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L'amore che resta
L'amore che resta
L'amore che resta
E-book203 pagine2 ore

L'amore che resta

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Info su questo ebook

Tre donne. Tre sfumature dell'amore.

O, forse, della sua mancanza.

Sara: l'ossessione senza presenza.

Emma: il sesso senza impegno.

Chiara: il legame senza libertà.

A raccontare la storia al presente, in prima persona, è Sara una sceneggiatrice di 33 anni.

Sara è una donna solitaria e introversa. È amica di Emma, una regista famosa (più grande di lei di vent'anni) con la quale sta per scrivere un film; e di Chiara, sposata con Filippo ma innamorata di un professore universitario con cui ha una storia clandestina.

In realtà, ognuna di queste donne ha un segreto e nello svolgersi di poche settimane, il velo si squarcia mettendo in luce un microcosmo umano così fragile da essere disposto a (quasi) tutto pur di sopravvivere alla "liquidità" moderna e alla sua dilagante e insopportabile solitudine.

Un romanzo psicologico – dalla scrittura suggestiva ed emozionante - che smaschera il bisogno d'amore dei personaggi fino a toccarne i lati più oscuri e dove "l'amore che resta" del titolo è ora un avanzo abbandonato da qualcuno, ora un sentimento che, oltre la ragione, persiste e non se ne va.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2019
ISBN9788831612180
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    Anteprima del libro

    L'amore che resta - Alessia Giovannini

    resta

    Introversa.

    L’ho sempre odiata questa parola.

    Mi fa pensare a qualcosa di storto. Come un chiodo che non può bucare niente perché ha la punta ritorta verso di sé. Un chiodo inutile.

    È una bambina silenziosa, hanno sempre detto di me.

    Mia madre che ha il dono di rendere teatrale anche i silenzi, diceva che ero una bambina dai sentimenti tiepidi.

    Non sono mai stati tiepidi i miei sentimenti. Sono solo muti. Soffocati dentro. Ingoiati.

    Non c’è niente di peggio che possedere dei sentimenti che non si riescono a donare. O a urlare. O a condividere.

    Invidio le persone appassionate.

    Ma io ho gli occhi chiari.

    Sono fatta di acqua.

    Di flutti irrequieti.

    Il fuoco dentro di me si spegne.

    E le mie fiammelle fanno cenere che mi soffoca la gola.

    Non ho ancora trovato la mia Fenice.

    Ho smesso da tanto di cercarla, per la verità.

    Quando ho trovato te, mi sono illusa di aver trovato le tracce del mare da cui provengo anch’io.

    Avevo solo trovato la sorgente delle mie lacrime, invece.

    Sono le campane a svegliarmi. Ogni giorno.

    Alle sette di mattina.

    Un rintocco lontano e quieto che entra nel sonno e se lo porta via.

    Le suore sono già in piedi quando il piccolo campanile inizia a suonare.

    Me le immagino frettolose che si tirano su le gonne e fluttuano senza fare rumore verso la cappella.

    Ave Marie genuflessioni pentimenti e peccati che non sono i loro, sgranati a chiedere perdono per noi, che un dio non lo troviamo più.

    Io mi alzo mentre mi immagino la nenia ritmica delle loro voci, bisbiglio infinitesimale nel silenzio.

    Mi faccio il caffè e poi mi metto alla finestra, a spiare quel luogo ovattato che sta dall’altra parte della via.

    D’inverno non vedo nulla, ma d’estate sì.

    Piccole chiazze d’oro che sbucano dagli alberi e si stendono sulle pareti del chiostro accendendo i fiori di colore.

    Mi danno serenità, le suore.

    Mi dà pace il loro giardino impeccabile al di là del mio vetro. Un quadrato verde perfetto al centro del colonnato, con il piccolo pozzo. E gli alberi di ciliegio e di pesco e le aiuole fiorite, puntinate qua e là.

    E gli uccellini.

    Ci sono sempre gli uccellini dalle suore, come nel Paradiso dei Giusti.

    Vivo qui da più di un anno e mezzo.

