Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il simbolo
Il simbolo
Il simbolo
E-book761 pagine11 ore

Il simbolo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

“Un vivace e vasto affresco in cui si snodano vicende e personaggi responsabili di aver influito profondamente sulla storia occidentale del primo secolo dopo Cristo e di quella dei millenni a venire.
A volte ironico e altre drammatico, il romanzo è punteggiato da quasi ignoti ma autentici gossip dell’epoca narrati da un insolito e accattivante protagonista. Viaggiando tra Gerusalemme, Atene, Roma e l’Egitto il nostro “eroe” affronterà non soltanto pericolosi inganni e intrighi di potere, ma di innumerevoli uomini e donne conoscerà i più segreti impulsi dell’eros.”

Contemporaneo di un uomo passato alla storia con il nome di Gesù di Nazareth, il figlio di una prostituta muove i primi passi nella Palestina dominata dalle legioni di Roma: due vite assai diverse ma destinate a incrociarsi nei loro giorni più drammatici.
Avviato alla prostituzione, il giovane Ben Hamir trova conforto nell’affetto di uno schiavo comprato per fargli da tutore. Costretto a fuggire, dopo un’istruttiva permanenza ad Atene conquista Roma – o meglio i cuori delle romane – divenendo gradito ospite dei più esclusivi palazzi nobiliari.
Coinvolto nella politica imperiale fino a divenire intimo di Tiberio, proprio da lui apprenderà quanto beffardo possa mostrarsi il fato. Tornato in Palestina per ordine dell’imperatore, ad attenderlo troverà sia un nuovo che un antico amore: ma anche l’odio feroce di Ponzio Pilato, il suo più mortale nemico.
Dopo aver compiuto un gesto in apparenza marginale ma destinato a sconvolgere la storia, abbandonati i lussi e le amanti sceglierà di restare lontano dai clamori del mondo.
Ma Roma non si è dimenticata di lui: dovrà accettare lo sgradito incarico di informatore imperiale, assistendo così a eventi che andranno oltre ogni sua immaginazione.

LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2018
ISBN9788897308829
Il simbolo
Autore

Damiano Leone

Damiano Leone è nato a Trieste nel 1949. Di formazione chimico, nella prima parte della vita si è interessato alle discipline scientifiche. Da oltre un trentennio si dedica allo studio della storia antica, dell’arte e della letteratura classica, corroborando le nozioni letterarie con frequenti visite a musei e siti archeologici di tutta Europa.Dopo il suo ritiro dall’attività lavorativa, ed essersi trasferito in un paesino montano del Friuli, ha potuto trovare il tempo e la serenità per realizzare un’antica ambizione: quella di dedicarsi attivamente alla narrativa.Dopo aver terminato il romanzo storico “Enkidu”, pubblicato nel 2012, nel 2015 pubblica “Lo spettatore” e, nel 2018 per la GCE, il romanzo storico “Il simbolo”.

Correlato a Il simbolo

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il simbolo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il simbolo - Damiano Leone

    Ancor prima che sorgesse il sole, uscendo dalla capanna per vuotare la vescica, mi sono accorto della nave. Se ne sta lì, immobile, in secca sulla piccola spiaggia che s’allarga come una dorata mezzaluna a lambire il dirupo su cui abito da tanti anni.

    Ritto ai margini del minuscolo regno di cui al tempo stesso sono re e suddito, sollevo la mano per scostare i capelli candidi che il vento agita sul viso e a lungo osservo quella forma snella: quasi fosse un’altra delle creature marine che, pur enormi e possenti, giunte al termine della vita la tempesta vince e getta poi stremate a morire sull’arenile... Presto però questa creatura non nata per mano di un dio impietoso ma forgiata da quella dell’uomo potrà tornare al mare. Immobili o correndo qua e là, minuscole e indaffarate figure si prendono cura di lei: sì, a vederla da quassù sembra proprio un grande squalo con le sue remore che gli si affaccendano attorno.

    Sollevando il volto in quest’impetuoso vento dell’ovest che senza sosta frusta la mia tunica, avverto ancora più intensa la penetrante salsedine di cui è impregnato. Per tutta la notte l’ho udito soffiare. Umido, rabbioso, sibilando col tono lugubremente smarrito degli innumerevoli spiriti di quanti mi hanno preceduto su questa terra tormentata, s’infilava in ogni fessura delle pietre a secco della mia casa. O meglio, dell’umile riparo eretto a sostenere un tetto di canne che ostinatamente così continuo a voler chiamare. Con lo sguardo fisso sulle ultime braci, a lungo sono rimasto sveglio ad ascoltare, cercando di decifrare il messaggio che sempre in simili tetre notti anime inquiete paiono voler sussurrare. Ma come tante altre volte così è stato soltanto per l’ostinazione di un vegliardo: perché fin quando rimarrò tra i vivi, so che mai lo potrò capire.

    Rientrando, riattizzo il fuoco per scaldare un po’ di cibo. Alla mia età non si mangia molto, ma è un’abitudine che non ho mai perso. Più della fame, a spingermi ancora a farlo è il piacere di ammirare quella luminosa, sempre così mutevole, calda fiamma scoppiettante. Appena il fumo bianco si alza, guardando fuori noto un cambio di scena. Le remore hanno interrotto la loro frenetica attività per gesticolare verso la rupe.

    Sorrido tra me: tra poco avrò visite.

    L’uomo che sta risalendo il sentiero è ancora lontano. Mentre seduto davanti casa mangio distrattamente un po’ di fave scaldate, di sottecchi dedico ben maggiore attenzione nel valutarlo. A una prima impressione sembra troppo ben vestito per essere un semplice marinaio. Per fortuna la vista non mi tradisce troppo perché ho sempre amato osservare il mondo e soprattutto gli uomini che lo abitano. Spesso, con un solo sguardo, so intuire quali demoni celino nel loro animo.

    «Salve, vecchio, buona giornata! Sai dirmi dove siamo? La burrasca di questa notte ci ha fatto smarrire la rotta spingendoci sulla costa.»

    La voce è giovane, il tono melodioso, educato: qualcosa di molto raro da queste parti. Apertamente allora alzo lo sguardo su di lui. Sì, avevo ragione, il manto che lo copre è di lana ben tessuta e sotto di questo intravedo una finissima tunica color zafferano. Non sembra animato da cattive intenzioni, perciò l’invito: «Salve a te, greco. Accomodati, vieni a scaldarti accanto al fuoco. Toglierà l’umido dell’alba dal mantello e scalderà le tue ossa... Dimmi, t’andrebbe un piatto di fave accompagnato da un pugno d’olive?»

    Aggrotta la fronte ma le labbra sorridono quando risponde.

    «Grazie, dopo una simile notte qualcosa di caldo per lo stomaco è quel che ci vuole.» Esita un istante e riprende: «Di’ un po’, come fai a dire che sono greco?»

    Intanto mi si è seduto di fronte sulla panca, afferra la ciotola che gli ho appena posato davanti e comincia a mangiare di gusto. Solo allora, invidiandogli l’appetito della gioventù, replico: «Sei di capelli chiari ma il volto è fine e sbarbato, non rozzo e irsuto come in un barbaro del nord. E la nave, se ricordo ancora bene, ha linee uguali a quelle che una volta si facevano al Pireo: piccola ma agile e veloce. Inoltre indossi autentiche spartane, le migliori calzature da viaggio del mondo, non imitazioni. Infine, nonostante il tuo aramaico sia quasi perfetto, vi affiora la cadenza ateniese. Ti basta?»

    La bella testa ricciuta si solleva. Mentre sulla pelle abbronzata sottilissime rughe si formano all’estremità degli occhi per diramarsi verso le tempie, il volto si apre in un sorriso.

    «Ehi! Sembri piuttosto sveglio per essere un anziano pescatore.»

    «Ti ho forse rivelato che lo sono?» rispondo con eguale allegria.

    Adesso pare davvero disorientato. Poggiando la ciotola sul banchetto mal piallato, sbiancato dalle intemperie e vecchio almeno quanto me, borbotta: «Scusa, non mi sono presentato. Il mio nome è Fedone ed è vero, sono ateniese e viaggio per lavoro. Tu chi sei?»

