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Questo giorno che incombe
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E-book502 pagine6 ore

Questo giorno che incombe

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Info su questo ebook

VINCITRICE PREMIO SCERBANENCO 2021

Come esplode una vita intera? Un unico lampo in cielo e il fragore di un tuono, oppure una serie infinita di schegge acuminate dappertutto?

"L’angoscia che le sue pagine trasmettono è reale, non potrebbe arrivare in quel modo se non fosse l’autrice per prima a sentirla così bene, e se non spingesse noi lettori nell’angolo buio di certe domande fondamentali."Nicola Lagioia, Tuttolibri - La Stampa

"Ho letto Questo giorno che incombe in un pomeriggio. Non è solo la trama, perfetta, a incastrarti: è come Antonella Lattanzi parla di amore, maternità, desiderio, paura."
Daria Bignardi, Radio Capital

"Antonella Lattanzi ha scritto un libro così bello da far paura."Valeria Parrella, Grazia

"Pagine che inchiodano alla sedia."Marta Cervino, Marie ClaireQui saremo felici. Francesca lo pensa mentre sta per varcare il cancello rosso fuoco della sua nuova casa. Accanto a lei c’è Massimo, suo marito, e le loro figlie, ancora piccole. Si sono appena trasferiti da Milano a Giardino di Roma, un quartiere a metà strada tra la metropoli e il mare. Hanno comprato casa in un condominio moderno e accogliente, con un portiere impeccabile e sempre disponibile, vicini gentili che li accolgono con visite e doni, un appartamento pieno di luce che brilla in tutte le stanze. Il posto perfetto per iniziare una nuova vita. Perché Francesca è giovane, è bella, è felice. E, lo sa, qui a Giardino di Roma sarà libera. Eppure qualcosa non va. Dei dettagli cominciano a turbare la gioia dell’arrivo. Piccoli incidenti, ombre, che hanno qualcosa di sinistro. Ma sono reali o Francesca li sta solo immaginando? Appena messo piede nella nuova casa Massimo diventa distante, Francesca passa tutto il tempo sola in casa con le bambine e non riesce più a lavorare né a pensare. Le visite dei vicini iniziano a diventare inquietanti, sembra impossibile sfuggire al loro sguardo onnipresente. A poco a poco il cancello rosso che difende il condominio si trasforma nella porta di una prigione. E così, intrappolata nella casa, Francesca comincia a soffrire di paranoia e vuoti di memoria. Sempre più sola e piena di angosce, ha l’impressione che la casa le parli, che le dia consigli, forse ordini. Le amnesie si fanno sempre più lunghe e frequenti. Finché un giorno, dal cortile, arriva un grido.È scomparsa una bambina. Può essere sua figlia? E perché Francesca, ancora una volta, non sa cosa ha fatto nelle ultime ore?

Liberamente ispirato a un episodio di cronaca avvenuto a Bari nel palazzo dove l’autrice è cresciuta, Questo giorno che incombe è un romanzo unico, bellissimo e prismatico, capace di accogliere suggestioni che vanno da Kafka a King, da Polanski a Dostoevskij, di attraversare più generi, dal thriller alla storia d’amore, di riflettere sulla maternità e le sue angosce, di parlare del male e del dubbio, e capace di riscrivere, tra realtà e finzione, una storia vera.

Antonella Lattanzi ha già indagato gli abissi e le pieghe dell’animo umano in Devozione e Una storia nera, e adesso torna a farlo con il suo libro più importante. Con una lingua meravigliosa, appassionata e incalzante, Questo giorno che incombe racconta il sospetto, la speranza, il dolore, la passione, confermando lo straordinario talento dell’autrice e lasciando il lettore senza fiato, in un crescendo continuo dall’arrivo nella casa nuova fino alle indimenticabili pagine finali.
LinguaItaliano
Data di uscita14 gen 2021
ISBN9788830524286
Questo giorno che incombe
Autore

Antonella Lattanzi

ANTONELLA LATTANZI (Bari, 1979), scrittrice e sceneggiatrice. Ha scritto i romanzi Devozione (2010), Prima che tu mi tradisca (2013), Una storia nera (2017) e le sceneggiature dei film Fiore (2016), 2night (2016), Il campione (2019).

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    Questo giorno che incombe - Antonella Lattanzi

    PRIMA PARTE

    1

    Per prima uscì Francesca. Si riparò gli occhi dal sole. Guardò il cancello rosso vermiglio. Col sole in faccia era difficile distinguerne i contorni, ma era lì, come una persona che aspetti da tanto tempo di vedere, e ti accoglie a braccia aperte. Francesca sorrise.

    Si piegò nella Scénic nera a prendere sua figlia Emma dal seggiolino. Appena la prese in braccio, la bambina, una piccoletta di appena un anno, riccia e biondo cenere come suo padre e sua sorella maggiore, le strinse la mano. Giocare con le dita di Francesca era la cosa che le piaceva di più al mondo. Era la prima parola che aveva imparato: dito, sembrava sapere solo quella. Si assestò tra le braccia della madre. Indicò il cancello. «Hai visto amore com’è bello, tutto rosso?» disse Francesca. Emma cominciò a muoversi eccitatissima, come ballando. Francesca rise, le diede un bacio lieve dietro l’orecchio. Emma era irresistibile. Francesca se la strinse. Fece un passo verso il cancello.

    Non riusciva a smettere di guardarlo.

