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Non dirgli che ti manca
Non dirgli che ti manca
Non dirgli che ti manca
E-book496 pagine3 ore

Non dirgli che ti manca

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Numero 1 sul web

La nuova romanticissima voce del romanzo italiano

Isabella è a pezzi. Deve vedersela con un padre di successo, per il quale non c’è un altro futuro possibile se non quello che lui stesso ha immaginato per la figlia. E come se non bastasse, il suo fidanzato, quello che secondo tutti era il ragazzo perfetto, la tradisce spezzandole il cuore. Così decide che è arrivato il momento di cercare la propria strada e trasferirsi da Roma a Bologna per studiare. Ma la vita è sempre pronta a sorprenderti: nel caso di Isabella l’imprevisto si chiama Denis, tatuatissimo batterista dei Bad Attitude. In una notte che cambia tutto, Isabella infrange ogni regola. I due si imbarcano in una relazione turbolenta, fatta di lunghe separazioni, resa complicata dall’insofferenza del padre di lei e dalle insicurezze della ragazza. Nonostante le differenze sociali, quello che Denis e Isabella provano l’uno per l’altra è un sentimento insopprimibile, forte e delicato, violento e dolce allo stesso tempo, qualcosa che va oltre le regole, ma che non sembra destinato a finire, come quelle melodie che entrano nella testa e non se ne vanno più…

«Quando la storia ti prende e i personaggi ti hanno rubato un pezzettino di cuore bisogna solo perdersi tra le parole.»
Crazy for romance

«Non dirgli che ti manca è un romanzo che mi ha lasciato dentro un vortice incontrollabile di emozioni.»
Leggere in silenzio

«Alessandra Angelini, un successo straordinario tutto italiano.»
Libreriamo.it

«Inutile dirvi che la loro storia d’amore è di quelle che ti tengono incollata alle pagine, che qualche volta vorresti saltare nel libro e prenderli a sberle, che spesso ti trovi a fare un gran sospiro di fronte a questo amore così vero e grande.»
Romanticamente fantasy
Alessandra Angelini
È nata a Faenza. Si è laureata in Chimica industriale a Bologna, quella che considera la sua città d’adozione. Appassionata di musica, divide il suo tempo libero tra letture di ogni genere e la scrittura. Non dirgli che ti manca, romanzo inizialmente autopubblicato, è stato nella classifica dei libri digitali per oltre cinque mesi, finché non è stato scoperto dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita14 set 2016
ISBN9788854199590
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    Anteprima del libro

    Non dirgli che ti manca - Alessandra Angelini

    Capitolo 1

    Dopo aver vissuto per conto mio per quasi due anni, tornare in quella casa fu un trauma. Erano solo pochi chilometri dentro al cuore della città, ma pareva un altro mondo. Non avevo spazio. Ero sempre sotto lo sguardo vigile di mio padre, incastrata nelle sue regole e abitudini. Mi sentivo mancare l’aria. In quella casa perfetta, ero l’anomalia. Anche di quella brutta situazione dovevo ringraziare Marco, un’altra voce da aggiungere a una lista già troppo lunga.

    Dopo averlo colto in flagrante, non potevo più mettere piede nel mio appartamento. I bastardi non avevano perso tempo, nemmeno i due passi per raggiungere il letto di Beatrice. Quando c’eravamo promesse di condividere tutto non pensavo che Beatrice mi prendesse in parola. Non avevo voluto vedere, trovando a Marco mille scuse traballanti. Dopo il fattaccio, mi aveva assillato tempestandomi di messaggi e telefonate. Aveva tentato di avvicinarmi con imboscate fuori dai cancelli della Sapienza o sfruttando la complicità di qualche amico. Non volevo più parlargli, figuriamoci vederlo.

    Messa all’angolo, avevo raccontato ai miei genitori quanto era successo. Non ero scesa nei dettagli. L’integerrimo avvocato Colonna, senatore da non so quanto tempo, era un punto di riferimento per la borghesia romana. Mai uno scandalo o una diceria. Anche in questo caso non si smentì e dai miei familiari non ebbi alcun conforto. Mio fratello Paolo poi era troppo impegnato con lo studio, la carriera politica e il figlio appena nato, per starmi a sentire.

    Mio padre divideva il suo tempo tra lo studio di famiglia e la sede del partito. C’era sempre qualche riunione a cui presenziare. Qualcosa di più importante. Quando mi aveva chiamato nel suo studio, ero scattata come una molla. Erano bastati pochi giorni per rientrare in quell’inerzia, in cui mia madre viveva da quando l’aveva sposato.

    «Isabella, siediti», mi invitò. «Dobbiamo parlare», disse, spostando il peso sullo schienale. La sedia emise un cigolio stridulo che mi fece venire la pelle d’oca.

    Lo stress e il poco movimento gli avevano appesantito la figura, le foto erano l’unica testimonianza di quando poco più che ventenne faceva parte della squadra nazionale di tennis. L’espressione impostata però era ancora la stessa.

    «Ormai è passato quasi un mese da quando hai messo Marco in punizione».

    «Non l’ho messo in punizione, l’ho lasciato», puntualizzai, cercando di calmarmi.

