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101 storie su Torino che non ti hanno mai raccontato
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E-book338 pagine3 ore

101 storie su Torino che non ti hanno mai raccontato

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101 storie per raccontare l’anima più nascosta di Torino, per scoprire gli aspetti più affascinanti e meno noti di una città che l’immaginario collettivo ancora associa alla severa tradizione sabauda o al sito industriale, cupo e incolore. Torino è invece una città solare e piena di vita, che nella sua rigida pianta ortogonale nasconde una miriade di aneddoti e vicende sorprendenti. Di pagina in pagina, vi immergerete nelle atmosfere suggestive di questo luogo magico e incontrerete i personaggi illustri e le persone comuni che hanno contribuito a scrivere la sua grande storia. Dal re “grissinomane” Carlo Felice al gazometro del Caffè Gianotti, dal portone del diavolo al castello cinquecentesco di Mirafiori, dal ballo delle Caterinette al mistero di Nostradamus, al giallo storico della Sindone. Un florilegio di racconti curiosi e appassionanti: lo specchio dei mille mondi che la città racchiude in sé.

C’è un'altra città nella città...

Tra le storie su Torino che non ti hanno mai raccontato:

La magnifica ossessione dell’ordine

Scandalo a corte

Il mistero del cuore scomparso

Pellerossa sotto la Mole

Si fa presto a dire bogianen

La casa del bambino urlante

Natale meccanico

Non solo Sindone!

Il ballo delle Caterinette

Nel più torinese dei bicchieri, suoni, profumi e sapori di mondi lontani

Il fantasma di Palazzo Barolo

Tori, tori e ancora tori…

Il mio regno per un grissino!

Anime di fango

Voci e misteri dallo spazio

Sotto sotto, c’è dell’altro…

Cristina Fantuzzi

nata nel 1967, vive e lavora a Torino. È autrice di testi scolastici e divulgativi di ambito storico-artistico e svolge attività di ufficio stampa e organizzazione di eventi culturali.

Elena Rolla

nata nel 1967, vive a Torino, dove traduce dallo spagnolo narrativa per adulti e per ragazzi.
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2015
ISBN9788854183087
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    101 storie su Torino che non ti hanno mai raccontato - Fantuzzi Cristina

       1.

    ALLE RADICI DELLA STORIA

    Sul palcoscenico della Storia, Torino entra in punta di piedi, una manciata di lustri prima di Cristo. È citata negli scritti latini col nome di Iulia Augusta Taurinorum, ma di sfuggita: come se la colonia, fondata da Augusto, non offrisse ai recensori romani né avvenimenti né personaggi che valesse la pena raccontare. Persino l’essenziale è lacunoso: le fonti non riportano la data esatta di fondazione (27 a.C. circa), non precisano il numero e la provenienza dei coloni, non spiegano in modo chiaro perché Augusto abbia scelto quel nome triplice. E l’enigma ancora fa discutere.

    Che al centro di Iulia Augusta Taurinorum rifulga il fondatore, è palese; ma qual è il senso ultimo dei due nomi laterali? Il riferimento a Giulio Cesare, in quel Iulia, può essere inteso in due modi, entrambi plausibili. Come attributo auto celebrativo, apposto da Augusto per sottolineare il legame con l’illustre predecessore e padre adottivo. O come precisazione sul luogo: dare a Cesare quel che è di Cesare, sembra aver pensato Augusto anteponendo quel nome al proprio, per rimarcare che la colonia sorgeva sui resti di un accampamento militare cesareo.

    Ma il vero arcano per gli studiosi moderni che tentano di ricomporre il puzzle delle origini della città è quel taurinorum. Con quell’aggiunta, l’antico nome di Torino suona grossomodo così: città di Augusto, già di Giulio, prima ancora dei Taurini. Ora, che di tutta l’area piemontese del Po occupata dai Taurini proprio quel sito ne ospitasse il centro principale, è un fatto indimostrabile. I riscontri storici sono esili: le fonti antiche mescolano leggenda e realtà, le tracce archeologiche risultano piuttosto evanescenti. Eppure, se Augusto si era sentito di perpetrarne la memoria nel toponimo della colonia, significa che ai suoi tempi quel fatto aveva un certo peso. E chissà che non sia rimasto a serpeggiare nell’inconscio delle genti locali: perché dei tre nomi romani solo uno ha attraversato indenne la storia arrivando fino a noi, taurinorum appunto, da cui Torino.

