La verità di Agnese
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Info su questo ebook
Quando si ritrova tra le mani la vecchia reflex di suo padre, svilupperà come lui una passione per la fotografia che si trasformerà nel suo lavoro. In occasione di un servizio in Messico, conosce Alma e la sua bambina Aurelia. Portarle via con sé e salvarle dalla loro situazione le donerà finalmente il senso della vita, anche se per Margherita la vita continuerà ad avere un dolce retrogusto di malinconia. Elia ed Anna la aiuteranno con coraggio ed amore incondizionati in questa impresa al di sopra delle sue forze.
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Anteprima del libro
La verità di Agnese - Monica Saliola
La verità di Agnese
Monica Saliola
Copyright© Officine Editoriali 2014
Prima edizione eBook Novembre 2014
Tutti i diritti riservati.
Il presente file può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Tutti i contenuti sono protetti dalla legge sul diritto d’autore. Officine Editoriali declina ogni responsabilità per ogni utilizzo del file non previsto dalla legge. È vietata qualsiasi duplicazione del presente ebook.
ISBN 978-88-98041-43-5
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Ebook by: Officine Editoriali
La foto di copertina è di Fulvia Giubilei
Elaborazione grafica copertina:
Officine Editoriali
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore e hanno il solo scopo di rendere realistica la narrazione. Qualsiasi analogia o riferimento a fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è da ritenersi puramente casuale.
SOMMARIO
I primi anni di scuola
Cambiamenti
La vecchia reflex
Lezioni di fotografia
L’addio
Anna
I cento scatti
Particolari
Preludio
La mostra fotografica
Una strana conversazione
I miei spazi
Elia
L’inganno
La morte di Eva
La verità di Agnese
Nuove rivelazioni
Il sacrificio
L’ombra della salvezza
La lettera
La scoperta
In Messico per lavoro
Alchimie
La decisione
Speranza
Stato di necessità
Si ricomincia
Punti di vista
La mia famiglia
I primi anni di scuola
Anna fu l’unica a rivolgermi la parola, all’inizio della prima elementare. E rimase l’unica per i seguenti cinque anni.
Come me, Anna era una bambina molto introversa. Non particolarmente brava a scuola, cercava di farsi notare il meno possibile. Anche il suo impegno scolastico era un modo per nascondersi dalla cattiva notorietà che l’essere gli ultimi della classe comporta.
Anna si nascondeva da se stessa, dal suo aspetto fisico. Dalla sua bruttezza. Aveva capito molto presto di essere brutta. Altrettanto presto, aveva iniziato a farsi strada dentro di lei la consapevolezza che la bruttezza è una disgrazia senza soluzione perché è una condizione irreparabile. È un dramma senza via d’uscita perché nessuno può farci niente. Chi è brutto non ha colpe, eppure la bruttezza è considerata la colpa più grave agli occhi di chi guarda. Chi è brutto deve accettare che la chance di essere amato e felice non dipenda da lui. Non c’è consolazione.
Con questa consapevolezza non avrebbe mai provato ad integrarsi con i coetanei, fin quando notò la mia presenza. La mia condizione doveva esserle apparsa anche peggiore della sua.
Inizialmente non capivo perché quella bambina volesse ad ogni costo parlare con me, solo con me. Ma nel corso degli anni mi resi conto che, per ragioni del tutto diverse dalle mie, Anna era come me. Capii quanto desiderasse essere invisibile.
Fu così che quell’emarginata di Margherita, cioè io, divenne la soluzione al suo problema.
Nessuno ci invitava alle feste di compleanno, neppure a trascorrere un pomeriggio di giochi insieme. Io ed Anna eravamo chiuse e inavvicinabili. Non gradite. Fine della nostra vita sociale.
Io imparai presto a volerle bene. Era una bambina straordinaria, di una generosità sorprendente. Come tutte le persone brutte, che non si sentono degne dell’amore altrui, aveva sviluppato quella particolare attitudine a non dare fastidio, a non chiedere, a mettere le esigenze degli altri davanti alle sue. Non sapeva neppure di avere dei bisogni, dei desideri. Come me, del resto. L’unica cosa che sapevamo era che la solitudine era diventata pesante come un macigno e da sole non ce l’avremmo più fatta.
Anna e io ci siamo tenute compagnia per molti anni, senza riuscire mai a recuperare neppure una minima parte della spensieratezza di cui è fatta l’infanzia ma, a modo nostro, quell’amicizia era quanto di più dolce potesse capitarci.
Nei cinque anni delle elementari nessuno tentò di diventare amico mio e di Anna: siamo sopravvissute bastando a noi stesse.
Il significato di emarginato è escluso.
Non integrato, non inserito.
Respinto dalla comunità perché non corrispondente ai modelli morali e sociali prevalenti.
Io sono un’emarginata. Eppure in apparenza mi adeguo a questi modelli: sono sana, nel fisico e nella mente, economicamente agiata, professionalmente riconosciuta, probabilmente bella.
Ma sono un’emarginata. Lo sono sempre stata. L’emarginazione non è una condizione reversibile.
Non ci si riscatta mai, non c’è un momento in cui ci si integra.
Soprattutto se siamo noi ad auto escluderci.
Non esistono servizi sociali per chi non si sente all’altezza dei modelli prevalenti
, per chi perpetua l’auto apartheid giorno dopo giorno.
Il problema non è una società rifiutante. Non si può nulla contro un volontario atto di isolamento.
Dunque io sono una auto emarginata.
Questa definizione non esiste in nessun vocabolario, anche in questo sono diversa. Perché fino ad un certo punto, finché non si entra bene dentro la mia vita, la mia negazione sociale potrebbe essere scambiata per originalità.
È un’individualista. Un’intellettuale. Una freak.
Tutte definizioni dalla connotazione ottimistica, promettente. Enunciate quasi con invidia da chi mi conosce male.
Non c’è niente da invidiare, invece. Nulla che possa suscitare il più pallido ottimismo, la più subdola promessa.
Che brava bambina è Margherita!
dicevano tutti quelli che mi conoscevano quando ero piccola.
Mai una parola fuori posto, mai un capriccio. Si congratulavano con mia nonna, che mi ha cresciuta, per tanta insolita educazione.
Nessuno notava che mi ero già isolata, chiusa in me stessa. Non ero educata, ero viva a metà. Non ero buona, ignoravo cosa fosse l’esuberanza dei bambini, quelli che vedevo ogni giorno a scuola, dei miei coetanei.
Dunque, sono cresciuta con mia nonna. Sarebbe più corretto affermare che mia nonna mi ha cresciuta da un certo punto in poi. Fino ai tre anni è stata mia madre ad occuparsi di me. Di mio padre neanche l’ombra, mia nonna mi aveva detto che era scappato prima che io venissi al mondo.
In quei primi anni eravamo sole, io e la mamma. La nonna è subentrata in seguito.
Dove vivesse prima di venire a stare con noi l’ho scoperto tanto tempo dopo. Quello che sapevo è che ero felice che fosse arrivata lei, perché mia madre, a poco a poco, aveva iniziato a spegnersi.
I ricordi che ho di mia madre sono molto statici. Passava le giornate seduta nella sua stanza, sprofondata nella morbidissima poltrona azzurra, senza parlare.
Non mi diceva niente, mia madre. Non faceva le cose normali che fanno tutte le madri.
A volte, la sera, sentivo mia nonna che andava da lei, le si accovacciava ai piedi come una gatta e le sussurrava parole per me incomprensibili ma che risuonavano tanto dolcemente da sembrare una ninna