Come pietra sotto la neve. Vol. Integrale
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Anteprima del libro
Come pietra sotto la neve. Vol. Integrale - Riccardo Innocenti
addestrato.»
PROLOGO
DAVIDE
Ero abituato a viaggiare in scooter, ci ho passato una vita intera a sentire il rumore del vento che mi spostava qua e là nel traffico. Per me lo scooter era sinonimo di libertà, un modo per evadere dai pensieri. Dovevo restare concentrato, perché i pericoli erano sempre a portata di mano. Gli ostacoli nella strada, i pedoni. Dovevo guidare lucido e il più delle volte accadeva così. Avevo perso il conto delle volte in cui pur non avendo nulla da fare mi mettevo in moto, ammiravo la mia bella e grande Roma. Tutti mi parlavano del resto del mondo, dei paesaggi, delle meraviglie ma io ero fedele alla mia città. La mia città forse era l’unica ad avermi accolto per ciò che ero diventato. E adesso vi starete chiedendo chi sono oggi… e mi trema la voce a dirvi che fine ho fatto. Come si può trovare il coraggio di ammettere i propri errori anche di fronte all’ovvio? Come si fa a far finta di niente e ad escludere colpe che invece sono dentro di noi? Ci ho provato e riprovato ho sperato di essere un uomo migliore, ma nemmeno gli anni mi hanno concesso questa grazia. Il mio destino era scritto. Ed era un destino crudele, una bestia inferocita pronto a divorarmi pure le ossa. Infatti ciò che di me era rimasto era solo lo scheletro. Dopo la fine della storia con Azzurra, mi ero completamente abbandonato alle mie follie. Avevo preso brutti giri per via della droga. Pur di dimenticarla mi facevo di cocaina dalla mattina alla sera, e non solo, avevo anche iniziato a frequentare prostitute, avevo bisogno di svuotare le mie frustrazioni. Ciò che di me faceva un uomo sfortunato per via di una vita difficile oggi era solo un miraggio e per cui l’unica consapevolezza autentica era il menefreghismo più totale. La perdita del mio lavoro e la mia solitudine. Avevo iniziato un lavoro in un'azienda di informatica. Il mio datore di lavoro aveva riposto in me una grande fiducia, non sapeva che la mia era solo una maschera, e mi abbassai a questo livello pur di guadagnare qualcosa che mi permettesse di comprare la droga. Per la droga ho svuotato le mie tasche. E più ne volevo e più mi servivano i soldi. Incappai in un tipo che me ne prestò così tanti che ad un certo punto oltre agli interessi voleva quasi togliermi la vita. Dopo un anno di duro lavoro in questa azienda fui licenziato perché mi trovarono fatto dentro al bagno dell’ufficio, mi trovò un mio collega. Ero sudato, spogliato, completamente assente e privo di forze. Dopo essere stato in ospedale il giorno dopo ricevetti la lettera di licenziamento. Ecco con quella si chiude definitivamente il capitolo più importante della mia vita. Ero ufficialmente lo scarto della società. Mi sentivo un topo di fogna intrappolato nel buio più profondo. Nelle tenebre più buie. Senza via d’uscita. Corsi via da casa, lontano, a piangere su un prato. Rimasi lì tutta la notte, senza bere né mangiare. Sentendomi solo e indifeso. Da quel momento in poi andò sempre peggio. Il tetto di casa che era l’unica cosa a darmi calore, decisi di lasciarlo per sempre. Avete capito bene, senza starci troppo a pensare presi un borsone, ci misi dentro qualche vestito e me ne andai via, lasciando la mia famiglia. Mia madre non meritava più di vivere i miei strazi. Aveva fatto fin troppo per me, aveva cercato ogni buona maniera pur di vedermi felice. Aveva dato le sue viscere. La vedevo pregare giorno e notte, chiedeva il miracolo. In casa c’erano santini ovunque, ma quel miracolo dopo dieci anni di preghiere non arrivò mai, o forse lo fece quando decisi di allontanarmi. Povera donna. L’avevo completamente annientata. Era persa in quell’appartamento