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Come pietra sotto la neve. Vol. Integrale
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E-book187 pagine2 ore

Come pietra sotto la neve. Vol. Integrale

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Info su questo ebook

Giada è una giovane poliziotta di Firenze entusiasta della vita e del suo lavoro.

Il

suo animo riflessivo, tuttavia, intuiva da tempo che qualcosa nella sua

esistenza frenetica e materiale non andasse, come se il suo spirito

fosse, in un certo qual modo, sofferente.

A

confermare i suoi dubbi arriva uno shock, potente, drammatico,

definitivo: il suo partner muore durante una difficile operazione delle

Forze dell'Ordine, dove entrambi erano coinvolti in prima linea.

Tutto

sembra perduto, e nulla ha più senso, se non fosse che durante un

banale pomeriggio d'ottobre, Giada incontrerà un misterioso Maestro di

Kung Fu a un cafè.

Da quel momento in poi, la sua

vita non potrà esser più la stessa, Giada dovrà prenderne in mano le

redini, e farlo una volta per tutte...

Davide è

un ragazzo di Roma che nella vita ha preso molte decisioni sbagliate,

queste lo hanno portato a perdere l'amore, ma anche se stesso. Un

viaggio in Tibet però, mescolerà di nuovo tutte le carte sul tavolo

della vita.

E se Giada e Davide fossero destinati a incontrarsi?
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2021
ISBN9791220341080
Come pietra sotto la neve. Vol. Integrale

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    Anteprima del libro

    Come pietra sotto la neve. Vol. Integrale - Riccardo Innocenti

    ad­de­stra­to.»