    Dalla macchina, dietro di lei, adesso uscì suo marito Massimo. Raggiunse lo sportello posteriore e lo aprì. Venne fuori anche l’altra figlia, Angela. Prima un piedino, poi l’altro, comodi nelle scarpe da tennis con le stelle che non si toglieva mai. Massimo si piegò un poco e le prese le mani per aiutarla a scendere: Attenta alla testa.

    Francesca sorrise. Non aveva bisogno di girarsi per sapere cosa stava succedendo dietro di lei: la scena si ripeteva uguale, ogni volta, in qualunque posto fossero.

    La vocina di Angela le arrivò come fosse improvvisamente lontana, mista alla voce maschile che conosceva meglio al mondo: Massimo. Poi suo marito e la sua figlia maggiore la raggiunsero. Adesso erano entrambi vicini a lei. Angela le prese la mano. Le arrivava a metà coscia. Quanto era cresciuta in così poco tempo. Bisognava ricordarsi di assaporare tutti i giorni bellissimi che sarebbero venuti. Massimo passò un braccio intorno alle spalle di sua moglie e l’abbracciò. Guardarono tutti e quattro il cancello.

    E adesso Francesca poté vederlo davvero: si parava, di un rosso brillante come appena dipinto, solido, maestoso, a qualche metro da loro. Inespugnabile. Ora ogni dettaglio splendeva limpidissimo di fronte a lei. Francesca sorrise ancora, forse non era mai stata così raggiante in vita sua.

    Tutto ciò che amava era attorno a lei, come in un cerchio perfetto. Suo marito, le sue figlie, la loro nuova casa oltre il cancello rosso. E dentro quella casa, la possibilità di realizzare il suo sogno, finalmente. Lavorare al suo libro.

    Lui, il suo uomo, il padre delle sue figlie, disse: «Francesca» e le sfiorò la schiena con una carezza, «sei pronta?». E lei era pronta, non si era mai sentita così bene. Il mondo cominciava qui. Teneva ancora in braccio Emma. «Allora si va?» disse Massimo alla sua famiglia, e rise.

    Francesca inspirò l’aria di una fine di febbraio che lì sembrava già primavera. «Si va» rispose. Il braccio che reggeva Emma le doleva un po’, ma era un dolore sordo, un sottofondo come un acufene. Anzi, era un dolore quasi bello: il segno vivo del corpo di sua figlia su di lei. Perché lei era una madre, e quanto aveva voluto esserlo. Lei era una madre, e le madri stringono tra le braccia.

    Angela, sempre stretta nell’altra mano di Francesca, agitò il braccio annoiata e, di riflesso, si mosse anche il braccio della madre.

    Poi si divincolò. Corse come il vento per quegli ultimi metri. A ogni passo che faceva si scrollava un po’ del fare serioso che l’aveva presa da quando era nata sua sorella piccola, e si ritrasformava in una bimba: era come visibile a occhio nudo. Si buttò con tutto il corpo contro il cancello, tanto che rimbalzò indietro, ma non si era fatta niente. «Prima!» urlò, e rise. Si girò a guardare i genitori, pronta a ricevere le lodi che le spettavano. Loro annuirono raggianti e per la prima volta da mesi gli occhi di Angela, grandi e tondi come quelli di una bambola, smisero di guardare severi la madre e il padre dall’alto dei loro cinque anni di età. Brillavano di gioia.

    «Lò-sso.» Francesca guardò Emma, incredula. Era stata proprio lei a dirlo: rosso. La sua prima parola dopo dito. «Bravissima amore! Rosso, sì!», e la baciò ancora.

    Massimo raggiunse Angela al cancello portando le valigie. Si girò verso Francesca. Lei non l’aveva mai visto più soddisfatto di così.

    Qui saremo felici.

    2

    Francesca strinse la mano libera sul cancello rosso. Lo spinse per entrare. Lo sentì caldo di sole. Una fitta acuta le ferì il palmo, come un morso.

    Staccò la mano dal ferro. La guardò.

    Sangue, rosso ma più scuro del cancello, le colava lungo il palmo, fino al polso.

    Lo osservò per un attimo, stupita. Poi se lo succhiò.

    Con Emma ancora in braccio, ispezionò il cancello. Non c’era niente. Doveva essere stato un insetto. E la ferita aveva già smesso di sanguinare.

    «Chi cercate» una voce perentoria la distrasse. Non pensò più alla mano.

    Era una donna bassa, magrissima, sui sessantacinque anni, i capelli raccolti. Aveva smesso di ramazzare, stringeva la scopa. Li fissava.

    Non si muoveva, come a sbarrargli il passo.

    «Siamo i Ferrario» Francesca allungò la mano libera, ma poi si ricordò della ferita e la ritirò, «i nuovi inquilini.»

    La donna le guardò la mano, soppesò quelle parole a lungo. Francesca si girò a cercare conforto in suo marito, che però si era attardato un poco indietro. Angela invece l’aveva raggiunta. Si strinse contro la gamba di sua madre.

    «Falli passare, Agata.» Un uomo basso coi folti capelli bianchi tirati indietro con l’acqua o il gel, una camicia celestina e un paio di pantaloni grigi, comparve dietro la donna magra. A quelle parole, Angela si staccò dalla madre e scappò in avanti. Massimo borbottò un saluto ai portieri e le corse dietro. Francesca li vide scomparire nel cortile, divertiti.