    Ho trovato questa casa grazie a Giulia, la madre di Chiara. È di una sua amica, Maurizia: la figlia Serena è andata a vivere all’estero e, su insistenza di Giulia, ha accettato di affittarmela fintanto che la figlia non c’è.

    Quando ho visto questa casa per la prima volta, non potevo crederci. Una vietta piccola, senza uscita, una salita che passa inosservata e dove le macchine non possono parcheggiare. Una striscetta di quiete infilata nel caos della vita.

    Un soggiorno, una camera, bagno, una cucina e un balconcino minuscolo affacciato sulla dimora segreta di chi ha sposato Dio e si è scaricato di dosso – per lasciarlo a noi – tutto il male del mondo.

    La pace oltre, ho pensato subito. Vicina, ma intoccabile.

    Io amo questa casa.

    Amo i suoi silenzi.

    Gli uccellini che cinguettano al di là del muro delle suore.

    Le campane fuori dal tempo che mi illudono di un altrove che forse esiste.

    E amo le lampade calde che ho messo ad ogni angolo perché il mio stare in lei quando cala la notte, si faccia abbraccio in cui riposare.

    Ho un’unica clausola nel contratto d’affitto: se Serena ritorna e la rivuole, io devo lasciare la casa entro un mese.

    La precarietà del mio restare qui non mi preoccupa.

    C’è qualcosa che mi conforta nel sapere che nessuna di noi due apparterrà mai all’altra.

    Questo per me, al punto della vita in cui sono arrivata, mi sembra un sollievo piuttosto che una minaccia.

    È mezzanotte meno un quarto, lo vedo dall’orologio sul muro. Il telefono di casa sta squillando.

    Il tragitto che percorro tra il divano e la scrivania è un battito di ciglia.

    Rispondo, Emma dice: – Ci ho pensato tutta stanotte e tutto il giorno. Ho fatto una lista. Te la leggo: l’apparenza esibita e le verità scomode che nasconde; le parole che contano e che non si riescono a dire; i sentimenti in bilico tra l’essere vissuti e l’essere negati e l’amore che resta. Vorrei fare un film un po’ corale, quattro o cinque personaggi. Mi piacerebbe un personaggio principale intorno a cui ruotano tutti gli altri. Una donna sui 35 anni. Ma devono essere tutti personaggi un po’ spezzati, un po’ interrotti nel loro movimento esistenziale. Ancora non so bene... O ciascuno rappresenterà un punto della lista o tutti hanno tutto della lista, quello lo vediamo poi. Che dici?

    Non rispondo subito. Emma non fiata, forse trattiene il respiro.

    – Mi ripeti la lista più lentamente che la scrivo? – le chiedo.

    Emma ripete.

    – Tre verità e una sola bugia... – dico dopo una pausa lunghissima.

    – Brava! Potrebbe proprio essere il titolo del nostro prossimo film! – ride di cuore, come quando è felice.

    – Non voleva essere un titolo. Ci sono tre verità e una bugia nella tua lista. E se fosse un titolo, non sarebbe quello del film, ma quello di un viaggio all’inferno...

    Emma ride più forte. – Ebbe’, non sei contenta? Saremo in ottima compagnia! Chi è che diceva che sarebbe voluto andare all’inferno perché il paradiso è pieno di gente noiosa?

    – Oscar Wilde, mi pare. O Mark Twain, non mi ricordo.

    – Ecco, vedi? Ho ragione, chiunque dei due sia, il viaggio vale la pena. Vieni da me mercoledì e ne parliamo?

    Accetto e ci salutiamo. Attacco. Il cuore mi batte più veloce, me ne accorgo.

    Troppo caffè mi fa venire la tachicardia.

    Cerco di ricordarmi se oggi ho esagerato.

    Non mi ricordo e qualcosa mi dice che, a causa di quella lista, è il mio cervello ad essersi accelerato, non il cuore e sta sfondando le mura della mia coscienza portandosi dietro un bel po’ di roba che ci avevo faticosamente seppellito dentro.

    Emma ha riempito la mia vita che era così vuota.

    No, non era vuota a causa tua.

    Era svuotata come il vuoto di grancassa che mi porto dentro da sempre.