    PROLOGO

    DAVIDE

    Ero abi­tua­to a viag­gia­re in scoo­ter, ci ho pas­sa­to una vi­ta in­te­ra a sen­ti­re il ru­mo­re del ven­to che mi spo­sta­va qua e là nel traf­fi­co. Per me lo scoo­ter era si­no­ni­mo di li­ber­tà, un mo­do per eva­de­re dai pen­sie­ri. Do­ve­vo re­sta­re con­cen­tra­to, per­ché i pe­ri­co­li era­no sem­pre a por­ta­ta di ma­no. Gli osta­co­li nel­la stra­da, i pe­do­ni. Do­ve­vo gui­da­re lu­ci­do e il più del­le vol­te ac­ca­de­va co­sì. Ave­vo per­so il con­to del­le vol­te in cui pur non aven­do nul­la da fa­re mi met­te­vo in mo­to, am­mi­ra­vo la mia bel­la e gran­de Ro­ma. Tut­ti mi par­la­va­no del re­sto del mon­do, dei pae­sag­gi, del­le me­ra­vi­glie ma io ero fe­de­le al­la mia cit­tà. La mia cit­tà for­se era l’uni­ca ad aver­mi ac­col­to per ciò che ero di­ven­ta­to. E ades­so vi sta­re­te chie­den­do chi so­no og­gi… e mi tre­ma la vo­ce a dir­vi che fi­ne ho fat­to. Co­me si può tro­va­re il co­rag­gio di am­met­te­re i pro­pri er­ro­ri an­che di fron­te all’ov­vio? Co­me si fa a far fin­ta di nien­te e ad esclu­de­re col­pe che in­ve­ce so­no den­tro di noi? Ci ho pro­va­to e ri­pro­va­to ho spe­ra­to di es­se­re un uo­mo mi­glio­re, ma nem­me­no gli an­ni mi han­no con­ces­so que­sta gra­zia. Il mio de­sti­no era scrit­to. Ed era un de­sti­no cru­de­le, una be­stia in­fe­ro­ci­ta pron­to a di­vo­rar­mi pu­re le os­sa. In­fat­ti ciò che di me era ri­ma­sto era so­lo lo sche­le­tro. Do­po la fi­ne del­la sto­ria con Az­zur­ra, mi ero com­ple­ta­men­te ab­ban­do­na­to al­le mie fol­lie. Ave­vo pre­so brut­ti gi­ri per via del­la dro­ga. Pur di di­men­ti­car­la mi fa­ce­vo di co­cai­na dal­la mat­ti­na al­la se­ra, e non so­lo, ave­vo an­che ini­zia­to a fre­quen­ta­re pro­sti­tu­te, ave­vo bi­so­gno di svuo­ta­re le mie fru­stra­zio­ni. Ciò che di me fa­ce­va un uo­mo sfor­tu­na­to per via di una vi­ta dif­fi­ci­le og­gi era so­lo un mi­rag­gio e per cui l’uni­ca con­sa­pe­vo­lez­za au­ten­ti­ca era il me­ne­fre­ghi­smo più to­ta­le. La per­di­ta del mio la­vo­ro e la mia so­li­tu­di­ne. Ave­vo ini­zia­to un la­vo­ro in un'azien­da di in­for­ma­ti­ca. Il mio da­to­re di la­vo­ro ave­va ri­po­sto in me una gran­de fi­du­cia, non sa­pe­va che la mia era so­lo una ma­sche­ra, e mi ab­bas­sai a que­sto li­vel­lo pur di gua­da­gna­re qual­co­sa che mi per­met­tes­se di com­pra­re la dro­ga. Per la dro­ga ho svuo­ta­to le mie ta­sche. E più ne vo­le­vo e più mi ser­vi­va­no i sol­di. In­cap­pai in un ti­po che me ne pre­stò co­sì tan­ti che ad un cer­to pun­to ol­tre agli in­te­res­si vo­le­va qua­si to­glier­mi la vi­ta. Do­po un an­no di du­ro la­vo­ro in que­sta azien­da fui li­cen­zia­to per­ché mi tro­va­ro­no fat­to den­tro al ba­gno dell’uf­fi­cio, mi tro­vò un mio col­le­ga. Ero su­da­to, spo­glia­to, com­ple­ta­men­te as­sen­te e pri­vo di for­ze. Do­po es­se­re sta­to in ospe­da­le il gior­no do­po ri­ce­vet­ti la let­te­ra di li­cen­zia­men­to. Ec­co con quel­la si chiu­de de­fi­ni­ti­va­men­te il ca­pi­to­lo più im­por­tan­te del­la mia vi­ta. Ero uf­fi­cial­men­te lo scar­to del­la so­cie­tà. Mi sen­ti­vo un to­po di fo­gna in­trap­po­la­to nel buio più pro­fon­do. Nel­le te­ne­bre più buie. Sen­za via