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Raìkoasthrom: I Cavalieri delle Lacrime: Il tempo di Luna e delle Armi
Raìkoasthrom: I Cavalieri delle Lacrime: Il tempo di Luna e delle Armi
Raìkoasthrom: I Cavalieri delle Lacrime: Il tempo di Luna e delle Armi
E-book375 pagine5 ore

Raìkoasthrom: I Cavalieri delle Lacrime: Il tempo di Luna e delle Armi

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Info su questo ebook

Questa è la storia dei Cavalieri, Creature immortali di cui cantavano le leggende e che i miti chiamavano Raìkoasthrom, i Cavalieri delle Lacrime. Uomini alti e possenti che vivevano nel mondo di Arèin e che solcavano i boschi della Terra di Èvon. I canti popolari narravano della loro discesa dalle Terre Bianche dell’Immenso Nord, il loro regno lasciato dopo il tempo della Grande Pace.
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2021
ISBN9788833467955
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    Anteprima del libro

    Raìkoasthrom - Viola Jo Nera

    fine

    Prologo

    Questa è la storia dei Cavalieri, Creature immortali di cui cantavano le leggende e che i miti chiamavano Raìkoasthrom, i Cavalieri delle Lacrime.

    Uomini alti e possenti che vivevano nel mondo di Arèin e che solcavano i boschi della Terra di Èvon.

    I canti popolari narravano della loro discesa dalle Terre Bianche dell’Immenso Nord, il loro regno lasciato dopo il tempo della Grande Pace.

    Il Nord rimase deserto, abbandonato ai ghiacci che lo ricoprivano spietati. Dopo la caduta del re quelle terre vennero dimenticate. Nessuno si spingeva lì da oltre trecento anni. Ma i cantastorie, nelle locande e nelle piazze, narravano le lotte, le guerre, le rivolte e la caduta del grande re Ondalk, sovrano giusto e amato, che un giorno impazzì perché guardò nell’occhio scuro del Dragone Nero e divenne il Draikin, il Drago delle Lacrime, l’Albino. Da lì il Nord conobbe fame e miseria e la stirpe regale si estinse. Del suo primogenito si persero le tracce.

    Si narrava che fosse fuggito, pavido, vigliacco, oltre il mare, navigando l’Oceano di Perla con pochi uomini, per poi finire la sua umiliante fuga in una ancora più umiliante morte. Rapito e ucciso dai Pirati Maledetti, i quali, dopo lunghe torture, lo diedero in pasto ai Lupi Marini. Al tempo di questa storia nessuno ricordava più il suo nome. Era stato bandito da ogni canto tramandato ai posteri. Marchiato a fuoco, nelle leggende di Èvon, come vile codardo.

    L’amata sposa di Ondalk, invece, regina buona e caritatevole, fu rapita e resa immortale da una stregoneria e ora giaceva nel letto del tremendo Uztok, nella fortezza nera di Tanas. Prigioniera. Le storie raccontavano della sua bellezza. Alta, coi capelli colore dell’ebano, gli occhi taglienti tinti di cobalto e la pelle colore dell’ambra. Veniva dalle Terre Azzurre. Il re l’aveva voluta in sposa quando aveva stretto l’alleanza con il Regno delle Rose. L’allora sovrano aveva concesso la sua unica figlia, lieta anch’ella di sposare un uomo così bello e buono, per sancire quel patto di pace e collaborazione che avrebbe unito per sempre, sotto un sacro vincolo, tutte le Terre di Èvon.

    Partirono dalla Fortezza delle Rose, accompagnati dal corteo di uomini al comando di re Ondalk, una mattina dal cielo sereno, inondati da petali di rose pallide lanciati dal popolo. Era il matrimonio che tutti aspettavano. Era il giorno della gioia, in cui si celebrava la pace. Ma come tutte le ere di pace non durò. Il male si insinuò con astuzia, l’invidia ebbe la meglio. E il Nord cadde. Così cadde la pace.

    E gli uomini più forti e astuti varcarono i confini, defluendo liberamente su tutte le regioni di Èvon e seguendo il loro re divenuto bestia. Questi li inondò con le sue lacrime ed essi divennero immortali e del Draikin ripresero la bestialità. E mentre lui si assopiva al centro del Deserto essi lo adorarono, lasciando che la loro regina rimanesse nella Fortezza Nera e fosse ogni giorno avvelenata da Uztok, il quale la corruppe e la trasformò nella la più cattiva delle sovrane mai esistite, la maledetta e immortale Elìem. Mentre loro presero a girare per le selve rapendo fanciulle.