    L’uomo basso squadrò Francesca, molto serio, mentre la donna riprendeva a ramazzare, tenendo d’occhio padre e figlia. Francesca aspettava, non sapeva neanche lei che cosa. Poi l’uomo si spalancò in un sorriso affabile. «Siete i Ferrario» disse, «scala B, quinto piano, interno 8. Siete in anticipo, vi aspettavamo nel pomeriggio. Io sono Vito, il portiere. Ma ci siamo già conosciuti. Si ricorda?» Le tese la mano. Francesca gliela strinse con la sinistra. La mano dell’uomo era calda, morbida, inaspettatamente liscia. «Mia moglie Agata», Vito indicò la donna con la scopa. Agata smise di ramazzare. Fece un cenno con la testa, che voleva dire: benvenuti. Vito si avvicinò. «Ma che bella bambina» disse, e scompigliò i capelli di Emma. Che sbarrò gli occhi e diede un urlo vitreo. Faceva sempre così. Per questo la mamma e il papà la chiamavano, ridendo, Psycho. Vito non perse il sorriso. «Che caratterino», e ritirò la mano con circospezione. «Ha fame…», Francesca guardò sua figlia, imbarazzata. «Massimo?»

    Massimo tornò indietro scarmigliato e allegro, la testa piena di fiori di gelsomino che Angela gli aveva sparso sui capelli. La figlia maggiore era ancora accoccolata tra le piante. Francesca sorrise.

    Le sembrava tornata di colpo la bambina che era prima della nascita di Emma. Sin da piccolissima, Angela rideva come una matta per qualsiasi cosa, si spalmava l’omogeneizzato di mela sulla faccia, le mani, i vestiti, sbatteva gli occhi impiastricciati di pappina davanti a qualsiasi cosa, e davanti a qualsiasi cosa trasecolava come fosse la scoperta più pazzesca. Ed era tutto pazzesco. A guardarlo con gli occhi di Angela, il mondo era meraviglioso. Poi, all’istante, quando era arrivata Emma, Angela aveva assunto quello sguardo inquisitore. La sera prima del parto disegnava il mare blu, la casa rossa, il sole giallo, canticchiando Fra’ Martino o gli Afterhours – le piaceva soprattutto Ballata per la mia piccola iena, la cantava col papà –, e chiedeva insistente alla mamma di farle vedere Gli Aristogatti, «ancora, mamma, ancora». La mattina dopo, a quattro anni compiuti, dritta accanto al padre in clinica, fissava senza espressione madre, padre e sorellina appena nata. Da allora, per Francesca e Massimo era diventata il Generale.

    Gli Aristogatti non aveva voluto vederli mai più. «Sono un cartone vecchio, mamma» sanciva incrociando le braccia sulla pancia. E invece adesso sembrava rinata.

    Massimo e il portiere si dissero qualcosa, ma Francesca non sentì. Emma si era quietata tra le sue braccia, e lei intanto guardava il cortile.

    Erano sei palazzi blu. Pulitissimi. Si fronteggiavano, a gruppi di tre, ai lati opposti del cortile. Ogni palazzo aveva cinque piani più un terrazzo in cima. Alcune case avevano i balconi, le grate dipinte dello stesso rosso del cancello. I balconi traboccavano di fiori e vasi – camelie, ciclamini, mandarini, gelsomini, mimose, e anche un piccolo banano – come se gli inquilini facessero a gara. Massimo era laureato in Biologia, e ormai anche lei i nomi delle piante li sapeva tutti. Si spandeva ovunque un profumo di fiori, di verde. Le portefinestre e le finestre degli appartamenti erano tutte spalancate.

    Francesca guardò meglio, e notò che non esistevano tende, in casa di nessuno. Potevi guardarci, in quelle case. Che, da lontano, si notavano linde, perfette, con la gente che si muoveva negli interni come i modellini virtuali del progetto di un bravo architetto.

    Francesca spostò gli occhi dai palazzi. Solo allora si accorse che il cortile traboccava di bambini. Solo allora sentì i gridolini divertiti, le risate, lo scalpiccio dei passi e delle corse. La invase una bella sensazione. In fondo, sotto l’ultima coppia di palazzi, uno scivolo di plastica rosso e giallo e un’altalena rossa erano assaltati dai più piccoli. Ancora più giù, al limitare del cortile, un casotto giallo limone, nuovo di zecca. Tutti quei colori erano un presagio di primavera e sotto quel sole che sembrava estivo luccicavano.

    «Ehi. Mi aiuti?» Massimo la scosse piano, Francesca tornò in sé e le venne di lasciare tutto e abbracciarlo.

    Ma non poteva perché Massimo, sopraffatto dalle valigie, le stava già tendendo un trolley. Emma su un braccio, il trolley nell’altra mano, Francesca si avviò verso la scala B. Massimo scomparve nel portone. «Mamma?» Angela la chiamò. Francesca si girò. Fu colpita in fronte da un piccolo sasso.