che le ricordava solo i miei fallimenti. Avevo trent’anni. E questi miei fottuti anni li avevo buttati al vento. Lo stesso che mi accarezzava la pelle lungo i percorsi in pieno centro. Ero sommerso dai debiti, non vedevo più la luce. Non sapevo più cosa fare della mia vita. Così quel giorno preparai l'epilogo perfetto che mi ronzava in testa già da troppo tempo. Volevo suicidarmi. E avevo deciso di farlo nel silenzio della notte. Volevo buttarmi nel Tevere. Affogare nei miei dolori senza modo di risalire a galla. Senza nulla. Questa era la fine che meritavo. Prima di andare via di casa avevo salutato mia madre con un immenso bacio, a lei avevo detto che sarei andato in Trentino Alto Adige da un amico che mi avrebbe ospitato per cercare un nuovo lavoro. E invece era solo un’altra delle mie cazzate. La verità era che quel giorno volevo morire. Ma stavolta morire davvero. Tanto dentro al corpo già non c’era più nessuno. Mancava solo chiudere il cerchio. Avevo aspettato che facesse notte. Mi ero comprato il vino. Volevo stordirmi un po’. Malgrado tutto, pur non ammettendolo a me stesso avevo paura. Nessuno al mondo desidera togliersi la vita. Ma era doveroso, era necessario per il bene di tutti. Non volevo più vedere le persone che amavo logorarsi per me ogni istante. Era l’unica estrema soluzione. Finalmente arrivato a Ponte Milvio costeggio la strada e mi dirigo verso il muretto. Ci salgo sopra. C’era un silenzio assordante. Vedevo le luci della città. C’era una palo di fianco a me che illuminava la strada. Iniziava a fare freddo. Avevo le vertigini. Rimasi lì per circa un'ora. Rimasi ad ascoltare la mia coscienza. E ricordai anche le poche cose belle che avevo vissuto in quegli anni. Una strana famiglia allargata e un grande amore, quello di Azzurra. Chiusi gli occhi e pieno di paure stavo per fare il salto quando ad un tratto mi sento tirare per la giacca, caddi a terra. Era un poliziotto.
«Ma cosa stavi facendo?»
«Io…»
«Non c’è mai un buon motivo per uccidersi.»
«E invece sì.»
«Coraggio ragazzo, torna a casa, e non sfidare la vita. A tutto c’è rimedio non te lo dimenticare mai.»
Quelle parole mi risuonarono nella testa più forti che mai. Era un segno del destino? Era scritto? Chi era quell’uomo. Non era un banale poliziotto. Forse era il mio angelo custode. O forse era semplicemente un uomo sensibile che non avrebbe voluto fare ore di servizio in più per ritrovare un ipotetico cadavere in un fiume, in piena notte. Dovevo trovare un senso a tutto questo. Perciò me ne tornai al parco, stavolta il parco non era quello dove trascorsi i più bei momenti con Azzurra questo era il parco della cattiveria. Della consapevolezza. Del delirio. Era un postaccio dove vivevano i senza tetto. C’erano coperte sparse qua e là, cartoni. Escrementi e beni di prima necessità. Un vero letamaio. Beh, quella era diventata la mia nuova casa. Non avevo più soldi in tasca. Mi portavano da mangiare quelli che erano diventati i miei nuovi compagni di aria, così li chiamavo io, ma in cambio volevano sempre qualcosa. E l’unica cosa che a stento potevo offrire era un po’ di erba buona. Tutto aveva un prezzo. Anche la libertà. Non c’era ponte, né casa, né albergo, né rifugio che poteva lasciarmi libero. Ero inseguito dai mostri, dalle ombre, dai nemici, da chiunque, senza pietà. Avevano fatto una specie di fuoco, così presi una coperta, un po’ di vino e mi persi in quelle fiamme che sapevano di inferno. Ero ancora vivo e non sapevo nemmeno io come avessi potuto resistere. La notte passava lentamente ma alla fine presi sonno. L’indomani c’era un bel sole. Così avendo meditato a lungo sulla mia vita assurda e inspiegabile, provai a chiedere l’elemosina per strada, quello era l’ultimo passo per una nuova rinascita. La pietà. Qualcuno che avesse avuto pietà di un povero essere