l’incontro dei nostri idealismi, delle ermeneutiche fusioni d’orizzonti, delle crescenti aperture della scienza stessa ad una visione olistica e relazionale della realtà, e infine del tesoro delle antiche sapienze dell’Oriente. Che infine su quell’anello possano inseguirsi anche il tempo e l’eternità, la ridda del divenire e il cristallo dell’essere, la molteplice nozione del divino elaborata dall’animale metafisico/teologico e il suo eventuale corrispettivo reale, trascendente o immanente che sia, non è il meno intrigante tra i sospetti che hanno indotto chi scrive a ordire i suoi erramenti.

    In una fase in cui alla filosofia può sembrare destinato solo lo spazio che sembra residuare dall’occupazione da parte dei saperi scientifici dell’intero universo fisico, e in cui per esempio le neuroscienze ambiscono a tradurre nei propri linguaggi, ed eventualmente a dissolvere, anche le avventure della coscienza e della libertà, lo specifico filosofico può sembrare focalizzarsi entro l’ambito etico e politico, e quell’antica signora rischiare di vedersi ridotta, con suo gran dispetto, ad un analogo teoretico del Dio tappabuchi dal quale mette in guardia Bonhoeffer: rassegnandosi così a dover sopperire, ma provvisoriamente, coi propri miti razionali, con le proprie narrazioni qualitative e umanistiche, alle risposte ancora mancanti della scienza, che ne fornirà poi di rigorosissime, ma pur sempre segnate dall’inclinazione, che la contraddistingue, a disinnescare misteri e domande di senso derubricandole a semplici problemi, a puzzles suscettibili di risposte univoche e, almeno in prospettiva, definitive.

    Naturalmente non è così: perché la scienza più recente, coi suoi esoterismi, coi suoi ardui e sempre problematici aneliti a grandi unificazioni che traducono l’aspirazione, che fu dei milesii, all’unità del molteplice, genera sempre nuove tangenze filosofiche, dunque la filosofia della natura non si estingue e sembrano anzi prospettarlesi sempre nuove chance di pensiero e di vertigine. E non è così, soprattutto, perché l’ambito eticopolitico è ben altro che un territorio residuale non ancora colonizzato da formalizzazioni e quantificazioni, e continua piuttosto a restare il centro e il fulcro delle nostre priorità. A costituire una crescente sfida per il pensiero, a sollecitare decise prese di posizione etiche e politiche, a farci opporre un risoluto dover essere alle pretese del possibile di divenire reale, è infatti proprio l’incremento esponenziale delle conoscenze sulla natura, in ragione del loro feedback tecnologico e delle loro applicazioni e della liceità delle medesime. In questo nostro XXI secolo, in cui è possibile ravvisare l’epoca del nichilismo compiuto e, insieme, del crescente disordine globale a rischio di deriva – politica, economica, ideologica – verso il caos definitivo, mentre la cosmologia annulla la nostra irrilevante biosfera in un cosmo di dimensioni vertiginose e deflagrante di spaventose energie, gli sviluppi delle conoscenze e delle relative pratiche sulle orologerie della vita impongono più che mai la veglia della ragione: e si intenda in primo luogo la ragion pratica, il principio responsabilità di Hans Jonas, al punto che, parafrasando Lévinas, potremmo dire che in un futuro già prossimo sarà la bioetica a doversi considerare la filosofia prima.