    I loro destrieri erano i Raìkos, i giganti cavalli delle Terre Bianche, con occhi che scintillavano come l’inferno, alti al garrese più di due metri, dalla stazza possente e dal crine lucido. I muscoli solcavano la pelle, delineandone tutta la struttura imponente. I Raìkos seguivano solo i loro padroni, che li usavano per incutere terrore.

    Pochi uomini avevano incontrato i Raìkoasthrom sul loro cammino e quei pochi erano tornati terrorizzati e grati di aver scampato le loro ire e le loro spade taglienti. Di altri nessuno sapeva nulla, perché uccisi dalle enormi zampe di quei cavalli maledetti.

    Così le popolazioni di Èvon diedero un nome al re divenuto il più grande drago mai esistito, esso si tramandò nelle leggende come il Draikin, Drago Lacrimoso, o semplicemente l’Albino, padre di quegli uomini immortali di cui il popolo aveva paura e che erano come ombre tra i grandi boschi. Fantasmi nella mente di chiunque solcasse le prime file di alberi, spettri immortali che si aggiravano nel buio. Pochi non temevano, forse perché miscredenti, o forse troppo credenti. Tra questi pochi c’era una donna, il cui nome rievocava l’astro notturno che molti in quel tempo pregavano, Luna. Ella viveva in un villaggio di nome Nesl, nelle Terre Verdi della regione di Nocturnia ed era una fervida frequentatrice del bosco che, da poco dietro la sua casa, si estendeva su tutto il monte. Quel bosco era solo un piccolissimo pezzo della Foresta di Diamante. Ella vi camminava esplorando, col suo asinello Occhiobruno e la sua docile pecorella Nuvola. Raccoglieva fiori e cantava al vento, che lì aveva un dolce suono di campanelli. Quella calma la portava nella pace, lontana dalla cattiveria degli abitanti di Nesl, i quali la additavano come l’ebete del villaggio, solo perché orfana e senza una madre che la difendesse. Sua zia Terpinia era ben lungi dal macchiare il suo buon nome per smentire, così le malelingue erano libere di circolare. E lei, da parte sua, era libera di circolare nei boschi.

    1

    Era una mattina di primavera. La rugiada della notte era disseminata qua e là, sulle foglie verdi dell’erba, sulle chiome degli alberi sparsi per il villaggio di Nesl. Piccoli ponti attraversavano le vie, passando da una sponda all’altra del fiume che lì si snodava in tanti rami, dopo essere giunto dal monte Rus, percorrendo il fitto bosco che lo copriva, la Foresta di Diamante, per poi gettarsi nel lago di Bellikon, su cui sorgeva il centro abitato.

    Nesl era una cittadina che viveva di pesca e commercio. Al porto arrivavano le imbarcazioni dei centri abitati delle altre sponde del lago. Molti abitanti erano commercianti di stoffe, altri pescatori. Alcuni di loro si muovevano per i vicoli con le loro barchette, le quali avevano la poppa alta con un ricciolo all’estremità e che loro chiamavano Surme. Erano tipiche della zona. Trasportavano da un lato all’altro della città oli, farina, stoffe e pescato, dopo averli prelevati dai vascelli attraccati al porto.