    Allungando la mano per porgergli una coppa di vino del Libano, rispondo: «Beh, anche se la gente del villaggio oltre le dune ha l’abitudine di chiamarmi soltanto vecchio, potresti usare un nome che una volta era abbastanza conosciuto: Ben Hamir. Per rispondere invece alla tua prima domanda, devi sapere che la nave ti ha portato nei pressi di Arsuf. O come molti la chiamano ora, Apollonia. Dimmi, dove sei diretto?»

    «Ascalon. Poi da lì proseguirò per Gerusalemme.»

    «Cosa ti porta alla città santa? Dopo le rivolte di questi ultimi anni non è altro che un cumulo di macerie pieno di cani inselvatichiti...» ridacchiando aggiungo «e non parlo solo d’animali.»

    Apprestandosi a rispondere, deterge le labbra con il dorso della mano. Dall’impaccio che mostra nel farlo capisco che non gli è gesto consueto. Purtroppo non posso farci nulla, non possiedo pezze di lino profumato da porgergli.

    «Sto seguendo le tracce di un avvenimento accaduto laggiù più di mezzo secolo fa» afferma poi. «Sono uno storico e da una nobildonna romana che vive ad Atene ho ricevuto l’incarico di scoprire cosa c’è di vero su quanto sostengono i seguaci di una nuova setta a proposito del loro fondatore. Per la verità credo che siano tutte panzane, ma come rifiutare? Senza contare che la donna paga bene, di storici disoccupati ce n’è anche troppi.»

    Allungo il braccio per riempirgli la coppa vuota mentre domando: «Quale setta? E come si chiamava il fondatore? A quel tempo la terra di David traboccava d’innumerevoli fazioni come di mirabolanti messia».

    «Si definiscono cristiani. Il nome del loro capo era Jeshua anche se ora è chiamato Christus o Chrestus secondo le versioni... Ehi, che hai? Sembra che tu stia vedendo uno spirito dell’Ade.»

    Ha ragione. Nel sentire quel nome, per un attimo, simile a un fantasma riemerso da un lontano passato eppure così nitido nella sua indescrivibile sofferenza, ho rivisto un volto. Un volto che nonostante le innumerevoli persone conosciute in vita mia mai ho dimenticato. Traggo un profondo sospiro e con la voce che m’esce in un mormorio, ammetto: «È davvero uno strano destino quello che ti ha voluto portare su queste spiagge... perché l’uomo di cui parli l’ho conosciuto proprio nei suoi ultimi giorni di vita».

    Senza quasi rendermene conto riempio una coppa per berne d’un fiato il contenuto. Non lo faccio da anni perché il vino è forte, così di solito lo bevo alla greca con due parti d’acqua. Ora però ne sento davvero il bisogno. Con un sospiro di soddisfazione che mi esce spontaneo nell’assaporare l’asprigno dono di Dioniso mi asciugo le labbra, e tornando ad alzare gli occhi sull’ospite ne colgo l’espressione incuriosita.

    «Hai davvero conosciuto quell’individuo? Gli hai parlato? Lo puoi descrivere?» chiede chinandosi in avanti.

    «Quante domande, figliolo! In ogni caso sì, a tutte e tre.»

    Scuote il capo borbottando: «Il Fato è davvero bizzarro... Deve esser vero che perfino gli dèi si piegano al suo volere. Lo sai? Pensavo di dover cercare a lungo quelle tracce, finendo magari con il restare invischiato in mille dicerie senza mai arrivare a nulla di preciso. Invece la prima persona che incontro in questo paese mi sta dicendo di averlo conosciuto direttamente».

    Per un lungo momento rimane pensieroso soppesandomi con lo sguardo, finché riprende con slancio: «Di quelli come te, e intendo in vita, non credo ce ne siano rimasti più molti. Senti, ho un’idea. Siccome ci vorrà un po’ di tempo prima che i marinai riparino la falla, potrei compensarti bene se vorrai narrare ciò che ricordi di lui. Dopotutto, questa tappa imprevista potrebbe rivelarsi una gran fortuna!»

    Senza esitare rispondo: «Per me va bene. Però sono curioso di sapere perché la tua nobildonna s’interessa tanto a quell’uomo. Deve aver speso parecchio per un incarico simile, questa turbolenta provincia di Roma è sempre malsicura per uno straniero. Per un greco poi, i pericoli sono notevoli».

    «Beh, sì, ha pagato una somma notevole, quindi ho accettato il rischio. In ogni modo sono ben protetto, mi scortano una decina di mercenari che mi seguiranno dappertutto e, detto tra noi, credo siano ben più pericolosi di qualsiasi tagliagole avessi la ventura d’incontrare... Comunque, per rispondere alla domanda su cosa abbia spinto l’aristocratica dama a sborsare generosamente quel denaro, ti posso dire che tra gli intellettuali di tutte le più grandi città dell’impero è di moda disquisire di metafisica o di strane religioni. Le novità che le racconterò al mio ritorno le serviranno unicamente, credo, per pavoneggiarsi con gli amici letterati. La sua lussuosa casa diverrà così ancor più ricercata e per un po’ forse riuscirà a dimenticare la noia d’esser disgustosamente ricca.»

    Annuisco sogghignando. Dal tempo in cui ero ambito ospite nelle loro dimore, il mondo dei potenti non è per niente cambiato.

    «D’accordo» dico appoggiandomi al muro di casa e guardando il mare che si sta illuminando sotto i primi raggi del sole. «Ti racconterò la storia di quell’incontro. Ma salvo non ce ne sia davvero bisogno devi evitare di interrompermi. Sai, sono vecchio e potrei faticare a riprendere il filo dei ricordi... Sì, sono davvero vecchio, sicuramente molto più di quanto amo ammettere. A volte, preso dalla senescenza, m’illudo perfino d’essere immortale. Tuttavia so di non esserlo e prima che l’onda del nulla venga a sommergermi per sempre, voglio fare quello che da una vita mi riprometto eppure non ho mai fatto con nessuno. Voglio parlare di un incontro che ebbi molto, moltissimo tempo fa e dell’uomo conosciuto in quell’occasione. Rammento che parlammo di tante cose senza d’altra parte convenire quasi su nulla. Sì, ancora oggi non so chi di noi avesse ragione né lo saprò mai: forse, solo le nere, vellutate ali della morte porteranno alla verità... se poi davvero c’è, una verità. Comunque sia, è stato uno degli uomini che durante il corso della vita mi ha colpito di più. Forse, come qualcuno dice oggi, era solo un pazzo blasfemo o secondo il parere di molti un ingenuo visionario. Di lui tuttavia con sicurezza so almeno una cosa: non era malvagio né corruttibile, aveva coraggio nonostante conoscesse l’angoscia della paura e il suo cuore appariva buono e sincero. Ed io, che nel corso di una lunga esistenza non ho mai trovato tali qualità racchiuse in un solo uomo, non provo vergogna nel dire di essergli stato accanto nell’ultimo giorno della sua vita. Sì, allora ero un giovane con poco più di trent’anni, il sole aveva da poco raggiunto lo zenit e... pendevo indecorosamente da una croce appena fuori Gerusalemme. Ma adesso, prima d’iniziare a raccontare quel poco che so di lui, concedimi di spiegare come mai la vita mi condusse in quella scomoda quanto imbarazzante posizione: tanto più che sino a non molto tempo prima ero al culmine del benessere e della fama. Abbi pazienza con un povero vecchio chiacchierone, ansioso di riandare con la mente alla giovinezza: a quest’età cibo, sesso e gioco d’azzardo son reminiscenze ormai lontane come i miti di Omero. A farmi compagnia rimangono solo i ricordi e il loro narrare diventa l’ultimo piacere consentito.»

    Indice

    Indice

    Capitolo 1

    Prime esperienze a Gerusalemme

    «Sì, ragazzo mio, è proprio così: tutti gli uomini si possono classificare in due archetipi principali. Alcuni, guardando vicino, percepiscono la struttura intima delle cose; altri, scrutando lontano, colgono i legami dell’insieme. Capaci d’analisi i primi, di sintesi i secondi. Gli uni son bravi a far di conto, divengono capaci scribi, amministratori puntigliosi oppure buoni ufficiali; gli altri sovente diventano poeti, scultori, filosofi... o semplicemente sognatori.