    A onor del vero, è possibile che a far prevalere quel nome sia stato il suo fascino intrinseco e senza tempo: perché evoca il toro, l’animale che per la sua forza l’uomo ha sempre ammirato, e quindi sacrificato (nei campi e sugli altari), ma anche molto celebrato, nel mito (minotauro), nello zodiaco, nella poesia classica, nella simbologia cristiana (l’evangelista Luca).

    E però, come un cane che si morde la coda, il toro riporta ai Taurini.

    Per molto tempo si è creduto che questi fossero le genti del toro, popolo tanto suggestionato dalla forza e dalla nobiltà dell’animale da averlo messo al centro del proprio mondo. E del proprio nome. Poi però si è scoperto che il vocabolo potrebbe avere poco a che fare col latino taurus: in altre lingue, come l’aramaico e forse il celtico, taur significa monte. Ed essendo i Taurini genti di origine ligure fortemente celtizzati, oggi prevale la tesi che il nome alludesse all’origine montanara. Dunque, tornando al taurinorum di Augusto, le genti dei monti sarebbero i primi abitanti di Torino, evidentemente scesi in pianura per espandere i propri domini.

    Come detto, non ci sono prove al riguardo e sullo stesso popolo taurino si sa molto poco. Certo è che nel 218 a.C., la resistenza opposta dai Taurini ad Annibale faceva scalpore. Tutte le genti dell’area cisalpina si erano schierate con i Cartaginesi in marcia contro Roma, ma non i Taurini, che temevano ripercussioni negli equilibri territoriali e nel controllo dei varchi alpini. Per le stesse ragioni, in quegli anni, combattevano gli Insubri (galli stanziati a Milano e tra i più agguerriti alleati di Annibale) e il rischio che questi approfittassero della situazione era enorme. Così, asserragliati nella loro roccaforte, i Taurini avevano cercato di tenere testa all’esercito punico, ignari forse che si trattava del migliore al mondo. All’inevitabile sconfitta, seguì la famigerata vendetta punica: della città taurina, rasa al suolo e data alle fiamme, non doveva restare traccia. E così fu. Dove si trovasse quella roccaforte non si è mai capito. Ma in molti sono convinti che si trattasse di Torino. Ed è innegabile che una passeggiata in città sembra confermarlo: quel reticolo così regolare delle strade e quei tori che sventolano sulle bandiere e animano le fontanelle la dicono lunga… nel cuore latino scorre sangue taurino!

       2.

    ALLE RADICI DELLE RADICI DELLA STORIA

    Mancando notizie certe sull’età preromana, il rebus come quando perché da chi sia stata fondata Torino è materia di molti racconti, sospesi tra mito e realtà.

    Il più affascinante disegna Torino, sulla carta geografica del mondo antico, come propaggine del Regno dei Faraoni; la colloca, sulla linea del tempo, sette secoli prima della fondazione di Roma; la riporta, nella variegata cultura greca, ai primi geografi come ai mitici abitanti dell’Olimpo e, nel mare magnum delle fonti medievali e moderne, agli scritti universali del Boccaccio come alla tradizione esoterica locale.

    Insomma, sostiene l’idea che Torino sia stata fondata circa 3500 anni fa dal principe egizio Iw Ra Danit; e la supporta con appigli storici rintracciati qua e là, a partire da insistenti indizi mitologici.

    La tradizione egizia tramanda le gesta del mitico faraone Iw Ra Danit, che risale il Nilo, attraversa il Mediterraneo, approda sulle coste liguri, scavalca gli Appennini e, alla vista della fertile pianura solcata dal grande fiume (che a lui, come al corposo seguito egizio, sa tanto di casa!), decide di sottomettere le rudi genti che vi abitano e di fondare una nuova città.

