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Il viaggio dell'airone
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E-book399 pagine5 ore

Il viaggio dell'airone

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Info su questo ebook

Era un giorno di primavera quando gli abitanti di Latsia, un villaggio di trenta anime nascosto tra i pendii del Taigheto, videro arrivare un uomo alto, imponente, vestito con una divisa militare scura. Portava sulle spalle un grande zaino e tra le mani, piene di piaghe, un lungo bastone. Non fu un caso che Pavlos arrivò in quel luogo sperduto, gli era stato dato l’arduo compito di vegliare su un albero di Ginkgo che nascondeva un passaggio verso un altro pianeta. “La storia narra che, quando gli Dei dei Mondi decisero che la Terra avrebbe accolto la razza umana, nove alberi di Ginkgo furono donati da un Pianeta antico e precedente al nostro, affinché creassero l’ambiente e producessero l’ossigeno necessario alla nascita dell’uomo. Questo mondo si chiamava Heilun e gli fu affidato il compito di vegliare sulla Terra” (...)
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2020
ISBN9788868273637
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    Anteprima del libro

    Il viaggio dell'airone - Andrea Bartolini

    nubem.

    PRIMA PARTE

    AL DI QUA DELLA PORTA

    1.

    La Stella del Mare

    Chiudo gli occhi, l’odore acre del mare si diffonde nuovamente nelle mie narici dopo essersi miscelato a quello del combustibile, dall’oscurità del passato, in un turbinio d’impressioni, risorge davanti a me con tutta la sua imponenza la Stella Bianca. È come se fosse trascorso un solo giorno da quando vi salii a bordo: alta come un grattacielo, scura come una notte d’inverno, valicava le onde del mare in tempesta con l’agilità e la velocità di un pesce vela, assecondava la potenza del vento con la maestria e la determinazione di un gabbiano.

    L’emozione comincia a frullarmi nello stomaco, la testa si riempie di pensieri sfocati, devo prendere un gran respiro prima di cimentarmi nella narrazione degli straordinari eventi di cui fui testimone.

    Era l’inizio di settembre del 1934 quando, durante un viaggio che mi strappava dal mio mondo e dalla giovinezza facendomi precipitare nell’età adulta, conobbi Spinone. Ricordo perfettamente il momento in cui il mio sguardo fu catturato dalla sua presenza: erano le tre del pomeriggio ed ero disteso su una sdraio ad annusare la brezza marina. Lo vidi camminare avanti e indietro sul ponte della nave con passo sicuro e lento, indossava un cappello con falda larga, era alto ed elegante, un signore distinto, come si usava dire a quei tempi.

    D’improvviso una luce in cielo mi fece voltare.

    Una stella di giorno, che stranezza! pensai. Poi mi accorsi che si stava dirigendo velocemente verso di me, osservai l’uomo che pochi momenti prima aveva attirato la mia attenzione, notai che aveva anche lui lo sguardo rivolto verso l’alto, tutte le altre persone che come noi erano sul ponte sembravano non essersi accorte di nulla. Quando oramai la luce era giunta nei pressi della nave prese improvvisamente le sembianze di un uccello, un airone per la precisione, ma non un airone comune, questo aveva delle piume rosse sulla sommità del capo ed era particolarmente grande.

    Nel frattempo il misterioso signore si stava inchinando, per tre volte ripeté l’inchino in segno di saluto.

    «Cosa fa?» mi domandai, da quel momento non lo persi più di vista, quell’inusuale comportamento aveva risvegliato in me la curiosità sopita per via della calma piatta che regnava sulla nave.

    Continuai a osservarlo quando improvvisamente venne verso di me, tirò fuori dalla tasca del soprabito scuro un taccuino, l’aprì con cura e, sfilando la penna dal taschino interno della giacca, annotò velocemente qualcosa. Notai che il viso si era contratto in un tic, la palpebra del suo occhio sinistro batteva a intermittenza e il labbro gli si sollevava in una buffa smorfia; finito di scrivere girò lo sguardo incontrando il mio.

    Io gli sorrisi un po’ imbarazzato, lui si tolse il cappello e, guardandomi dritto negli occhi: «Buongiorno giovanotto, come va la vita?» mi disse sorridendo. Il volto era tornato a essere rilassato, lo sguardo era intenso: aveva gli occhi grigi, anche se un momento prima mi erano parsi verdi.

