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Il tempo di Marzia
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E-book245 pagine3 ore

Il tempo di Marzia

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Info su questo ebook

Luglio 1793: Marzia Rilbieri, diciottenne piemontese, e la sua governante Anna si imbarcano sulla Santa Cecilia dirette in Sardegna.per raggiungere il padre della ragazza, generale dei dragoni in servizio a Sassari. A bordo la ragazza conosce l’affascinante medico Giuliano Rascieri, che sembra essere particolarmente colpito da lei, tanto da prometterle di raggiungerla a Sassari. Marzia, però, sa che al suo arrivo incontrerà l’ufficiale Stefano Valtrè, da sempre innamorato di lei. Quando Stefano le dichiara il suo amore e manifesta l’intenzione di prenderla in moglie, lei si abbandona completamente. Ma presto la ragazza viene rapita dai briganti che si oppongono al dominio piemontese e segregata in una caverna. Fino a quando i tempi non sono maturi per una rivolta generale... Un romanzo sentimentale e di formazione dove la Storia irrompe con forza.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mag 2017
ISBN9788863937022
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    Anteprima del libro

    Il tempo di Marzia - Susanna Mascia

    1

    Il giorno della mia partenza era la prima volta che vedevo il mare, e la luce calda del sole, che si rifletteva in macchie luminose sull’acqua, mi sembrava rassicurante. I gabbiani planavano in quel fluido argenteo e a tratti lo graffiavano. Mancava soltanto il ritorno del vento del nord, e tutto, nel porto di Nizza, sembrava perfetto.

    Io mi trovavo sulla banchina, immobile e con lo sguardo fisso sul Santa Cecilia, il grande veliero a tre alberi che, con i suoi lenti e continui dondolii, pareva impaziente di accogliere le correnti e lasciarsi spingere al largo.

    «Hai paura, ti si legge in faccia» mi disse Cristina.

    «No, solo che è gigantesco!» sospirai, sforzandomi di sorridere.

    «Gigantesco? Marzia, è solo una goletta, non più grande di un pollaio.»

    «È immensa invece. Perché non mi hai detto che le navi sono così grandi, tu che sai sempre tutto?»

    «Non conosco una sola cosa che non sia spaventosamente troppo grande per te» ribatté lei.

    «Non prendermi in giro. Piuttosto, confessa che neanche tu avevi mai visto niente del genere, prima d’ora.»

    «Certo, e ringrazio Dio di non doverci salire.»

    Avrei voluto dirle che la invidiavo, ma feci un lungo respiro e le parole restarono bloccate nel fondo della mia coscienza.

    Ero sul punto di fare il passo forse più audace di tutta la mia vita: imbarcarmi sul Santa Cecilia per raggiungere mio padre in Sardegna. Dopo averla pianificata da tempo, quell’impresa stava ormai occupando da giorni tutti i miei pensieri, e adesso ero lì, davanti a una massa imponente di legno umido e melmoso che riusciva a tenersi a galla, nelle acque del porto, come mezzo guscio di noce in una tinozza. A intervalli regolari le piccole onde colpivano il suo pancione rigonfio, da cui uscivano brontolii cavernosi che mi facevano venire la pelle d’oca.

    «Sei ancora in tempo per allontanarti da quella topaia galleggiante. Lo dico per il tuo bene, non voglio mica perdere la mia migliore amica» mi sussurrò Cristina all’orecchio, mentre da dietro mi cingeva le spalle con le braccia, come se stesse soccorrendo un infermo che non sa più reggersi da sé.

    «È da quando siamo arrivate che non fai altro che disprezzarla. Non eri tu l’amante delle scoperte e dell’avventura?» replicai, appoggiando con complicità il mio capo sulla sua spalla.

    «Non salirei su quelle gabbie neanche morta: puzzano da far perdere i sensi, sono piene di ratti e pidocchi, e se vuoi lavarti devi per forza imparare a nuotare.»

    «Sarebbe la volta buona per farlo. Se fosse necessario, attraverserei questo mare anche a nuoto» dissi.

    «Mi arrendo, oggi l’ottimista sei tu. Un’ottimista avventata direi» fece Cristina, liberandomi dalla stretta.