    La zia di Luna, Terpinia, lavorava le stoffe. Era una sarta. Spesso però si dilettava anche con lavori a maglia, a seconda delle richieste. Vendeva i suoi lavori agli abitanti del posto, ma non era ricca, aveva molta concorrenza. Così arrancava. Luna la aiutava con le commissioni. Era lei che portava abiti, mantelli, coperte ai clienti. Col suo asinello dal manto rado color del fumo e da un occhio contornato da una grossa macchia nera circolare, girava quasi ogni giorno per le vie di Nesl, attraversando ponti, incontrando gente. Tutti la conoscevano. Molti gentiluomini la salutavano alzando il cappello, come era in uso fare in quei posti quando si incontrava una signora. Altre gentildonne le sorridevano. Altri si giravano, altri ancora sorridevano sotto i baffi facendo gestacci. Lei era l’orfana, l’abbandonata. L’ingenua ragazza che andava vestita come voleva. Dalla zia si era fatta cucire - con grande riluttanza da parte di lei, la quale ormai si era arresa all’evidenza, ovvero che sua nipote doveva essere considerata non normale - un paio di pantaloni. Sono più comodi, zia!, aveva insistito Luna. Così i pantaloni grigi erano arrivati. Poi dal calzolaio si era fatta fare due stivali col tacco basso e alti fin su al polpaccio, anche loro color fumo. Altra bizzarria che la zia aveva concesso perché ormai arresa all’evidenza. Altre donne portavano i pantaloni a Nels, anche gli stivali, ma erano donne che lavoravano al porto, o nei campi. Terpinia avrebbe voluto un’altra storia per la nipote, se non altro per il proprio buon nome. Ma non c’era nulla da fare. Sapeva che Luna era considerata ingenua, quasi una pazza nel paese. E che a quasi trent’anni non aveva avuto alcuna proposta di matrimonio. I ragazzi la guardavano, perché bella, ma non la volevano. Nonostante i capelli lunghi e neri, sempre lucidi e puliti, gli occhioni color del fumo, la bella presenza e il bel portamento, nessuno aveva avanzato proposte. E Terpinia, da una parte, seppur aveva dovuto rinunciare al buon nome che derivava da un matrimonio, aveva visto più lungo, ovvero che la sua vecchiaia almeno non sarebbe stata in solitudine e la nipote avrebbe avuto cura di lei. Sì, perché se ne dicesse anche male, ma lei conosceva il cuore buono di Luna. E forse, proprio per quella bontà veniva additata, calunniata, sbeffeggiata.

    Di tutto questo Luna sembrava non curarsene. Andava in giro con la testa bassa, coi lunghi capelli neri a incorniciarle il volto e che lei voleva portare sciolti, nonostante il buon senso imponesse trecce, chignon, o qualsiasi pettinatura fuorché capelli selvaggiamente al vento. Al suo fianco c’era sempre l’asinello, che lei aveva chiamato Occhiobruno. Sulla groppa portava i vestiti, le coperte, le stoffe che doveva consegnare ai vari clienti della zia. Quella primavera era cominciata bene. Terpinia era riuscita a mettere mano su delle stoffe provenienti dal Reddon, lucide e belle e molte donne del villaggio avevano chiesto vestiti e copriletti per l’estate che si avvicinava. Anche la moglie dell’oste aveva chiesto un vestito color porpora. La zia non si era sprecata e, per la sua abituale e fedele cliente, aveva cucito un abito bellissimo, lungo fino alle caviglie, stretto in vita, con le maniche a metà braccio e il corsetto dello stesso colore. ’Sembrerà una ciliegia’, aveva ironizzato Luna tra sé quando aveva visto l’abito. Che sicuramente era bello e un ottimo lavoro di sartoria, ma la moglie dell’oste era assai in carne e bassa.

    Così zia Terpinia, soddisfatta e orgogliosa della sua opera, l’aveva mandata in paese per consegnare vari lavori, tra cui il vestito color porpora.

    Ora Luna si aggirava per i vicoli, fermandosi alle case dei vari clienti che, tutti soddisfatti, consegnavano alla donna i denari d’argento. Lei li riponeva in un sacchetto che aveva legato alla cintura dei pantaloni. Poi proseguiva per il viaggio.

    Quando arrivò di fronte la cattedrale di San Ippolito, che si trovava al centro di Nesl, si volle fermare per salutare i frati. Quegli uomini di fede le avevano dato l’istruzione. Zia Terpinia aveva voluto che lei studiasse, così, non potendole pagare una scuola decente, l’aveva mandata dai frati. Lì si imparava correttamente la lingua comune, si imparava la storia della Terra di Èvon, si imparava a leggere, a pregare il Cielo e le buone maniere. Seppur lei non seguiva le buone maniere nel vestirsi e nel pettinarsi, seguiva comunque quelle della gentilezza, così decise che i frati che l’avevano cresciuta nel sapere, dovevano esseri salutati. Entrò nel cortile che si trovava sul lato nord dell’edificio, incontrò padre Rafael. Il frate la accolse con gioia, stringendole le mani nelle sue. Si trattenne qualche ora, fino a quando calò la sera. Poi si congedò e si incamminò verso l’ultima tappa, la Locanda del Lago.