    «Mi annoio,» risposi con sincerità «pensavo che viaggiare in nave fosse più avventuroso!»

    «Ti capisco, ragazzo mio, ci si deve attrezzare per bene quando si parte tutti soli. Come avrai notato io non vado da nessuna parte senza il mio taccuino da viaggio;» disse avvicinandosi e facendomi l’occhiolino «inoltre porto sempre con me un libro di storie».

    Si sedette accanto a me, notai che dei lunghi peli bianchi e neri gli spuntavano, come dei ciuffetti d’erba, dalle orecchie. Non credevo ai miei occhi! Proprio lì erano cresciuti.

    Lui, come se avesse letto il mio pensiero: «Anche loro servono, sai? Mi proteggono le orecchie dal vento!»

    Una simpatia spontanea e immediata si fece spazio nel mio cuore. D’ora in poi questo viaggio sarà sicuramente più divertente pensai.

    Rimanemmo lì a parlare, ogni tanto tirava fuori dal taschino del cappotto un fazzoletto bianco stropicciato con il quale si soffiava il naso tanto rumorosamente da farmi pensare a una trombetta.

    «Sarebbe meglio rientrare nel salone» suggerii.

    «No, giovanotto, non ancora. È da un po’ che non riesco a sopportare l’umidità, ma l’aria di mare mi fa bene. Lo iodio cura i problemi di respirazione come l’asma, ma a te cosa te ne può interessare, questi sono discorsi da vecchi rimbambiti!» rise di cuore.

    «Mi chiamo Spinone» disse tendendomi la mano. Pensai che quel nome non poteva essere più adatto, le sue sopracciglia erano infatti pelose e arruffate, come i peli di un cane spinone.

    «Rubus» risposi.

    «Un nome che non si può dimenticare!» fece lui ammiccando. Annuii, mia madre aveva scelto quel nome ispirata da una macchietta rossa a forma di lampone che avevo sul piede sinistro e che era scomparsa con il passare degli anni, non è un nome comune ma l’ho sempre trovato gradevole all’udito.

    Ci stringemmo la mano, mi raccontò di essere un botanico: «Uno che osserva le piante, le studia nelle loro particolarità e le ama. Sono spesso in viaggio alla ricerca di specie rare, una volta trovate ne scrivo…» s’interruppe per un istante come se esitasse a rivelarmi quell’informazione «su Il viaggio dell’airone, una rivista specializzata che ho fondato assieme ad alcuni amici dopo l’università».

    «Ah!» esclamai, interrompendolo «È forse per questo che si è inchinato quando l’airone è passato in volo sopra le nostre teste?» gli domandai.

    Spinone mi guardò con aria seria. «È una lunga storia» tagliò corto.

    Forse ero stato inopportuno, avrei dovuto essere più accorto con uno sconosciuto. «Ma dimmi…» continuò «cosa hai visto in cielo? Come hai fatto a capire che era proprio un airone l’uccello che poco fa è volato sopra la nave?» mi domandò, un certo stupore si era palesato sul suo volto.

    «Una luce, che improvvisamente è apparsa in cielo, brillante come una stella, si è avvicinata alla nave e ha preso le sembianze di un airone» risposi con aria divertita cercando di celare la meraviglia che avevo provato nell’assistere a quel singolare fenomeno. «Aveva una caratteristica particolare: delle lunghe piume rosse sul capo. Chiunque l’avrebbe potuto notare» aggiunsi tagliando corto.

    «Ti sbagli!» esclamò «La moltitudine delle persone osserva ciò che le circonda senza percepire che il nostro mondo si sorregge e si nutre di coincidenze misteriose. Queste non sono altro che tracce, lasciate affinché degli uomini speciali le individuino e determinati avvenimenti possano realizzarsi» disse alzandosi dalla sdraio. «Per me si è fatta l’ora di rientrare».

    Cosa vuole dire? pensai. Le sue enigmatiche parole mi avevano interessato, volevo saperne di più, non potevo lasciarlo andare via così: «Mi scusi per la mia irruenza,» dissi «gli animali e la natura mi piacciono molto. Ho trascorso la mia infanzia in un villaggio alle porte di Heidelberg passando interminabili ore a osservare le piante e il comportamento della fauna. I miei genitori sono, come lei, dei botanici e mi hanno insegnato…» Non terminai la frase, mi resi conto che, senza volerlo, avevo infranto la promessa fatta a mia madre e mio padre prima di partire: non avrei dato a nessun estraneo informazioni sul mio conto e sulla mia famiglia.

