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I sassi di Hebron
I sassi di Hebron
I sassi di Hebron
E-book138 pagine1 ora

I sassi di Hebron

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Info su questo ebook

Scritto come un romanzo, in realtà è un racconto, di un’esperienza vissuta direttamente dall’autore in Medio Oriente. Vi si narra la vita delle popolazioni arabe, e si aiuta a capire il motivo della loro ostilità contro il mondo occidentale e contro Israele. Non a
giudicare, perché il giudizio è soggettivo e spetta alla sensibilità di ciascuno: ma a capire. Morea spalanca gli occhi su una realtà molto discussa ma poco conosciuta. Trasformando, così, un libro di narrativa in un testo che si avvicina molto alla saggistica.
LinguaItaliano
Data di uscita7 gen 2014
ISBN9788879806428
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    Anteprima del libro

    I sassi di Hebron - Nicola Morea

    Indice

    I sassi di Hebron

    N ICOLA M OREA

    I SASSI DI H EBRON

    Copyright

    © Copyright 2002

    by GRECO & GRECO Editori S.r.l.

    Via Verona, 10 - Tel. 02/58.31.28.11 - Milano

    ISBN 88-7980-299-2

    In copertina: Libia, verso Giarabub, tratto da Kel12 Dune

    Titolo

    Nicola Morea

    I sassi di Hebron

    A mia moglie Elisabetta,

    traguardo di luce

    del mio tormentato

    viaggio esistenziale

    Capitolo I

    Capitolo I

    Nella sala d’attesa al gate 81 dell’aeroporto Sheik Zaied di Abu Dhabi c’era la consueta animazione di viaggiatori delle più svariate nazionalità con i più diversi e assortiti caratteri somatici ed estetici.

    Per Abu Dhabi, infatti, uno dei più importanti crocevia delle rotte aeree trans-continentali, transitano voli in maggioranza collegati col sub-Continente indiano, col Medio ed Estremo Oriente, con l’Europa in genere e con la costa Nord-africana; ma anche con l’America.

    Ogni volta che mi capitava di imbarcarmi in quello o in altri aeroporti dell’area del Golfo Persico, non potevo trattenermi dall’osservare, con immutati curiosità e interesse, tutti quei volti dai tratti riconducibili alle tipologie araba, giapponese, indiana, tailandese, egiziana, europea…

    Col tempo, avevo acquisito una tale sicurezza nel riconoscere le origini etniche delle persone, che mi divertivo a ipotizzarne la nazionalità, cercando poi nei modi possibili di verificarne l’esattezza. Senza dare nell’occhio, mi mettevo all’ascolto dei loro dialoghi nell’intento di scoprire la lingua da essi usata oppure, assieme alle caratteristiche somatiche, valutavo il colore della pelle, analizzavo la gestualità dei soggetti nonché tutti quegli elementi (magari per altri insignificanti), che alla fine mi avrebbero condotto alla definitiva identificazione.

    Il vestiario poi costituiva un dato veramente essenziale per il riconoscimento. Sotto il mio sguardo vigile sfilavano uomini avvolti entro tuniche del tipo jallabia, qaftan, thowb, dishdasha, e capo coperto dalla kufìa (celebre panno bianco o quadrettato) fermata dal tipico cordone nero ( agal), oppure vestiti con lunghe camice e calzoni stretti alla caviglia e larghi nel cavallo, e con in testa turbanti ( emama) e zucchetti, o infine eminenti figure castamente celate sotto mantelli ( methaf) e copricapo neri ( qubbaha) tipici degli imam, nell’insieme tutti col volto incorniciato o scolpito da barbe dai più caratteristici tagli. Le donne invece apparivano sepolte sotto burka e chador, oppure fasciate nei classici jlbab o sahari, col capo coperto da semplici scialli, fazzoletti o foulard, come l’ hejab, acconciati secondo l’uso dei relativi paesi d’origine, e le mani e i piedi tatuati con l’ henné o con incisioni a carne ( uishan), i polsi e il collo adorni di monili d’oro, d’argento, d’avorio o di corallo. Per entrambi i sessi poi, saltavano all’occhio calzature le più bizzarre, come sandali aperti, ciabatte a punta rialzata, scarpe con la zeppa o all’europea...