    Tuttavia ne esiste ancora un terzo tipo, anche se talmente raro da essere quasi introvabile. Può perfino succedere che in un’intera vita non l’incontrerai mai. Racchiudendo in sé ambedue le qualità innalzate al massimo grado, queste persone divengono generali inarrivabili come Alessandro il Grande, filosofi come Pitagora o Socrate, architetti che con le loro straordinarie opere hanno sfiorato la magia come Imhotep. Oppure degli eccentrici alla Diogene che, anche nella loro follia, gli dèi hanno voluto far grandi. Per quanto ti riguarda lo devo proprio ammettere: non so ancora a quale di queste categorie farai parte… o meglio, a volte penso che nessuna ti si addica mentre altre che ti vadano a pennello tutte e tre. Perché, anche così giovane, sei la persona più complicata e mutevole che io abbia finora incontrato.»

    Avevo sette anni e l’uomo che mi stava parlando sembrava una specie di scherzo della natura. Piccolo, con una ben visibile gobba sulla schiena, in bilico sulla cima di un corpo esile esibiva un enorme cranio quasi calvo. Per finire, accanto agli occhi di cui uno semichiuso e cieco, il ricurvo naso spezzato ombreggiava la bocca in gran parte sdentata. Eppure perfino quell’insieme disarmonico d’imperfezioni umane mostrava un pregio: perché brillante e color del cielo, l’unico occhio era illuminato da una tale luce di serenità da parer impossibile che albergasse nel cuore di un individuo così crudelmente segnato dagli dèi. Era il mio tutore da quando l’anno precedente e assieme a mia madre Jezabael arrivai a Gerusalemme scappando da Sidone. Su chi mi fosse padre non sapevo nulla tranne una cosa: almeno a giudicare dal mio riflesso nello specchio, non doveva essere semita né di alcun’altra etnia di queste parti. Per anni immaginai fosse uno tra i tanti marinai, forse perfino gallo o germano, che in cerca di divertimento sbarcavano ogni giorno a Sidone.

    Poco fa ho detto scappando... già, e fu proprio di fretta che per tre giorni, con mia madre e un paio d’uomini, viaggiai a dorso d’asino attraverso aspre colline infuocate di giorno quanto gelide di notte fino ad arrivare la mattina del quarto nella città di David. In breve tempo ci sistemammo in una casetta appena fuori le mura. Come per molti non ebrei, pareva la scelta migliore da farsi. Generalmente gli arroganti e presuntuosi cittadini non amavano trovarsi tra i piedi i gentili tranne che non fosse per un qualche affare da concludere con loro.

    Dopo aver licenziato gli uomini che ci avevano accompagnati da Sidone, una delle prime cose di cui volle fornirsi mia madre fu una serva. Così nella nostra nuova casa entrò Ona, una giovanetta bionda figlia dei popoli dell’estremo nord, comprata al mercato degli schiavi a buon prezzo perché affetta da zoppia. I suoi lunghi capelli d’oro avrebbero altrimenti fruttato ben altre somme al venditore. Infatti, nonostante fosse carina e in mezzo a un popolo di teste dai capelli scuri simili fattezze risultassero piuttosto ambite, secondo i giudei una persona visibilmente colpita da Dio era da tenersi alla larga.

    Non era a causa di una delle tante guerre o carestie, che da sempre imperversano in queste terre, il motivo per cui eravamo fuggiti, ma solo le inevitabili conseguenze della più recente tra le numerose malefatte architettate dalla donna che diceva d’avermi partorito. Con sé portava un forziere sottratto a un ingenuo spasimante che aveva incontrato – tra le sue candide, profumate e tornite braccia – una tragica quanto prematura fine. Almeno questo mi confessò molto tempo dopo indorando e abbellendo la storia sino a trasformarla in un’epica fuga da un malvagio sfruttatore di donne indifese. Conoscendola bene comunque, non faticai a capire che le cose dovevano essere andate proprio all’opposto.

    Fenicia di nascita, faceva ascendere le proprie origini ai filistei, un popolo d’origine pelasgica insediato anticamente nel sud ovest dell’Anatolia. Migrato in massa nella parte più fertile della Palestina divenne il più acerrimo nemico degli ebrei. Devo subito aggiungere che era una femmina splendida: ma non basta perché di belle donne il mondo è pieno. Era anche molto furba, permeata in ogni sua fibra da una sorta d’astuzia animalesca che le faceva sempre intuire dove stava il proprio tornaconto. Sapeva cantare e ballare divinamente e con la parola riusciva ad ammaliare qualsiasi maschio l’ascoltasse. Conosceva le arti dell’amore come poche e chiunque fosse stato una volta nel suo letto avrebbe ucciso per potervi ritornare. Disposti a pagare cifre altissime pur di passarci una notte assieme, gli uomini le impazzivano dietro. Nonostante questo le permettesse di guadagnare somme tali da comprare una piccola città, dilapidandone enormi quantità per il proprio piacere ne era sempre a corto. Comunque, non volendo privarmi di un precettore acquistò lo schiavo più a buon mercato che riuscì a trovare. In effetti Nadir, questo il soprannome del futuro maestro, rimase per molto tempo invenduto sulla piazza; almeno fin quando mia madre offrì una somma talmente bassa da non valere nemmeno i miseri stracci che quello si portava addosso. Ormai stufo di rimetterci dandogli da mangiare perché a ogni giorno trascorso la sua perdita sarebbe aumentata, il venditore frigio accettò. In ogni caso, dalla strizzata d’occhio rivolta alla splendida donna che gli stava davanti e dal sorriso che in cambio gli fu elargito, quella notte un paio d’ore di piacere nel suo letto credo debba essersele godute.

    Nadir era greco e molto tempo addietro aveva vissuto a Creta dove insegnava matematica, astronomia e medicina. Più vicino ormai alla vecchiaia di quanto lo fosse alla giovinezza, era stato catturato dai pirati di Cilicia mentre una nave lo stava portando a Pergamo, dove intendeva visitare la grande biblioteca. Se fino a quel momento era solo un piccolo e fragile ometto con la testa un po’ troppo grande, dopo quell’incontro divenne lo sgorbio che conobbi. No, non venne molto ben trattato dai predoni quando scoprirono che non sembrava possibile trovare chi fosse disposto a pagare un riscatto. Eppure, finché visse, di tutti gli uomini da me conosciuti fu il più saggio e comprensivo. Senza di lui che mi aiutò a superare tristi momenti, forse ora non sarei qui a raccontare: infatti da mia madre non potevo attendermi molto. Credo mi odiasse per avermi portato in grembo per nove mesi, facendole così perdere un sacco di denari e soprattutto perché nato maschio non avrei potuto rifonderla del danno seguendone le orme nel mestiere. Tutto fuorché ingenua, sapeva che nella sua professione la bellezza se ne andava molto presto. Come le foglie abbandonano la chioma degli alberi in autunno e non l’abbelliscono più, scivolando via lentamente quella splendida avvenenza l’avrebbe alla fine lasciata. Di lei allora sarebbe rimasto solo quanto c’era sotto quel caduco splendore: esibito, ormai sterilmente nudo, alla vista non più così distrattamente superficiale degli altri. Aveva bisogno di qualcuno che si assumesse l’onere di farla continuare a vivere negli agi e nel lusso anche quando, invece di correrle dietro, gli uomini avrebbero voltato la faccia disgustati. Sì, sicuramente avrebbe preferito partorire una femmina... Tuttavia, poiché era una donna piena di risorse, anche se la sorte mi aveva fatto nascere maschio lei poteva sempre tentare di truccare i dadi.

    Non avevo nemmeno otto anni quando, chiamandomi accanto, per la prima volta le vidi in mano un piccolo, levigato fuso d’avorio. Oh, dèi: ricordo ancora bene come sorrideva! Era così bella ed io che n’ero innamorato, con il cuore gonfio di dolce struggimento m’avvicinai fiducioso.

    «Oggi faremo un gioco», cominciò a dire mostrando quei piccoli denti candidi incastonati come perle rilucenti tra profumate labbra di corallo. «All’inizio ti darà un po’ di fastidio, ma passerà in fretta e poi ti piacerà molto!»