    Spinone annuì come se comprendesse il mio disagio: «Ho le ossa che scricchiolano, inoltre vorrei andare a riposarmi» disse toccandosi la schiena. Notai che i suoi occhi brillavano di una luce intensa. «Che ne dici se ci vediamo domani su queste sdraio per riprendere le fila della nostra conversazione?»

    «Con piacere» risposi.

    «A domani giovanotto!» si tolse il cappello in segno di saluto ed entrò al coperto, in men che non si dica scomparve negli stretti corridoi della nave.

    Anch’io poco dopo rientrai, dormii profondamente quella notte, sognai la casa della mia infanzia, mia madre era in cucina che mi aspettava, aveva i capelli raccolti dietro la nuca e trafficava con la farina e lo zucchero: «Vieni dolcezza che prepariamo la crostata di lamponi» mi diceva. «Eccomi mamma, arrivo!» le rispondevo. Mentre mi avvicinavo il suo volto scompariva nell’oscurità del sonno, riuscii a udire solamente: «Figlio mio ricorda: l’equilibrio della vita è nel numero nove».

    Il mattino dopo mi svegliai felice e impaziente di rivedere l’uomo che il giorno precedente aveva destato la mia curiosità, mi ripromisi tuttavia di non lasciarmi sfuggire delle informazioni personali. Puntuale alle tre del pomeriggio Spinone apparve sul ponte, intorno al collo aveva un foulard color crema e indossava un panama di paglia sulla stessa tonalità. Che eleganza pensai.

    Io, invece, ero vestito come il giorno precedente e come quello prima ancora, indossavo i mei scarponi con i lacci gialli e un maglione bianco e blu che mia madre aveva lavorato a maglia qualche mese prima.

    Gli feci cenno con la mano e lui si tolse il cappello.

    «Giovanotto!» mi salutò, emanava un buon profumo di limone.

    «Una bella giornata!» continuò, i suoi occhi erano brillanti.

    Iniziammo a conversare, mi parlò della fortuna che avevamo avuto nell’incontrare venti propizi alla navigazione e che, se fosse continuato così, saremmo giunti a destinazione in non più di due giorni. Sembrava essere un esperto del mare, «piuttosto un viaggiatore» disse sorridendo, poi mi domandò perché avessi intrapreso quel lungo viaggio da solo.

    «Curiosità e spirito d’avventura» risposi senza dare ulteriori spiegazioni.

    In quel momento rividi davanti a me i volti sconvolti dei miei genitori che, seduti al tavolo della cucina illuminato dalla fioca luce di una candela, stavano discutendo sul da farsi. Quella notte mi ero alzato di soppiatto dal letto, stanco di sentirli parlare sommessamente, volevo capire cosa li angosciasse in quel modo.

    «Hanno assassinato più di cinquanta persone» diceva mia madre.

    «Li hanno riuniti e li hanno massacrati. Alcuni dicono che erano più di centocinquanta» proseguì mio padre.

    «È terribile. Dove arriveranno?»

    «Non lo so, ma per noi sta diventando troppo rischioso rimanere qui».

    «Ma dove possiamo andare, qui è casa nostra!» obiettò mia madre con le lacrime agli occhi. «Non possiamo abbandonarla e permettere che quei criminali facciano come vogliono».

    «Amaranto ha inviato un uomo, presto avremo i documenti».

    «Io non voglio partire, non possiamo abdicare i nostri ideali!»

    «Hai ragione, sai però cosa rischiamo a rimanere…»

    Tacquero entrambi, l’irrequietezza traspariva sui loro volti contratti.

    «Dobbiamo far partire nostro figlio» disse mio padre.

    «Ma come? Non voglio».

    «È per il suo bene, è giovane, si merita una possibilità che qui non potrà avere».

    «Ma…»

    «Credi che a me non mancherà!» esclamò sbattendo i pugni sul tavolo. Si abbracciarono, piangevano entrambi, eravamo una famiglia molto unita.

    Qualche giorno dopo mi raccontarono dell’America, lì ci sarebbe stato un nuovo inizio, in un mondo libero.