    Da prima di te.

    A farmela conoscere, più o meno un anno fa, è stato il mio amico Massimo.

    Anche se non so dire se siamo amici, Massimo ed io.

    Siamo colleghi.

    Siamo quella cosa a metà tra il niente e l’intimità, quella roba ibrida che si crea da una vicinanza forzata e che dà vita a conversazioni che non sai mai se ti porteranno più vicino all’altro o contribuiranno a mantenere la distanza.

    Siamo anche stati anche a letto insieme, una volta. Più o meno dieci anni fa, lui non era ancora sposato. Effetto dell’alcol e di una conoscenza appena iniziata.

    Ma non aveva funzionato.

    Non so che solitudine volesse scacciare lui quella sera, io ricordo bene la mia, ma non siamo i tipi. O forse sono solo io che non lo sono e lui l’aveva capito e non c’era riuscito.

    Non ci avevamo provato più.

    Quella sera di maggio, in cui mi ha fatto conoscere Emma, uscivamo dalla solita riunione redazionale e prendevamo una birra.

    Erano le undici di sera passate, quando lui aveva guardato l’ora, trangugiato l’ultimo sorso e detto: – Mannaggia, devo andare dalla De Santis. Dà una delle sue solite feste. Ho promesso che passo...

    Io mi ero risvegliata dal torpore. – De Santis chi? – avevo chiesto. – Emma?

    – Yes. La conosci?

    Avevo fatto cenno di no con la testa.

    – Se vuoi ti porto, – aveva detto.

    Avevo sorriso. – E mica mi posso imbucare così a una festa di una regista famosa!

    – Infatti non sei imbucata. Accompagni me.

    La casa di Emma De Santis è ai Parioli, in una di quelle viette spruzzate di lilla di glicine e alberelli.

    A mezzanotte passata, era piena di gente. Volti da rotocalco e da piccolo e grande schermo assiepati nei due saloni enormi e nell’ampia terrazza con vista su Roma, a fare bella mostra di sé.

    Sorridevano tutti. E neanche uno che sembrasse felice.

    Quando ci aveva visto tra la folla, Emma ci era venuta incontro come se ci aspettasse. – Hai portato un’amica? – aveva chiesto a Massimo baciandolo. – Bene, dopo ci facciamo due chiacchiere. Benvenuta, – mi aveva sfiorato la spalla sorridendo e si era allontanata.

    Ricordo che si era portata via il mio sguardo. Non saprei dire perché. Ma avevo continuato a sbirciarla anche da lontano. Forse era come si muoveva. O il suo aspetto.

    Avevo pensato che da vicino assomigliasse a Virna Lisi più di quanto non apparisse nelle foto. Aveva un abito bianco, una sorta di tunica alla greca, intarsiata di piccoli cristalli di ametista sul davanti e ricami d’oro sulla scollatura. Al collo, aveva un pendente d’oro che simboleggiava l’Albero della Vita. E indossava un sorriso cordiale e luminoso, muovendosi di qua e di là, anche se non ci avevo messo molto ad accorgermi che era vero quanto i capelli tinti di biondo che si ravviava sulle tempie ogni volta che si fermava a prendere fiato e a risistemarsi quell’aura impeccabile quando le si stancava di dosso.

    Quando Massimo era stato chiamato da un tipo che voleva assolutamente parlargli, mi ero staccata anch’io dalla folla e mi ero seduta nell’angolo più sperduto della terrazza a guardare Roma.

    C’erano tre camerieri che passavano in continuazione con prosecco e tartine e finger food.

    Nessun buffet. Nessun superalcolico.

    Ero rimasta seduta a tre quarti su una panchina in ferro battuto bianco, quasi sempre con il viso rivolto verso l’esterno, a contemplare le luci puntinate di Roma. Combattevo, senza troppa convinzione, quel solito senso di esclusione che mi fa compagnia alle feste. Ogni tanto mi voltavo a guardare gli altri. Ma non spesso. Perché se guardo gli altri, mi sento più sola.

    Massimo ormai si era perso tra la folla e tra le chiacchiere, e non lo vedevo più.