    Giunto all’orecchio dei Greci, il racconto si consolida e si colora: convince i geografi, che da Iw Ra Danit (nome che come tutti quelli egizi è parlante e vuol dire fiume sacro al dio sole Ra) chiamano Eridano l’odierno Po; e ispira la mitologica figura di Fetonte, figlio di Apollo (dio del Sole) destinato a fare una brutta fine proprio nel Po. Perché, dice il mito, Fetonte ha un chiodo fisso: emulare il padre, che ogni nuovo giorno sale sul carro d’oro trainato da quattro cavalli e traghetta il sole per il cielo. Dopo tante insistenze, Apollo cede: ma l’inesperto Fetonte perde presto il controllo delle redini, il Sole sfiora la Terra e Zeus, preoccupato per le sorti del mondo, è costretto a scagliare uno dei suoi fulmini. Inceneriti, carro e cavaliere precipitano nelle acque del fiume Eridano.

    A far quadrare i conti tra storia e leggenda ci pensa, nel Trecento, Boccaccio: nel libro settimo del Genealogia Deorum Gentilium, ricostruisce la figura mitica di Eridano-Fetonte e, citando antiche fonti oggi perdute, afferma che nel XV secolo a.C. il figlio del Sole Egizio (ogni faraone è, per definizione, figlio di Ra) fonda una nuova città, poi chiamata Torino, sulle sponde del fiume padano. E che quel fiume, prima di Po, portava il suo nome, perché egli era morto annegato tra le sue acque.

    Il tempo scorre e le prove delle radici egizie si accumulano.

    Una lapide con dedica alla dea Iside è stata rinvenuta durante gli scavi per la costruzione della Cittadella, riporta nel 1577 Filiberto Pigone, professore dell’Università di Torino e autore della prima monografia sulla storia della città.

    Gli antichi torinesi veneravano Iside e il Toro Api, accusa inorridito il vescovo Paolo Brizio nel suo trattato sulla Chiesa occidentale (1649).

    La Chiesa della Gran Madre sorge sui ruderi di un tempio egizio, assicurano gli esperti della Torino-magica, che interpretano la vicinanza al Po-Eridano e la dedica piuttosto strana (non alla Madonna, ma alla Gran Madre di Dio) come il filo della memoria, che lega il sito agli antenati egizi e a Iside, dea della maternità.

    Come siano andate davvero le cose, non è dato sapere. Certo è che, fatalità, la città ospita il museo egizio più importante al mondo, dopo quello del Cairo. Agli amanti dei voli pindarici la scelta: quell’esercito di statue, sfingi, stele e papiri ha preso la via di Torino per il gusto scritto nel DNA degli abitanti, o perché da qualche parte, nel sottosuolo, l’icona del Toro Api ha lanciato l’invito a ricongiungersi?

       3.

    LA MAGNIFICA OSSESSIONE DELL’ORDINE

    Se per i torinesi è la normalità e non vi prestano troppa attenzione, il colpo d’occhio ordinato, regolare, uniforme che Torino offre di sé suscita da sempre stupore e ammirazione nei visitatori. Bastano due passi nel centro storico e una vista dall’alto, dal Monte dei Cappuccini o dalla Mole Antonelliana, per subire il fascino di un aspetto così atipico per una città al terzo millennio di vita. Come se gli abitanti delle diverse epoche si fossero tramandati quell’idea di città, modificata via via per soddisfare esigenze politiche, economiche, sociali e culturali sempre nuove, ma senza strappi traumatici.

    Il reticolo perpendicolare delle strade, ad esempio, è un’idea dei coloni romani che i torinesi hanno conservato nel nucleo originario e imitato ogni volta che la città aveva bisogno di espandersi.

