Sguardi sulla vita
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Info su questo ebook
A me piace girare e perdermi tra le stelle. Di giorno so che sono appena oltre l’azzurro del cielo, mentre di notte la loro luce mi guida sicura in visioni che mi danno pace.
In quella immensità e nell'Infinito cerco il mio punto fermo. Tutti dovrebbero cercarlo nella loro esistenza. È un cammino difficile, ma affascinante.
I miei sguardi sulla vita partono da qui per abbracciare gli uomini e il mondo.
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Anteprima del libro
Sguardi sulla vita - Mauro Gilioli
In copertina: Meditare di George Cristian Ghergulescu
ISBN 978-88-7000-873-9
© STEM Mucchi Editore s.r.l.
Via Emilia Est, 1741 - 41122 Modena
www.mucchieditore.it
info@mucchieditore.it
facebook.com/mucchieditore
twitter.com/mucchieditore
instagram.com/mucchi_editore
Edizione digitale: dicembre 2020
Produzione digitale: Mucchi Editore
Indice
Colophon
Dedica
Prefazione
Mia madre Rita
Il pane celeste di Alberto
Omer, un uomo buono
Solitudine
Martina
Il raccoglitore di cose antiche
Domenico e la sua armonica
Carla
Il vuoto ordinario di una serata qualunque
Luoghi e gente di Bologna
Il dottor Osmilda
Una mattina di maggio
Il signor Maurizio e il footing
Dedizione
Vittorio Sgarbi
Assassinio di una quercia
Perché la sofferenza?
Caro Davide
La speranza
Il Pavaglione
Paranoia di un uomo tra gli altri uomini
Alda Merini
Remo, storia di un uomo semplice e vero
Il punto fermo
A mia moglie Giliana
Mauro Gilioli ha il dono della scrittura da molti anni. È ormai giunto alla sua sesta fatica letteraria e per un medico impegnato ogni giorno a curare i suoi pazienti, raggiungere questo traguardo è certamente un obiettivo importante. Gilioli non scrive per il successo, della sua vita può essere sicuramente orgoglioso: è stato il dentista di intere generazioni, padre e marito esemplare, è anche nonno di tre meravigliosi nipotini. Egli scrive per un moto del cuore, per esprimere le sue speranze, i suoi dubbi, la sofferenza e la gioia della vita. Scrivere l’aiuta a capire la complessità e la bellezza dell’esistenza umana e nei suoi libri c’è sempre un rilievo particolare per gli ultimi, per coloro che conducono una vita di sofferenza e di solitudine. Tutto questo lo possiamo ritrovare anche in questi racconti e pensieri (sguardi sulla vita) scritti con delicatezza dall’autore, che partecipa in prima persona alle vicende dei personaggi da lui creati. Sono uomini e donne incontrati nel suo ambulatorio, per le strade del suo paese o durante passeggiate solitarie nel centro di Bologna o in piccoli borghi della Pianura Padana e della Romagna. Uniche eccezioni riguardano Vittorio Sgarbi, la poetessa Alda Merini, che vengono descritti in una luce introspettiva e affettuosa. Gilioli ha una capacità di guardare dentro le cose e le persone, è come se leggesse la loro anima, come mirabile è la sua abilità di descrivere i paesaggi urbani e la natura nella quale egli spesso si rifugia per trovare forza e serenità. In questi racconti e ritratti, in alcuni casi quasi diari intimi, si possono trovare anche i pensieri e i valori ideali di Gilioli, uomo profondamente credente e spinto dalla forza dirompente del messaggio d’amore del Vangelo. Ci sono dei punti fermi che nel marasma e nella difficoltà della vita ogni uomo deve saper cogliere per dare pienezza al suo agire. I punti fermi sono: la presenza di Dio, Padre misericordioso, la solidarietà nei piccoli gesti di ogni giorno, la consapevolezza del dono della vita. Nel caos di un mondo alla deriva, di un’umanità ormai verso il suicidio, nel mistero della sofferenza, non ci rimane che fare emergere la nostra umanità e quella delle persone che incontriamo nel nostro cammino. Perché ogni essere umano ha un qualcosa da raccontare, da insegnarci, perché non è mai facile capire cosa c’è dietro una persona, quali sono i suoi sentimenti più nascosti e più veri. Il tutto scritto con passione, ironia, e profondità. Non vi annoierete, riderete e vi commuoverete. Vi interrogherete infine sul senso della vita, ma sempre con un filo di speranza e un sorriso gentile nel vostro cuore.
Attilio Desiderio
Mia madre si chiamava Rita, non era né alta né bassa, né grassa né magra e le mani erano quelle di una persona che aveva lavorato molto, le dita erano rattrappite e contratte, con difficoltà riusciva a stenderle . l e unghie non erano curate, non conosceva che si potevano modellare o addirittura allungare e pitturare come già avevano fatto le donne egiziane. Lei neanche pensava di essere bella. Se ne fosse stata conscia avrebbe rifiutato questa immagine, schermendosi. Rita era bella, tutta la vita lo era stata e non lo era diventata con gli anni.