    Così dicendo tolse la corta veste che indossavo, sciolse il perizoma ed io restai nudo e un po’ vergognoso davanti a lei.

    «Sei proprio ben fatto, saranno davvero in molti a impazzire per te!» esclamò compiaciuta. «Se farai tutto quello che ti dirò ci colmeranno di denaro e splendidi regali» concluse, facendomi stendere sulle sue ginocchia a faccia in giù.

    Nell’avvertire il tepore di quella tiepida carne, sorridendo per il piacere l’abbracciai con l’innocente voluttà dei bimbi quando s’aggrappano alla madre. Mentre percepivo quel suo intenso aroma che stordiva e mi piaceva tanto, chiusi gli occhi e sospirai beato.

    All’improvviso sobbalzai. Scivolose perché intrise d’olio, non solo le sue dita mi solleticavano l’ano, ma una di esse iniziava addirittura a penetrare in profondità. Voltando il capo per vederla in viso scorsi le labbra adorate sorridere ed io, incerto quanto sorpreso, avrei voluto dirle che quel gioco non mi piaceva per nulla. Ma poiché la cosa non sembrava arrecare un vero dolore ingoiai la domanda e tacqui: per nulla al mondo avrei deluso la bellissima donna.

    Ad ogni modo, quando dopo avermi ben umettato il dito si ritirò, respirai di sollievo. Purtroppo fu solo per pochi istanti perché al suo posto, e ben più spesso di un indice femminile, cominciò ad affondare lo strano oggetto levigato che teneva nell’altra mano. Questa volta il dolore arrivò intenso e bruciante; così, nonostante i proponimenti, assieme alle lacrime mi sfuggì: «Mi fai male, mamma. Ti prego smettila!»

    In tono flautato, come faceva nell’alcova per ammaliare uomini ricchi e potenti, replicò: «Resisti, presto l’olio lenirà il dolore e tra poco ti piacerà!»

    Non accadde allora né mai. Anche se con il tempo e cambiando gradualmente le dimensioni del fuso mi abituai a sempre più massicce intrusioni tanto da non provare dolore ma solo un senso di fastidio, non ne trassi mai il piacere promesso. Forse valutando gli altri secondo la propria natura perversa e credendo fosse facile mutare l’intima essenza di un uomo, quella donna s’era soltanto illusa.

    Il primo cliente fu un primipilus¹ iberico di stanza alla legione Siriaca. Entrando in casa e rivolgendosi a mia madre disse di aver poco tempo prima di riprendere servizio all’Antonia. Facendo tintinnare il metallo dapprima sciolse il cingulum²; poi aiutato da lei si diede da fare per togliersi la lorica segmentata³. Modellata in lame d’acciaio sovrapposte e parzialmente scorrevoli le une sulle altre, quello strano arnese ricordava il carapace dei grandi gamberi rossi che talvolta imbandivano la nostra tavola.

    Fu soltanto dopo aver deposto la pesante corazza in un angolo che, volgendosi come se appena allora si fosse accorto di me, salutò: «Ciao, il mio nome è Massimo».

    Al momento non sapevo cosa vedevo. Solo in seguito avrei capito che era già eccitato. Come fosse il palo centrale di una tenda del deserto e quasi che un vento impetuoso scuotesse il piccolo riparo, la virilità spingeva la tunica imbottita facendola anche oscillare. Quando si spogliò del tutto, nonostante sorridesse ebbi paura. Anche più voluminoso di quelli che fino allora ero stato abituato ad accogliere nel mio corpo, dal basso ventre ricoperto da un ricciuto pelame sporgeva un minaccioso fuso dall’apice violaceo. Tenendomi prono sulle ginocchia Jezabael mi unse l’ano, mormorò un incoraggiamento e dopo un attimo, mentre mani callose si posavano sui glutei in una ruvida carezza, avvertii penetrare quel bastone infuocato. Non agì bruscamente eppure, nonostante i continui allenamenti cui l’amorevole donna m’aveva sottoposto, gemetti forte. Mentre l’uomo prendeva a muoversi dapprima lento e poi con furia, lei m’accarezzava il viso sorridendo... togliendo piano con le dita lacrime che vi scorrevano inarrestabili.

    Per fortuna o piuttosto perché molto eccitato, quella prima volta non durò molto. Dopo un forte singulto d’appagamento accompagnato da un’ultima terribile spinta, il soldato emise un profondo sospiro di soddisfazione e smise d’infierire. Ancora qualche istante, poi finalmente la tortura ebbe termine.

    Non appena rivestito, Massimo mi si avvicinò di nuovo e mentre arretravo cercando l’inutile rifugio delle braccia materne, traendo dalla bisaccia un piccolo involto m’offrì un dolce al miele.

    «Prendi. Non è delizioso come te ma è buono.»

    Nel girarsi poi verso la donna che senza togliergli gli occhi di dosso passava distrattamente le dita nei miei capelli, le lasciò cadere nel palmo della mano alcune monete scintillanti.

    «Sei esosa, fenicia, comunque ne valeva la pena. Ci rivediamo presto!» E usci dalla stanza con passo pesante.

    Appena se ne fu andato, poiché per riporre il denaro mia madre era svanita dimenticandosi completamente di me, corsi a rifugiarmi in giardino sedendo sotto il fico che vi sorgeva in mezzo. Era il posto preferito da Nadir e sapevo che presto sarebbe arrivato.

    Non attesi a lungo. Quando venne rimase a guardarmi un istante, poi sedette poggiando la schiena all’albero e senza parlare pose un braccio sulle mie spalle per trarmi a sé.

    La diga si ruppe. Posando la testa su quel petto ossuto eppure così accogliente singhiozzai: «Perché mia madre fa questo? Io l’amo ma lei in cambio mi dà solo dolore!»

    Non chiese cos’era accaduto perché da tempo sapeva quanto la donna architettava di fare con il mio corpo e che il giorno della mia iniziazione era arrivato. Per un po’ restò così, passando lievemente le mani nei miei capelli e mormorando parole consolatrici. Poi, siccome non accennavo a quietarmi, mormorò: «Piangi quanto vuoi, cucciolo d’uomo. Però ti prego, risparmia questi miseri stracci; se l’inzuppi non ne ho altri per cambiarmi».

    Sollevai la testa e strofinando gli occhi lo guardai. Sorrideva. No, della malridotta veste non gliene importava proprio nulla, desiderava solo alleviare tanta cupa disperazione.

    Sempre tenendomi stretto, in tono sommesso riprese: «Il tuo è un destino riservato a tanti giovanetti che hanno una sola colpa: quella di essere straordinariamente attraenti. La bellezza vuol dire potere e denaro e alcuni genitori non vogliono rinunciare al guadagno che i figli, siano maschi oppure femmine, possono loro procurare. Tutto sommato a te è andata bene. Presto il corpo si abituerà e non ne avrai più dolore. Ad altri, per farli diventare ancor più avvenenti, è imposto il taglio dei genitali e questa è faccenda peggiore perché a volte nemmeno sopravvivono. Jezabael è stata quasi generosa: non ha impedito che un giorno, diventato adulto, tu scelga la strada che più ti si addice. Questo lavoro lo farai solo per qualche anno perché crescendo gli uomini ti troveranno sempre meno desiderabile. Tuttavia ricorda che in questo mestiere molti mali sono in agguato, perciò cura sempre in modo minuzioso l’igiene e lavati subito dopo aver frequentato un cliente. Strofinati spesso con la cenere e la soda caustica usando acqua in abbondanza e rasa i peli che più avanti cresceranno sul corpo. Non adagiarti nell’indolenza, cerca di rimanere sano e fai tutto il possibile per mantenere il vigore fisico. Lo so, non ti piace, ma è un mestiere come gli altri. Credimi, sono rari gli uomini che ne hanno uno realmente gradito. Porta pazienza: crescerai e con il tempo diverrai libero di fare ciò che desideri».