    La cinta muraria di Augusta Taurinorum correva grossomodo sulle attuali vie Giardini Reali-Accademia delle Scienze a est; Santa Teresa-Cernaia a sud; Siccardi-Consolata a ovest; Giulio-Giardini Reali a nord: ovvero delimitava una superficie quadrata e tagliata a scacchiera, con vie dritte e ortogonali fra loro che definivano la successione regolare degli isolati. Insomma, l’impianto che i Romani replicavano in ogni castrum (colonia militare), ma che qui è rimasto intatto per più di 1500 anni. Finché la Torino capitale di Savoia si rimodellò per questioni di prestigio, sovrappopolazione, difesa: l’antica città murata romana cambiò allora forma e dimensione con la costruzione della Cittadella (1566) e dei nuovi quartieri verso sud (1619) est (1673) e ovest (1702-20), ma non l’assetto delle vie che, vecchie e nuove, continuavano a disegnare la solita scacchiera. E così via fino a noi: come camminando sulle orme dei fondatori, tuttora in centro si procede solo per rettifili, parallele, svolte di novanta gradi. Di vicoli tortuosi non se ne parla, di tagli diagonali (salvo rarissime eccezioni come via Pietro Micca e via Andrea Doria) nemmeno.

    A rafforzare il senso di ordine che aleggia sulla città, contribuiscono l’allineamento degli edifici e l’armonizzazione di misure, forme, colori pianificati in modo quasi maniacale in età barocca e mai più abbandonati.

    Tra Sei e Settecento, Torino necessitava di un restyling capace di riflettere le ambizioni e magnificare i traguardi di Casa Savoia, come il titolo regio (acquisito nel 1713) che legittimava il piccolo stato a sedere al tavolo dei potenti nell’Europa delle monarchie assolute.

    L’idea non era tanto quella di stupire con singoli episodi edilizi (come per esempio, la Versailles del Re Sole), quanto ammodernare e abbellire tutta la città secondo un progetto unico che i regnanti e gli architetti di corte si passavano di generazione in generazione. Insomma, il tessuto edilizio doveva farsi specchio della corte ben organizzata e decisa, con edifici vie e piazze che rispondevano al diktat di eleganza sabauda: bandito ogni eccesso, tutto doveva esprimere ordine, grandiosità misurata (che c’è ma non compare), pulizia visiva (con blocchi di edifici simili se non uguali, decorazioni discrete, modelli replicati nel tempo e nello spazio). Gli esempi in tal senso non si contano e, se i più eclatanti sono approfonditi altrove (portici, infernotti), piace qui ricordarne qualcuno ripreso qua e là.

    Per la mania dell’ordine di cui sopra, dal Seicento una regola ferrea imponeva di standardizzare gli edifici vecchi e nuovi del centro, che dovevano avere altezza fissa di 21 metri e facciate uniformate: e allora via ai cantieri, qui per abbassare e rimodellare le case a torre della Torino medievale, là per edificare ex novo nascondendo eventuali pendenze naturali del terreno. Come via Po che, sebbene non si direbbe, è inclinata quanto la vicina via dei Giardini Reali ma dove, grazie all’astuto gioco di cantine e fondamenta a crescere, la parte visibile degli edifici risulta uniforme, i cornicioni sono perfettamente allineati e le facciate di forma e colore uguali sfilano continue e si raccordano a quelle di piazza Castello e piazza Vittorio.

    Insomma, se il centro città incanta è perché, come diceva quel viaggiatore francese del Settecento, «tutte le strade di Torino sono di una regolarità e di un allineamento [tali da creare] lo spettacolo più bello che si possa ammirare» (Joseph-Jérôme de Lalande, Voyage d’un françois en Italie fait dans les années 1765 et 1766).

       4.

    VAGANDO TRA LE PIETRE DELLA «CASA DEI SECOLI»

    C’era una volta una Porta, che poi è diventata un Castello, che poi è diventato una Reggia, che poi è diventata il Senato, che poi è diventato un Museo: il Palazzo Madama di Torino.