    Le scoppiarono mille stelle negli occhi. Emma vacillò. «Ma che cazz…» «Scusi signora!» Le si fece incontro un ragazzo sui sedici anni, alto, magro, molto bello, i capelli folti che gli ballavano nella corsa fino alle spalle. «Sta bene? Scusi, ci scusi tanto», il ragazzo la raggiunse. Era un po’ sudato, la faccia contrita ma innocente, il corpo agile, elettrico. Dietro di lui venivano due bambine sui cinque anni, mogie mogie, in attesa di una bella sgridata. Il ragazzo le indicò, disse tutto un fiato: «Stavamo giocando alla campana, Teresa ha lanciato il sasso troppo lontano. Ci perdoni. Sta bene, vero? Teresa, chiedi scusa alla signora». Teresa si fece avanti riluttante, rossa in viso, le manine incrociate dietro la schiena, la testa bassa e scarmigliata. Francesca si massaggiava la fronte. «Scusa» concesse Teresa. Aveva i capelli neri raccolti in due treccine allentate, gli occhi azzurri con delle striature dorate. «Dai la mano alla signora» disse il ragazzo. La bambina allungò una mano da bambina, piccola e paffuta. Avvolto intorno al polso, aveva un piccolo braccialetto rosso vermiglio, niente più di un nastrino annodato alla meglio.

    Nascosta dietro sua madre, Angela guardava in cagnesco la bimba. Francesca si rivolse al ragazzo, indicò Emma: «Potevate colpire mia figlia». «Per favore, non lo dica a nessuno» disse incrociando le gambe, in imbarazzo, «i genitori mi pagano per tenerle d’occhio e, sa…» Assunse la stessa espressione di Teresa, e diventò ancora più bello, un ragazzo di una bellezza così evidente e così non percepita da lui e piena di futuro che le fece pensare: sarà bello quando le mie figlie avranno la sua età. La bambina dietro Teresa si annoiava. Levò le braccia in aria e corse in tondo fingendo di volare. Anche lei aveva lo stesso braccialetto rosso.

    «Bimba» disse ad Angela Teresa, improvvisamente felicissima, «vieni allo scivolo? A me piace lo scivolo, mi rasserena.» Mi rasserena? Francesca la guardò. Anche Angela a volte se ne usciva con frasi così. Le venne da sorridere. «Può?» chiese il ragazzo. «Se vuole» disse Francesca. «No» disse Angela con gli occhi fiammeggianti. Si strinse ancora di più dietro sua madre. Teresa e la sua amica sciamarono via incuranti e cominciarono a rincorrersi. Si fermarono lanciando gridolini davanti a un gatto, un cucciolo bianco e grigio, la piccola testa tonda, gli occhi socchiusi e una specie di sorriso beato sotto le carezze delle bimbe. Poco più in là c’erano una ciotola con del cibo e una con dell’acqua. Solo alla vista del gatto Angela si accese tutta. Ma non uscì da dietro la schiena di sua madre. «Quello è Birillo, il gatto del cortile. Lo amano tutti. È il gattino di tutti», il ragazzo si piegò, le mani sulle ginocchia, per parlare ad Angela. «È sempre qui, quando ci vuoi giocare. Adesso è anche il tuo gattino.» Il ragazzo aspettava, ma Angela lo ignorò. «Niente, non riesco a farmi perdonare» disse lui, e sorrise scusandosi con gli occhi. «Io comunque sono Carlo» aggiunse, «scusi ancora. Benvenuti.» E si affrettò dietro alle bambine.

    3

    La casa si spalancò davanti a loro proprio come l’aveva immaginata lei, al quinto piano. Con Massimo l’aveva vista solo un paio di volte, e da sola poche di più. Tra le bambine e il lavoro non era facile organizzare un viaggio da Milano a Roma. Quindi o ci era andata lei e lui era rimasto con le figlie, oppure il contrario. Nell’acquisto di quella casa c’erano tutti i loro risparmi, tutti i loro sforzi. Dietro di sé non si erano lasciati nulla. Il pensiero la eccitò: è tutto da immaginare. Per Francesca era stato un salto nel buio lasciare il lavoro che amava alla rivista, la sua migliore amica e collega Eva, le persone che conosceva da sempre, suo padre, i luoghi dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’età adulta, in una parola Milano – che li conteneva tutti – e seguire Massimo a Roma, dove non avevano nessuno. I genitori di suo marito, milanesi doc, si erano trasferiti da una decina d’anni in campagna, a Fiesole. Non era troppo lontano da Roma, ma quei due dal loro ritiro in mezzo al verde non si spostavano mai. Arrivati lì, avevano rinunciato ad automobili, treni, aerei: «La distanza maggiore che posso coprire è quella per arrivare da casa nostra all’edicola» aveva decretato il padre di Massimo. In quei dieci anni non si era mai smentito.

    Francesca aveva lottato tanto perché il suo lavoro di grafica crescesse sempre di più, nel tempo aveva raggiunto una posizione di responsabilità con grande impegno e fatica. Quando con Massimo avevano deciso di avere prima Angela, poi Emma, erano sempre riusciti ad aiutarsi per rispettare gli impegni dell’uno e dell’altra. Tutto sembrava ormai rodato, Emma aveva compiuto sei mesi e Francesca era tornata al lavoro. Poi era arrivata la notizia.