    «Sii ragionevole. Siete fidanzati da tre anni, vorrà pur dire qualcosa», disse con fare indulgente. «Tra poco la gente inizierà a parlare», aggiunse, lasciando cadere la mano sul piano della scrivania.

    Ancora una volta quelle dannate apparenze messe prima di tutto. Prima di me.

    «Avrebbe dovuto pensarci prima».

    «Non dico che ha fatto bene, dico solo che dovresti sorvolare su questo incidente. Avete tutta la vita davanti. Bisogna imparare ad affrontare alti e bassi».

    Chissà quante volte mia madre si era trovata nella medesima situazione, costretta a ingoiare bile in silenzio.

    Mi alzai dalla sedia senza aspettare il suo permesso.

    «Isabella!».

    La sferzata arrivò a pochi passi dalla porta. Il suo viso era solcato da rughe profonde. Per la prima volta lo vidi invecchiato, ben lontano dalla persona che avevo idealizzato per anni.

    «Credo che accetterò l’invito di zio Leonardo», azzardai. La mano sudata stretta attorno alla maniglia.

    «Ti voglio a casa per la cena col sindaco. Due settimane, non un giorno di più». Svitò il pennino, il respiro regolare. «Per allora mi aspetto che tutto sia tornato alla normalità», chiuse il discorso, tornando alle sue carte.

    L’ultima parola era sempre la sua.

    Cristina mi scarrozzava da giorni per le vie congestionate di Milano. Mia cugina mi aveva portata nei club dove era di casa, intenzionata a farmi dimenticare il motivo di quella visita precipitosa. I fallimenti delle sere precedenti non l’avevano fatta desistere, semmai aveva riconsiderato il target. Nel tentativo di scuotermi era venuta incontro ai miei gusti, portandomi in un locale dove si esibivano rock band dal vivo. Ecco perché la tallonavo per la Bovisa, faticando a tenere il suo passo svelto, nonostante i tacchi vertiginosi da cui non si separava mai.

    «Come hai detto che si chiama questo posto?»

    «Alcatraz».

    Mi ero lasciata così prendere dai miei problemi da non vedere un palmo oltre il naso.

    «E da quando ti saresti data al rock?»

    «Sono una persona piena d’interessi».

    «Come no. Ora che ci penso, non dovevano esserci due tuoi amici?»

    «Abbiamo appuntamento davanti all’ingresso. Ci siamo quasi», aggiunse con un pizzico di nervosismo.

    «Esattamente, quale dei due stimola i tuoi interessi?».

    Vedendo la sua reazione, non riuscii a trattenere una risata.

    «È così evidente?»

    «Sbaglierò, ma non ti ci vedo ad ascoltare rock e interessarti di motori di tua iniziativa», conclusi dubbiosa. «Forza, sputa il rospo. Come si chiama?»

    «Antonio, Tony», si corresse, giocherellando con la collana.

    Riprendemmo a camminare tenendoci a braccetto. Il locale si intravedeva già all’angolo con via Lepontina.

    «Qual è? È uno di quelli vicino all’ingresso?», allungai il collo curiosa.

    Cristina mi bloccò all’improvviso, nel bel mezzo del nulla.

    «Isa, senti, so che Tony non è il tipo che frequento di solito ma lui mi piace, mi piace davvero. Dagli una possibilità, e soprattutto non farne parola con papà. Non ancora», mi supplicò.

    «Sarò una tomba», le promisi sorridendo. «Ora piantala di prendere tempo e presentami chi ti ha ridotto così!».

    «Okay», rispose, emozionata come una scolaretta. «Vedi i due appena smontati?». Ricominciando a camminare verso il locale, indirizzò il mio sguardo verso un parcheggio a bordo strada. «Tony è quello col casco in mano».

    Non furono i jeans logori o l’immagine da motociclista a preoccuparmi, bensì la consapevolezza che traspariva di lui. Tony era il primo ragazzo vero che le vedevo accanto.

    I ragazzi ci notarono in mezzo alla massa di persone che si avvicinavano all’entrata. Presero a salutarci, muovendo qualche passo nella nostra direzione.

    «Isa, un’ultima cosa», si affrettò ad aggiungere, nervosa. Erano sempre più vicini. «Tony sa che lavoro per uno dei chirurghi plastici più famosi di Milano, ma non sa che è mio padre».

    «Scusa?»

    «Hai capito bene».

    Il traffico lungo via Valtellina inghiottì il mio stupore.

    «Siamo venute qui, ho conosciuto Tony e le cose mi sono sfuggite di mano, un fraintendimento dopo l’altro», ricordò con una smorfia, tormentando i braccialetti al polso. «E ora crede che faccia la segretaria alla clinica».

    «Che casino».

    «Lo so. Non so come uscirne senza perderlo». Spostava lo sguardo tra me e lui, dibattendosi.

    «C’inventeremo qualcosa. Ora fagli un bel sorriso», l’incoraggiai, stringendole la mano.

    Tony impegnò Cristina in un bacio appassionato. Col passare dei secondi il silenzio si fece imbarazzante.

    «Tony», l’altro ragazzo si schiarì la voce senza successo, «non mi avevi detto che questa sera avrei assistito allo spettacolo completo. Sai che non sono abbastanza grande per queste cose. Ora staccati e falla respirare». Il ragazzo parlava a raffica, scuoteva la testa con convinzione, mantenendo un contegno stoico. «Anche una presentazione non farebbe male, è un po’ vecchio stile ma funziona. Giuro», aggiunse, lanciandomi un’occhiata di sfuggita.