    Quali potranno essere le ricadute etiche della problematizzazione della nozione di natura umana conseguente all’incremento della manipolabilità tecnica della materia vivente, al potenziamento delle facoltà umane mediante la riscrittura dei programmi genetici che le codificano, e alla simmetrica possibilità che la coscienza sorga, spontanea e inattesa, dal superamento di una certa soglia di connettività in una mente artificiale? Che dire allora della possibilità, auspicata da più di un futurologo visionario, di connettere in una ventura declinazione della rete globale tutti quei corpi e quelle menti incrementate con tutte quelle macchine autocoscienti? Quali retroazioni potranno sorgere tra la sfera dei valori e la transizione antropotecnica verso esiti imprevedibili e inquietanti da parte dei soggetti che ne sono i portatori? Non è evidente come tutto ciò abbia profonde implicazioni filosofiche, e come quella sgomenta meraviglia da cui abbiamo preso le mosse si distribuisca in circolari grovigli anche fra l’essere e il dover essere? Perché, come la scienza sta virando verso paradigmi che privilegiano la struttura intimamente relazionale e interconnessa della natura, verso l’inclusione e la coappartenenza costitutive e a molti livelli dell’osservatore e del mondo – che quell’osservatore sia un dispositivo tecnico o un soggetto senziente e pensante – così anche le domande di senso, i progetti di felicità, le rivendicazioni di dignità e di autenticità impattano con quella mutata nozione della realtà e circolarmente si ridefiniscono e trasformano e deformano con essa. Se la negazione di un’essenza definitiva dell’umano, enfatizzata dalla tecnica che promette o minaccia di far perdere qualunque senso, in prospettiva, alla distinzione fra naturale e artificiale, è ulteriormente incrementata dalla riduzione dell’attuale animale razionale a stadio provvisorio di uno sviluppo, a punto di una traiettoria che lascia intravedere, a meno di non meno implausibili implosioni esiziali, derive esponenziali verso l’assolutamente imprevedibile, allora sarà proprio la possibilità di simili sviluppi a sollecitare un diverso genere di meraviglia, ancor più connotata dall’inquietudine, da un preventivo disagio per i futuribili itinerari dell’umano e da un altro disagio, meno visionario e più concreto e vigile, per le loro premesse già operanti. Se le antiche domande della filosofia si imbattono nei rigorosi itinerari della scienza, che se con la sua esattezza ed efficacia non riesce mai a colmare lo spazio che esse aprono, pure contribuisce a riplasmarle e a gettare nuova luce sugli inevasi misteri, e se lo sviluppo esponenziale della tecnica legata in feedback autoamplificante ai progressi teorici coinvolgerà radicalmente, come promette, i pilastri della natura umana qualunque cosa essa sia o divenga, allora comprendiamo con chiarezza che, in tutto questo, ne va di noi, e che dunque ancor meno potremo contenere quel thaumazein nei limiti della disinteressata contemplazione: perché il suo oggetto privilegiato altri non potrà essere che colui che, grazie alla sapiente ambivalenza del linguaggio, il coro dell’Antigone chiama deinos, meraviglioso e insieme terribile.

    Il primo testo, Sotto il sole rosso, è una sorta di fantasia introduttiva sull’eventualità della presenza di vita intelligente nell’universo, occasionata dalla scoperta di un esopianeta simile alla Terra in orbita intorno alla stella Proxima Centauri. Nel testo che dà il titolo al volume tento di articolare un esercizio di consapevolezza sulla complessità dell’umano a partire dai sovraordinati livelli di realtà emergenti che lo costituiscono, mentre nel successivo la sollecitazione a porre in relazione il divenire umano e quello universale, la progettualità e l’insensatezza, l’impermanenza e l’aspirazione a uno stabile fondamento, proviene dai recenti sismi in Italia centrale. Si affronta poi, a partire da un saggio divulgativo di Carlo Rovelli sulla fisica quantistica, il tema della relazionalità come dimensione costitutiva della realtà, si tenta una rapsodica ricognizione sulle aporie del tempo, che non pretende a originalità speculativa ma intende valere come puro esercizio di vertigine, quindi si prende una posizione alquanto netta sugli scenari tecnologici futuribili prospettati dal fisico Michio Kaku. Gli altri testi che propongo nascono dal confronto con alcuni libri: Cosmo di Michel Onfray, Anelli nell’io di Douglas Hofstadter, Dio e la scienza di Jean Guitton in colloquio coi fisici Gricka e Igor Bogdanov, Il Tao della liberazione di Leonardo Boff e Mark Hathaway, Dio e il suo destino di Vito Mancuso e i saggi di Fosco Maraini sul Tibet e sul Giappone. I molteplici temi e problemi affrontati in queste disparate opere sollecitano un’ideale interlocuzione in cui l’analisi e la critica dei contenuti, l’esplicitazione dei nodi problematici, la volontà di mettere in piena luce le aporie e i paradossi, sospingono talvolta l’estensore di queste note a digressioni e divagazioni per le quali egli spera da parte del lettore una disponibilità, e magari un interesse, pari alla propria autoindulgenza. Quanto infine alle ripetizioni, che indubbiamente sussistono, egli si augura un lettore ideale che, musicofilo come lui, lo gratifichi della propria complicità considerandole risonanze, variazioni sul tema, refrains, leitmotiv.