    In verità, i prosecchi che accettavo ogni volta da un cameriere che veniva apposta da me, stavano cominciando a fare il loro effetto e mi regalavano pian piano una sensazione di fluidità che avrei voluto trattenere per sempre.

    Scorgevo Emma che parlava con qualcuno. Se mi capitava davanti agli occhi, continuavo a studiarla come un alieno farebbe con un terrestre. E più la guardavo e più me ne convincevo: lei ci stava bene su questa Terra e forse aveva imparato a padroneggiarla. Io, chiaramente, dovevo esserci finita per sbaglio.

    Non so come, arrivai alla fine della festa e Massimo ed io ci ritrovammo seduti sul divano bianco del salone più grande, mentre Emma De Santis accompagnava alla porta il suo ultimo ospite.

    Ero inebetita dall’alcol, spettatrice passiva di tutto. Non avevo insistito per andare via e, per una volta, qualcuno avrebbe riportato a casa me, la mia stanchezza e quel mio corpo alieno che era rimasto incollato a una panchina e ammutolito, per tutta la sera.

    Emma si lasciò cadere una ciocca di capelli sul viso mentre si sedeva di fronte a noi, tirando un sospiro di sollievo.

    Ci guardò entrambi e, d’un tratto, ravviandosi dietro l’orecchio la ciocca che le era sfuggita, tirò fuori quel suo sorriso come se non lo avesse mai sciupato prima. Poi gli occhi le si fermarono sul flute che avevo in mano. Il sorriso si allargò ancora di più, disse: – Vedo con piacere che tu bevi quasi quanto me.

    Mi sorpresi e mi chiesi come potesse essersene accorta. Ma oggi so che non se ne era accorta affatto. Aveva solo tirato ad indovinare. Erano le tre del mattino e io avevo ancora un bicchiere in mano: non era difficile capire che il prosecco aveva scandito la mia solitudine minuto dopo minuto. In quel momento, però, mi sentii denudata (sono certa che era ciò che voleva) e allo stesso tempo improvvisamente complice in quella dolce discesa di oblio che – ne fui certa – conosceva bene anche lei. L’avevo vista: anche se adesso era a mani vuote, con lei c’era sempre stato un flute a farle compagnia, esattamente come me.

    Non so se abbia fatto pena a Emma o che, quella sera.

    Non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo.

    Ma quella prima volta, sul suo divano, dopo la festa, non smetteva di guardarmi. Di certo, non ero vestita per una serata così. O forse, semplicemente, si era accorta benissimo che non ero fatta per una serata così. E per questo, la incuriosivo.

    – Chi sei tu? – mi aveva chiesto a un certo punto, dopo aver scambiato due chiacchiere con Massimo.

    Penso di essere arrossita.

    – Una mia amica sceneggiatrice. Sara, – aveva risposto Massimo per me.

    – E che sceneggi, Sara?

    – Quello che sceneggio io, – aveva risposto lui.

    – Puoi tacere? L’ho chiesto a lei.

    – Quello che sceneggia lui, – avevo risposto io accennando un sorriso.

    – E ti piace?

    – Mi dà da vivere.

    – E ce l’hai un fidanzato, Sara?

    Ero certa di essere arrossita di nuovo. – No, – avevo risposto.

    – E ti manca?

    Avevo avuto la sensazione di sprofondare nel divano. Avevo alzato le spalle, ma senza rispondere.

    Emma aveva guardato Massimo, dicendo: – Mi piace la tua amica. Mi piacciono le persone che non sprecano le parole. Quelle che sono il contrario di me, insomma.

    Poi aveva spostato lo sguardo su di me: – Sto cercando dei nuovi sceneggiatori. Massimo lo conosco già e abbiamo lavorato insieme, ma io vorrei una donna. Ti va di farmi leggere qualcosa?

    Mi ero raddrizzata sul divano. Avevo detto: – Non sono certa di avere qualcosa che non siano le sceneggiature che scrivo per le fiction...

    Facevo fatica a ragionare, ma malgrado l’alcol, l’immagine infinitesimale che ho di me era uscita fuori come se fossi perfettamente sobria.

    Emma non si

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