    Scoppiammo tutti a ridere.

    «Ragazzi!», le bastò una parola per ristabilire l’ordine. «Isa, lui è Mattia, il migliore amico di Tony. Mattia, lei è mia cugina, Isabella».

    Accennai un saluto, avevo le lacrime agli occhi.

    «Lo conosco da una vita e ti posso assicurare che è innocuo, ha un solo brutto difetto, la parola».

    «Ah!». Mattia si portò una mano al petto. «Pugnalato da un amico».

    «Stasera siete peggio del solito». Cristina mi venne vicino col sorriso sulle labbra. Era raggiante. «Non sono pericolosi, hai la mia parola. Ora entriamo, il concerto non aspetta», disse, indirizzandomi verso l’ingresso del locale.

    «E io? Ti sei già dimenticata di me?», si lamentò Tony alle nostre spalle.

    «Per te non servono presentazioni, è come se ti conoscesse già».

    «Confermo», annuii convinta. Le coprii le spalle.

    Lui accettò di buon grado, posandole un bacio sui capelli. A vederli così, avrei messo la mano sul fuoco su un futuro felice per loro.

    «Immagino di dover ringraziare te per l’organizzazione della serata».

    «Colpevole. Quando Cris mi ha detto cosa ti piace ho pensato subito a questo posto, anche se mi hai stupito…». Tony si fermò nel bel mezzo della frase, incenerito dallo sguardo omicida di mia cugina.

    «Non si direbbe ma ho un’anima rock», dissi, soddisfatta di me.

    Entrammo che il locale era già gremito. La sala era grande e spaziosa, uno stanzone rettangolare con le pareti tappezzate da locandine di cantanti e band famose, chitarre appese qua e là davano il giusto tocco grunge. Dei ragazzi sistemavano l’attrezzatura sul palco in fondo alla stanza. Non doveva mancare molto. Ci facemmo strada tra le persone che aspettavano l’inizio del concerto, fino a raggiungere il nostro tavolo nel soppalco. Lo spazio vitale ridotto al minimo.

    «I poster e le chitarre sono originali?». Curiosavo, guardandomi intorno.

    «Sì, e sono firmati».

    Mi girai di scatto. «Mi prendi in giro?!»

    «Affatto. Qui hanno suonato i Korn, i Pennywise e Alice Cooper», confermò Mattia compiaciuto.

    «Non è vero!», risposi con un filo di voce, le mani ancorate sulla sedia. «Lo adoro dai tempi di Poison».

    «Allora abbiamo pescato la sera giusta. Conosco questo gruppo, sono bravi, dovrebbero fare qualche cover sua e dei Green Day».

    Sentii a malapena Mattia, divoravo la sala con gli occhi.

    «In verità avrebbero già dovuto iniziare, sono le nove e mezzo passate». Tony si alzò dalla sedia, facendosi largo fino al bar. Parlò con un ragazzo dietro al bancone, tornando esitante.

    «Sembra che il batterista abbia dato buca», ci informò con disappunto, «ma hanno un amico che può rimpiazzarlo».

    «Speriamo bene». Cristina si tormentava le labbra, nemmeno fosse colpa sua.

    Le luci nel locale si abbassarono, i riflettori puntati sul palco. Dalla folla si levò un boato, gridolini, fischi d’incitamento accompagnarono l’ingresso della band. Un uomo sulla quarantina si avvicinò al microfono, schiarendosi la voce.

    «Con un po’ di ritardo, degno di artisti consumati, sono felice di salutare il ritorno all’Alcatraz di una tra le band più promettenti del panorama rock italiano. Signore e signori, fate un applauso agli Armodue!», annunciò, lasciando spazio alla band.

    Uno, due, un-due-tre-quattro! Il batterista diede l’attacco e iniziarono alla grande con una canzone dal ritmo incalzante, che mi ricordava Basket Case. Morivo dalla voglia di andare in mezzo al pubblico. Non riuscivo a stare ferma. Mi girai combattuta, e già mi trovavo sulla punta della sedia.

    «Ragazzi, vi dispiace se vado laggiù?»

    «Vai… forza!», mi incitò Cristina, con gli altri che mi osservavano divertiti.

    Mimai un ringraziamento con le labbra e corsi tra il pubblico. Scansando il pogo a centro pista, raggiunsi un angolo vicino alla parete da dove avevo uno scorcio del palco. Saltellavo, cantavo, battevo le mani accompagnando il ritmo delle canzoni. Il cantante si era ispirato al look di Billie Joe, non si era fatto mancare nulla, nemmeno il sottile tratto di matita sotto gli occhi. Come lui, anche il bassista e il chitarrista non avevano tratti distintivi, mancavano del carisma di chi ha la stoffa. Il confronto era perso in partenza. Sul seggiolino della batteria c’era un fenomeno che da solo animava il pubblico, trascinandolo a suo piacimento. Il batterista si muoveva a un ritmo forsennato tra piatti e tamburo, emanava energia, imprigionando la mia attenzione. Lo seguivo ipnotizzata.