    Torino, aprile 2017

    Sotto il sole rosso

    È l’alba, e se ad una fiduciosa sospensione dell’incredulità consentissimo di collocarci incolumi nel gelo di quelle alte quote, e di volgere il nostro sguardo curioso per il vastissimo orizzonte, potremmo vedere le sommità di compatti sistemi nuvolosi, o semplicemente un mare infinito di foschia rossastra, sormontata da cirri e strati dello stesso colore, a malapena distinguibili sullo sfondo di un cielo appena più chiaro, e poco al di sopra dell’orizzonte il gran disco rosso del sole: di un rosso cupo, minaccioso, ostile, tale da suggerire, anziché le idee della vita e del calore, il rombo delle reazioni termonucleari che da miliardi di anni travagliano quella sfera di plasma rovente, e insieme le consentono di esistere come una tra le infinite stelle. Non lontano dal sole ecco un astro luminosissimo, che emette una intensa luce giallastra e, molto più vicino a quel faro puntiforme di quanto esso disti dal sole, un altro corpo celeste, arancione. Difficile che si tratti di Venere e Mercurio, la prossimità a quel cerchio sanguigno dipende solo da ragioni prospettiche, perché quelle due stelle, una coppia stretta, orbitano intorno al comune centro di gravità ad un decimo d’anno luce di distanza dal nostro punto d’osservazione, circa mille miliardi di chilometri, e dunque pressoché in nulla contribuiscono all’insolazione di questo oceano di nuvole, né al colore di questo cielo: che riecheggia soltanto le tempeste del proprio sole, sebbene sia la stella più piccola del sistema. Perché le altre due hanno un diametro comparabile con quello della stella singola più vicina, che dista quattro anni luce e possiede un sistema di nove pianeti, mentre questo nostro immobile occhio rosso ha un diametro che è, all’incirca, solo un settimo di quello delle compagne che insegue, in orbite plurimillenarie, nella ciclopica ronda celeste, e di quello dell’altra stella che, vista da quaggiù, apparirebbe inclusa nella costellazione di Cassiopea, e molto luminosa, e tuttavia gelosa custode puntiforme, almeno per occhi e intelligenze non bardate di sofisticata tecnologia, di tutta la maestosa orologeria dei suoi mondi. Compreso il terzo – molto vicino e dunque a maggior ragione sommerso nell’alone della stella – che, laggiù, è stato l’unico disposto a lasciarsi avvolgere, poco oltre la sua nascita, sotto la pellicola dell’atmosfera, dalle efflorescenze mirabili di una biosfera, dalla quale miliardi d’anni più tardi si levò (fluttuazione della contingenza e del caso, termine di un progetto, transito necessario verso esiti impensabili da parte delle loro viventi stazioni intermedie?) l’epifenomeno del pensiero.