Chissà perché le mamme si assomigliano tutte a una certa età, forse perché le accomuna il fatto di diventare mamma, un percorso, un esercizio così alto che le porta tutte sulla strada della perfezione, dell’assoluto. Tutte sono a sedere su una seggiola e lì aspettano che il tempo sbiadisca il colore per renderle senza tempo e sovrapponibili le une con le altre. Diventano nonne, bisnonne, perdono identità, mia madre parlava poco, assorta il più delle volte non in preghiera, c’era anche quella, ma la sua umiltà e timidezza la portava a stare zitta e ad ascoltare.
A noi figli non rimane che riflettere e ammirare. All’improvviso immagini, emergono dai ricordi, occupano la mente, sono fotografie in bianco e nero, sparigliate sulle bancarelle dei mercatini. Spezzata l’appartenenza, perso quel filo di Arianna che le lega all’identità della famiglia, lì tutto genera amore e pietà. E allora sono tutte belle le mamme del mondo, sì lo sono. E ora come faccio a trovarti in mezzo a tanta bellezza? Nessun problema, io ti cerco e tu per dono mi appari, orni tutta la mia mente. Ecco che anni e anni di immagini prendono forma, sono lì a mia disposizione, nessuna ha un difetto, devo solo scegliere. Cosa c’è di più semplice dell’atto di soffiarsi il naso, una consuetudine che passa inosservata, non lascia traccia. Nulla di interessante, ma a me piace ricordarlo. Anzi quel semplice tuo atto si impone nella mia mente. Con le dita della mano liberavi dal grembiule la tasca del vestito, al suo interno raccoglievi il fazzoletto, ne sceglievi con cura un angolo mentre lo portavi al naso, poi eseguivi una soffiata seguita da una seconda di pari intensità e tutto si smorzava. Poi giravi il fazzoletto e sfregavi il naso, ripiegato lo rimettevi in tasca e questo lo facevi diverse volte al giorno. Da quel naso non usciva mai nulla, nemmeno un po’ di muco nasale, prova ne era che quando soffiavi nel fazzoletto il passaggio dell’aria era libero. Quel piccolo soffio corto e pulito non disturbava, usciva da quel naso minuto che appena si notava nel tuo bel viso tondo e allora perché lo facevi? Forse era un’abitudine che la tua innata umiltà ti imponeva, non dovevi essere fuori posto nei confronti del prossimo. A questo punto mi domando cosa può interessare questo semplice atto descritto sopra un pezzo di carta? Non ho la spiegazione. Non ho gesti o situazioni eclatanti da raccontare, feste o abiti particolari da descrivere perché non ci sono nel film della tua esistenza. Tu ti rendevi libera obbedendo. Davanti alla mole di lavoro da eseguire ogni giorno esprimevi in pieno la virtù dell’ubbidienza e dell’umiltà.
A mia madre non interessava essere felice, semplicemente tutti i giorni faceva la mamma senza pretendere nulla in cambio. Lavorava continuamente, lavava, stirava la biancheria di casa, poi andava nella stalla e nei campi, faceva da mangiare e apparecchiava per la famiglia. Servito il pranzo sparecchiava e lavava le stoviglie e questo ogni giorno, tre volte al giorno per settanta o ottanta anni. Nessuno glielo imponeva, ma ubbidiva a una precisa richiesta della sua mente. Ogni sera era stanca, ma serena pur avendo perso il marito a quaranta anni. – Arcangelo non c’è più – diceva rivolgendosi a noi dopo la sua morte quando le circostanze impattavano su quel fatto. Da quel momento in poi nostro padre divenne Il povero Arcangelo
e nulla più. Né marito e padre o altro titolo nostra madre usava per riferirsi a lui. Nostro padre era morto e non c’era modo di addolcire o cambiare quello stato di cose. Quell’aggettivo che precede il nome era riferito alle spoglie mortali di quell’uomo scomparso ancora in giovane età. Era una locuzione che racchiudeva in sé la pietà per quel corpo che aveva visto sfuggirgli la vita, era il rammarico e il rispetto per una situazione che in modo repentino la morte aveva cristallizzato e da quell’istante procedeva irreversibile. Era l’inizio della dura strada del ricordo per i suoi cari e per quelli che l’avevano conosciuto.