    Alla rullata conclusiva applaudii col resto del pubblico, qualche minuto ancora e la band salutò liberando la scena. Lungo il locale si riaccesero le luci, dalle casse diffusero la registrazione di un vecchio pezzo degli Iron Maiden. Lo spettacolo era terminato. Due ore bruciate senza rendermene conto. Diedi un’ultima occhiata al palco. I tecnici sistemavano gli strumenti, chiacchierando soddisfatti. Mi mescolai tra la gente, tornando da Cristina e i suoi amici ancora su di giri, avevo le guance in fiamme.

    «È stato fantastico!», esclamai. Non ricordavo l’ultima volta in cui mi ero sentita così bene. «Grazie di avermi portata qui».

    «Abbiamo fatto centro, eh, Mat?». I due si scambiarono il cinque soddisfatti.

    Stavo per sedermi ma morivo di sete. Loro si erano già serviti mentre mi godevo il concerto.

    «Ragazzi, vado a prendere qualcosa e torno», dissi, anticipando l’offerta di Mattia.

    L’atmosfera nel locale era afosa. Mi feci largo tra le persone, mettendomi in coda al bar. Per mia fortuna non avevo dato retta a Cristina, preferendo jeans e stivali comodi. In mezzo a quella calca, gonna e tacchi alti sarebbero stati una trappola mortale. Mi ero concessa un unico vezzo, una cintura che portavo sopra i pantaloni a cingermi la linea del bacino. Col caldo che faceva rimpiansi di non aver raccolto i capelli. Quei capelli castani, striati qua e là da riflessi ramati, erano il mio unico vanto. Il ricordo di un lontano passato in cui nel sangue della mia famiglia scorreva ancora il fuoco, e una ragazza dai capelli rossi aveva infiammato l’insipida discendenza del mio trisavolo Colonna. Dopo quasi venti minuti d’attesa, misi le mani su una birra. Cercai d’uscire indenne dalla ressa che circondava il bar quando un energumeno, per farsi largo, mi diede uno spintone che mi fece perdere l’equilibrio. Imprecai a fior di labbra. Riuscii a non cadere ma la birra era andata. Nel modo più rovinoso possibile. Quella che non mi ero rovesciata addosso, era finita a terra e sul ragazzo che avevo di fronte.

    «Oddio! Mi dispiace». Mi sarei seppellita.

    «Tranquilla. Di solito preferisco berla ma anche così non è male». Sorrise, portando alla bocca un dito grondante di birra. «Buona!».

    La canotta fradicia gli aderiva come una seconda pelle.

    «La tua maglia».

    «Non è che prima fosse messa meglio», disse, facendomi l’occhiolino.

    Passando, un ragazzo gli diede una pacca sulla spalla.

    «Ehi, Denis! Sei sempre il migliore».

    «Troppo buono».

    Ecco chi è!, realizzai, dando un senso a quella strana sensazione di déjà vu. Avevo rovesciato una pinta addosso al ragazzo che avevo ammirato sul palco; aveva ancora le bacchette infilate nella tasca posteriore dei pantaloni.

    «Sei stato grande lassù… sostituire il batterista, così, da un momento all’altro», blaterai in preda all’imbarazzo.

    «Grazie», rispose, con un sorriso che mi mozzò il fiato in gola.

    Certo che era stato eccezionale, tutti quelli che passavano si complimentavano con lui. Se dal palco mi aveva affascinato con i movimenti potenti, visto da vicino era da perderci la testa. La canotta scura lasciava intravedere i pettorali scolpiti e le braccia ben delineate. Tatuaggi tra i più strani mai visti gli scendevano fino alle mani, ma non era da quelli che non riuscivo a staccare lo sguardo. Ero persa nei tratti forti e mascolini del suo viso, gli zigomi alti, la linea squadrata della mascella, le labbra grandi e piene.

    «Potremmo prendere una birra e bercela insieme. Se non preferisci fare il bis», aggiunse, incapace di reprimere un sorriso.

    «Grazie per non affondare il coltello nella piaga».

    Non riuscivo a sostenere il suo sguardo. Arrossivo a ogni tentativo.

    «È per questo che fai questa cosa con le labbra?», chiese, avvicinando la mano fino a sfiorarle con il pollice.

    Sollevai di colpo gli occhi e mi persi nei suoi. Annuii.

    «Che ne dici della mia offerta?»

    «I tuoi amici?»

    «Sono tutto tuo», aggiunse sfrontato.

    Le sue parole mi diedero un brivido. Trovammo uno spazio al limitare del palco, dove parlare senza essere schiacciati tra le persone.

    «Toglimi una curiosità, cos’hai detto a quel tizio che ti ha spintonato? Suonava bene», chiese, sedendo sul bordo del tavolato. Sorseggiava la birra osservandomi con una naturalezza disarmante.

    «Nulla di che», sorrisi, scuotendo la testa.

    «Okay. Però come ti chiami me lo puoi dire». Parlando, il piercing al labbro catturava la luce in maniera accattivante.

    «Isabella, mi chiamo Isabella», risposi. Mi bagnai le labbra.

    «Piacere Isabella, io sono Denis».