    A lei non piaceva andare lì, era sempre piena di quei ragazzi che ridacchiavano e le facevano linguacce. Il posto era un edificio di mattoni color ruggine, di pianta rettangolare. Al piano superiore correva una lunga balconata, sulla quale si affacciavano le camere affittate dai viandanti e dai pescatori provenienti dalle altre zone intorno al lago. Un arco, proprio sotto la balconata, era l’entrata della locanda e aveva appeso al suo centro, con due catene arrugginite dal tempo e dall’umidità, un cartello che ne recava il nome inciso col fuoco. Ad ogni piccolo alito di vento il cartello dondolava, emettendo un rumore sinistro. Luna rabbrividiva ogni volta.

    Il locale dava quasi sul lago, era sito vicino al porto, quindi era sempre pieno di gente di ogni tipo. Anche molte donne vi facevano capolino. Tutti attirati dalla cortesia dell’oste Riuk, di sua moglie Rosmarina e dei suoi due figli, i gemelli Ariel e Tres. Una femmina e un maschio. Tutti e due dai capelli rossi come la madre, della stessa corporatura esile del padre e della stessa altezza, circa un metro e settantacinque. Comunque due bei giovani. Ma soprattutto i clienti erano attirati lì dalla Brendal, una birra scura, che l’oste Riuk produceva direttamente nei suoi birrifici in cui avveniva il brassaggio. Era talmente buona, dicevano, che ne aveva fatto un commercio ben oltre Nels. Aveva tirato su una piccola azienda, con la quale esportava la sua birra in tutta la Terra di Èvon. Per questo zia Terpinia teneva tanto alla sua cliente, perché ricca.

    Luna attraversò il ponte che portava alla Locanda. Il fiume lì si divideva in due rami, che circondavano un lembo di terra formando un’isola su cui si ergeva la Locanda del Lago. Più in là alcune barche erano ormeggiate e fluttuavano lente sull’acqua, sbattendo ogni tanto fra loro. Alcuni uomini erano seduti su delle casse di legno, con delle lanterne accese vicine, giocando a carte e bevendo birra. Lei entrò oltrepassando il grande arco in pietra, spinse la porta di legno e fu colta dal calore, l’odore umano, una puzza di fumo e un vociare chiassoso. Aveva tra le mani il pacco in cui era ripiegata l’opera della zia. Si fece spazio tra i clienti. Molti erano in piedi al bancone, altri seduti ai tavoli sparsi.

    Luna, si sentì chiamare. Riconobbe la voce di Jerg e non si girò. Proseguì dritto verso la fine del bancone.

    Signor Riuk, ho la consegna per sua moglie, gridò al padrone della locanda che si era sporto in avanti per riuscire a sentirla in quel caos. Lui fece cenno di sì col capo e le indicò la piccola sala che si trovava sul retro. Poi entrò nella porta che stava al di là del bancone e andò a chiamare la moglie. A servire erano rimasti i gemelli. Ariel aveva i suoi folti capelli ramati legati in una coda, dalla quale scendevano due ciocche che le incorniciavano il volto. Si muoveva svelta avanti e indietro, muovendo fanaticamente la testa per far risaltare la sua bellissima chioma. I suoi occhi verdi erano vigili sui clienti, le sue mani leste nel servire birra.

    Luna si diresse sul retro, dove un altro arco separava la sala centrale dalla piccola saletta. Entrò e il chiasso si fece più lontano. Si mise seduta al tavolo rettangolare che si trovava proprio sotto la finestra di fronte l’arco. I vetri erano colorati di rosso, giallo, blu, con immagini che rappresentavano una scena di pesca. La luce che filtrava dall’esterno, per via dei colori, era poca. Accese la lampada ad olio che si trovava al centro del tavolo. Un chiarore illuminò la stanza. Capì di non essere sola: in un angolo, alla sinistra della porta, seduto ad un tavolino, c’era un uomo. Era una figura scura, nera. Come un’ombra. Aveva la cappa del mantello abbassata sul volto, le gambe possenti e lunghe fasciate da pantaloni neri, o verde scuro, era impossibile dirlo data la poca luce. Respirava. ’Quindi è vivo’, pensò Luna, che per un istante aveva avuto il dubbio che fosse una statua. Mentre lo osservava, lì, fermo e immobile, vedeva le sue spalle alzarsi e abbassarsi leggermente. Era un uomo possente, lo si vedeva. Poi la porta si aprì ed entrò lesta Rosmarina, insieme al vociare proveniente dalla sala. Aveva dipinto sul volto un sorriso e le mani giunte. Non fece neanche caso all’ospite.