    «Partirai in avanscoperta» mi dicevano.

    Io esitavo. «Perché non posso aspettarvi? Non voglio partire da solo».

    Mi spiegarono che mi avrebbero raggiunto al più presto, lo promisero.

    Spinone starnutì fragorosamente distogliendomi da quei ricordi, mi resi conto che stavo stringendo la tasca del mio pantalone dentro la quale c’era un foglio con su scritto il nome della persona che mi avrebbe aiutato: Amaranto Glykotato, 53 Dowing Street, West Village, New York.

    «Caro amico,» iniziò a dire «anch’io quando ero giovane come te nutrivo la stessa spontanea curiosità per tutto ciò che mi circondava, per i mille volti del mondo. Questo interesse mi ha spinto alla scoperta di paesi lontani e di misteri nascosti sotto la polvere dei millenni ma, nell’ordine naturale del mondo, esiste un limite che non può essere valicato. La linea che divide la curiosità dalla bramosia è sottile. Molti uomini hanno perso la ragione nel cercare spiegazioni ad avvenimenti che, per loro stessa natura, sono inspiegabili» esitò un istante «e per questo magici. Solo l’esperienza ti permetterà di vedere quella linea e decidere se vale la pena prendersi il rischio di valicarla».

    Non capii immediatamente il motivo di quelle parole, ma ne feci tesoro, sentivo che prima o poi mi sarebbero tornate utili.

    2.

    Il viaggio dell’airone

    Nonostante fosse primo pomeriggio e il sole rischiarasse il cielo eravamo soli sul ponte, gli altri passeggeri preferivano evidentemente rifugiarsi nei comodi saloni; d’improvviso il vento cominciò ad alzarsi, notai che le onde, ormai increspate, si scontravano l’una con l’altra, il colore plumbeo dell’abisso catturò il mio sguardo facendomi rabbrividire.

    Ci sedemmo su delle sdraio e Spinone tirò fuori dal taschino interno della giacca il taccuino da viaggio, l’aprì e mi mostrò il disegno di una foglia, era a forma di ventaglio e di colore verde.

    «Tutto è cominciato per via di questa» disse.

    Lo guardai un po’ perplesso, non capivo di cosa stesse parlando.

    «Vuoi ancora sapere dell’airone?» mi domandò sorridendo.

    «L’airone, certo!» risposi con entusiasmo.

    Si sistemò con le gambe rivolte verso di me dando le spalle al parapetto della nave, con un gesto rapido e circolare fece atterrare sulle spalle una coperta che si trovava sulla sdraio per l’occorrenza e, per impedire all’aria umida di intrufolarsi al di sotto dei vestiti, assicurò le due estremità nella ferma presa della mano sinistra.

    Rimasi colpito nel vedere che le dita erano nascoste da una moltitudine di peli neri e bianchi, tra di essi risaltava un anello d’oro, forse una fede che, stringendo la pelliccia nella sua morsa, lasciava intuire la vera dimensione del dito.

    Mi guardò e mi accorsi che, sotto le lunghe sopracciglia, i suoi occhi brillavano:

    «Una mattina di aprile mi trovavo alla redazione della rivista seduto alla scrivania, quando mi fu consegnata una missiva…» s’interruppe «Credo sia necessario, per favorire la comprensione del racconto, andare più indietro nel tempo, risalendo agli eventi che sono all’origine dell’avventura che sto per narrarti» Inspirò profondamente: «Ero uno studente di botanica presso l’Università di Lovanio,» vedendo sorgere sul mio viso un’espressione interrogativa precisò «una delle università più antiche d’Europa, si trova in Belgio» il tono della voce svelava un certo orgoglio.