    Poiché l’animo dei giovanetti non ha vigore per contrastare il fato, la natura lo ha provvisto di grande flessibilità nell’adattarvisi. Piegandomi anch’io e sperando in un futuro migliore, mi rassegnai a quella vita. Dopo qualche tempo, abituandomi a soddisfare gli uomini che si accompagnavano con me, smisi anche di provare dolore. Se non altro e poiché rappresentavo l’assicurazione per la sua vecchiaia, Jezabael si rivelò abbastanza intelligente da non sfruttarmi senza limiti. I miei clienti erano sempre di un certo rango, abbastanza puliti e mai troppo rozzi. Devo anzi ammettere che curava in modo ossessivo la mia figura tenendomi sempre lindo e profumato, con i capelli cosparsi da essenze oleose per farli brillare dorati. Anche le vesti erano sempre morbide, lussuose e mai di grezzo tessuto che avrebbe arrossato la pelle delicata.

    Apertamente, in pieno sole, nella nostra casa giungevano greci, romani, mercanti della Partia; tutti fragranti di costosi aromi e sorridenti nell’anticipare le delizie che avrebbero gustato da lì a poco. Spesso si trattava di persone gentili e raffinate e per ingraziarsi la mia simpatia portavano doni che mi offrivano quando restavamo da soli. Mia madre, lo sapevano benissimo, teneva tutto il denaro per sé.

    Con il tempo imparai, leggendo negli occhi e nella voce l’ansia bruciante d’esser amato, a fingere con alcuni un trasporto e una passione che non provavo minimamente. Oltre a esser utile per ottenere ninnoli preziosi o qualche moneta d’argento, era anche il modo di ringraziarli per trattarmi come un essere umano.

    Di notte, col buio, arrivavano i peggiori.

    Imbacuccati in lunghi mantelli che li coprivano da capo a piedi, strisciando nell’ombra per il timore d’esser visti, quasi fossero ladri entravano in casa di soppiatto. Avevano occhi torvi e cattivi, in cui leggevo un desiderio lussurioso misto all’odio: come fossi stato io la causa dei loro peccati. Frettolosi, rapidi nel liberarsi dal desiderio che nonostante tutto li spingeva continuamente a cercarmi, ansimando sulla mia schiena e mormorando malvagie oscenità, maledicevano se stessi e il bimbo che possedevano.

    Quietati per un po’ di tempo i loro demoni, il giorno dopo avrebbero continuato a tuonare contro i peccatori dalla soglia del tempio o, implacabilmente ferrei, amministrato la giustizia nelle sale del sinedrio.

    Una sera, dopo un incontro particolarmente sgradevole con uno di questi galantuomini, a cena raccolsi tutto il mio coraggio e dissi: «Madre, so bene quanto il denaro sia importante per te, ma se me lo permetti vorrei guadagnarlo in un altro modo. Stamane il vasaio all’angolo della strada ha detto di aver bisogno di un apprendista. Mandami a lavorare da lui. Ti prometto che presto imparerò il mestiere e farò di tutto per guadagnare bene».

    Dapprima scoppiò in un’allegra risata, poi rispose: «Piccolo ingenuo. Come puoi pensare che il misero guadagno di un impastargilla mi sia sufficiente? Gli anni passano e a me serve denaro, moltissimo denaro! Oh, la bellezza è qualcosa di talmente effimero! Già ora non mi cercano più come una volta e poi, per le cento mammelle di Isthar, per quale ragione pensi che t’abbia permesso di venire al mondo sopportandoti per nove lunghi mesi mentre crescevi dentro di me come una mala pianta? Ci doveva essere qualcuno a prendersi cura della mia vecchiaia. Altrimenti perché altro l’avrei fatto, caro il mio signorino dal cuore tenero?»

    La cosa naturalmente non ebbe seguito. Anzi, poiché Ona a quindici anni si era fatta piuttosto carina, per incentivare ancor di più le entrate Jezabael la istruì in modo adeguato. Facendola trovare già bella distesa sul giaciglio, la riservò a clienti di passaggio che non la conoscevano. Un trucco semplice quanto efficace per non far notare la sua menomazione.

    Comunque la ragazza non ebbe mai nulla da obiettare. Anzi, inorgoglita e soddisfatta di vedersi apprezzata, pareva ben felice di avere più denaro a disposizione.

    Sì, Jezabael non era sciocca e lo sapeva benissimo: la fanciulla avrebbe reso in maggior misura se fosse stata contenta di quanto faceva.

    * * *

    Avevo circa dodici anni quando cominciai a notare strani mutamenti nel mio corpo. Qualche singolo pelo cominciava a crescere sul mento, anche se era prontamente strappato dalle pinzette di bronzo di mia madre. Ma siccome ormai da tempo le nascondevo i regali dei miei amanti e soprattutto i segreti dell’animo, non le diedi modo di rivolgere le sue attenzioni sui peli che venivano a coprirmi il pube. E se il corpo stava cambiando, anche la voce andava perdendo la querula tonalità dell’infanzia. Disorientato e quasi impaurito assistevo impotente a tante trasformazioni, ma quanto mi spaventava di più era che il mattino, appena sveglio, trovavo spesso le lenzuola macchiate.

    Sembrerà strano eppure, nonostante conoscessi perfettamente il meccanismo dell’orgasmo maschile, almeno nei primi tempi una mente ancora infantile non collegava la faccenda con quanto mi accadeva. Credendo di esser ammalato e di perdere umori vitali nel sonno, fu naturalmente a Nadir che confidai ansie e timori.

    «Oh, certo figliolo, me ne ero già accorto!» rispose sorridendo. «Comunque no, non sei ammalato, stai solo diventando uomo. Per questo, anche se il tuo volto è sempre bellissimo, sta perdendo le gote paffute e, come il corpo, le morbide rotondità della prima età. Addirittura la mente sta mutando, anche se nascostamente e tuttavia in modo ancor più profondo. Sì, una parte della vita è giunta al termine e ora, come accade a ogni essere umano, anche tu devi percorrere la strada della pubertà. No, non devi temere, non soffrirai alcun male. Però nel passare dalla gioia alla tristezza senza sapere il perché, per qualche tempo sarai più irritabile e lunatico. Soprattutto è possibile che tra poco e nonostante il tuo mestiere, le femmine comincino ad apparirti piuttosto diverse dal solito. Comunque vada, una cosa è certa: tra non molto sarai ben diverso dal tenero fanciullo che sei stato finora. Il destino lo forgerai con le tue mani e la donna che chiami madre non potrà più nulla contro di te.»

    * * *

    Trascorsero pochi mesi e venne il giorno in cui Jezabael comprese che il suo giovane figliolo possedeva altre e molto interessanti potenzialità. In effetti, tutta presa com’era nel far di me una donna, non si era resa conto che la natura aveva voluto fornirmi di una dotazione straordinaria come uomo. La scoperta avvenne quando un giorno, rientrando in casa accompagnata da un conoscente, mi spedì frettolosamente da Ona perché servisse del vino all’ospite. Un cliente aveva lasciato da poco la sua stanzetta e sapevo che la ragazza era sola, perciò senza nemmeno badare ad avvisare scostai la tenda e... rimasi di stucco. Oh, certo: non per la prima volta intravedevo le nudità di lei o di mia madre o per brevissimi attimi le sbirciavo accompagnarsi con un cliente! Ma fino a quel momento a spingermi a farlo era stata solo l’asettica, distaccata curiosità di un bimbo. Adesso invece, mentre china in avanti lavava le gambe in un catino ed esponeva al mio sguardo la parte posteriore completamente nuda, per la prima volta lo facevo con occhi da uomo. Incantato, incapace di parlare, fissavo due sode e candide mezzelune che seguendo quasi il ritmo di una danza oscillavano in un lento, seducente dondolio. Un calore inconsueto ma terribilmente piacevole iniziò a diffondersi nel basso ventre e al tempo stesso uno spossante e invincibile languore s’insinuò nella mente. Incapace di distogliere lo sguardo, rimasi immobile fino a quando lei si accorse d’esser osservata. Girò il capo e dopo un istante, mentre un sorriso le affiorava sul volto bisbigliò: «Vedo che quanto stai scrutando ti piace molto».

    «Eh? Cosa vuoi dire?» riuscii a gracchiare, nonostante una gola improvvisamente secca come il deserto.