    Oh cara, finalmente! - esclamò in estasi. Luna sorrise e si alzò porgendole il pacco. Oh cara, tua zia ha fatto in fretta! Che donna onesta e di parola! Sai la stoffa era pregiata e io solo delle sue abili mani mi fido!. Mentre Rosmarina parlava Luna teneva la coda dell’occhio puntata sullo sconosciuto, il quale rimaneva lì immobile. Avrebbe voluto chiedere sottovoce chi fosse, ma quel sottovoce non sarebbe rimasto tale con Rosmarina e lei avrebbe fatto la figura della pettegola.

    Rosmarina allungò la mano coi soldi e la ragazza li ripose dentro il sacchetto assicurato alla vita. Quando la moglie dell’oste si congedò, Luna la seguì e passando vicino allo sconosciuto lo guardò, ma lui continuò a stare col capo chino, nell’ombra.

    Passando per la sala, vide seduti a un tavolo i ragazzi che le facevano continuamente linguacce.

    Oh Luna! Esclamò Jerg con voce in falsetto. Che fai? Fai finta di non sentire?, poi sporse in avanti le labbra, simulando un bacio e cominciò a passarsi le mani sul petto, mordendosi il labbro inferiore. Oh sì Luna, vieni qui, facciamo un bambino, baciami. Gli altri ridevano. Al tavolo, in cui entravano sei persone, tre da un lato e tre dall’altro, erano sedute anche due donne. Una era Anastasia, la bella del villaggio, dai capelli biondi raccolti in una mezza coda fermata da un vistoso nastro di velluto blu, coi boccoli che ricadevano liberi sulle spalle. Anche il corsetto era blu, con sotto una camicia bianca. L’altra donna era Brunel, che, come diceva lo stesso nome, aveva capelli bruni, ricci e insipidi, che lei portava sempre legati in uno chignon. Ridevano ai versi di Jerg che ora si stava passando le mani tra i ricci castani, emettendo languidi suoni. Mentre avveniva quella pietosa scena, Luna vide lo straniero fendere la calca della taverna a grandi falcate, era altissimo e svelto, con delle spalle larghe e imponenti. Avanzò schivando gli uomini e le donne che parlavano in piedi coi boccali ricolmi tra le mani. Alcuni lo notavano e si scansavano timorosi, Un Cavaliere Mormoravano. Altri, data la sbornia, continuavano a guardare le dame di fronte con occhi languidi. L’uomo prese l’uscita e sparì, mentre un mulinello di vento entrava all’interno della locanda. Luna accelerò il passo per raggiungerlo, ma si sentì tirare il braccio destro.

    Ehi, dove vai? Non ci fai compagnia? Era Ber, uno dei ragazzi seduti al tavolo. Un ragazzo sulla trentina, magro e alto come un chiodo, coi capelli castani che si alzavano sulla nuca. Due sopracciglia spesse e vicine, le guance scavale e gli occhi rotondi di colore marrone scuro. Era brutto. Ma come molti brutti frustrati, invece di scegliere almeno la bellezza interiore, aveva scelto la bruttezza anche interiore.

    Luna si divincolò. Lasciami carogna Grignò tra i denti.

    Il giovane strinse ancora di più la presa intorno al suo braccio, facendole male. Si sporse in avanti dalla panca, tirandola a sé, tirò fuori le labbra, come a volerle dare un bacio. Il cuore di Luna mancò un battito. Nooooo. Gridò e con tutta la forza che aveva si ritirò dritta, svincolandosi.

    Tutti i presenti si girarono.

    Ehi voi laggiù, basta con queste scene! Gridò l’oste da dietro il bancone.

    Luna corse verso l’uscita lasciandosi alle spalle le grasse risa dei giovani.

    Andò nella piccola scuderia dietro la locanda, dove gli ospiti tenevano i cavalli e slegò Occhiobruno. L’aria fresca del lago si faceva sentire, la temperatura era scesa di molti gradi. Erano le tipiche escursioni termiche di inizio primavera. Così tirò fuori dalla bisaccia dell’asinello la sua giacca, anch’essa cucita su sua direttiva dalla zia. Era di pelle di coniglio grigio. All’interno c’era la pelliccia, fuori la pelle non conciata e aveva un cappuccio largo della stessa fattura, col quale si teneva caldo il capo durante l’inverno e che le incorniciava il volto di morbidi peli grigi. Indossò la giacca, tenendola aperta. Le arrivava fin sotto i fianchi. Si incamminò per tornare a casa.