    «Dormi?» le aveva detto Massimo quella notte. «Ehi. Dormi?» «Dormivo.» Lei si era girata a guardarlo: «Che succede?». Succedeva che Massimo non aveva nemmeno il coraggio di proporle una simile pazzia: Roma. C’era un concorso da professore associato e lui aveva ottime probabilità di vincerlo. Lei era rimasta a pensare un po’. «Ne parliamo domani, che dici?» Poi però pochi minuti dopo si era avvicinata a lui, nel letto, l’aveva abbracciato e gli aveva sussurrato: «Sarà superemozionante. Ho già un’idea». Quale fosse quest’idea, non gliel’aveva detto. Nei giorni successivi, quando lui glielo chiedeva, lei faceva la misteriosa e sorrideva. Un mese dopo avevano saputo che Massimo aveva vinto il concorso. «Sei sicura che vuoi trasferirti?» le aveva chiesto. Lei gli aveva buttato le braccia al collo. Il giorno dopo aveva telefonato alla sua amica editor. «È il momento» le aveva detto, «è il momento che mi butto e faccio quel libro che mi chiedi da sempre.» La sua amica editor, dall’altra parte del telefono, aveva trillato di gioia. «Fraaa!» parlava sempre così, «ma che notizia mi stai daaando. Grandeee! Quando consegni?» Il testo ce l’aveva già. Era un libro per bambini a cui pensava da sempre. Si chiamava Amico buio. Mancavano solo le illustrazioni. Disegnare era la sua passione, la cosa più bella che potesse accaderle, ma aveva disegnato sempre e solo per sé. Si era sempre detta che prima o poi avrebbe lasciato tutto per inseguire il suo sogno. Adesso quel momento era arrivato. «Quando devo consegnare?»

    Subito dopo aveva comunicato la decisione al direttore: lasciava il lavoro di art director alla rivista. Le avevano chiesto di restare altri due mesi, che erano volati. L’ultimo giorno in redazione avevano pianto.

    «Ma sei sicura?» le aveva chiesto Eva mentre tornavano verso casa insieme passando dai Navigli. Si era fermata a guardarla. «Tu sei pazza. Questo è il lavoro di tutta la tua vita.»

    Francesca però non aveva nessun dubbio. Questa era la grande occasione di Massimo, il risultato di una gavetta che durava da sempre. Guadagnata con passione, e talento.

    Suo marito avrebbe insegnato al dipartimento di Biologia ambientale e partecipato a una prestigiosa ricerca internazionale. Il coronamento di una vita di sacrifici. Lei, ormai, poteva lavorare da qualunque città, qualunque posto: il suo futuro lavorativo sarebbe stato radioso come tutto il resto. E questa era la sua nuova città, che avrebbe amato, sterminata e piena di sole: Roma. E questa era la casa.

    Rabbrividì di gioia. Era grande, luminosa, nuovissima. A Francesca sembrò che le venisse incontro dicendole: ‘Cari, cari voi quattro, eccomi per voi’. Angela sgattaiolò in salotto e si buttò sul divano bianco. Sulla poltrona c’erano dei pacchi.

    Il salotto era stracolmo di valigie. Fra un trolley petrolio con le ruote gialle e un grosso beauty-case con le cerniere color ottone, occhieggiavano appena il Signor Peppe, l’orsacchiotto di Angela, e Diavolo, quello di Emma, lo stesso orsacchiotto ma più piccolo. Era stata il Generale a dargli quel nome, Diavolo, quando Psycho aveva strappato in due metà il suo. L’imbottitura del Signor Peppe era venuta fuori d’un colpo, vomitando le interiora.

    «Diavolo di una bambina» aveva detto Angela guardando seria l’orsacchiotto. Adesso, lo stomaco del Signor Peppe era attraversato in verticale da una cucitura grossolana, come dopo un’operazione a cuore aperto. Il sole entrava spavaldo e bellissimo dalla finestra, dritto nella casa. Era tutto perfetto.

    Francesca si sedette soddisfatta accanto a sua figlia e controllò il telefono. Quattro messaggi non letti. Due soli importanti. Quello di Eva: «Già manchi amica mia ma sono sicura che sarà tutto stupendo. Hai una bellissima famiglia, tutto merito vostro, buon viaggio tesoro vengo a trovarvi prestissimo!!!» (ed Eva viveva sola, con un figlio ormai alle elementari, a Porta Romana, pochi passi dalla loro ex casa milanese). Quello di suo padre: «In bocca al lupo cucciola». Non aveva mai smesso di chiamarla così, ma adesso chiamava cucciole anche le sue figlie. Cucciola, cucciola 2, cucciola 3. Solo che in ciò si esauriva tutto il loro rapporto. Meglio così.

    «Fra?» Massimo arrivò raggiante dalla camera da letto. «Vieni a vedere.» Anche la loro stanza era proprio come l’avevano voluta: grande, piena di luce, tutta bianca. Si guardarono. C’erano i posti giusti per i loro quadri. In un angolo era già aperto il box della piccola, Francesca la adagiò lì dentro col suo Diavolo e poté sgranchirsi le braccia. E finalmente poté abbracciare Massimo. «Non ti sembra che la casa ci stia dando il benvenuto?» disse lui, ma poi minimizzò: «Vabbè». E invece sai cosa?, voleva dirgli lei, è proprio quello che ho pensato anch’io. «È perfetta» disse Francesca. Lo baciò, e lui la baciò, e si stavano baciando e lui con la mano le sfiorava lieve il ginocchio e poi la coscia e poi la pelle nuda sotto la gonna a quadri, e saliva più su, sfiorandola piano, e lei sentiva la testa girare in modo così bello – squisito – quando dall’altra stanza squillò una voce: «Il sole è alto, è ora di pranzare» ordinò il Generale.