    Indicò con un gesto del mento le mie parti basse e ridendo aggiunse: «Dico che prometti bene, giovane torello!»

    Abbassando lo sguardo m’accorsi finalmente della protuberanza che spingeva in fuori la leggera tunica. Proprio in quel preciso istante risuonò la voce indispettita di Jezabael.

    «Dove ti sei cacciato, scansafatiche? L’ospite sta... Per le lussuriose palle di Baal! Che hai là davanti? Fa vedere!»

    Prima che potessi dire o fare qualsiasi cosa mi si precipitò addosso in un lampo e sollevò sino alla vita la veste che indossavo. Mentre sbarrava gli occhi, portando le mani alla bocca emise un’altra esclamazione sorpresa: «E da dove salta fuori tutta questa mercanzia?»

    Arrossii fin alla radice dei capelli. Dopo moltissimo tempo, non solo mia madre stava osservandomi le vergogne ma anche Ona, con la bocca spalancata, teneva lo sguardo incatenato nello stesso posto.

    Fu la prima volta in cui presi un’iniziativa.

    «Adesso basta!» gridai scostandomi bruscamente, facendo così calare il sipario su quanto pareva destare l’ammirazione delle donne. Subito dopo, approfittando della sorpresa all’inaspettata ribellione, corsi via a nascondere me e la misteriosa trasmutazione di una parte di me stesso.

    La cosa però non finì lì. La stessa sera, nello stendermi sul giaciglio della stanza in cui dormivo, lo scoprii già occupato. Una forma indistinta si agitava piano sotto le coltri. Scattai in piedi con un sobbalzo ma invece del mostruoso demone che temevo di veder spuntar fuori della coperta, ne emerse l’allegro volto di Ona.

    «Per gli dèi! Che scherzi son questi?» gridai con quanto fiato avevo in gola, volendo scacciare soprattutto le mie paure.

    «Calmati, mio leoncino. Sono qui per ordine di tua madre.»

    Recuperato un minimo di controllo, con un tono di superiorità da padrone a serva, sbottai: «Non sono il tuo leoncino. Il mio nome è Ben Hamir... E si può sapere perché ti ha detto di far questo?»

    Non rispose ma, fissandomi negli occhi, con un gesto lento scostò la coperta emergendone nuda e candida come sua madre l’aveva fatta. Indeciso se restare o scappare, rimasi a contemplarla ammutolito, sedotto eppure pieno di timore nello scoprire per la prima volta il mistero della femminilità. Ma anche se per un istante l’ignominiosa fuga sembrò essere la soluzione migliore, non riuscii a farlo. Una terribile spossatezza accompagnata da un invincibile languore pareva aver pervaso cuore e membra e di nuovo, senza poterlo impedire, avvertii quella parte al centro del corpo risvegliarsi alla vita. Così, quando lei tese le mani non potei far altro che avvicinarmi, e dopo avermi fatto adagiare sul letto prese a sciogliermi la veste. Lo fece inginocchiata su di me mentre rabbrividivo di uno struggente piacere nell’avvertire i morbidi seni strusciare sulla pelle e il profumo del giovane corpo di femmina penetrarmi nelle nari; e quasi tutto ciò fosse una potente droga, sconvolgermi la mente.

    Non appena rimasi nudo spalancò gli occhi e allungando le mani per impadronirsi della parte più bollente di me, bisbigliò: «Per Freya⁴ e la sua collana Brisingamen⁵... hai solo tredici anni eppure nemmeno Priapo deve aver posseduto un simile dono alla tua età».

    Abbassando lo sguardo su quanto pareva interessarla tanto, lo vidi sobbalzare a quel tocco come se fosse dotato di volontà propria. Subito, mentre la sua mano vi scorreva sopra per l’intera lunghezza, boccheggiai per un’ondata d’intenso, fino allora mai sperimentato piacere. Allora è questo quello che provano gli uomini quando si trastullano con me! pensavo, smarrito per le dolci carezze.

    Stordito, confuso e con il cuore che batteva all’impazzata, credetti di essere in preda alla febbre per quanto avvampavo. D’impulso, come se stessi per annegare e fosse quella l’unica salvezza, la tirai contro di me: incapace di far null’altro che stringere il suo corpo nudo lamentandomi con piccoli gemiti che involontariamente mi sfuggivano dalle labbra.

    Oh dèi! Quali splendide, deliziosamente devastanti sensazioni, provai!

    Eppure era anche un tormento che non sapevo come lenire... almeno finché all’improvviso intuii cosa dovevo fare. Pareva talmente ovvio! Quanti uomini l’avevano fatto con me? Delicatamente la spinsi prona sul letto, allargandone prima le gambe poi i morbidi glutei. L’arma dell’amore già premeva sulla soglia proibita quando una risatina, seguita dall’agile guizzare del corpo candido sotto di me, interruppe la goffa manovra.

    «Non da quella porticina, mio piccolo amante; penerebbe un po’ troppo per accogliere con piacere quanto possiedi! Da questa parte invece non farà troppa fatica a entrare!» ridacchiò e girandosi sulla schiena allargò le cosce.

    Per un lungo momento rimasi in ammutolita contemplazione della rosea fessura ombreggiata da un fine vello, infinite volte più seducente dell’oro di cui possedeva il colore. Assecondando infine un impulso insopprimibile appoggiai l’asta all’umida entrata e lentamente, mentre tubando come una colomba s’inarcava sotto di me, la penetrai.

    Con l’inesauribile vigoria della giovinezza estrema, quella notte lo feci parecchie volte e ammaestrato da lei, sempre in modo diverso. Eppure, così lontane nel tempo e piene com’erano di nuove e dolcissime emozioni, di quelle ore non ricordo molto. Rammento però che a un certo punto, mentre Ona mi sovrastava in una furiosa cavalcata che le faceva sobbalzare i seni, alle sue spalle, affiorante in uno spiraglio della tenda scorsi il volto di mia madre.

    Gli occhi le sorridevano compiaciuti.

    Durò un solo istante perché non appena i nostri sguardi s’incrociarono il lembo del tendaggio ricadde e lei scomparve. Non me ne importò nulla. Un tempo aveva osservato impassibile mentre gli uomini prendevano piacere dal mio dolore e ora, anche se guardava mentre ero io a provare quel piacere, non me ne sarei certo vergognato.

    Il mattino dopo naturalmente credevo di essere innamorato. Appena sveglio, ancor prima di aprire le palpebre, nella mente affioravano i ricordi delle ore appena trascorse. Nel girarmi verso la fanciulla le sorrisi e divorandola con gli occhi presi ad accarezzarle i seni. «Ti amo, Ona!» bisbigliai felice.

    Anche se assonnata, scoppiò a ridere di cuore.

    «Oh Hamir, mio delizioso, piccolo amante: non dire queste cose o mi farai piangere! Di solito, appena si son presi il loro piacere, gli uomini non mi degnano più di uno sguardo.... Tu invece mi parli d’amore!»

    Oltremodo risentito e turbato non sapevo cosa dire. Le avevo rivelato quanto m’agitava il cuore. Perché rideva di me? Di fronte alla mia espressione smarrita però smise subito divenendo seria. Guardandomi con una tenerezza che non le conoscevo, m’abbracciò stretto baciandomi il volto.

    «Oh dèi! Sei ancora un bambino ma hai più sentimento di molti adulti», mormorò e scrollando con fare scherzoso il giocattolo che l’aveva tanto divertita, aggiunse: «Per fortuna tra quanti ho conosciuto sei l’unico a esibire un tale strumento. Non riuscirei a lavorare molto se tutti gli uomini l’avessero di queste misure o fossero così resistenti!»

    Non potei replicare perché l’incanto finì. La tenda si scostò all’improvviso e, come se ci fosse sempre stata dietro, apparve mia madre.

    Dopo nemmeno due giorni Ona scomparve.

    In casa il suo posto venne preso da Denkira, un ragazzino scuro di capelli come di pelle e di qualche anno più vecchio di me. In realtà non era uno schiavo ma un servitore che aveva scelto di vendere la libertà a tempo determinato.