    Le vie di Nesl erano illuminate da lampade ad olio poste sui muri delle abitazioni e che gli abitanti pagavano con esose tasse ogni mese.

    La casa della zia Terpinia era fuori Nesl e dava sulla via Maestra che collegava tutti paesi delle Terre Verdi di Nocturnia. Una via assai trafficata; e non erano mancate le volte in cui, mentre si trovava sul portico a spazzare le foglie secche, Luna aveva visto marciare i soldati di Tanas con le loro armature nere cromate, con gli elmi neri, sormontati da pennacchi neri. Erano l’oscurità. Il capo fila portava l’asta lunga e sottile, anch’essa nera, dove sventolava la bandiera a doppia punta. Sul nero della stoffa, contornato da bordi dorati, era disegnato l’occhio del dragone Nero, il Monocolo. Gli stivali alti fino a coprire il ginocchio erano di metallo nero, contornati di argento cromato. Quando li vedeva arrivare, Luna rientrava a casa e si metteva dietro la finestra per vederli passare. Solo quando erano lontani usciva nuovamente.

    Fanno le ronde. Le diceva zia Terpinia. Vanno per i paesi a riscuotere le tasse. Il carro che vedi in mezzo a loro, trainato dai destrieri neri, è pieno d’oro e argento. Tutte monete che provengono dalle città, dai villaggi e i paesi di Èvon. Nessuno osa attaccarli. Continuava con voce bassa e con gli occhi che diventavano fessure. Neanche i più abili briganti, neanche i perfidi Cavalieri, nonostante la loro sete di ladrocinio e la loro avidità. Nessuno può batterli

    Gli elmi avevano sempre le visiere abbassate, nessun essere umano aveva mai visto il volto dei Soldati delle Tenebre. Passavano così, di paese in paese, con l’uomo di ogni villaggio addetto alla raccolta delle tasse che li aspettava sulle vie Maestre di tutta Èvon. Con profondo inchino, senza mai alzare la testa, gli consegnava quello che si potrebbe ben definire il maltolto. Sì, perché Tanas chiedeva tasse esagerate. Erano il prezzo per la libertà dei popoli. Fin quando avessero pagato, la pace sarebbe regnata.

    Si diceva che i Soldati delle Tenebre non dormissero mai e che, una volta terminato il giro di tutte le città, cominciavano daccapo, senza mai fermarsi.

    Venivano chiamati i Dieci. Spiriti risvegliati dalle profondità della Terra che in tempi remoti, ancor prima della comparsa del Drago delle Lacrime, avevano venduto la loro anima al Dragone Nero per tornare ad abitare alla luce. Erano i maledetti, gli eterni erranti, i dannati della Terra.

    L’ultima volta che Luna li aveva visti passare era stato tre giorni prima, di pomeriggio. Si stava preparando per andare nel bosco a fare una delle sue solite camminate insieme a Occhiobruno e Nuvola, la sua pecorella la cui lana non veniva tagliata da almeno due anni. Non si era accorta del loro arrivo, così, scendendo i gradini della veranda, se li era trovati di fronte. Era rimasta pietrificata. Uno di loro aveva girato il capo verso lei, oltre le fessure dell’elmo l’oscurità, il suo mantello nero come la morte si era alzato a una folata di vento. D’istinto Luna aveva abbassato la testa e avvicinato le mani intrecciando le dita, tenendo le braccia lunghe. La marcia lenta era proseguita, portando con sé quell’aria di morte da cui erano avvolti. Il silenzio li avvolgeva. Il nulla li circondava. Il tempo si fermava.

    Più in là mastro Carbone li attendeva sul ciglio della strada, piegato in un profondo inchino, con a lato il baule delle tasse. Luna allora aveva fatto il giro della casetta in punta di piedi e si era affrettata sul retro, per prendere Occhiobruno e Nuvola, scomparendo così dalla loro vista.