    Tutto di lui mi metteva in difficoltà, l’aspetto, la voce, il modo di fare, persino il suo modo di parlare. Non potevo impedirgli di guardarmi in quel modo, ma potevo riempire quel silenzio carico di tensione.

    «Da quanto suoni? Sembravi così a tuo agio».

    «Suono da quando avevo otto anni. Non so fare altro. Credo che se mi togliessero la musica sarebbe come se mi strappassero l’aria».

    Non stentavo a crederlo. Era evidente.

    Cercavamo di parlare, ma le casse a pochi passi sovrastavano le nostre voci.

    «Cristo! È la prima volta che m’infastidisce», sbuffò frustrato. Incrociando le gambe sul palco, si sporse verso di me. «Riesco a malapena a sentirti, che ne dici di avvicinarti un po’?», chiese, sussurrandomi all’orecchio l’invito più innocente della terra.

    Mi spostai rigida come un palo, assottigliando lo spazio che ci divideva. La temperatura della graticola si alzava a ogni centimetro perso. Denis mi osservava divertito. Non doveva essere la risposta che aveva in mente, da come mi attirò contro le sue gambe. Quando si parla di comunicazione non verbale.

    «Così va meglio».

    Il tavolato era duro e irregolare, lo raschiavo con le unghie per dare sfogo all’agitazione.

    «Ti diverte? Voglio dire, ti diverte ancora suonare?»

    «Da morire, forse è per questo che in un modo o nell’altro mi trovo sempre su un palco».

    Lo ascoltai rigirando il bicchiere tra le mani. Non avevo bisogno di vederlo, avevo ancora impressa la sua espressione mentre suonava: concentrata, divertita, piena di vita.

    «È la prima volta che vieni qui?»

    «Sì. Questo posto è fantastico e poi la musica…». Trattenevo le emozioni del concerto il più possibile. «Questo è stato il mio primo live», aggiunsi senza pensare, sentendo il sorriso morirmi sulle labbra.

    «Sul serio?!»

    «Patetico, vero?», mi canzonai con le spalle curve. Lo sguardo incollato alle bollicine che svanivano nel bicchiere.

    Denis prese a giocare con una ciocca dei miei capelli, li arrotolava attorno alle dita facendomi fremere. Rubai uno sguardo. Lo stupore gli aveva ammorbidito i tratti, colmato gli occhi, donandogli una dolcezza irresistibile.

    «Smettila di tormentarti le labbra», si sporse fino a sfiorarmi l’orecchio.

    Le sue parole mi suonarono così sincere, che non riuscii a non guardarlo. Denis mi sfiorò gli zigomi, strofinò il pollice contro le labbra che continuavo a torturare nervosa. Le sue mani sul mio viso erano grandi e calde, callose. Si avvicinò lasciandomi il tempo di ritrarmi, poi mi baciò.

    Il cuore mi batteva all’impazzata nel petto.

    «Ancora nervosa?», chiese, con il fiato che si mischiava al mio.

    Avevo ripreso quel tic senza accorgermene.

    «Ora più di prima», ammisi, lasciandomi andare a una mezza risata. Le sue labbra non erano un calmante. E probabilmente non volevano esserlo.

    «Bene», rispose, scendendo da quella postazione improvvisata.

    Lo seguii con lo sguardo trovandomelo davanti, più vicino di prima.

    «Non hai proprio nulla di patetico. I tuoi capelli sono setosi da non sembrare veri». Li scorse fino a sfiorarmi le spalle. «I tuoi occhi brillano come diamanti e le tue labbra sono incredibilmente morbide, nonostante tutti i tuoi tentativi di sabotaggio».

    Le mie gambe pendevano dal palco insistendo contro le sue. I suoi capelli, di un biondo brillante, mi sfioravano il viso bagnandomi del suo profumo. Denis mi fece scendere, mi baciò con un’avidità e un trasporto mai provati. Il suo bacio era caldo, eccitante. Degno di tutte le premesse. Ci staccammo a corto di fiato. La musica riempiva la sala, le persone ballavano al ritmo incalzante dettato dalle casse. Lì, tra le sue braccia, sarebbe potuto accadere un disastro e non me ne sarei accorta. Non c’era altro che lui.

    «Isabella, mi piace il tuo nome», disse. Il suo respiro contro la mia pelle aveva il peso di una carezza. «E mi piace il suono della tua voce. Sei così bella».

    Il mio nome pronunciato dalle sue labbra aveva un che di esotico. Sentivo il petto sollevarsi e abbassarsi affannato, lottare cercando di respirare, mentre lui scorreva la cintura che mi circondava le anche.

    Quando incrociammo lo sguardo, nei suoi occhi lessi le mie stesse intenzioni.

    «Che ne dici di andarcene di qui?»

    «Ti seguo», risposi, mettendo la mano nella sua.

    Per tutta la vita avevo fatto quello che gli altri si aspettavano da me, vissuto come supponevano fosse giusto. In quel momento seguii i miei desideri, giusti o sbagliati che fossero. Diretti verso l’uscita del locale, intravidi Cristina al tavolo. Mi ero completamente dimenticata di lei, di tutto.

    «Denis, aspetta», lo fermai. «Devo avvisare mia cugina. Torno subito», chiarii, sciogliendo il suo sguardo interrogativo.