    «È tutta colpa tua che gliel’hai insegnato» rise Francesca. «Agli ordini, Generale!», anche Massimo rise, e andò a raggiungere Angela. Francesca si stese sul letto matrimoniale. Com’era grande quel letto, com’era piacevole, e subito pensò a lei e Massimo nudi, lì dentro, e alle mani di Massimo, e a Massimo che la baciava, e a Massimo che la toccava. Sospirò di piacere e socchiuse gli occhi, faccia al soffitto, sorridendo.

    Si tolse gli occhiali. Senza, non vedeva niente. Aveva provato a usare le lenti a contatto, ma da subito era stata una battaglia persa. D’altronde a lei gli occhiali piacevano. Anche a Massimo. Diceva che la facevano ancora più sensuale. Aprì gli occhi. Le parve di notare una piccola macchia scura, forse di muffa, sul soffitto. Ma no, non era muffa: si muoveva, respirava.

    Si alzò sui gomiti, guardò meglio. In effetti qualcosa sul soffitto si torceva, come un verme, ma più grosso, viscido. Turgido, come avesse mangiato tanto – cosa? – e stesse per esplodere. Si rimise gli occhiali. Massimo?, stava per chiamare, quando osservando ancora non notò più alcun movimento. Aspettò. Niente. Ora le sembrò proprio una macchia come un’altra. Bisogna controllare, registrò in un recesso della mente – uno di quei posti in cui nessuno, nemmeno tu, puoi entrare – e già non ci pensava più. Sentiva i rumori familiari venire dal salotto. Chiuse gli occhi.

    Tu sei pazza a lasciare la rivista. Questo è il lavoro di tutta la tua vita risentì le parole di Eva. Sorrise.

    Io non sono pazza, io finalmente sarò libera.

    4

    Squillò il campanello. Massimo si affacciò trafelato in camera da letto. «Ma chi è, ma chi può essere, qua è tutto un casino.» In effetti la casa traboccava di scatoloni portati dalla ditta di traslochi, e di valigie. «Siamo appena arrivati» Francesca si stiracchiò, «è normale che ci sia casino.» Si alzò dal letto, pronta.

    Una signora molto ben vestita, sui settant’anni, camicia di seta e pantaloni neri, un paio di orecchini d’oro antico che le dondolavano sopra le spalle, sobri ma eleganti, i capelli biondi in un taglio corto molto chic, reggeva un mazzo di narcisi bianchi, tenendoli un po’ distanti da sé, dritta sulla soglia di casa loro. «Avrei potuto farvi una torta» disse con un vago accento francese, come sepolto da anni di un’altra lingua, «ma non volevo avvelenarvi.» Sorrise. Un sorriso affascinante, appena accennato. «Benvenuti al Giardino di Roma», e li guardò con due occhi lunghi color ghiaccio. Era la terza persona che gli augurava il benvenuto in quanto?, poche ore. La quarta, se si includeva la casa.

    Non sapevano dove farla accomodare, il salotto era un campo di battaglia e in più Emma si svegliò proprio in quel momento. La verità era che Psycho non si svegliava come tutti gli altri bambini. S’indemoniava.

    Massimo andò a prendere la piccola mentre Francesca cercava di liberare una sedia per far accomodare la signora. Quella non batté ciglio davanti al caos né di fronte alle urla di Emma. Si fece spazio sul tavolo di legno bianco e abbandonò con noncuranza da diva il mazzo di fiori sulla superficie lucida. «Cara» disse, «io sono Colette.» Le tese una mano bianca. Al polso le tintinnarono tre braccialetti sottili, perfettamente tondi, d’oro scuro.

    Poco dopo, quell’anziana signora che sembrava un’attrice – e se diventasse come una nonna per le piccole?, pensò Francesca, una nonna molto chic, sarebbe bello che anche loro diventassero così – era riuscita chissà come a trovare il bollitore e le tazze negli scatoloni, al primo colpo, quasi danzando in mezzo al caos, sorvolandolo, e adesso sorseggiavano un tè verde («L’avevo pensato che non ne aveste in casa» aveva detto tirando fuori tre bustine dalla borsetta). Abitava al terzo piano di quello stesso palazzo. Ora stava raccontando dei vicini. Francesca l’ascoltava ammaliata. Massimo tentava di dissimulare gli sbadigli. «Poi c’è la signora Russo, vedrete, vi stordirà con quanto è speciale sua figlia Bea. Il marito non è mai a Roma, fa l’attore» gli sussurrò il nome, e in effetti era un attore molto conosciuto, «con quello che guadagna potrebbero permettersi una casa in centro, ma gli piace stare qui. Ci conosciamo tutti.» Massimo fece per alzarsi con una scusa, ma la donna gli mise una mano sulla sua e continuò: «La signora Russo è una bravissima persona. In realtà tutti qui lo sono. Siamo tutti amici, o parenti. Abbiamo fondato una cooperativa e aspettato anni che tutto si concretizzasse e…» si rabbuiò, gli occhi di ghiaccio saettarono, «mio marito non ha fatto in tempo a venire ad abitarci». Emma, in braccio a Massimo, si annoiava. Il papà tentava di intrattenerla. Angela, intanto, era scomparsa nella sua nuova cameretta. Francesca aprì la bocca per dire qualcosa, ma la signora Colette riprese subito a parlare. Francesca dovette richiudere la bocca. «Poi ci sono Michela Nobile e suo marito Luca, sono una coppia giovane e siamo molto felici che aspettino un bambino, un altro piccolo che nascerà proprio qui.» Sorrise e guardò lontano, oltre Francesca. «Nel loro palazzo abitano anche i Senigallia. Vedrete, il loro figlio è una catapulta di domande. Un bambino splendido, comunque. Sono pazzi per… come si chiama, il fitness? Poi ci sono gli Alecci, Marika e Giulio. Bravissime persone.» Doveva piacerle tanto, l’espressione bravissima persona. «Hanno un negozio a Roma, praticamente a casa non ci sono mai. La figlia sta sempre coi nonni. Loro abitano qui, al secondo piano. Sono due vecchi signori. Come me.» Di nuovo quel sorriso appena accennato, seducente. «La nipote è una bambina intelligentissima, splendida. Ma tu, cara Francesca, Teresa l’hai già conosciuta.» La signora Colette la fissò, i suoi occhi sembrarono diventare ancora più lunghi, un sorriso ambiguo nascosto in quello sguardo. Teresa: come faceva a saperlo?