Ma subito dopo c’era il nome Arcangelo, nome proprio di persona, quello di un essere la cui vita era volata verso un’altra dimensione, quella dell’azzurro del cielo. Era questa la cultura popolare, la nostra cultura semplice, ma estremamente vera, incardinata sulla fede di quel Cristo che ha sconfitto la morte e ha acceso la luce della Speranza. Nostra madre seppur sofferente per lungo tempo, aveva imparato da sola a mantenere la famiglia senza conoscere la felicità o lamentarsi ancor che di un’illusoria felicità mancata. Semplicemente accudiva i calli delle sue mani con il manico della zappa, le pentole e il lavoro nella stalla. Non ha mai rincorso la felicità, non l’ha mai cercata, ma invece ha sempre cercato sua figlia morta a sei mesi di meningite fulminante. L’ho vista versare lacrime in silenzio e lontano da sguardi per quella bimba, davanti al marmo bianco della sua tomba, fino poco prima di morire quando le portava i fiori. Avveniva anche nei momenti dove la vicinanza a quel ricordo si faceva stringente, ma solo in nostra presenza. Poco prima della sua morte l’ho portata con garbo al ricordo di quella bambina, la sua bambina, eravamo soli, immersi in quel silenzio che circonda una casa di campagna. Lei aveva incominciato a parlare di mia sorella Carmen e ancora a novanta anni l’ho vista piangere. A quel punto dopo un po’ l’ho invitata a cambiare discorso. Prossima alla sua scomparsa piangeva ancora per quella bimba, la primogenita che aveva visto portarsi via dalla morte sessant’anni prima. Era la sua prima maternità. Si è sempre affidata a Dio con rispetto assoluto, non mettendo mai in discussione la sua vigile e amorevole presenza, non interrogandosi mai sul perché, semplicemente accettava la presenza di Dio. Ha avuto paura di morire? Sì, tutta la vita, ma in modo controllato. Negli ultimi momenti prima di volare oltre il tempo, questi cenni si erano fatti più consistenti, erano sguardi sospesi forse in cerca di aiuto, ma ugualmente ben controllati fin che era nel tempo dalla fiducia che riponeva in noi due figli, ma anche fiduciosa senza troppo parlarne nella Provvidenza, nei sacramenti che il curato le portava e nella preghiera.
Non ha mai pensato che la sua vita potesse essere un fallimento e che evitarlo dipendesse solo da lei. Non conosceva i ragionamenti filosofici o le analisi sociologiche, lei apparteneva a una generazione non toccata dagli scioglilingua di quella parte di bohemien, opinionisti e pseudofilosofi abitudinari, che abbondano lungo le vie della città, nei tavolini dove si consuma l’aperitivo o all’interno dei così detti social o talk show televisivi. Persone frustrate che la vita ha reso schiave, o che volutamente si sono arrese ai luoghi comuni del nichilismo e del materialismo, quella cultura li ha pervasi e resi artefici a loro volta della ricerca della felicità godereccia come unica via e scopo di vita, si sono fatti motore trainate senza porsi la domanda se esistesse di meglio.
Lei un simile modo di impiegare il tempo non lo conosceva, era solo volta al concreto, di tanto in tanto si recava con noi in bicicletta a fare visita alle sorelle e poi ritornava a casa. A volte la invidio. Anzi invidio di lei la sua capacità di non lamentarsi mai (dieci o undici anni allettata) nella malattia, il saper tacere e parlare a me e a mio fratello il più delle volte con gli occhi, bastava uno sguardo per capirci e comunque essere sempre contenta (non felice) di quel po’ che facevamo per lei. Sono lieto di invidiarla nel suo percorso di vita perché so che mi perdona. Non gli porto via nulla, non le sottraggo nulla che lei non mi doni già in anticipo con lo sguardo dei suoi occhi, anche ora che non è nel tempo. Se il mio pensiero si volge al ricordo tutto è nell’armonia, ma se si getta nelle braccia del futuro tutto si fa difficile e mi ritrovo fuori dall’ingrano del tempo. Penso che la vita sia qualche cosa di così grande che non può andare dispersa nel nulla. Qualcuno raccoglierà quelle lacrime e saprà dove metterle.
ÈAlberto, sicuramente è lui, è inconfondibile la sagoma della sua macchina; in effetti più che una macchina vera e propria quella vettura è un camioncino. Davanti c’è la cabina con due posti secchi e il muso lungo, dietro l’abitacolo, un piccolo cassone per il trasporto.
– È lui, scommetto che è lui – penso subito, lo scandire delle parole corre appresso al pensiero e arriva diretto a mio fratello che se ne sta seduto nel seggiolino a lato. Se non fosse perché era sopito Maurizio avrebbe visto Alberto prima di me. – La sua vista è meglio della mia, molto meglio! – Nostra madre diceva sempre che non gli sfuggiva nulla. – Ci vede come un falchetto! – soleva ripetere.
Alberto capita di incontrarlo lungo le strade secondarie di campagna, e se ciò non avviene, la mente si diverte a restituirlo ugualmente come immagine in quel modo.
E allora eccolo comparire dal nulla, per incanto, nel riquadro cerebrale. La mente si ostina a restituirlo proprio così!
Percorre una lunga strada tutta dritta che scende il fianco di