    Forse non aveva tutti i torti, la decisione di partire stava cominciando a sembrarmi un azzardo. Speravo che non se ne accorgesse, ma iniziava a girarmi la testa, a tratti mi tremavano le gambe e una morsa acida faceva la spola dallo stomaco alla gola. Non avevo mai pensato a darmi degli obiettivi nella vita. Attraversare il mare e rivedere mio padre era il primo che mi ero posta e che, di sicuro, avrebbe segnato il mio primo atto di ribellione verso di lui, verso Cristina, verso il mondo intero.

    Persino Anna, la nostra governante, sempre pronta a incoraggiarmi in ogni occasione, si era fatta per ben tre volte il segno della croce appena aveva saputo del viaggio. Solo dopo averle detto, mentendo, che ci sarei andata anche senza di lei, si era precipitata a raccogliere le sue cose.

    «Tesoro mio, stiamo per avventurarci alla cieca. Non conosciamo niente di quella terra. Un viaggio per mare poi…» non aveva fatto che lamentarsi.

    «Andrà tutto bene Annina, non accadrà niente, vedrai.»

    Per la prima volta ero io a dover rassicurare gli altri. Ormai però non potevo più tornare indietro: il carico delle merci e dei rifornimenti e quasi tutti i passeggeri erano sulla nave. Anch’io stavo per essere inghiottita da quella grossa balena di legno. Feci dei respiri profondi.

    «Splendida giornata per partire.»

    «Vedrai che canicola tra poco. Se non si alzerà un po’ di vento, il viaggio durerà almeno una settimana» osservò Cristina, picchiettandosi freneticamente le tempie con il suo fazzolettino di seta.

    «Non portare iatture» le dissi mentre mi trascinavo verso la passerella della nave per vedere quanta gente doveva ancora salire. «Nei porti il vento è sempre più debole, al largo rinforza. Il Santa Cecilia non impiegherà più di tre giorni per arrivare a Porto Torres, me l’ha detto il capitano Ravetti.»

    «Marzia, la nostra promessa…» fece Cristina.

    «Tranquilla, non la dimenticherò. È anche per questo che parto.»

    «Ho paura invece che lo farai. Lontana da me, ti faranno cambiare idea e cederai alla volontà di tuo padre e di quel suo paladino vecchio e slavato.»

    «Appena sarò a Sassari, parlerò a mio padre con sincerità. Lui mi ha sempre ascoltata, lo farà anche adesso. Si tratta solo di un malinteso, e una volta chiarito, non si opporrà alle mie scelte.»

    «Ne sei proprio sicura?» chiese dubbiosa.

    «Sì, mi lascerà seguire la mia strada.»

    Mi sorpresi del tono risoluto delle mie parole, dovevano aver convinto anche la mia amica, perché nel suo volto vidi riaccendersi la solita espressione ferma e radiosa.

    Lei era tutto quello che io volevo essere: estroversa, decisa e curiosa, sempre alla ricerca di risposte. Io, al contrario, impacciata e insicura, non amavo interrogare neanche me stessa. Crescendo, speravo di diventare come lei.

    «Marzia, il nuovo secolo ci aprirà le porte a una vita straordinaria, lontana dalla noia domestica» disse fissando l’orizzonte.

    «Per te sarà sicuramente così.»

    «Oh, se solo ti togliessi di dosso la tua inutile timidezza!» sospirò. «Devo riuscirci, devo trasformare la mia timorosa amica in una persona che farà grandi scoperte.»

    «Ora stai davvero sognando. Ho accettato di provare a lavorare con te, ma non ti assicuro niente. Una donna non può cambiare il mondo.»

    Saremmo dovute diventare le assistenti di suo fratello nel suo laboratorio di biologia.

    Cristina amava le scienze, le aveva respirate sin dalla nascita: anche suo padre era biologo, e se fosse nata maschio, lo sarebbe diventata anche lei.

    «Le scienze ti permettono di vedere quello che di solito non vedi» affermava spesso.

    A me bastavano gli occhi per osservare il mondo, a lei no.