    Ancora una volta Francesca stava per rispondere ma la signora non la lasciò parlare. «E hai incontrato anche Carlo, se non sbaglio. Un ragazzo d’oro.» Psycho cominciò a piagnucolare. Massimo scattò in piedi. «Scusatemi, vado a cambiarla» disse grato alla bambina. La signora Colette continuò come niente fosse: «La mamma di Carlo è professoressa di liceo, insegna inglese. Abita col figlio qui al secondo piano, sullo stesso pianerottolo dei nonni di Teresa. Lei e suo marito erano già separati prima di trasferirsi qui. Prima o poi qui dentro tutti hanno lasciato i loro figli a quel ragazzo, lui ci fa due soldi ed è bravissimo coi bambini, e lasciatemi aggiungere che…». D’improvviso si sentì una musica.

    Sembrava provenire dall’interno della casa. Da quella stessa stanza. Era la musica di un violoncello. Francesca rimase in ascolto. Anche la signora Colette si fermò. Francesca poteva quasi vedere le dita sulle corde, sopra lo strumento. Poteva vedere, dentro le note di quella musica, una prateria sterminata, una giornata splendida di sole, una corsa a perdifiato. Non avrebbe saputo dire perché, ma era certa che quella musica stesse parlando a lei. Le diceva che era nel posto giusto. Che quello era il suo posto. Suonava fin dentro la casa. Trattenne il fiato. La signora Colette sospirò: «Ti presento il vostro vicino di pianerottolo, Fabrizio Mancini». Si avvicinò a Francesca, i suoi orecchini le dondolarono davanti agli occhi, aveva un buon profumo. «Gentile, senza dubbio. Ma è difficile sentirgli dire qualcosa in più di buongiorno, buonasera, grazie, prego. Se si riesce a cavargli una parola è grasso che cola.» Fece spallucce. «È un musicista?» chiese Francesca, mentre la musica si spandeva ancora in tutta la stanza, filtrava dai muri leggera, e con la musica filtravano altre immagini, la fine di una dolcissima giornata al mare, l’adolescenza, un tuffo in acque calde, piene di pesci. «Sì» disse la donna con sufficienza. «Certo, un beau garçon, o meglio un canon, come dicono oggi» sentenziò, «ma questo è tutto.» Fece un gesto con le braccia che Francesca non riuscì a interpretare. «Dà lezioni di musica a qualcuno dei bambini del cortile.» Fece silenzio solo un attimo. «E poi c’è Vito», tornò in un dolcissimo, enigmatico sorriso. «L’avrai visto da te, tesoro: il nostro portiere è un dono della dea», e le brillarono gli occhi. «È un caro amico di famiglia. Lo conosco praticamente da sempre. E anche per gli altri inquilini, ormai: è come fosse uno di loro. Per lui il suo lavoro è una missione.» Francesca cominciò a dire: «Sì, infatti, mi è sembrato molto…», ma Colette piegò la testa di lato, schiuse la sua bellissima bocca dipinta da un rossetto sobrio, appena accennato, e disse: «E voi che mi raccontate?». Francesca fece per rispondere ma la signora guardò l’orologio. «È tardissimo!» Si alzò di scatto con un’agilità e una grazia da ventenne. «Mi devi scusare, cara, devo proprio andare», e in meno di un attimo non c’era più.

    Massimo ricomparve solo quando sentì la porta chiudersi. Si affacciò guardingo: «Andata?» disse col labiale.

    «Andata» Francesca rise, «o meglio» disse sognante, «evaporata come una fata.»

    Emma gattonava tutta felice tra le loro gambe. «Fata?» Massimo si asciugò con un gesto plateale il sudore dalla fronte. «Altro che fata, strega! Non finiva più.» Si guardò intorno. «Oddio, non vorrei che fossimo incappati nella peggiore delle maledizioni: una vicina invadente e logorroica.» Si lasciò cadere, esausto ma divertito, sul divano. «Anzi» aggiunse, «un esercito di vicini invadenti. Stiamo sempre insieme, ci conosciamo da una vita…» storpiò la voce di Colette. «Io non voglio parlare con nessuno. Odio il concetto stesso di vicini di casa, e tu lo sai benissimo.»

    «Ma dai» Francesca sorrise, «a me è simpatica. È affascinante, poi, no? Una bellissima donna.»

    «Sarà.» Emma si arrampicò sulle gambe di Massimo, lui la issò con un sorriso e la cullò muovendo su e giù le ginocchia. La bambina rideva. «Io stavo per morire di noia.» E mimò un cappio che lo strozzava. «E se fossero tutti così? Una maledizione…», fece la voce spaventosa.