    Come un gigante delle fiabe che da sempre abita il cuore della città (piazza Castello), l’edificio racchiude 2000 anni di storia torinese, scritta nelle cicatrici che le trasformazioni d’uso hanno lasciato sul suo corpo. E che spiazzano, ad esempio, chi vi passeggia intorno per la prima volta: dopo tre lati di mura piene che, per i mattoni scuri, le rade finestrelle, i robusti torrioni, somigliano tanto a una fortezza inespugnabile, ecco che svoltato l’angolo la facciata in pietra chiara è un tripudio di leggerezza ed eleganza, con le grandi aperture ad arco dell’ingresso e dei finestroni del piano nobile che riportano al tempo in cui incorniciavano le serate di gala della corte, e il popolo, dalla piazza, ammirava lo sfavillio delle luci e dei costumi. Sì, Palazzo Madama è un monumento decisamente fluido, intriso di tutta la vita della città, e dalle cui pietre stratificate rimbalza l’eco di idee, conquiste, gioie e fatiche dei torinesi di ogni tempo.

    All’inizio, nell’Augusta Taurinorum, furono gli ordini dei soldati e il rumore di passi a risuonare tra quei mattoni: l’edificio era una delle quattro porte di entrata e uscita dalla città, e dalle sue due torri (ancora esistenti) le guardie intimavano l’alt ai pedoni e ai carri che attraversavano le arcate per mettersi in viaggio o rientrare dalla strada che portava a Roma.

    Poi, nel tardo Medioevo, fu la volta delle musiche, dei profumi dei banchetti, degli squilli di tromba e del via vai di messaggeri: la porta romana, già inglobata in un fortilizio difensivo, era diventata la residenza degli Acaja, i signori che guidavano Torino da quel centralissimo castello a quattro torri, con cortile interno porticato e confortevoli appartamenti al piano superiore.

    Passato ai Savoia per l’estinzione del ramo Acaja, per un po’ il castello giacque sonnecchiante, abitato solo per brevi periodi quando dalla capitale Chambéry arrivavano i duchi sabaudi per feste e cerimonie ufficiali.

    Ma poi, con Torino capitale (1563) e le Madame Reali, tutto cambiò di nuovo.

    Per sottrarsi agli intrighi della corte ostile, Maria Cristina di Francia, vedova di Vittorio Amedeo I e reggente per il figlio minorenne, nel 1637 si trasferì ufficialmente lì e altrettanto fece settant’anni dopo l’altra Madama Reale reggente, Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours. Così l’edificio fu chiamato a nuova vita, e che vita! Le feste e i fasti del piccolo ma ambizioso stato sabaudo esplodevano negli ambienti vecchi e nuovi di quello che da tutti ormai veniva chiamato Palazzo Madama: nel salone dei ricevimenti al piano nobile, nel cortile medievale ora coperto, nella Galleria Grande che correva fino al margine della piazza dov’erano le Segreterie di corte (lato Palazzo Reale). Una rinascita che pareva inarrestabile.

    Nel 1713 Casa Savoia conquistò l’agognato titolo regio e Vittorio Amedeo II, per magnificare l’evento con i segni visibili e durevoli dell’architettura, si affidò al genio di Filippo Juvarra. Torino cambiava volto e così Palazzo Madama, che con i colpi di teatro juvarriani diventava una reggia-gioiello, degna di accogliere gli ospiti più illustri. E di impressionare i viaggiatori stranieri, soprattutto per l’impareggiabile scalone a due rampe che in tanti definivano uno dei più belli al mondo.

    Poi arrivarono i rivoluzionari francesi e, come vedremo in un altro capitolo, Palazzo Madama scampò per un pelo l’abbattimento.

    Mutilato ma salvo, tornò poi ai Savoia che smisero per sempre di abitarlo e lo avviarono a un uso pubblico. Era dai tempi della porta romana che i cittadini comuni non calpestavano quel suolo! Chissà se lo sapevano i torinesi che nel 1832 entravano a Palazzo Madama per vedere la Regia Pinacoteca, voluta da Carlo Alberto e allestita al piano nobile.

    Ma certo sapevano che era qualcosa di molto speciale poter vedere, nel 1848, gli onorevoli salire lo scalone del palazzo e accedere all’aula del Senato Subalpino: era nata la monarchia-costituzionale, anticamera della democrazia!

    Con l’Unità d’Italia e il successivo trasferimento della capitale a Firenze, nel 1864 gli spazi del Senato si liberarono e così quelli della Pinacoteca spostata all’Accademia delle Scienze: e a Palazzo Madama successe l’inenarrabile.