    A volte si distinguevano strane combinazioni tra copricapo, che potevano essere zucchetti ad impunture ricamate, berretti di astrakan o turbanti, e tunica con sovrapposta una giacca all’occidentale, oppure (indossati per lo più da personaggi all’apparenza importanti o probabili funzionari di stato) raffinati doppiopetto di marca avvolti entro mantelli scuri orlati con un profilo d’oro, o infine calzoni bianchi aderenti a gamba e sbuffati nel cavallo, accoppiati ad una camicia con colletto alla coreana e giacca all’europea.

    Spesso erano gli odori a guidarmi nella identificazione, come di estratti di radici o foglie di erbe aromatiche, caffè, tè e carcadè, aromi di creme al miele o di unguenti e balsami alle essenze canforate; oppure i profumi: sandalo, rosa canina, gelsomino… Era come un rincorrersi alterno di effluvi dalle più diverse intensità e sfumature, che si mescolavano o cercavano di imporsi gli uni sugli altri, e che solo un olfatto esperto e sensibile come il mio sapeva distinguere e associare alle abitudini e al gusto, nonché alla provenienza degli individui che li portavano addosso.

    Mentre me ne stavo così, col fianco appoggiato al muro della saletta, gustando l’affascinante eterogeneità di quella straordinaria moltitudine, in attesa che venisse aperto il banco per il controllo delle carte d’imparco dell’ Air France diretto a Parigi (da cui avrei proseguito per Milano-Linate), mi sentii tirare delicatamente il bordo della manica della camiciola.

    D’istinto la mia mente fece un balzo nel passato, suggerendomi l’origine dell’azione. Tuttavia non mi voltai subito, rimanendo per qualche secondo immobile, in attesa di confermare mentalmente la sensazione. Al ripetersi del movimento, compiuto alla stessa maniera e con la medesima insistenza, non ebbi più dubbi: era lui…

    Mi girai di scatto e vidi davanti a me la faccia scheletrita del mio amico di tanti anni prima.

    Ahmed!… – gridai, ignorando l’eco che d’improvviso aveva trafitto l’ovattato silenzio dell’ambiente – My God, Ahmed Ariri!… Quanto tempo è passato! E mi gettai letteralmente su di lui per abbracciarlo.

    Oh, dear Nicholas!... How are you?, esclamò lui, quasi all’unisono, ricambiando il calore del saluto e stringendomi a sua volta.

    Poi, resici conto dell’esagerato baccano del nostro slancio in mezzo a tutta quella gente, dopo aver abbassato il tono della voce, guardandoci intorno mortificati, con discrezione ci spostammo verso un angolo più appartato.

    Non avrei mai immaginato di rivederti proprio qui!… – proseguii, allargando le braccia in segno di incredulità, ma anche di accettazione dell’assurdo imponderabile – Ti credevo chissà dove!

    Sapessi, Nicholas, quante cose sono successe nella mia vita!…, si limitò ad accennare Ahmed, predisponendosi al racconto.

    Non solo a te, my friend!… subito precisai, facendo eco alla sua espressione di rammarico, e affermai a mia volta:

    Ad entrambi, di sicuro, è successo qualcosa di nuovo in tutti questi anni!… Poi, senza aspettare che lui mi ragguagliasse, d’impeto chiesi:

    Quanti anni sono passati? E Ahmed, alzando gli occhi verso l’alto come per concentrarsi (la sclera bianchissima mise in risalto le sue pupille nere, scoprendo al contempo il turgore di due grosse vene palpitanti lungo le tempie).

    Quasi vent’anni…, mi sembra! azzardò.

    Vent’anni!… Sì, credo proprio vent’anni!, confermai e, ripetendo il numero, aggiunsi esclamando:

    Vent’anni…, una vita!

    Ma tu, dove sei diretto?, chiese, con aria curiosa.