    «La facoltà di botanica, che godeva di fama internazionale, era diretta dal professor Hans van Hecke, un membro della Confraternita della Foglia Argentata, una stretta cerchia di esperti naturisti e botanici sostenitrice della ricerca d’investigazione e pioniera della botanica farmaceutica, che aveva ottenuto considerevoli successi grazie a numerose scoperte. Era un uomo dal fisico imponente, con una folta e incolta barba bianca, aveva fama di essere un grande viaggiatore e avventuriero. La facoltà, oltre a un laboratorio ubicato nell’edificio principale, possedeva un orto botanico che si trovava a pochi chilometri dalla città e che si estendeva su una superficie di due ettari: un luogo straordinario con centinaia di varietà vegetali, una serra esotica, uno stagno con piante acquatiche e una grande collezione di piante da frutto. Lo avevamo soprannominato il regno fatato perché, per noi giovani studenti alle prime armi, era un campo di prova, un luogo dove era possibile studiare empiricamente la vita delle piante e le loro trasformazioni; qui potevamo rispondere con la pratica alle domande che ci ponevamo durante lo studio teorico. All’inizio della mia carriera universitaria ricordo di aver passato lunghe ore nella biblioteca, un grande e cupo edificio gotico: immagina,» disse «conteneva più di tre milioni di volumi, avresti potuto trovarci tutto lo scibile umano.

    Avevo memorizzato nozioni e teorie, ma sentivo l’impellenza di passare alla sperimentazione, imparare a usare il microscopio, vedere con i miei occhi lo sviluppo dei fiori, testare le proprietà curative delle piante. Decisi quindi di entrare in azione: la notte, mentre gli altri studenti dormivano, sgattaiolavo fuori dal dormitorio e, di soppiatto, m’infilavo nel laboratorio a tentare degli esperimenti. Una notte, mentre ero impegnato in uno di questi, non mi resi conto che qualcuno era entrato nella stanza finché sentii tuonare alle mie spalle: Che fai in piedi a quest’ ora? Sai che non è permesso uscire dai dormitori. Mi girai, tenevo ancora le ampolle in mano, dietro di me si stagliava, imponente e accigliata, la figura del professor van Hecke. Farfugliai delle scuse, cercai di spiegare ciò che stavo facendo ma lui, dopo aver dato un’occhiata rapida al mio lavoro, disse: Mi spiace, ma dovrai smantellare tutto, in questa facoltà si rispettano le regole.

    Questo fu il nostro primo incontro, passai delle notti insonni per la paura di venire espulso dalla facoltà invece, con mia sorpresa, le cose andarono in modo diverso.

    Mi ricordo, come se fosse accaduto ieri, il momento in cui il docente mi fermò all’uscita del corso di notizie preliminari sulla biologia florale: Signor Spinone mi chiamò con voce autoritaria. Mentre mi dirigevo verso di lui ero sicuro che mi avrebbe espulso, mi sentivo disperato. Mi dica professore sussurrai, mi accorsi che stavo letteralmente tremando. Lui, resosene conto, come per volermi tranquillizzare, mi posò una mano sulla spalla: Vorrei che venisse a casa mia dopo i corsi, disse con gentilezza sa, ho messo su un piccolo laboratorio. Mi piacerebbe che, insieme ad altri due ricercatori, collaborasse nella ricerca sui presunti effetti terapeutici di alcune radici originarie dell’Africa meridionale.

    Tra queste c’era una radice della steppa della Namibia che aveva un nome davvero bizzarro: l’Artiglio del Diavolo. Quest’appellativo è dovuto a quattro escrescenze dotate di robusti uncini».

    Interruppe il racconto per spiegarmi le proprietà di quella pianta. «Quando penetrano nelle zampe degli animali gli provocano molto dolore e questi, per liberarsene, si muovono spasmodicamente, tanto da sembrare che facciano una danza indiavolata» proseguì ridendo, mentre con il corpo mimava una danza frenetica.

    Risi di cuore: aveva strabuzzato gli occhi, la bocca semi aperta era piegata di lato, la mano pelosa era rivolta al cielo e batteva i piedi a intermittenza per terra. Dopo qualche istante riassunse la sua abituale espressione: «Spero che in questo modo riuscirò a tenere alta la tua attenzione» disse sorridendomi.

    «Non si preoccupi,» risposi «il suo racconto è molto interessante e poi…»

    «Non c’è null’altro da fare su questa nave» mi anticipò con fare ironico. «Inoltre puoi darmi del tu, non sono così anziano come sembra».

    «Certo,» risposi «per me sarebbe un vero onore».

    Riprese il racconto dal punto in cui l’aveva interrotto: «Con mio grande stupore mi accorsi di aver attirato l’attenzione del noto professore; dopo qualche anno mi confidò che era stata la mia curiosità e il mio spirito d’intraprendenza ad averlo colpito.