ignobile che non meritava nulla se non l’indifferenza. Rimediai delle coperte, un piattino rotondo e un panino secco, con dell’acqua. Ero diventato un vero barbone. Si avete capito bene, quelli di cui tutti provano lo schifo. Quelli che chiamano luridi, puzzolenti, mezzi uomini di strada. Ero diventato uno di loro. E la colpa era solo e soltanto mia. A volte le persone osservano le cose senza immaginare di viverle. Quando ero piccolo e vedevo questo genere di persone le consideravo sfigate, prive di anima, e ad oggi capisco invece la sofferenza che c’era dietro a quelle facce. Ognuno aveva la sua storia da raccontare, erano tutte storie di fallimenti, di perdite, di vizi, di dolore, e in mezzo a quel caos c’era la mia. Una lezione però l’avevo imparata, a non giudicare mai dall’apparenza. Spesso guardiamo ciò che c’è in superficie, i greci dicevano che dalla superficie riuscivano a capire la profondità, io penso che dalla superficie puoi solo vedere di che materiale è fatta la tua pelle, ma il cuore, il cuore è un’altra cosa. E seppur nascosti questi uomini anziani, o giovani che fossero, un cuore ce lo avevano. Magari l’avevano soffocato con l’avidità del tempo, ma dicono che il tempo è generoso e restituisce tutto a tutti. Eppure di me il tempo si era scordato. Si erano scordati anche gli anni e i sogni, i sogni che avevo e che erano costruttivi prima di entrare in quel vortice che mi ha risucchiato senza mai portarmi più a galla. Un uragano in mezzo all’oceano. Qualcosa di indescrivibile e di tanto potente, una potenza in grado di cambiare completamente ogni punto di vista. Una potenza dalla quale non hai scampo. Arrivai nel mio nuovo posto. Anche quel giorno mi portarono il pranzo. Alla fine ci stavo prendendo gusto a stare in mezzo alla strada o meglio questo era quello che mi raccontavo ogni giorno per consolarmi. Ma quel giorno succede davvero l’inaspettato. Quel giorno nel mio piattino non misero i soldi bensì le mani, e quelle mani la avrei riconosciute tra milioni. Erano così affusolate. E quella pelle morbida. Non potevano non essere le mani che avevo stretto da ragazzo, durante tutta la mia adolescenza e fino ad un tratto della crescita. Alzai gli occhi, era Azzurra, si giuro, non era un sogno stavolta davanti ai miei occhi c’era lei. Lei con il suo sorriso. Lei con la sua infinita bellezza, lei con gli occhi cielo.
«Non posso crederci.»
Azzurra scoppio in lacrime.
«Ma cosa ci fai qui? Ma come sei finito fino a questo punto.»
Io non avevo nemmeno il coraggio di guardarla negli occhi. Mi sentivo un piccolo puntino nero in mezzo all’aria. Una piuma pronta a volare o meglio scappare.
«Azzurra… quanto tempo.»
Lei mi diede un abbraccio forte.
«Non dire nulla, vieni qui.»
«Mi sei mancata.»
Non so come, aveva capito cosa stesse succedendo, perché almeno in quella circostanza non mi fece sentire un mostro e non mi urlò brutte parole. Forse aveva avuto pietà e provava pena per me. Sta di fatto che me l’abbracciai anche io. Ero in imbarazzo. Probabilmente non mi aveva mai visto vestito così, con i pantaloni sporchi, puzzolente e trasandato. Non so se aveva visto in me la luce della disperazione ma una cosa era certa, in quel momento aveva lasciato da parte il passato e mi stava consolando. Per l’ennesima volta mi stava dando la sua di forza. E la sua speranza per me era tutto. Non sapevo cosa fare, non sapevo come raccontargli gli anni che ci avevano separato e il perché della mia fine. Ma piano piano feci un bel respiro profondo e iniziai a parlarle.
«Vedi Azzurra, lo vedi?»
«Cosa?»
«In me non c’è più nulla.»
«Non dire così.»
«Sono un uomo finito, mi sono rovinato la vita da solo, e tutto perché? Per inseguire un vizio.»
«È vero hai sbagliato più e più volte, ma lo sai la vita ad oggi cosa mi ha insegnato?»
«No, non lo so, dimmelo tu.»