    Una stellina dunque, quella che insanguina il nostro cielo, sebbene alla nostra distanza appaia di un diametro quasi tre volte superiore a quello del Sole visto dalla Terra: precisamente una nana rossa, e non a caso la dicevamo immobile sull’orizzonte, perché l’unico modo per vederla risalire verso lo zenith sarebbe quello di mettersi in viaggio verso il giorno: è questo, infatti, un mondo in cui giorni e notti, albe e tramonti non sono dei tempi ma dei luoghi, perché la sfera rocciosa coperta da questo oceano ubiquitario di nubi e nebbie è troppo vicina al suo sole – pochi milioni di chilometri, molto meno di Mercurio – per potersi permettere una rotazione indipendente dal moto di rivoluzione, così è entrata in una risonanza gravitazionale che la costringe ad un’orbita sincrona, come quella della nostra Luna, e il pianeta offre, da sempre, sempre lo stesso emisfero alla luce, e quello opposto all’ombra. La stella è minuscola, è meno calda del sole del nostro sistema, ma la vicinanza del pianeta fa sì che la radiazione che lo colpisce sia, nell’insieme, comparabile a quella che raggiunge la Terra, con una forte preponderanza però dei raggi X, mentre la quantità di luce visibile è fortemente ridotta, e quell’enorme disco color mattone non consente all’insolazione diurna di superare la luminosità dei nostri crepuscoli. È una stella molto attiva, capace con le sue eruzioni e coi suoi flare – succede alle nane rosse – di scatenare tempeste magnetiche incompatibili con la sopravvivenza di qualunque forma di vita, e tuttavia questo pianeta, roccioso, leggermente più grande e massiccio della Terra, con un interno mantenuto allo stato fluido dalla vicinanza e dall’interazione gravitazionale con la sua stella, possiede un campo magnetico sufficientemente intenso da respingere quelle tempeste. Così protetto da quello schermo celeste, e circondato da una densa atmosfera, nonostante l’impegnativa meteorologia imposta dall’orbita sincrona, poiché si trova nella fascia abitabile che consente la presenza di acqua allo stato liquido, possiede almeno le precondizioni per lo sviluppo, sulla superficie interamente nascosta dalla calotta globale di nubi, di qualcosa di analogo, di parallelo, di diversamente ramificato, rispetto alla vita come noi la conosciamo.

    Hanno chiamato questo mondo, nel rispetto delle convenzioni astronomiche, Proxima b, ed è uno dei risultati più promettenti dell’incremento sempre crescente nella sensibilità degli strumenti dedicati alla ricerca degli esopianeti: l’oscillazione della nana rossa intorno al comune centro di gravità, rilevata dall’Osservatorio di La Silla col metodo delle velocità radiali e dell’effetto Doppler, risulta compatibile con l’esistenza di un pianeta roccioso di tipo terrestre, che abbia le caratteristiche di massa, densità, grandezza a partire dalle quali abbiamo voluto costruire la nostra fantasia di osservatori sospesi in quella remota stratosfera, che lasciano spaziare su quel cupo orizzonte di nubi, dominato da un astro livido a da un paio di lontani diamanti, uno sguardo che sarà probabilmente impossibile per secoli o millenni: sia per le difficoltà tecniche che imporrebbero ad astronavi o a semplici sonde di raggiungere una cospicua frazione della velocità della luce, in modo da non far durare il viaggio decine di migliaia di anni (eppure alcuni competenti assicurano che una microsonda nanotecnologica, non più grande di un insetto, a cavallo di un raggio laser potrebbe raggiungere il sistema triplo di Alpha Centauri in qualche decina d’anni), sia per le derive variamente sinistre e inquietanti che le priorità belluine della attuale e verosimilmente della futura umanità potrebbero imporre agli sviluppi della civiltà tecnologica che attualmente prolifera su quell’altro pianeta di tipo terrestre, posto nella zona abitabile – e in verità fin troppo abitato – del suo sole, che visto da quassù brilla tra le stelle di Cassiopea: civiltà cui le contingenze della storia – eventi pressoché istantanei su scala cosmica – potrebbero imporre repentini regressi a livelli pretecnologici, tali da precludere nuovamente, magari per secoli o anche definitivamente, l’accesso alla terza dimensione. A meno che questo secolo XXI, che nei suoi primi anni ci ha donato la conoscenza di almeno duemila esopianeti, non sia veramente – per la convergenza ineluttabile di tutte le criticità, economiche, ecologiche, politiche, ideologiche, belliche, verso il fuoco di un’implosione senza appello – quello che in un saggio di diversi anni fa Martin Rees, astronomo reale e presidente della Royal Society, con argomenti purtroppo assai ragionevoli aveva chiamato il secolo finale: così che non tanto di regresso potrebbe trattarsi, ma di definitiva estinzione.