d’usci­ta. Cor­si via da ca­sa, lon­ta­no, a pian­ge­re su un pra­to. Ri­ma­si lì tut­ta la not­te, sen­za be­re né man­gia­re. Sen­ten­do­mi so­lo e in­di­fe­so. Da quel mo­men­to in poi an­dò sem­pre peg­gio. Il tet­to di ca­sa che era l’uni­ca co­sa a dar­mi ca­lo­re, de­ci­si di la­sciar­lo per sem­pre. Ave­te ca­pi­to be­ne, sen­za star­ci trop­po a pen­sa­re pre­si un bor­so­ne, ci mi­si den­tro qual­che ve­sti­to e me ne an­dai via, la­scian­do la mia fa­mi­glia. Mia ma­dre non me­ri­ta­va più di vi­ve­re i miei stra­zi. Ave­va fat­to fin trop­po per me, ave­va cer­ca­to ogni buo­na ma­nie­ra pur di ve­der­mi fe­li­ce. Ave­va da­to le sue vi­sce­re. La ve­de­vo pre­ga­re gior­no e not­te, chie­de­va il mi­ra­co­lo. In ca­sa c’era­no san­ti­ni ovun­que, ma quel mi­ra­co­lo do­po die­ci an­ni di pre­ghie­re non ar­ri­vò mai, o for­se lo fe­ce quan­do de­ci­si di al­lon­ta­nar­mi. Po­ve­ra don­na. L’ave­vo com­ple­ta­men­te an­nien­ta­ta. Era per­sa in quell’ap­par­ta­men­to che le ri­cor­da­va so­lo i miei fal­li­men­ti. Ave­vo trent’an­ni. E que­sti miei fot­tu­ti an­ni li ave­vo but­ta­ti al ven­to. Lo stes­so che mi ac­ca­rez­za­va la pel­le lun­go i per­cor­si in pie­no cen­tro. Ero som­mer­so dai de­bi­ti, non ve­de­vo più la lu­ce. Non sa­pe­vo più co­sa fa­re del­la mia vi­ta. Co­sì quel gior­no pre­pa­rai l'epi­lo­go per­fet­to che mi ron­za­va in te­sta già da trop­po tem­po. Vo­le­vo sui­ci­dar­mi. E ave­vo de­ci­so di far­lo nel si­len­zio del­la not­te. Vo­le­vo but­tar­mi nel Te­ve­re. Af­fo­ga­re nei miei do­lo­ri sen­za mo­do di ri­sa­li­re a gal­la. Sen­za nul­la. Que­sta era la fi­ne che me­ri­ta­vo. Pri­ma di an­da­re via di ca­sa ave­vo sa­lu­ta­to mia ma­dre con un im­men­so ba­cio, a lei ave­vo det­to che sa­rei an­da­to in Tren­ti­no Al­to Adi­ge da un ami­co che mi avreb­be ospi­ta­to per cer­ca­re un nuo­vo la­vo­ro. E in­ve­ce era so­lo un’al­tra del­le mie caz­za­te. La ve­ri­tà era che quel gior­no vo­le­vo mo­ri­re. Ma sta­vol­ta mo­ri­re dav­ve­ro. Tan­to den­tro al cor­po già non c’era più nes­su­no. Man­ca­va so­lo chiu­de­re il cer­chio. Ave­vo aspet­ta­to che fa­ces­se not­te. Mi ero com­pra­to il vi­no. Vo­le­vo stor­dir­mi un po’. Mal­gra­do tut­to, pur non am­met­ten­do­lo a me stes­so ave­vo pau­ra. Nes­su­no al mon­do de­si­de­ra to­glier­si la vi­ta. Ma era do­ve­ro­so, era ne­ces­sa­rio per il be­ne di tut­ti. Non vo­le­vo più ve­de­re le per­so­ne che ama­vo lo­go­rar­si per me ogni istan­te. Era l’uni­ca estre­ma so­lu­zio­ne. Fi­nal­men­te ar­ri­va­to a Pon­te Mil­vio co­steg­gio la stra­da e mi di­ri­go ver­so il mu­ret­to. Ci sal­go so­pra. C’era un si­len­zio as­sor­dan­te. Ve­de­vo le lu­ci del­la cit­tà. C’era una pa­lo di fian­co a me che il­lu­mi­na­va la stra­da. Ini­zia­va a fa­re fred­do. Ave­vo le ver­ti­gi­ni. Ri­ma­si lì per cir­ca un'ora. Ri­ma­si ad ascol­ta­re la mia co­scien­za. E ri­cor­dai an­che le po­che co­se bel­le che ave­vo vis­su­to in que­gli an­ni. Una stra­na fa­mi­glia al­lar­ga­ta e un gran­de amo­re, quel­lo di Az­zur­ra. Chiu­si gli oc­chi e pie­no di pau­re sta­vo per fa­re il sal­to quan­do ad un trat­to mi sen­to ti­ra­re per la giac­ca, cad­di a ter­ra. Era un po­li­ziot­to.