    2

    Stava succedendo tutto troppo in fretta, come in un susseguirsi di incubi, e speravo proprio che fosse solo un brutto sogno.

    Il bandito, che mi aveva afferrata per le spalle, mi trascinava verso un carro fermo dietro la fontana. Un altro uomo, anche lui tutto vestito di nero, con una barba lunga e folta, ci correva incontro. Aveva il viso interamente ricoperto da una patina oscura, dall’odore che emanava doveva essere fatta di fango e carbone. Mi afferrò per le gambe e aiutò il complice a buttarmi sopra il carro. Un terzo individuo spronò i cavalli, lanciandoli al galoppo.

    Mi ritrovai supina, le gambe bloccate, poi uno dei due predoni si sollevò e con un balzo mi si gettò a cavalcioni sul petto, schiacciandomi le braccia sotto le sue ginocchia. Lo guardai bene in faccia. Pure lui aveva il viso sporco di nero. Era tarchiato e pesante. I suoi occhi torvi e minacciosi erano tondi, sporgenti e segnati di numerose e sottilissime rughe, come quelli di un rettile. Mi legò stretti i polsi e le caviglie con delle corde, poi mi infilò in bocca uno straccio ruvido che sapeva di erba putrida e ci avvolse un bavaglio intorno. Me lo passò dietro la nuca, per fermarlo infine tra i denti con un paio di nodi. Mi venne subito da vomitare, cercavo l’aria, mi sembrava di soffocare e i conati mi laceravano il petto.

    Il carro era già fuori dalle mura della città. Riconobbi i rami fitti degli alberi del viale d’ingresso di Sassari che avevamo percorso il giorno del nostro arrivo in Sardegna.

    Le ruote stridevano sempre più forte, come se da un momento all’altro qualche pezzo dovesse cedere o spezzarsi. Speravo tanto che succedesse.

    A un tratto, in una lingua a me sconosciuta, l’uomo dagli occhi sporgenti rivolse alcune frasi al compagno, e quello si mise a strisciare sulle ginocchia per prendere dal fondo del carro un ampio telo nero. Dopo averlo spiegato, se lo rigirò più volte fra le mani. I suoi movimenti sembravano alquanto impacciati. A un certo punto, la barba che gli ricopriva metà faccia si staccò e volò via. L’altro gli sbraitò contro delle frasi che suonavano come improperi.

    Cercai di sollevare almeno la testa e vedere meglio quel volto appena smascherato. Colsi l’immagine di un uomo molto giovane e spaventato, che scomparve quasi subito, perché la mia testa venne avvolta in una stoffa nera, spessa e pungente.

    Ogni mia razionale comprensione venne inabissata nel fondo di un sacco. Avevo solo la testa, mentre il resto del mio corpo era rimasto altrove, a muoversi e a contorcersi come una coda di lucertola mozzata.

    Smisi di dimenarmi, il mio flusso vitale si era di colpo interrotto. Anche le mie paure sembravano essersi prese una pausa, e i mille pensieri stavano pian piano scivolando via, come inghiottiti da un pozzo infinito.

    Ogni fibra del mio corpo aveva smesso di contorcersi e si era distesa.

    La schiena, pressata contro il duro legno del carro, pareva quasi sospesa a mezz’aria. Non saprei spiegarne il motivo, ma mi si affacciò alla mente una visione e vi rimase impressa, simile all’alone di una luce fissata troppo a lungo: le farfalle dai colori splendenti che un giorno Cristina aveva inchiodato in una tavoletta di legno.

    «È per capire meglio l’infinita varietà dei colori che esistono in natura» mi aveva detto.

    Quelle povere farfalle sembravano dipinte da un pittore esperto. A osservarle da vicino, però, sentivo una forte fitta nella testa, come se tutti quegli spilli fossero stati conficcati nel mio cervello, e non nelle loro ali.

    Ora le rivedevo ferme davanti a me, non più trafitte, ma ugualmente incapaci di muoversi. Con mia stessa sorpresa mi accorsi di provare un piacere inquietante a immaginarle così, bloccate negli sconfinati spazi di quell’oscurità.