    Venga questo pomeriggio alle cinque, mi disse le presenterò i suoi colleghi.

    Quel pomeriggio, come d’accordo, mi recai a casa sua. Ad aprirmi la porta fu la governante, una donna anziana che portava una cuffietta bianca ben calata sulla testa e un grembiule accollato, mi fece strada, con passo inaspettatamente lesto, lungo uno stretto corridoio fino a una porta che dava sul retro dell’edificio.

    Una volta fuori vidi ergersi davanti ai miei occhi, proprio al centro del giardino, una grande serra dallo scheletro di ferro e la copertura di vetro. All’interno una luce fioca illuminava la struttura che, con il grigio del cielo, dava all’ambiente un non so che di magico.

    Ero emozionato, avevo la sensazione che, oltrepassare quella soglia, avrebbe segnato in maniera decisiva il corso della mia vita. Prima di entrare lanciai uno sguardo all’interno, tra le innumerevoli piante riuscii a distinguere il piano di lavoro, che era di legno, e su di esso, in ordine sparso, si trovavano delle provette di diverse dimensioni. Notai un armadio in vetro all’interno del quale erano catalogate, in recipienti anch’essi di vetro, delle piante essiccate, riconobbi, tra tanti altri, il fiore arancione della calendula; sul pavimento di terracotta c’erano, sparse alla rinfusa, delle taniche d’acqua.

    Vidi che il professore era di fianco a un giovane particolarmente minuto, erano intenti a travasare in alcune ampolle il liquido prodotto dalla macerazione di una pianta.

    È il procedimento più delicato,» mi disse Spinone con voce assorta, sembrava che fosse intento a eseguire la delicata operazione «evita che le preziose sostanze rilasciate dalla massa vegetale possano ossidarsi e quindi deteriorarsi.

    Alla loro destra c’era una ragazza dai capelli neri ondulati e dal profilo delicato» con il dito disegnò nell’aria la fronte, il naso e il mento, come se rivedesse quel viso davanti ai suoi occhi. «Invece di partecipare all’operazione guardava il cielo, con un’attenzione particolare, come se cercasse qualcosa. D’improvviso si girò e, quando mi vide attraverso il vetro della porta d’entrata, mi sorrise. Il mio cuore si riempì di un’inaspettata gioia di vivere, d’impeto entrai nel laboratorio, lei mi venne incontro Buonasera, dissi tendendole la mano il mio nome è Spinone. Calla fece lei con voce soave. Ci guardammo per qualche istante, già sapevo che quegli occhi celesti non li avrei potuti dimenticare.

    Ben arrivato Spinone, intervenne il professore che, nel frattempo, aveva riposto l’ampolla che fino a quel momento aveva tenuto con cautela in un sostegno di legno. Cosa faremmo senza Calla… proseguì rivolgendosi verso la giovane donna oltre a essere una botanica d’avanguardia, è anche una disegnatrice d’eccezione disse indicandomi una pila di fogli che s’innalzava a un angolo del tavolo. Lanciai uno sguardo e scorsi delle rappresentazioni grafiche che rappresentavano sezioni diverse di una radice. I suoi disegni sono talmente accurati che sembrano fotografie. A suo tempo saranno inseriti nel catalogo che sto compilando dedicato alla descrizione e agli effetti terapeutici di alcune rare piante africane. Il Madagascar sarà la mia ultima tappa e mi servirà per completare l’opera. La sua soddisfazione era evidente per l’approssimarsi della conclusione dell’impegno di una vita. Lavorerai insieme a Juglans sulla macerazione delle radici disse cambiando argomento e presentandomi l’esile giovane che si trovava al suo fianco.

    Mi sorrise imbarazzato, aveva gli occhi piccoli e brillanti, era magro e di bassa statura, il suo viso era pallido, come se fosse soggetto a una sorta di continuo affaticamento. Piacere disse stringendomi la mano, la sua presa era forte e vitale a dispetto dell’apparente gracilità fisica.

    Sarò costretto a lasciarvi soli, continuò il professore con l’aria assorta la settimana prossima sono atteso a Parigi per una conferenza sugli sviluppi legati al perfezionamento del microscopio. Inoltre, con gli altri membri della Confraternita, ci troveremo per discutere sull’idea di fondare dei corsi di studi universitari centrati principalmente sulla botanica farmaceutica. Successivamente, proseguì con un atteggiamento misterioso mi recherò a Oxford, in Inghilterra, per incontrare delle vecchie conoscenze. Non so quindi quanto tempo sarò trattenuto all’estero, ma spero di poter fare ritorno tra poco più di due mesi.