    Dovetti trattenermi dal correre, per ridurre al minimo quella separazione. Avvertii Cristina che non sarei rientrata con lei. Non mi dilungai in inutili spiegazioni, lo sguardo sospeso, allacciato a Denis, parlava per me.

    «Queste sono le chiavi, il codice del cancello lo sai», disse, porgendomi la tessera magnetica. «Isa, tu…», fece una pausa, indecisa, poi la vidi scuotere la testa, «ci vediamo domani».

    «Scusatemi ragazzi, è stato un piacere conoscervi». Non avevo terminato la frase che ero già lontana. Con la testa non mi ero mai allontanata da lui.

    Varcai la soglia della sua camera d’albergo incerta, divisa tra il desiderio per quel ragazzo sconosciuto e tutto ciò che sapevo della vita. Poco. Denis mi fece entrare, chiudendosi la porta alle spalle. Ero tutta un nodo, un concentrato di nervosismo. Tenevo gli occhi strizzati, persino gestire il respiro era uno sforzo. Lo sentii avvicinarsi con passo leggero.

    «Sei così tesa, rilassati», mormorò con quella voce di velluto.

    Facile a dirsi. Il cuore mi batteva forsennato nel petto. Sentivo Denis vicino all’orecchio, stava lì, senza dire una parola. Il suo respiro contro la pelle mi provocava dei brividi lungo tutto il corpo.

    «A cosa pensi?».

    Aprii e chiusi la bocca, mi morsi la lingua per non rispondergli. «Nulla».

    «Sicura di non volermelo dire?», chiese, col fiato che mi solleticava. «Sono curioso di natura e il tuo silenzio… vediamo se con un incentivo». Le parole sfumarono. I suoi propositi stavano tutti nell’intenzione, e di quella erano intrisi fino all’ultima goccia.

    Con la punta delle dita prese a scorrermi le braccia, sfiorando appena la pelle. Bastò poco per riaccendere quel desiderio con cui avevo abbandonato l’Alcatraz.

    «Dicevamo?»

    «Nulla», confermai con la gola strozzata. Tutto.

    «Questo è il nulla più intrigante che abbia mai sentito».

    Insoddisfatto, mi sollevò i capelli sulla nuca, prese a solleticarmi dietro al collo, alternando il tocco umido delle labbra a morsi leggeri.

    Il mio corpo rispose tendendosi, premendo contro di lui.

    «Cosa stai immaginando?». Fece una pausa. «Ci sono io nelle tue fantasie?».

    La sua voce insinuò nella mia mente i pensieri più peccaminosi mai concepiti. E Denis non ne faceva solo parte, ne era il protagonista incontrastato. Col fiato che mi accarezzava regolare, fece scivolare l’indice lungo il mio naso, sulle labbra schiuse e scese giù, lungo la gola, fino al bordo della canotta.

    «Sì», ammisi. Lo desideravo quasi fosse un bisogno fisico.

    «Voglio conoscere le tue fantasie, una a una».

    Denis mi fece girare, mi baciò, tenendomi sul labile confine che separa la dolcezza dalla passione.

    «Soltanto una».

    «Non molli facilmente», risi, di un riso che fece svanire la tensione.

    «Non quando m’interessa qualcosa». Il sorriso mascalzone sempre lì, al suo posto.

    Persa nel suo volto, abbandonai ogni imbarazzo. Gli scorsi le braccia e scivolando con l’indice sotto una spallina della canotta, l’annusai.

    «Mi piace», dissi.

    Non ebbi esitazioni nel sollevargliela. Il suo petto e l’addome erano ricoperti da tatuaggi che avevo solo immaginato, ne seguii le linee e i disegni con i polpastrelli.

    «Le tue labbra», mi ammonì.

    «Mi hai chiesto a cosa pensavo, lascia che te lo mostri».

    Me le sarei morse al solo pensiero di me e lui insieme, poterlo toccare, la situazione lo rendeva un gesto necessario. Umettai le labbra secche, poi le avvicinai a quell’opera d’arte. Sotto l’odore di birra e il sudore, il sapore della sua pelle era indescrivibile. Denis si lasciò sfuggire un sospiro, coi muscoli del collo tirati e la testa reclinata.

    «Sai di buono».

    «Te l’ho chiesto io ma ora non sembra più tanto importante». Rise della mia scimmiottatura ma nella sua espressione c’era dell’altro. Il suo sguardo aveva un’intensità da bruciarmi. «Così non è equo, non trovi?». Non aveva finito la frase che mi sfilò la canotta. Quando prese a baciarmi, la luce sul mondo si spense.

    «È da quando ti ho vista che desideravo farlo», aggiunse, accompagnandomi al letto.

    Ero seminuda con uno sconosciuto, il mio petto prese a sollevarsi e abbassarsi con rinnovata agitazione. La mia esperienza si limitava a Marco.

    «Ehi», Denis mi chiamò, facendomi aprire gli occhi. «Resta qui con me, ci siamo solo tu e io, solo tu e io», sussurrò, baciandomi le tempie, il naso, le labbra. Riuscì a tranquillizzarmi. «Dov’eravamo? Ah, già!».

    «Co-cos». La voce mi morì sulle labbra quando arrivò sotto il seno, giù, fino all’ombelico. Trattenni il fiato, il cuore in gola, la testa leggera. Era tutto nel posto sbagliato, eppure così giusto.