    3

    Come previsto, la brezza del mattino si trasformò in un fresco vento di tramontana.

    «Ecco il tuo vento» esclamò Cristina, cercando di riportare sotto il cappello i riccioli biondi che le stavano ricadendo sulla fronte come tante foglioline dorate.

    «Che puntualità!»

    Mancava ormai poco, il Santa Cecilia sarebbe salpato a breve. Restammo ancora un po’ a osservare dal basso i passeggeri affacciati al parapetto della nave: erano soprattutto militari, ufficiali dei corpi di spedizione dell’esercito regio che andavano a sostituire quelli di stanza in Sardegna da più di due anni. Tra il carico imbarcato c’erano anche armi, munizioni e alcuni cannoni.

    «Ma dov’è finita Anna?» chiesi in preda al panico, non appena mi accorsi che la mia governante non era più sul molo, accanto alla goletta.

    «Prima di salire su questa tua nave gigantesca, si sarà ricordata di andare da un notaio a fare testamento o, ancora meglio, le sarà venuta voglia di tornare a casa…»

    L’ironia di Cristina, che non mi dava tregua, colpì nel segno ancora una volta. Risi divertita pensando che Anna non si sarebbe mai comportata a quel modo.

    «Piuttosto sarà andata ad accertarsi che il nostro bagaglio non sia finito in pasto ai pesci. Lo sai, Anna vuole che tutto sia sempre in perfetto ordine.»

    «Già, ma poverina, non ce la vedo a dormire sopra una branda appesa a una parete e a mangiare la panatica essiccata per chissà quanti giorni.»

    «Se la caverà benissimo.»

    La conoscevo fin troppo bene per dubitare delle mie parole. Anche se ormai era una donna di mezza età e un po’ appesantita, la mia Annina era ancora energica e sapeva adattarsi. Lavorava per la nostra famiglia da prima che io nascessi. Dopo la morte di mia madre, mio padre, che era un ufficiale dei dragoni del re ed era spesso fuori per motivi di lavoro, non aveva voluto affidarmi a nessuna balia. Giudicava Anna la sola persona in grado di badare a me, e lei lo fece come se fossi sua figlia.

    «Eccola che arriva» feci sollevata, quando la vidi ridiscendere svelta lungo la passerella.

    «Si salpa a momenti, dobbiamo salire o ci lasceranno a terra» gridò Anna, stringendo tra le mani le due sacche di cotone dove custodiva il suo prezioso tesoro: un carico di foglie di tè pregiato. Era un dono per il capitano del Santa Cecilia e per mio padre.

    «Anna, perché ti sei ripresa il tè?» le chiese Cristina.

    «Con i modi che usano quei mozzi nel buttare su i bagagli, non vorrei che questa rarità finisse in fondo al mare» rispose.

    «I pesci del porto lo gradirebbero» dissi.

    «Puoi starne sicura» fece lei tutta allegra.

    Salutò in fretta Cristina e si diresse nuovamente verso la nave. Non sembrava più preoccupata per il viaggio, anzi, la vedevo a suo agio. Camminava con un’agilità sorprendente. Avrei voluto un po’ del suo coraggio.

    Il vento soffiava sempre più forte intorno al Santa Cecilia. Le raffiche frustavano la tela quadrata delle vele e io sentivo le ginocchia sempre più instabili: temevo che si sarebbero piegate da un momento all’altro. Anche il ponticello traballava ed era molto stretto, se non fossi riuscita a calmarmi, sarei finita certamente a mollo.

    Strinsi forte le mani di Cristina.

    «Ci rivedremo qui tra due mesi» le assicurai guardandola negli occhi, come se stessi formulando un solenne giuramento.

    Era la prima volta che dovevamo stare lontane per così tanto tempo. Ci conoscevamo fin da bambine e sapevo già che mi sarebbe mancata molto.

    «Hai portato il diario?»

    «Certo, te l’ho promesso. Annoterò tutto del viaggio, sarà come scriverti una lettera al giorno.»