    "Io torno definitivamente in Italia, a conclusione del contratto con la Snamprogetti!" risposi.

    Perché, dove sei stato e in che progetto lavoravi?, domandò ancora Ahmed.

    Ottenni un incarico di Senior Material Engineer per tutto il ’98 e il ’99 per la costruzione della Raffineria di Bandar Abbas, in Iran!… Qui davanti, dall’altra parte dello stretto (di Ormuz)!, spiegai, accompagnando la frase col gesto delle mani ad esprimere la vicinanza del luogo; e subito dopo:

    Una gran bella esperienza, I tell you!… Un milione di barili al giorno: figurati…, tale è la capacità produttiva del complesso!

    Wonderful…, un grosso lavoro davvero!, esclamò compiaciuto.

    E tu…, si può sapere che ci fai ancora qui?… Non mi dire che dall’ultima volta che ci vedemmo… (mi fermai per qualche secondo col proposito di focalizzare l’anno nell’archivio della memoria), all’incirca nell’83, hai deciso di rimanere in questo paese!, indagai, con fare tra la sorpresa e l’affettuosa curiosità. Onestamente, se mi fossi trovato io al suo posto e nella sua condizione, costretto a vivere di continuo fuori dal mio paese d’origine, con addosso il marchio di ‘straniero’, obbligato ad agire e spesso a pensare alla maniera degli altri, ossia ad integrarmi in contesti estranei alle mie abitudini, di certo avrei scelto un ambiente arabo, con una lingua e uno stile di vita simile al mio. Perciò, per il bene che condividevo con quell’uomo, sperai in una risposta affermativa.

    A dire il vero, anch’io sono in partenza…, per Copenaghen!… Ovvero, con questo aereo vado a Parigi, e da lì proseguirò per la Danimarca!, spiegò lui.

    Sicuro…, quando ci conoscemmo, dopo che con i genitori avevi lasciato la Palestina, se non ricordo male, tu provenivi proprio dalla Danimarca ed eri venuto qui rispondendo ad un’inserzione nel Gulf Bulletin…, I remember! intervenni, trionfante per aver trovato il collegamento.

    Ho vissuto là, per modo di dire…, da quando avevo pressappoco diciannove anni fino al divorzio da mia moglie, nel ’93!, precisò lui; e aggiunse:

    In fact (attualmente), io abito e lavoro qui, negli Emirati, dove ho la residenza!… Sto andando a Copenaghen a trovare le mie due bambine che vivono là con la madre a cui sono state affidate! L’ultima frase Ahmed la pronunziò chiudendo gli occhi, con una smorfia di dolore.

    L’espressione del vecchio amico non sfuggì alla mia attenzione, per cui, fattomi serio, rimasi muto in rispettosa attesa delle successive rivelazioni. Passarono alcuni secondi di pensoso raccoglimento per entrambi, poi Ahmed riprese:

    Indeed…, certamente sarai sorpreso di udire questa strana storia: strana perché, suppongo, non avresti mai creduto che uno come me, un musulmano credente, possa avere in maniera così inconcepibilmente passiva ceduto alle ragioni di una cultura così efficientista e spregiudicata come quella diffusa tra la gente, nelle istituzioni stesse, del Nord-Europa!… Si fermò nuovamente, sprofondò il viso tra le mani tremanti ed emise un lungo sospiro.

    Sfiorandogli un braccio, lo sospinsi ad un tavolino lì accosto e, portogli una sedia, mi accomodai al suo fianco; indi, abbassato il tono della voce in tono consolatorio, sussurrai:

    I’m sorry…, non volevo suscitare in te spiacevoli ricordi!… Ne parleremo un’altra volta!; e picchiai leggermente la mano sulla sua spalla.

    Don’t worry, Nicholas!... È andata così e non ci posso fare niente!, affermò lui.

    Parliamo d’altro!, proposi.

    No, ascolta!… È tanto tempo che non parlo con nessuno: adesso ci sei tu e, in nome della nostra vecchia amicizia, voglio che mi ascolti!, insisté.

    Parla!, lo

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