    Nell’attesa che le condizioni per un nuovo esperimento antropico (si utilizza qui il termine anthropos in un senso cosmicamente molto generale e indeterminato, per indicare l’accesso di una qualunque specie sufficientemente evoluta all’autoconsapevolezza, al pensiero simbolico, al linguaggio e alla tecnica) si possano dare sulla Terra – magari milioni di anni dopo, se il caso e la necessità o Altro vorranno giocare con i lontani discendenti di altri vertebrati, o di artropodi e celenterati, lo stesso gioco che garantì qualche millennio di interessanti sviluppi al Sapiens Sapiens – non vogliamo negare alla combinatoria babelica dell’universo, cui non difettano spazio e tempo dei quali può anzi consentirsi il più regale dispendio, di tentare infiniti altri analoghi esperimenti in tutti gli ambienti che lo permettano, su tutte le rocce che il sereno arbitrio di Newton avrà scagliato nelle fasce abitabili di centinaia di miliardi di stelle, ovunque un’atmosfera e un gradiente di energia potranno consentire la comparsa di strutture dissipative capaci prima di autosostenersi e poi di autoreplicarsi, e infine di crescere fino al lampo dell’autoconsapevolezza in cui misteriosamente il cerchio si chiude e il cosmo riconosce se stesso: agnizione tuttavia anch’essa mutevole e in progresso, che di quel cerchio fa in realtà una vertiginosa spirale, in cui la mente che insegue il mistero della realtà contribuisce proprio nel far ciò ad arricchirla, a complicarla di nicchie e anfratti di pensiero, nei quali in maniere sempre nuove si compie la paradossale alchimia della presenza, ma ad un superiore livello, del tutto dell’universo in una sua minuscola parte.

    Questo sottile miracolo, che è ancora segreto per la massima parte del cosmo (la sfera dei nostri segnali si espande verso i grappoli di stelle più vicine da poco più di un secolo) s’è compiuto, per quanto ne sappiamo finora, solo sul terzo pianeta della brillante stella gialla che illumina le notti di Proxima b, pur senza essere visibile da alcun punto del suolo per la spessa coltre di nubi. La vedremmo sorgere, dopo qualche ora di viaggio in questa stratosfera rossastra, dalle masse divenute oscure dei sistemi nuvolosi e dalle nebbie eterne, se ci portassimo là dove regna sempre la notte. Cassiopea avrebbe una forma leggermente diversa, e una vistosa stella in più. Vogliamo consentire all’esercizio di pensiero che ci ha portato quassù di lasciarci la sola consapevolezza che quella è la stella madre della nostra civiltà, e di negarci invece ogni informazione sull’anno, sul periodo storico, sull’era geologica in cui ci troviamo: sappiamo soltanto che quello è il Sole, che il suo terzo pianeta, occultato nella sua luce puntiforme, è la Terra, ma non abbiamo alcun modo di sapere che ne sia della scintilla d’intelligenza che lo percorse per un intervallo infinitesimo nei miliardi di anni della sua vita di astro ciecamente errante, abbandonato alla sua newtoniana – o einsteiniana, se volete – coazione a ripetere. Quanto a quella luce di pensiero, non sappiamo se le polifonie e i contrappunti delle sue mille voci abbiano già imboccato la via che porta la fuga a miliardi di soggetti della civiltà umana ad aggrovigliarsi e arrampicarsi verso lo stretto finale e, da lì, ad imboccare il precipitoso glissando esponenziale che la annullerà nel rumore bianco e poi nel silenzio. Non sappiamo se da quello spasmo terminale siano passati pochi millenni, o milioni di anni, e cosa vi possa essere laggiù al posto del congetturale deserto lasciato dall’uomo e dal suo strepito. Tuttavia possiamo immaginare che, com’è avvenuto dopo ogni grande estinzione – e potrebbe essere, questa, una sorta di costante universale – nicchie residuali di vita siano state il germe di nuove proliferazioni della contingenza creativa, e le leggi della complessità e delle rotture di simmetria abbiano dato origine a nuove forme e variazioni sul tema della vita, e quella nuova vita potrebbe essere il supporto organico per nuove avventure del logos: nuovi animali razionali che esplorando le stratigrafie del suolo scoprirebbero un sottile strato recante le tracce (fossili con volumi cranici incoraggianti, tracce di inquinamento da idrocarburi, inclusioni di manufatti metallici in blocchi di roccia, antiche materie plastiche, ceselli di silicio, sabbie vetrificate da esplosioni nucleari) di quel periodo che il XIX secolo voleva denominare antropozoico, e il XXI antropocene.