    Jezabael non rispose alle assillanti domande con cui l’assediavo, se non con un laconico ‘era venuto il momento di sostituirla’. Disperato, piangevo giorno e notte quel primo amore che non m’era stato concesso di rivedere nemmeno per un istante. Ossessionato dal desiderio di stringerla a me ancora una volta, chiedevo a tutti, amici, conoscenti o semplici passanti, se l’avevano vista o sapessero dove fosse. Sperando di veder spuntare dal bordo di un velo lo splendore dorato dei suoi capelli, mi spingevo fin dentro le mura della città. Là, sotto lo sguardo a volte sprezzante di chi credeva d’essere migliore di me, vagavo per ore nel dedalo di vicoli o nella piazza del mercato.

    Stanco e sfiduciato, un giorno stavo riposando nei pressi della porta di Gennath quando, proprio nel guardare distrattamente le guardie che la sorvegliavano, pensai a Massimo, il centurione che a volte amava ancora intrattenersi con me. La speranza riprese a divampare all’istante perché forse proprio lui avrebbe potuto fornirmi qualche notizia. Senza pensarci due volte corsi lungo il perimetro delle seconde mura fin dove terminavano nei pressi dell’Antonia. Quando ansante raggiunsi la fortezza, le gambe tremavano per lo sforzo ed ero completamente coperto dal sudore. Confuso tra la folla vociante che vagava tra i banchi dei venditori mi addentrai sotto l’ombra dei grandi portici colonnati, nel luogo in cui i lati settentrionali e occidentali si congiungevano all’immensa mole voluta da Erode il Grande. Nonostante l’ansia mi spronasse ad agire immediatamente, decisi di sostare per riprendere fiato e rendermi presentabile, ma intanto che spolveravo la veste e asciugavo il volto con una pezza di lino, non potei fare a meno di ammirare la titanica fortezza che sovrastava perfino il tempio.

    Sugli spigoli di un enorme corpo centrale alto quaranta cubiti⁶ sorgevano altre quattro torri sopraelevate dal terreno tra i cinquanta e i settanta cubiti. Tutto l’insieme era ricoperto da lastre di pietra dalla superficie liscia, tanto levigata da quasi abbagliare. Questo sia per ornamento quanto e soprattutto per rendere assai difficoltosa la sua scalata a degli eventuali aggressori. Proprio da Massimo ero venuto a sapere che l’immensa mole possedeva ampiezza e sistemazioni in grado di rivaleggiare con una reggia. Conteneva appartamenti d’ogni dimensione e per ogni uso: vi erano portici, bagni, magazzini, officine; insomma tutto il necessario sia a una città quanto ad una caserma. Non tralasciando nemmeno lo sfarzo di un lussuoso palazzo.

    I romani, profondi esperti dell’arte militare, capivano perfettamente che se il tempio di Gerusalemme controllava la città, l’Antonia dominava il tempio. E chi possedeva la fortezza governava tutti e tre.

    In quel luogo stava di solito acquartierata almeno una coorte⁷ romana e tra quei soldati c’era Massimo. Mentre riflettevo su come prendere contatto con il centurione, al tempo stesso osservavo la porta. Una via d’accesso che, attraverso i portici settentrionali, dal gran piazzale del tempio permetteva di entrare nella fortezza. Non era la principale ma proprio per questo forse la più adatta allo scopo. Però era impensabile presentarmi al posto di guardia per chiedere di lui perché qualche zelante legionario m’avrebbe inesorabilmente cacciato a suon di pedate. Ci misi un po’ ma alla fine mi venne un’idea. Così, senza pensarci troppo perché altrimenti avrei perso coraggio, sfilandomi l’anello dal mignolo della mano destra corsi verso la porta. Ai suoi lati, immobili come sfingi, stavano di guardia due soldati. Armati di lancia e scudo, nonostante il sole a picco indossavano l’elmo e la pesante maglia di ferro.

    Appena arrivai abbastanza vicino, mostrando l’anello a uno di loro dissi: «Il signore padrone di questo sigillo chiede di conferire con il primipilus Massimo l’Iberico. Ditegli che lo sta aspettando al riparo dal sole sotto il colonnato».

    Prima che l’uomo potesse replicare qualcosa gli ficcai in mano l’anello e voltando le spalle marciai risoluto verso il portico. Non trovai il coraggio di voltarmi finché non arrivai all’ombra delle colonne e, quando finalmente osai, scorsi un terzo soldato confabulare con le guardie. Dopo un istante questo si girò per sparire all’interno.

    Non passò molto tempo che la massiccia figura di Massimo uscì dalla stessa porta, sostò brevemente a parlare con le guardie e, dopo che una di queste l’ebbe indicata, si avviò nella mia direzione. Rivestito della lorica risplendente al sole sembrava davvero austero quanto maestoso. Non dovevo esser l’unico ad avere quell’impressione; proprio notando come la gente si scansasse servilmente per cedergli il passo chiesi a me stesso se non avessi osato troppo. Solo la disperazione, assieme alla consapevolezza che ad andarmene ormai non cambiava nulla, mi diede il coraggio di attenderlo sul posto.

    Appena fu vicino, m’intimò: «Precedimi fingendo di guidarmi dal tuo padrone, ti seguirò a qualche passo di distanza».

    La voce vibrava brusca, con l’inconfondibile tono del comando: non suadente come usava fare quando s’intratteneva con me alla ricerca del piacere. Non disse altro ed io ubbidii. Solo quando c’eravamo ormai confusi tra la folla che gremiva il porticato, accostandosi a una bancarella che vendeva dolciumi e intanto volgendo lo sguardo attorno, in tono più sommesso riprese: «Allora, Ben Hamir, cosa c’è di tanto importante da volermi scomodare in pieno servizio? E non venirmi a dire che fremevi dal desiderio di rivedermi perché davvero non ci crederei!»

    «Scusami... non sapevo più a chi rivolgermi...» balbettai. Poi, nonostante non volessi scoppiai in singhiozzi.

    Tentavo ancora di riprendere il dominio dei nervi quando avvertii il peso e il calore di una mano appoggiarsi alla spalla. Dopo qualche istante, in un tono da cui sembrava esser svanita gran parte dell’asprezza, lo udì dire: «Calmati, ragazzo, racconta cos’è successo».

    Un po’ rincuorato dissi della scomparsa di Ona, delle inutili ricerche e dell’idea che mi aveva spinto fin lì nella speranza di ricevere qualche indicazione su dove fosse finita.

    «Una ragazza, dici?» fece chiaramente sorpreso, per subito sbottare in una tonante risata. «Per gli dèi... ma certo, la servetta di tua madre! Chi l’avrebbe mai detto? Ti piacciono le femmine! Bene: mi sa tanto che la tua avida genitrice dovrà presto badare a procurarsi un’altra fonte di guadagno!»

    Rendendomi improvvisamente conto di quanto stavo facendo divenni piccolissimo. Eppure, invece dello scapaccione ormai atteso mi giunse la sua voce che, se non appariva proprio gentile, poco ci mancava.

    «D’accordo, ragazzo. Non tremare come una foglia, ho deciso che per oggi non ti mangio», borbottò ancora sghignazzando mentre lanciava una monetina al rivenditore dal banco vicino.

    Afferrato il dolce alle mandorle tostate che quello subito porse, me lo ficcò tra le mani dicendo: «Torno tra breve, aspettami qui e intanto sgranocchia questo».

    Rimase via parecchio, ma quando tornò esibiva una faccia scura.

    «Spiacente Ben Hamir. L’altro giorno un soldato ha visto uscire dalla porta est una ragazza bionda che zoppicava.»

    «Era lei!» gridai. «Dov’è andata?»

    Lo vidi scuotere la testa e tutto il cimiero di penne d’allodola sull’elmo oscillò in un malinconico presagio.

    «Dimenticala, ragazzo. Stava in compagnia di un famoso mezzano di Tiro che ha esibito un atto di proprietà. Tua madre l’ha venduta e a quest’ora può essere in qualsiasi bordello tra qui e Alessandria.»

    Rimasi pietrificato perché in quel momento seppi con certezza che non l’avrei rivista mai più.

    Pacata, la voce di Massimo penetrò attraverso la caligine dell’auto commiserazione.