    Denis si sporse verso di me.

    «Apriti per me», mormorò con i capelli che gli ricadevano sul viso. Accompagnò quella richiesta con un movimento del bacino che era al limite della coercizione. «Cosa devo fare per salvaguardare le tue labbra?».

    Ne fece un caso personale, strofinandovi contro il pollice. Mi lasciai sfuggire un gemito di frustrazione. Le mordevo per necessità, come poteva non capirlo?

    «Cos’era? Una protesta?». Aggrottò la fronte, reprimendo a fatica un sorriso.

    «Anche se fosse?»

    «Queste sono mie».

    Le impegnò in un bacio appassionato, intrecciando la lingua alla mia con la stessa cadenza con cui premeva il bacino. Mi staccai ansante contro il suo petto.

    «Mi piace sentirti così», ammise.

    Prese a esplorare ogni centimetro della mia pelle, facendomi provare sensazioni così intense da pensare che a breve sarei morta. Morta, ma felice.

    Per noi non c’era un passato, non un futuro, solo quel momento. Mi aggrappai alle sue spalle abbandonando ogni ritegno. Smisi di trattenermi, ansimai, gemetti al crescere di quelle carezze sempre più intime.

    «Finalmente sei qui con me».

    I suoi pantaloni volarono a terra col resto, mostrandomi quanto fino allora avevo solo sentito. Lui non era meno eccitato di me.

    «Potrei andare avanti per ore, ma sentirti così…». Scosse la testa. «Basta giochi».

    Afferrò un preservativo dal comodino e mi accarezzò con lo stesso sguardo con cui all’Alcatraz mi aveva detto che ero bellissima. Anche se fu solo l’incontro di una notte, il sesso con lui fu mille volte più appagante di quello avuto con Marco. Mi addormentai nel suo abbraccio, senza rinnegare nulla.

    Il mattino seguente mi svegliai nel letto disfatto. Il traffico lungo via Turati si faceva sentire nonostante le finestre chiuse. Le ombre si allungavano a terra come mani protese. Dal bagno arrivava lo scroscio regolare della doccia. Ero sola in quel letto d’albergo, mentre il ragazzo con cui avevo passato la notte era a ripulirsi. Era mattina, la magia si era spezzata. Mi sentii assalire dall’ansia. Denis era stato dolcissimo, mi aveva fatto sentire speciale, viva. Una volta passato il momento, eravamo di nuovo due estranei che si erano confortati per qualche attimo. Niente di più. Stretta nelle lenzuola sgualcite, mi riscossi. Pochi minuti e lui sarebbe uscito. Ci sarebbe stato imbarazzo tra noi? Cosa si aspettava da me? Andai nel panico. Cercai le mie cose e mi rivestii in fretta, dandomi una sistemata alla bell’e meglio davanti allo specchio. Un’ultima occhiata e chiusi quell’esperienza alle spalle. Nell’incertezza di sbagliare, preferii andarmene.

    Al mio ritorno mi confidai con Cristina. Lei sapeva bene che non ero il tipo da colpi di testa. Fu la spalla su cui piangere, l’unica ad assistermi nel momento in cui mi lasciai andare. Era ora di tornare a casa. Due giorni dopo presi un treno, senza sapere cosa aspettarmi dal futuro.

    Capitolo 2

    Al mio ritorno da Milano stavo peggio di quando ero partita. Mi ero concessa un attimo di follia. Una splendida follia che mi aveva lasciato piena d’amarezza, consapevole d’aver sprecato parte della mia vita. Tornata a casa cercai rifugio nello studio. Concentrarmi fu un’impresa. Con risultati poco brillanti chiusi la pratica esami prima di metà giugno.

    Vivevo in un’enorme casa delle bambole, dove non ero che un’altra porcellana da esporre. Iniziai a saltare i pasti e isolarmi. Il cibo era insipido, la casa, gli amici, i libri opachi, persino il cielo estivo era poco luminoso. Tutto era insignificante. Vuoto e privo di attrattive. Il legame che mi collegava al mondo si sfilacciava di giorno in giorno, sempre più tirato. Il ritorno a casa non mi aveva fatto bene, anche i miei genitori dovettero riconoscerlo. Con l’attenzione puntata sulla sua proposta di legge per il rientro dei capitali dai paradisi fiscali, mio padre non aveva tempo per quella figlia che sembrava creargli solo disagi. Per evitare lo spargersi di dicerie sulla figlia depressa del senatore, i miei genitori acconsentirono alla mia richiesta di cambiare sede di studi.

    La mia prima scelta era stata Milano. La pensavo una proposta ragionevole. Avrei portato a termine gli studi sotto la supervisione di zio Leonardo. Chi meglio di lui, medico e parente stretto, avrebbe potuto farmi da mentore e angelo custode? Bastò uno stralcio di conversazione, sentito per caso, per dare un altro colpo al concetto di famiglia unita, che sbandieravamo con tanto orgoglio. In poche frasi mio padre si era lanciato in un’arringa piena di accuse verso il fratello, a partire dalla moglie che si era scelto fino ai ripetuti insuccessi con la figlia. Al solito mia madre non aveva fiatato.