    Quel periodo dunque, mentre osserviamo la stella distante quattro anni luce che brilla sul mare di nubi tenebrose, o l’altra stella che, enorme sull’orizzonte, le irrora di luce livida nella regione crepuscolare, potrebbe essere prigioniero del suo centimetro stratigrafico da milioni o miliardi di anni, e il Sole aver già iniziato l’itinerario che lo condurrà verso la fine del suo ciclo, verso le catastrofiche instabilità che faranno anche di lui una stella nana, bianca nel suo caso, dopo l’espansione apocalittica e l’espulsione degli strati esterni che avranno nel frattempo calcinato quanto restava dei pianeti rocciosi interni, già infuocati da tempo immemorabile per il progressivo incremento dell’attività solare, che avrebbe già cancellato dalla Terra ogni traccia e ogni possibilità biologica. Allora la Terra verrebbe lambita dai margini del mare di plasma del Sole temporaneamente ingigantito (perché di tanto crescerebbe il suo diametro nella fase finale) e poi, così ulteriormente bonificata da ogni tentazione di vita, resterebbe abbandonata per altri miliardi di anni, sotto forma di residuo planetario carbonizzato, alla luce lontana di quello che fu il Sole: luce, spettrale e ironica, di stella morta, sepolcro ultradenso che solo per difetto di massa critica non precipita nella trasmutazione paurosa in stella di neutroni, o nel potentissimo nulla di un buco nero, negando ai cadaveri dei suoi pianeti anche l’estremo barbaglio della sua luce.

    Tuttavia quel momento non è ancora giunto, perché abbiamo deciso che ad un certo punto del nostro viaggio verso la notte, intorno al pianeta sincrono, dovesse apparirci la stella gialla, nel pieno della stabilità della sequenza principale, lontana pertanto dalle tribolazioni finali come dai vagiti – spaventosissimi anche essi – della sua prima infanzia. Sebbene la sappiamo più effimera (per quanto buffamente inappropriato possa suonare questo termine ad un intervallo di dieci miliardi di anni) rispetto alla vita di una nana rossa, alla quale più tranquilli indugi del metabolismo termonucleare garantiscono una durata di gran lunga superiore a quella stimata per l’intero universo, la vicenda del nostro Sole potrebbe permettere innumerevoli fioriture e scomparse dell’intelligenza, un ciclico irradiarsi di ondate di pensiero simbolico, captabili poi nei millenni man mano che gli echi del loro residuo elettromagnetico espandono la sfera di quell’attività fino alle stelle vicine, e poi nei milioni di anni fino a quelle remote. Intanto la loro fonte si potrebbe essere inaridita, e altre esserne scaturite, su continenti che nel frattempo avrebbero mutato la loro configurazione, di tutt’altro aspetto fisico ma forse votate alla stessa sequenza che termina con l’estinzione, dopo un abuso dell’intelletto puramente strumentale e dopo le catastrofi puntualmente generate dallo squilibrio fra la potenza e la saggezza. Perché anche i nuovi pensanti, i nuovi protagonisti dell’avventura prometeica che è forse una legge o una tendenza inclusa nelle occulte geometrie dell’universo, potrebbero avere in comune coi predecessori sepolti sotto chilometri di roccia le intemperanze di un’adolescenza tecnologica incapace di giungere a maturità, e dunque votata a certissima fine dai propri stessi spasmi autodistruttivi, o dalle stesse strategie di autodifesa di una impersonale saggezza sistemica planetaria, che possiede tutte le risorse ecologiche necessarie a rimuovere l’ostacolo pensante non appena esso abbia raggiunto la potenza sufficiente a scatenare con successo la tecnologia contro il proprio mondo e dunque contro se stesso: che sia esso l’hybrispiteco che coi nostri occhi sta osservando le stelle del sistema di Alpha Centauri dai cieli di Proxima B, su cui a lungo o per sempre solo le navi o gl’ippogrifi dell’immaginazione potranno condurlo, o qualunque altro organismo che, indipendentemente dal numero di occhi e membrane e arti e appendici, o dal genere di supporto biochimico delle proprie attività superiori, abbia compiuto l’itinerario dalla prima scintilla del thaumazein ai rigorosi sogni della relatività, della fisica quantistica, dell’aspirazione a una teoria del tutto e a tutto ciò che non possiamo ancora neppure immaginare, perché la nostra scienza potrebbe stare ad esso come i miti più arcaici stanno alla fisica newtoniana. Forse neppure una civiltà capace di quei vertici sarebbe al sicuro dalle nemesi sentenziate dall’imperativo dell’universale omeostasi, che forse tollera solo le civiltà incapaci di turbare l’universo (per usare la felice espressione di Freeman Dyson) oltre una certa soglia.