    «Ma co­sa sta­vi fa­cen­do?»

    «Io…»

    «Non c’è mai un buon mo­ti­vo per uc­ci­der­si.»

    «E in­ve­ce sì.»

    «Co­rag­gio ra­gaz­zo, tor­na a ca­sa, e non sfi­da­re la vi­ta. A tut­to c’è ri­me­dio non te lo di­men­ti­ca­re mai.»

    Quel­le pa­ro­le mi ri­suo­na­ro­no nel­la te­sta più for­ti che mai. Era un se­gno del de­sti­no? Era scrit­to? Chi era quell’uo­mo. Non era un ba­na­le po­li­ziot­to. For­se era il mio an­ge­lo cu­sto­de. O for­se era sem­pli­ce­men­te un uo­mo sen­si­bi­le che non avreb­be vo­lu­to fa­re ore di ser­vi­zio in più per ri­tro­va­re un ipo­te­ti­co ca­da­ve­re in un fiu­me, in pie­na not­te. Do­ve­vo tro­va­re un sen­so a tut­to que­sto. Per­ciò me ne tor­nai al par­co, sta­vol­ta il par­co non era quel­lo do­ve tra­scor­si i più bei mo­men­ti con Az­zur­ra que­sto era il par­co del­la cat­ti­ve­ria. Del­la con­sa­pe­vo­lez­za. Del de­li­rio. Era un po­stac­cio do­ve vi­ve­va­no i sen­za tet­to. C’era­no co­per­te spar­se qua e là, car­to­ni. Escre­men­ti e be­ni di pri­ma ne­ces­si­tà. Un ve­ro le­ta­ma­io. Beh, quel­la era di­ven­ta­ta la mia nuo­va ca­sa. Non ave­vo più sol­di in ta­sca. Mi por­ta­va­no da man­gia­re quel­li che era­no di­ven­ta­ti i miei nuo­vi com­pa­gni di aria, co­sì li chia­ma­vo io, ma in cam­bio vo­le­va­no sem­pre qual­co­sa. E l’uni­ca co­sa che a sten­to po­te­vo of­fri­re era un po’ di er­ba buo­na. Tut­to ave­va un prez­zo. An­che la li­ber­tà. Non c’era pon­te, né ca­sa, né al­ber­go, né ri­fu­gio che po­te­va la­sciar­mi li­be­ro. Ero in­se­gui­to dai mo­stri, dal­le om­bre, dai ne­mi­ci, da chiun­que, sen­za pie­tà. Ave­va­no fat­to una spe­cie di fuo­co, co­sì pre­si una co­per­ta, un po’ di vi­no e mi per­si in quel­le fiam­me che sa­pe­va­no di in­fer­no. Ero an­co­ra vi­vo e non sa­pe­vo nem­me­no io co­me aves­si po­tu­to re­si­ste­re. La not­te pas­sa­va len­ta­men­te ma al­la fi­ne pre­si son­no. L’in­do­ma­ni c’era un bel so­le. Co­sì aven­do me­di­ta­to a lun­go sul­la mia vi­ta as­sur­da e in­spie­ga­bi­le, pro­vai a chie­de­re l’ele­mo­si­na per stra­da, quel­lo era l’ul­ti­mo pas­so per una nuo­va ri­na­sci­ta. La pie­tà. Qual­cu­no che aves­se avu­to pie­tà di un po­ve­ro es­se­re igno­bi­le che non me­ri­ta­va nul­la se non l’in­dif­fe­ren­za. Ri­me­diai del­le co­per­te, un piat­ti­no ro­ton­do e un pa­ni­no sec­co, con dell’ac­qua. Ero di­ven­ta­to un ve­ro bar­bo­ne. Si ave­te ca­pi­to be­ne, quel­li di cui tut­ti pro­va­no lo schi­fo. Quel­li che chia­ma­no lu­ri­di, puz­zo­len­ti, mez­zi uo­mi­ni di stra­da. Ero di­ven­ta­to uno di lo­ro. E la col­pa era so­lo e sol­tan­to mia. A vol­te le per­so­ne os­ser­va­no le co­se sen­za im­ma­gi­na­re di vi­ver­le. Quan­do ero pic­co­lo e ve­de­vo que­sto ge­ne­re di per­so­ne le con­si­de­ra­vo sfi­ga­te, pri­ve di ani­ma, e ad og­gi ca­pi­sco in­ve­ce la sof­fe­ren­za che c’era die­tro a quel­le fac­ce. Ognu­no ave­va la sua sto­ria da rac­con­ta­re, era­no tut­te sto­rie di fal­li­men­ti, di per­di­te, di vi­zi, di do­lo­re, e in mez­zo a quel caos c’era la mia. Una le­zio­ne pe­rò l’ave­vo im­pa­ra­ta, a non giu­di­ca­re mai dall’ap­pa­ren­za. Spes­so guar­dia­mo ciò che c’è in su­per­fi­cie, i gre­ci di­ce­va­no che dal­la su­per­fi­cie riu­sci­va­no a ca­pi­re la pro­fon­di­tà, io pen­so che dal­la su­per­fi­cie puoi so­lo ve­de­re di che ma­te­ria­le è fat­ta la tua pel­le, ma il cuo­re, il cuo­re è un’al­tra co­sa. E sep­pur na­sco­sti que­sti uo­mi­ni an­zia­ni, o gio­va­ni che fos­se­ro, un cuo­re ce lo ave­va­no. Ma­ga­ri l’ave­va­no sof­fo­ca­to con l’avi­di­tà del tem­po, ma di­co­no che il tem­po è ge­ne­ro­so e re­sti­tui­sce tut­to a tut­ti. Ep­pu­re di me il tem­po si era scor­da­to. Si era­no scor­da­ti an­che gli an­ni e i so­gni, i so­gni che ave­vo e che era­no co­strut­ti­vi pri­ma di en­tra­re in quel vor­ti­ce che mi ha ri­suc­chia­to sen­za mai por­tar­mi più a gal­la. Un ura­ga­no in mez­zo all’ocea­no. Qual­co­sa di in­de­scri­vi­bi­le e di tan­to po­ten­te, una po­ten­za in gra­do di cam­bia­re com­ple­ta­men­te ogni pun­to di vi­sta. Una po­ten­za dal­la qua­le non hai scam­po. Ar­ri­vai nel mio nuo­vo po­sto. An­che quel gior­no mi por­ta­ro­no il pran­zo. Al­la fi­ne ci sta­vo pren­den­do gu­sto a sta­re in mez­zo al­la stra­da o me­glio que­sto era quel­lo che mi rac­con­ta­vo ogni gior­no per con­so­lar­mi. Ma quel gior­no suc­ce­de dav­ve­ro l’ina­spet­ta­to. Quel gior­no nel mio piat­ti­no non mi­se­ro i sol­di ben­sì le ma­ni, e quel­le ma­ni la avrei ri­co­no­sciu­te tra mi­lio­ni. Era­no co­sì af­fu­so­la­te. E quel­la pel­le mor­bi­da. Non po­te­va­no non es­se­re le ma­ni che ave­vo stret­to da ra­gaz­zo, du­ran­te tut­ta la mia ado­le­scen­za e fi­no ad un trat­to del­la cre­sci­ta. Al­zai gli oc­chi, era Az­zur­ra, si giu­ro, non era un so­gno sta­vol­ta da­van­ti ai miei oc­chi c’era lei. Lei con il suo sor­ri­so. Lei con la sua in­fi­ni­ta bel­lez­za, lei con gli oc­chi cie­lo.