    Uffici ed enti cittadini facevano a gara per stabilirsi nella sede prestigiosa che, frazionata, finiva per accogliere di tutto un po’: persino l’Osservatorio astronomico, con tanto di cupola posata tra le statue e i vasi della balaustra della facciata juvarriana.

    A riportare un po’ di ordine ci volle la campagna di studio e restauro di Alfredo d’Andrade, che negli anni 1884-1886 recuperò diverse parti medievali e romane dell’edificio, svelandone ai torinesi la straordinaria stratificazione.

    A poco a poco il palazzo si riappropriò dei suoi spazi e trovò la destinazione d’uso definitiva. Nel 1934 apriva i battenti il Museo Civico di Arte Antica, ed è in questa veste che oggi accoglie i visitatori, facendoli viaggiare in un batter d’occhio dal futuro delle schermate multimediali al passato remoto delle fondamenta romane. Tutto torna, direbbe Gozzano se potesse ancora passeggiare nell’amata

    casa dei secoli che è il Palazzo Madama. Nessun edificio racchiude tanta somma di tempo, di storia, di poesia nella sua decrepitudine varia. Il Colosseo, il Palazzo dei Dogi, tutte le moli ben più illustri e celebrate, ricordano il fulgore di qualche secolo; poi è l’ombra buia dove tutto precipita. Il Palazzo Madama è come una sintesi di pietra di tutto il passato torinese […] Per questo io lo prediligo fra tutti.

    L’altare del passato, 1918

    Palazzo Madama

       5.

    IL MIO REGNO PER UN GRISSINO!

    I grissini di Torino, si sa, sono speciali e famosi in tutto il mondo. È così da sempre: grazie alle fonti incerte ma affascinanti dei pettegolezzi storici, è noto che il passato è costellato di illustri grissinomani, fior di teste coronate soggiogate da Sua Bontà il Grissino.

    Re Carlo Felice, pur di appagare il palato, diventava screanzato: in barba all’etichetta, sgranocchiava di continuo e ovunque. Persino tra i velluti della bomboniera cittadina, il Teatro Regio, incurante del disturbo che infliggeva ai nobili vicini di palco e delle voci imbarazzanti che giravano sul suo conto.

    Napoleone, ritenendola delizia d’obbligo in tavola, non badava a spese e ogni settimana mandava i corrieri imperiali a Torino a far provvista, così da poter consumare grissini sempre freschi e fragranti.

    Madama Felicita, figlia di Carlo Emanuele III, era talmente ghiotta e fiera della specialità sabauda da posare per un ritratto con quel trofeo in mano: da cui il soprannome di principessa del grissino.

    Il Re Sole, l’uomo più potente nell’Europa del suo tempo, si toglieva tanto di cappello davanti a un cestino di petits bâtons de Turin. Per poi inveire furioso contro i cuochi di Versailles, incapaci di riprodurli.

    Ma la vera star della sfilata blasonata è Vittorio Amedeo II, protagonista di aneddoti leggendari e surreali che raccontano di una passione nata nell’infanzia, consumata per il resto della vita e ribadita post-mortem dal suo fantasma! Sì, a Torino circolano tante voci sul destino incrociato di quel Savoia e quella specialità autoctona: a cominciare dalla presunta invenzione del grissino come medicinale creato ad hoc per il piccolo duca.

    Inappetente dalla nascita, Vittorio Amedeo era afflitto da gastroenteriti ricorrenti e acute. Il medico di corte, don Baldo Pecchi di Lanzo, le aveva tentate tutte, persino l’esposizione alla Sindone, ma invano. Poi, una mattina del 1668, l’illuminazione: la causa e la cura erano a portata di mano, nelle cucine di palazzo. Raggiunto Antonio Brunero, anch’egli di Lanzo e addetto ai forni, ordinò di eliminare dai pasti del piccolo la causa del malessere, il pane pesante, poco lievitato e poco cotto. E di impastare la cura.

    Quella sera stessa, Vittorio Amedeo trovò accanto al piatto un cestino di croccanti bastoncini di pane, lunghi, sottili, leggeri, privi di mollica, ben lievitati

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