    Finite le presentazioni ci mettemmo subito al lavoro, il professore ci mostrò l’Artiglio del Diavolo spiegandoci che la parte usata a scopo medicamentoso derivava dalle escrescenze laterali della radice. La tradizione sud-africana riteneva che la radice fosse utilizzata per la cura delle malattie reumatiche, dolori articolari, febbre e fastidi allo stomaco. Il nostro compito consisteva nell’estrarre la preziosa sostanza e sperimentarla, secondo un protocollo che lui stesso aveva messo appunto, su un gruppo di volontari affetti da gastriti e reumatismi.

    Juglans era già esperto, cominciò a macerare la radice come se quel procedimento l’avesse fatto già mille volte in precedenza. Vedendo la mia esitazione mi sorrise e, senza dire una parola, rallentò, dandomi così la possibilità di seguirlo passo passo in quella delicata operazione, compresi subito che saremmo divenuti dei cari amici.

    Il professore partì la settimana successiva; noi ci impegnammo nella nostra ricerca con grande passione e, col passare del tempo, stavamo sempre più assieme, fino a divenire inseparabili. La sera, esausti dalla giornata di studio e lavoro, eravamo soliti ritrovarci in una brasserie per mangiare qualcosa e fare quattro chiacchiere, Le Neuf si chiamava. Era diventata il nostro quartier generale. Marjolaine, la padrona, una signora anziana che dirigeva l’azienda assieme al marito, ci aveva preso in simpatia, tanto da concordare un prezzo più che ragionevole per il vitto».

    Spinone interruppe la narrazione, sorrideva, era evidente che si era soffermato a ricordare quei momenti.

    «Che bei giorni, quanti sogni ci scambiavamo su quei tavoli. Una sera Calla, (mi chiedo perché le idee migliori le abbiano sempre le donne), con gli occhi infiammati da una forza misteriosa ci disse: Dobbiamo creare una rivista di botanica che racconti il mondo naturale attraverso il viaggio, l’avventura e la scoperta.

    Era solita sedersi su uno sgabello di legno e prendere dalla borsa di cuoio, che portava sempre con sé, un taccuino nero stretto da un filo di seta rosso per disegnare. La osservavo di nascosto, i capelli le cadevano sulle guance, le labbra si socchiudevano ogniqualvolta premeva la matita sul foglio, nonostante sembrasse completamente assorta nei suoi disegni, dirigeva le fila delle conversazioni in modo divertente e chiaro.

    Scriveremo e documenteremo le nostre scoperte! Esclamai.

    Allora pubblicheremo la nostra rivista una volta ogni due anni o chissà! Inoltre, chi mai vorrà sovvenzionare un’idea cosi narcisistica? sentenziò senza alzare lo sguardo dal taccuino. Le sue critiche, anche se pertinenti e motivate, a volte erano molto incisive, aveva una visione d’insieme che non ammetteva fraintendimenti. Accanto alle ‘storie vegetali’ dei nostri viaggi, dobbiamo creare delle rubriche tematiche alle quali possano partecipare botanici di tutto il mondo con articoli, lettere aperte e foto propose.

    Juglans e io fummo subito catturati da questa idea.

    Potremmo partire una volta l’anno, a rotazione, a seconda delle aree geografiche d’interesse proseguì come se avesse sempre avuto chiaro nella mente come fare. Voi potreste occuparvi della parte scientifica relativa alla scoperta e all’osservazione, mentre io potrei documentare il tutto attraverso i disegni e la fotografia.

    La fotografia? Non sapevo sapessi usare anche l’obiettivo intervenne Juglans che, tra i tre, era quello che preferiva ascoltare piuttosto che parlare.