    «Lo sai, Ben Hamir? Non credo che ci rivedremo più. O almeno non a casa tua. A quanto pare stai per diventare adulto... ed io non posso umiliare un uomo che si è sempre comportato bene con me possedendolo come se fosse un fanciullo o una donna. Comunque, anche se dovrò rinunciare alle tue grazie, la cosa non riesce a dispiacermi troppo!»

    Allungando la mano callosa per rendermi l’anello aggiunse: «Che la dea Fortuna ti accompagni, ragazzo!» E dopo aver sogghignato rifilandomi una pacca sulla spalla come se fossi un commilitone, si allontanò.

    Come il solito Nadir dovette consolarmi.

    «Lo so, sei addolorato. Ma non devi confondere il bronzo con l’oro. La tua è passione giovanile, non amore. Se al posto di Ona ci fosse stata qualsiasi altra giovanetta, le cose non sarebbero per niente diverse e ti sentiresti straziare allo stesso modo. Eppure credimi: quando e se amerai per davvero, lo capirai subito.»

    Ma a quel tempo non potevo ancora intendere queste semplici verità e quelle parole non riuscivano a lenirmi l’animo. O almeno non più di quanto una sola goccia d’acqua soddisfi la sete di un corpo disidratato al sole del deserto.

    «Non vivo più senza di lei. Io... io l’amo più di mia madre!»

    Rise piano, poi come tra sé disse: «Beh, questo lo posso anche capire, mica ci vuole molto! Ma adesso ascolta con la mente quanto dirò... e non con quella parte di te rivolta ora a svegliarsi alla vita. Non conoscevi forse Ona da anni? E come la consideravi prima di apprendere da lei i segreti del piacere? Sbaglio o in lei non vedevi nulla in più della serva di tua madre? Oh, lo so, per un giovanetto è facile scambiare la passione per amore! In fin dei conti lo fanno perfino gli adulti quando chiamano amore ciò che invece è solo piacere. Non capiscono come con il primo soprattutto si doni mentre con il secondo innanzi tutto si prenda. Dimmi, credi forse che ti amino gli uomini con cui t’accompagni? Eppure il loro piacere è uguale al tuo. Sì, certo, magari qualcuno ti sarà anche affezionato e nell’alcova ti chiederà perfino parole d’amore; ma sappiamo bene ambedue che si limitano solo a prendere.»

    Sebbene non ne fossi granché convinto, qualcosa di quelle parole insinuò il dubbio. Avevo fiducia in Nadir e almeno non le rifiutai in blocco ma ci rimuginai sopra parecchio: e cioè fino a quando non molti giorni dopo mi sorpresi a guardare con interesse una ragazzina incontrata casualmente. Proprio fantasticando d’intrattenermi con lei nelle dolci attività cui Ona m’aveva iniziato, compresi che il vecchio non aveva mentito.

    Poi avvenne. Ormai al corrente di certe mie doti, Jezabael decise di farmi cambiare ruolo: perché se divenuto appena grandicello già esibivo un tale tesoro, era ovvio che avrei reso molto di più in una parte attiva. Per indurmi a ciò, poiché con suo gran dispetto rimanevo ostinatamente uomo e di conseguenza attratto dalle donne, pensò di sostituire Ona con Denkira. Le riuscì facile perché, al contrario di me, il ragazzo si sentiva del tutto femmina ed era piuttosto chiaro. Veniva dalle lontane terre del sud, oltre i grandi deserti della Nubia. La pelle era scura, liscia come l’ebano e sotto la massa ricciuta dei capelli mostrava un volto grazioso dai grandi occhi luminosi. Le labbra erano spesse, dalla piega quasi femminea, come d’altronde ogni sua indolente movenza.

    Una sera, quando il ricordo di Ona s’era già affievolito, com’era accaduto con lei me lo ritrovai nel giaciglio. Completamente nudo, disteso prono sulla coperta di lana a esibire i glutei di levigato marmo nero, nel sentirmi arrivare volse il capo per guardarmi di sottecchi.

    «Tua madre vuole che dormiamo assieme» disse in tono flautato sbattendo le ciglia.

    Le decisioni di Jezabael non si discutevano, si dovevano solo accettare.

    Così alzai le spalle e girandogli la schiena m’infilai sotto la leggera coperta restandogli però il più lontano possibile. Poco dopo, quando allungò la mano per tentare una carezza non sprecai parole, ma per sottolineare meglio come la pensavo gli mollai un calcio tale da farlo guaire.

    Nel mezzo della notte mi destai. Stavo sognando di Ona e il piacere era talmente intenso da farmi svegliare.

    Invece della ragazza però, chino sul pene e con la bocca piena di esso ci stava Denkira.

    Lo ammetto, non lo scacciai. Quanto provavo mi piaceva troppo per volerlo interrompere. Fingendo di dormire rimasi immobile fino a quando si accorse che ero sveglio; solo allora, smettendo per un istante quel gran daffare, sollevò il capo per ridacchiare lascivo. Non parlai ma gli afferrai la nuca e con forza, quasi con rabbia, lo spinsi di nuovo giù minacciando di soffocarlo per un boccone troppo grosso.

    Non ti scandalizzare, ascoltatore, ma devo proprio ammetterlo. Quelle natiche brunite, sode e assai volonterose m’offrirono quasi altrettanto piacere della dolce fessura di Ona. Denkira doveva esser abituato come me a simili intrusioni e anche se all’inizio emise qualche strilletto per l’inusuale massiccia presenza, chiaramente e al contrario di me ci godeva davvero.

    Prima dell’alba, appoggiando il bastone dell’amore tra natiche incredibilmente sode, lo cercai ancora. Si girò sorridendo e bisbigliò: «Non questa notte, adorato padroncino; è da molto che non provavo un tale bruciore! Ti prego, dammi un po’ di tempo per abituarmi.» E chinando la testa sul mio pube prese a darmi piacere nell’altro modo gradito a entrambi.

    Da quel momento cominciai a divertirmi. Non ero più il succube, inerte strumento del piacere altrui ma anch’io potevo prenderlo dagli altri.

    Per qualche strano scherzo di natura, alcuni uomini si sentono donne. In questo niente di male secondo me e anche a modo di vedere di certi popoli. Ma in Israele, se colta in flagranza, tale debolezza conduceva a un unico epilogo: la morte immediata. Al contrario per esempio dei greci o perfino dei romani, chiunque fosse colto sul fatto era condannato a perdere la vita. Assieme all’amante naturalmente. Ciò nonostante, se tale era la legge di Dio e l’atteggiamento pubblico, posso assicurare che molti maschi, in apparenza virili e fieri, in segreto amavano farsi montare come femmine.

    Ad ogni modo non mi accompagnavo con chiunque. Al contrario di ogni adolescente che per soddisfare il proprio piacere monterebbe con entusiasmo perfino una capra, solo raffinati giovani di bell’aspetto entravano nella mia alcova. A malincuore, in seguito ad alcuni clamorosi insuccessi con uomini troppo brutti o dal corpo ripugnante, questo Jezabael dovette concedermelo.

    Imparai i trucchi per trattenere il seme badando prima a dar soddisfazione all’altro perché anche se giovanissimo e inesauribile, non potevo reggere a lungo se, come a volte accadeva, i clienti erano numerosi. In quel nascosto quanto reale mondo di femmine mancate, la fama di cui godevo divenne insuperata tanto da arrivare a essere l’agognato amante di molti tra gli uomini più ricchi e potenti di Giudea: perché oltre alla massiccia e ambita arma dell’amore che gli dèi mi avevano donato, giunsi a essere maestro nell’arte di elargire il piacere.

    * * *

    Quando compii sedici anni ero ricco e ormai uomo fatto. Alto rispetto alla media, anche la dimensione di quanto era stata la mia fortuna raggiunse il culmine. Come pronosticato da Nadir, pur continuando a vivere con Jezabael, lei aveva perso terreno nell’impormi la propria volontà. Insofferente agli intrighi in cui era maestra, adesso amministravo da solo i clienti, spesso non ricevendoli in casa ma entrando gradito ospite nelle loro.

    Nonostante fossi indipendente non mi accadeva di pensare molto alle donne, forse perché un’intensa attività erotica placava i desideri quanto la

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1