    «Non pos­so cre­der­ci.»

    Az­zur­ra scop­pio in la­cri­me.

    «Ma co­sa ci fai qui? Ma co­me sei fi­ni­to fi­no a que­sto pun­to.»

    Io non ave­vo nem­me­no il co­rag­gio di guar­dar­la ne­gli oc­chi. Mi sen­ti­vo un pic­co­lo pun­ti­no ne­ro in mez­zo all’aria. Una piu­ma pron­ta a vo­la­re o me­glio scap­pa­re.

    «Az­zur­ra… quan­to tem­po.»

    Lei mi die­de un ab­brac­cio for­te.

    «Non di­re nul­la, vie­ni qui.»

    «Mi sei man­ca­ta.»

    Non so co­me, ave­va ca­pi­to co­sa stes­se suc­ce­den­do, per­ché al­me­no in quel­la cir­co­stan­za non mi fe­ce sen­ti­re un mo­stro e non mi ur­lò brut­te pa­ro­le. For­se ave­va avu­to pie­tà e pro­va­va pe­na per me. Sta di fat­to che me l’ab­brac­ciai an­che io. Ero in im­ba­raz­zo. Pro­ba­bil­men­te non mi ave­va mai vi­sto ve­sti­to co­sì, con i pan­ta­lo­ni spor­chi, puz­zo­len­te e tra­san­da­to. Non so se ave­va vi­sto in me la lu­ce del­la di­spe­ra­zio­ne ma una co­sa era cer­ta, in quel mo­men­to ave­va la­scia­to da par­te il pas­sa­to e mi sta­va con­so­lan­do. Per l’en­ne­si­ma vol­ta mi sta­va dan­do la sua di for­za. E la sua spe­ran­za per me era tut­to. Non sa­pe­vo co­sa fa­re, non sa­pe­vo co­me rac­con­tar­gli gli an­ni che ci ave­va­no se­pa­ra­to e il per­ché del­la mia fi­ne. Ma pia­no pia­no fe­ci un bel re­spi­ro pro­fon­do e ini­ziai a par­lar­le.

    «Ve­di Az­zur­ra, lo ve­di?»

    «Co­sa?»

    «In me non c’è più nul­la.»

    «Non di­re co­sì.»

    «So­no un uo­mo fi­ni­to, mi so­no ro­vi­na­to la vi­ta da so­lo, e tut­to per­ché? Per in­se­gui­re un vi­zio.»

    «È ve­ro hai sba­glia­to più e più vol­te, ma lo sai la vi­ta ad og­gi co­sa mi ha in­se­gna­to?»

    «No, non lo so, dim­me­lo tu.»

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