    Bocciata Milano era scattato il piano B. Avevo bisogno di una scossa e una città vitale come Bologna era quello che mi ci voleva. L’accondiscendenza con cui i miei genitori accettarono la mia proposta era sospetta, li conoscevo fin troppo bene per sapere che non avevano abbandonato il progetto Marco. Semplicemente aspettavano l’occasione giusta per tornare alla carica.

    Attraverso le conoscenze di mio padre, trovai alloggio in un convitto a meno di un chilometro dalla scuola di Medicina e Chirurgia. Lì avrei condiviso la stanza con un’altra ragazza. Con un’esperienza fallimentare alle spalle non sprizzavo gioia da tutti i pori, quantomeno ero certa che il problema non potesse ripetersi.

    Appena arrivata mi impegnai con tutta me stessa nello studio, anche se erano solo corsi estivi. Non volevo dare pretesti ai miei familiari per riportarmi indietro. Il trasferimento mi conferì una serenità insperata, i pensieri opprimenti che mi circondavano in casa divennero fantasmi sbiaditi. Soltanto uno non svanì. Per non pensarci mi tenevo occupata il più possibile. Come quando accettai di seguire Amelia, la mia compagna di stanza, e le altre al Rock in Idro al Parco Nord. Band da tutto il mondo partecipavano a quell’evento dell’estate bolognese, e tra loro quella che era senza dubbio la mia band preferita: gli Effetto Notte. Adoravo la loro musica, l’ascoltavo in ogni occasione con gli auricolari calati nelle orecchie. Se non si fosse trattato di loro probabilmente non sarei andata. Il primo concerto non si dimentica mai e in me risvegliava emozioni che ancora tentavo di seppellire.

    Le ragazze mi avevano tirato giù dal letto a forza, per accaparrarsi dei posti vicino al palco; non erano nemmeno le otto del mattino.

    «Non vi pare presto?», chiesi, scendendo dall’autobus a Stalingrado. Non smettevo di sbadigliare.

    «Non credo proprio», fu la risposta seccata di Lisa, girando l’angolo. «Ma porca puttana! Guardate là».

    Percorrendo la cancellata con lo sguardo, trovai il punto che indicava. Non avrebbero aperto i cancelli fino alle undici, per l’inizio dei concerti bisognava aspettare le due, eppure c’erano già almeno trecento persone.

    «Non ci credo!».

    «Ve l’avevo detto», non la smetteva di lamentarsi.

    L’attesa fu interminabile e snervante, sedute su un fazzoletto d’asfalto parlammo a ruota libera, canticchiammo perfino le B-side dei vecchi album per ingannare il tempo. Il parterre era eterogeneo, ragazzine di sedici anni si mescolavano a ultraquarantenni accomunati dalla passione per la musica e le band che, da lì a poco, sarebbero salite sul palco. Alcuni ragazzi venivano appositamente da Perugia e Torino per sentire dal vivo il nuovo album degli Effetto Notte. Il fumo delle sigarette mi bruciava la gola, mentre il vento sottile diffondeva sul pubblico ben altro odore, dolciastro e meno legale.

    «Ma quanto manca?», si lamentò Lisa.

    «Poco meno di due ore», cantilenò afflitta Laura, giocherellando col cellulare.

    Le due band che dovevano scaldare il pubblico erano state un fiasco. Agonia pura. La stanchezza si faceva sentire e la pazienza era agli sgoccioli.

    «Se riesco, vado a prendere da bere. Cosa vi porto?», mi offrii.

    A giudicare dalle risposte, raccolte in tre secondi netti, le altre non se la passavano meglio.

    «Sicura di voler andare ora? Stanno per iniziare i Bad Attitude, sono fenomenali», mi avvisò Amelia.

    «Non li conosco e se finalmente inizieranno a suonare qualcosa di decente, sarò di ritorno in un baleno», la rassicurai, facendole l’occhiolino.

    Mi addentrai in una selva di gambe e corpi stravaccati a terra in un pericoloso gioco d’equilibrio. Come pronosticato, appena il cantante salutò, il pubblico si alzò in piedi su di giri. A parte pochi habitué delle retrovie che ciondolavano molli contro al bancone, la fila al bar si dileguò, lasciandomi campo libero. La band iniziò a suonare senza indugi. Il loro era un punk rock intenso e pesante, degno dei migliori Minor Threat, dei Clash o dei Joy Division dei tempi di Closer. La cadenza, la parlata stretta e il modo di mangiarsi le parole del cantante non mi erano familiari. Probabilmente era di qualche zona del Veneto o giù di lì.

    Il bar era troppo lontano dal palco per vederli ma il loro sound mi intrigava, invogliandomi a sbrigarmi. Mi feci largo tra la folla carica di lattine, erano tutti presi dal concerto per fare caso a me. Il martellare incessante della batteria permeava ogni atomo, mandandolo in risonanza. Quello non era rumore ma poesia sublimata in musica. Soltanto un’altra volta mi era capitato di provare sensazioni simili. Avvicinandomi, cercai di rubare uno scorcio del palco negli spiragli tra le teste del pubblico, schivando le mani sollevate ad accompagnare la musica.

    Una strana e irrazionale frenesia si impossessò di me. Arrivata alle

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