    «Non capisci niente.» Francesca spalancò la finestra, felice, e guardò giù, verso il cortile.

    «Dai, vieni qui» disse Massimo. «Ti prego, parliamo ancora un po’ di questi fantastici condòmini.»

    Francesca si girò a guardare suo marito e sua figlia, e si andò a sedere accanto a loro. Lui le mise un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé, mentre Emma si arrampicava divertita sui corpi della mamma e del papà. Arrivò anche Angela, tutta sorridente, e si mise a raccontare un sacco di cose che aveva visto, sentito e immaginato.

    Da quando era nata, la piccola Emma-Psycho non dormiva mai. Ma quella notte, la loro prima notte nella nuova casa, si addormentò prestissimo e dormì tutto il tempo come un sasso. Il suo unico anno di vita così sfacciato nella sua perfezione, dormiva a pancia in su nel lettino, mani e piedi a stella, la bocca a forma di bocciolo, rossa e lucida, semiaperta, i capelli ricci e morbidi. Anche Angela, dopo la storia che, come ogni sera, le raccontò il papà, chiuse gli occhi dolcemente. «Qui è proprio bello, papi» disse, già nel dormiveglia.

    Francesca e Massimo rimasero a parlare fitto fitto, come due adolescenti, fino a tardi. A un certo punto per le risate rischiarono di svegliare Psycho e il Generale. Poco dopo, mentre le bambine dormivano e l’appartamento era avvolto nel profumo di quella primavera anticipata, fecero l’amore. Nel loro nuovo letto, tra le lenzuola pulite, fecero l’amore e lo fecero ancora. Si addormentarono abbracciati.

    Massimo al suo fianco dormiva coi capelli ricci come quelli di Angela ed Emma che gli spuntavano in testa forti, sicuri, spalle a lei, su un fianco, il lenzuolo che si alzava e si abbassava a ogni respiro. Francesca percepiva il corpo di suo marito, così vicino al suo. Sentiva che attorno a lei c’era la casa, una casa che stava per diventare sua, il quartiere che sarebbe stato il suo quartiere, la città che sarebbe stata sua. Ma non aveva paura del futuro. E di colpo non aveva nessun sonno. Si svegliò affamata. Fuori era ancora notte.

    Dopo un po’ anche Massimo arrivò in cucina, i capelli schiacciati da un lato, scompigliati dal cuscino, buffo. «Fame?», lei gli sorrise e gli passò un pacco di biscotti. Lui le diede un lungo bacio. «Da morire.» Mangiarono insieme chiacchierando e facendo progetti sul futuro. Poi sbadigliando lui disse: «Io torno un po’ a letto, che dici? Un’oretta». Era una lunga, bellissima notte.

    Rimasta sola, Francesca si affacciò alla finestra del salotto e guardò il cortile deserto, e tutto il Giardino di Roma le sembrò disabitato. I lampioni tremolavano. Alcuni si erano già spenti, nella totale fiducia che sarebbe sorto il giorno. La stessa fiducia totale di Francesca nella famiglia che lei e Massimo avevano creato – dal nulla, come i sogni – e nella felicità che ormai era sua. Era una cosa solida, la felicità, reale come un mattone, come un palazzo. Gli alberi ondeggiarono, mossi dal vento. Nel buio, Francesca aspirò l’aria fredda e fumò.

    E quando anche lei tornò a letto, e si sistemò tra le braccia di Massimo, c’era un respiro lì dentro, un respiro regolare, si distingueva chiaro come il bianco, vero come quella notte. Ed era il respiro della casa.

    5

    Francesca allungò il braccio verso il lato in cui dormiva Massimo. Non c’era nessuno. Infilò gli occhiali. Guardò l’ora. Le 6.30. «Massimo?» L’eco della sua voce si allargò e spalmò tutt’intorno. ‘Massimo Massimo Massimo’ disse la casa. «Massimo?» le tornò indietro.

    Le rispose invece un urletto, non da indemoniata ma un preludio alla catastrofe. «Dito!» si sentì dalla stanza delle bambine. Prima che anche Angela si svegliasse, Francesca si alzò in fretta. La camera da letto era vuota. Quando uscì nel corridoio lo vide improvvisamente spoglio. «Ehi casa» disse, «che hai stamattina?»

    Però qualcuno in casa c’era. Emma si era tirata su in ginocchio usando le sbarre del lettino e le sorrideva spensierata. Era pochissimo che non dormiva più nella stessa stanza dei genitori e Francesca ancora si svegliava improvvisamente spaesata, in piena notte, convinta di averla lì con lei. Le mancava. Emma, invece, nonostante l’attaccamento alla madre, sembrava aver preso bene il fatto di dormire con la sorella maggiore. «Dito.» Emma tese le braccia verso la mamma. Francesca rimase un attimo sulla porta della stanza, guardò le sue figlie, e sorrise.

    Non era abituata a non correre per far mangiare e preparare le bambine per il nido e la scuola, resistere a brevi addii strappalacrime da parte di entrambe le figlie e fiondarsi in redazione subito tempestata di telefonate, richieste e responsabilità. Cosa doveva fare, adesso?

    Doveva fare quello che – aveva pregustato da mesi, con grande piacere – avrebbe fatto tutti i giorni. Occuparsi di Emma – che per quella fine d’anno scolastico, avevano deciso, sarebbe rimasta a casa con lei –, di Angela – che

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