    Non ve l’ho ancora detto… ci disse con fare civettuolo sono brava a usare la macchina fotografica! Aspettò qualche istante: Quando ero piccola, mio padre m’insegnò a osservare la natura, permettendomi così di scoprire i suoi segreti. Per questa ragione ho iniziato a disegnare e ritrarre tutte le particolarità delle piante; imparare a utilizzare la macchina fotografica è stata solamente una conseguenza ci disse. Ci osservava sperando che potessimo comprendere ciò che lei provava, sfilò il taccuino dalla tasca del grembiule, lo aprì, tra le pagine c’era una fotografia. Me la porse, Juglans si avvicinò per guardarla, ritraeva l’immagine di un uomo con dei lunghi baffi appuntiti e uno sguardo penetrante, teneva la mano aperta e, su di questa, era posata una foglia a forma di ventaglio di eccezionali dimensioni. Alle sue spalle si ergeva imponente un albero tanto alto che nella foto c’entrava solo una piccola parte del tronco. Chissà che albero sarà? mi domandai: nonostante la mia esperienza non ero riuscito a riconoscerne la specie; dalla forma della foglia intuii che poteva trattarsi di un ginkgo, ma le dimensioni me ne facevano dubitare.

    Questa è la prima foto che ho scattato disse Calla evidentemente emozionata. Lui è Pavlos, mio padre concluse sbrigandosi a sistemarla con cura.

    È greco? domandò Juglans.

    Sì, mio padre è… era greco rispose, nel riporre la foto nel taccuino cadde un foglio.

    La tua famiglia vive ancora lì? Come mai ti sei trasferita a Lovanio? continuò a domandarle incuriosito dalla storia.

    Nel frattempo mi ero affrettato a raccogliere il foglio, notai che c’era disegnato un airone con le piume della nuca rosse. Osservando meglio il disegno mi accorsi che, sulla figura dell’uccello, era sovrapposta quella di uomo, era ritratto di profilo, aveva il collo affusolato, il naso pronunciato e i capelli lunghi. Nonostante fossi rimasto colpito da un’immagine tanto singolare non chiesi nulla, avevo visto il suo volto adombrarsi, gliela porsi e lei annuì apprezzando la mia discrezione.

    Quante domande! esclamò Non c’è fretta amico mio, bisogna lasciare qualche mistero irrisolto, se no che gusto c’è disse con dolcezza. Il suo volto si stava distendendo nuovamente.

    Spero che le mie domande non siano state inopportune, se in qualche modo ti ho infastidito, mi dispiace disse Junglans con aria contrita.

    Non preoccuparti, non c’è alcun problema. Torniamo piuttosto al nostro progetto, che ne pensate della mia idea?

    È, a dir poco, fantastica! esclamai rivolgendomi al mio amico che improvvisamente si era ammutolito. Che ne pensi? gli domandai.

    Anche a me piace molto però… s’interruppe per qualche istante. Sappiate che sono stato affetto da tubercolosi da piccolo disse toccandosi il petto. Non sono cresciuto a dovere, ho ancora problemi respiratori, ma l’infezione, per mia fortuna, è passata e non sono più contagioso». Fin dal momento in cui c’eravamo presentati avevo compreso che la sua magrezza e il suo pallore dovevano essere la conseguenza di una qualche malattia. Avrò delle difficoltà a viaggiare, continuò «ma potrei occuparmi della sperimentazione disse travasando l’acqua da un bicchiere all’altro, come a voler mimare delle provette. Inoltre, potrei occuparmi della correzione delle bozze e dell’impaginazione.

    Calla e io ci guardammo negli occhi e annuimmo. Mi sembra perfetto! dissi battendo le mani. Manca solo il nome della rivista.

    Bisognerà trovare anche chi ce lo finanzi, il progetto! intervenne Juglans riportandomi con i piedi per terra.

    La fondazione Carolus Linnaneus disse Calla con l’espressione di chi sa il fatto suo. Van Hacke potrebbe presentarci il presidente onorario che, oltre a essere il diretto discendente del grande botanico svedese, è membro della Foglia Argentata. Notando l’espressione interrogativa che si era disegnata sui nostri volti precisò: "Ho fatto delle ricerche perché volevo trovare i fondi per un viaggio di ricerca alle Galapagos. Purtroppo è saltato, ma sono riuscita a scoprire che questa fondazione finanzia non solo spedizioni in paesi esotici, ma anche progetti volti alla diffusione e divulgazione della botanica e delle curiosità insite al mondo vegetale. Reputo che potrebbe essere interessata alla nostra idea, è originale e rivolta a un pubblico più ampio di quello accademico! Ne parlerò a van Hecke al suo ritorno

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