    Stiamo dunque osservando il lontano Sole puntiforme, e mettiamo a tacere i nostri strumenti (anzi forse non ne abbiamo alcuno, e preferiamo immaginare di trovarci laggiù come alla meta di un viaggio sciamanico, consentito da più sottili tecnologie spirituali) perché abbiamo deciso che il nostro esercizio di consapevolezza debba passare per l’ignoranza della sorte dell’uomo: non vogliamo sapere se su quel pianetino si aggirino ancora i bipedi implumi razionali, o se altre civiltà tecnologiche si siano alternate in quei quattro o cinque miliardi di anni, successivi alla sua scomparsa, che la vita presunta del Sole consentirà al suo terzo pianeta, e ai pianeti vicini, o a qualche satellite roccioso di quelli esterni, che forse ancora ospitano le remote archeologie di avamposti e insediamenti ormai consegnati alle assortite meteorologie di quei mondi, e dunque al progressivo disfacimento e alla pace mortale dell’entropia. Ci potrebbe essere addirittura indifferente venire informati che quella stella è ancora giovane, che ha solo uno o due miliardi di anni, che i suoi pianeti sono ancora in formazione, che un intensissimo bombardamento meteorico è ancora in atto su tutte le loro superfici, che infuria la danza mortale dei planetesimi che si rincorrono sulla musica di Newton e che impattano gli uni sugli altri: ridda di spaventosi circenses su scala cosmica, che forse la natura dispone, come piacque a Plinio il Vecchio, come uno spettacolo per se stessa. La giovane Terra potrebbe aver appena subìto la coalescenza con un mostro delle dimensioni di Marte, ed essere ancora circondata dall’anello di ciclopici ejecta che poi si rapprenderà nella Luna; oppure potrebbe essere passato il tempo sufficiente a generare i trilobiti e a consegnare loro il pieno monopolio degli oceani, e a felci e agavi quello delle terre emerse, mentre viaggiano ancora remotissimi gli asteroidi e le comete incaricati (dal caso o da una necessità che sembra assumere i connotati di un Fato neppur troppo impersonale e anzi capace di pensare in grande) di causare una serie di estinzioni su vasta scala, che daranno nuove chance al gran gioco della contingenza creatrice, risparmiando nicchie evolutive in cui si acquatteranno piccoli organismi a sangue caldo. E sono quelli che attenderanno pazienti i milioni di anni necessari a mutarli in grandi primati, a metterli in grado di salire e poi di scendere definitivamente dagli alberi, e a consentir loro infine, in un baleno su scala cosmica, di costruire imperi, di dipingere il Giudizio universale, di comporre la Nona Sinfonia, di perseguitarsi e tormentarsi a vicenda, di concepire idee feconde e idee assassine, di scoprire continenti matematici per poi imbattersi nelle loro misteriose congruenze cartografiche con l’universo, di lasciar precipitare manufatti negli oceani roventi delle nuvole di Giove, o lasciarli posare sui gelidi fanghi bituminosi di Titano, o galleggiare sui suoi mari di idrocarburi liquidi: lampo di pensiero

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