    «Bene, le cronache di viaggio della signorina Marzia Rilbieri» ironizzò nuovamente. «Mi auguro che sia una lettura rilassante. Non vorrei leggere di assalti di pirati a vostro danno, o peggio, del tuo fidanzamento con il maggiore Stefano Valtré.»

    «Ora smettila Cristina!»

    «Scusami, è solo che detesto le tragedie e non sopporto quel formaggio stagionato» fece lei, con una smorfia di disgusto.

    Ero riuscita a fatica a trattenere le lacrime, ma il nuovo nomignolo che Cristina aveva trovato per il maggiore Valtré mi strappò una risata squillante. Ci abbracciammo e mi affrettai a raggiungere Anna.

    «Povero maggiore! Se sapesse cosa dice Cristina di lui…» pensavo divertita mentre attraversavo in fretta la passerella, sforzandomi di non guardare di sotto.

    Io e Anna arrivammo entrambe asciutte sopra il ponte di coperta, poi lei propose di raggiungere subito gli alloggi di poppa per controllare che tutto il bagaglio fosse al sicuro. La seguivo barcollando e dopo pochi passi dovetti fermarmi.

    «Vai pure, Cristina sarà ancora sul molo, voglio salutarla prima che il veliero lasci il porto.»

    Non riuscivo a camminare, avevo la sensazione che il piano su cui poggiavano i miei piedi sprofondasse bruscamente, per tornare al suo posto con un movimento più lento e oscillatorio. Era come stare in equilibrio sopra a un grande dondolo sospeso nel vuoto. Un’onda calda di sudore mi investì le tempie, mentre l’odore del legno bagnato e pesce marcio che impregnava la nave mi fece tornare la nausea. Buttai le braccia contro il parapetto, cercando di fissare un punto sulla terraferma che mi permettesse di tenere gli occhi ben stabili nelle loro orbite. Cristina non si era mossa dal posto dove ci eravamo salutate. Guardava dalla mia parte e sollevò un braccio in segno di saluto. Provai a fare altrettanto, sperando che la distanza tra noi potesse nascondere la smorfia di disperazione che mi stava contorcendo i muscoli del viso. La mia attenzione venne poi catturata da un forte fischio, che a tratti si faceva assordante. Le raffiche di maestrale scorrevano furiose attraverso vele, funi e sartie. Il porto si stava allontanando, insieme alle persone che ci salutavano. Che spettacolo sorprendente! La terra scivolava via come dentro a un infinito rullo, inghiottita dal mare e dal cielo. Avrei voluto dirlo a Cristina, ma non poteva più sentirmi: era diventata una macchia beige in mezzo a tante altre chiazze sbiadite che diventavano sempre più piccole.

    Alle nove e trenta del mattino del 29 luglio 1793, il Santa Cecilia, dondolando spinto dal vento in poppa, ci portava al largo. La mia grande avventura era appena iniziata.

    «Se Dio vorrà, tra un paio di giorni rivedrò mio padre, saremo di nuovo insieme e tutti i malintesi spariranno» dissi tra me, aggrappandomi con più forza alla ringhiera umida e appiccicosa di salsedine.

    «Ti senti bene, mia cara?»

    La voce del capitano Ravetti mi era ben familiare e aveva qualcosa di rassicurante e gentile, proprio come quella di mio padre: erano amici da tanti anni.

    «Capitano, siamo partiti da poco e credo di avere già il mal di mare.»

    «Reggiti qua, signorina» fece lui, porgendomi amorevolmente il braccio.

    Anche il suo aspetto mi ricordava mio padre. La stessa figura elegante, lo stesso sguardo benevolo e premuroso. «Con lui saremo al sicuro, anche se in mezzo al mare ci dovessero assaltare i francesi o i pirati» aveva affermato Anna dopo avere saputo che avrebbe comandato lui il bastimento.

    Con i francesi e i pirati, la mia Annina tranquilla non lo sarebbe mai stata, ma quell’uomo infondeva davvero tanta fiducia. Aveva viaggiato molto, e noi lo consideravamo quasi un eroe. Si era distinto fin da ragazzo per il valore e il coraggio con cui aveva affrontato e respinto parecchie incursioni di tunisini e dei pirati provenienti

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