    La sera era sempre più inoltrata e le vie di Nesl sempre più solitarie. Il pensiero di Luna riandava allo strano individuo della locanda. Poi a quelli che si definivano suoi amici. Si sorprese a pensare che, se lo straniero avesse a sua insaputa assistito alle pietose scene, lei avrebbe certo fatto una brutta figura. Quei ragazzi cercavano sempre di spaventarla, questo da quando aveva confidato ad Anastasia, almeno cinque anni prima, che la zia le aveva finalmente spiegato come si facevano i bambini.

    Cara Luna. Aveva esordito mentre era davanti il camino acceso e lavorava a maglia. È giunto il momento che tu sappia. Il suo volto aveva assunto un’espressione seria, col sopracciglio sinistro alzato e le labbra fattesi più sottili. Luna in quel frangente si chiese chissà cosa dovesse mai sapere. Forse un segreto che aveva rivelato sua madre in punto di morte, o forse che l’identità di suo padre era in realtà quella di uno sconosciuto di passaggio, o che era nato prima l’uovo della gallina.

    Ti spiegherò come si fanno i bambini. Aveva tuonato la zia dalla sua poltrona rossa.

    Ma zia.. Si imbarazzò la ragazza. A quel tempo già parecchio oltre i vent’anni.

    No? Perché qualcuno te lo ha già spiegato? Insinuò Terpinia con lo sguardo di fuoco

    No, certo che no, balbettò Luna. Infatti era vero, non lo sapeva e neanche se lo era mai chiesto.

    Bene! - esclamò zia Terpinia continuando a lavorare e facendosi nuovamente seria. Serissima. - Basta un bacio. Sai cos’è?. Lasciò stare nuovamente il lavoro e tornò a guardarla con occhi seri. Luna impallidì. Ritta in piedi, accanto al tavolo, con le dita delle mani incrociate, non sapeva cosa rispondere. Se avesse detto sì sarebbe stata reputata una donna perduta, se avesse detto no, sarebbe stata reputata la solita idiota. A questo punto, male per male, decise di dire ciò che conosceva.

    Ho letto su un libro che quando un uomo e una donna avvicinano le labbra, quello si chiama bacio

    Che diavoleria di libri leggi? Tuonò zia Terpinia dal basso della poltrona, agitando il famoso indice destro in aria.

    Zia, era il racconto del cantore che si trovava qui in cucina. Credevo fosse un libro tuo. Disse la giovane con voce candida.

    Lo sapevo che avrei dovuto gettare nelle fiamme quel libro! Nessuno ti aveva dato il permesso di leggerlo! Tuonò ancora, tralasciando il fatto che fosse suo. Quello era di poco conto. E comunque era una breve storia d’amore tra un elfo e una principessa che si concludeva con un bacio. Nulla di più. Ma zia Terpinia vedeva concupiscenza ovunque.

    Comunque… Tornò a dire riprendendo il lavoro. È così! Da quel bacio sarà sicuramente nato un figlio. Ora vai, e rifletti. La congedò senza oltre parlare.

    Luna tornò nella sua stanza. Attonita. Si buttò sul letto per riflettere, guardando il soffitto con l’avambraccio sulla fronte. Era quindi una cosa pericolosa baciare un uomo fuori dal matrimonio. Lei che aveva immaginato mille volte di baciare Rubén, il ragazzo più bello del paese. In quali guai si sarebbe andata a mettere? Fortunatamente zia Terpinia l’aveva avvertita in tempo, salvandola.

    Ecco, da quel racconto fatto in confidenza alla bella del paese, che lei reputava amica, erano nate tutte quelle prese per i fondelli, quel volerla terrorizzare cercando di baciarla. Un incubo che andava avanti da quasi cinque anni ormai.

    Mentre camminava, assorta da questi ricordi, sentì un rumore di passi alle sue spalle. Si girò e vide Jerg che si affrettava verso lei. Credette che dovesse passare, quindi si scansò facendosi verso il muro di una casa, ma lui le afferrò il braccio e la portò in un vicolo buio. La mise contro il muro mettendole il braccio piegato al collo, quasi a soffocarla.

    Dove credi di andare tu? Le parlava con il viso così vicino guardandola con i suoi occhi vuoti, color marrone insulso, uno dei quali era storto. Poteva sentire il suo alito pesante di birra. Ebbe veramente paura, non credeva che arrivasse addirittura ad aggredirla. Cercava di voltare la faccia, onde evitare le sfiorasse le labbra. Stai calma. Continuò il ragazzo, alitandole ancora in volto. Mi fai ribrezzo, sei orrenda. Strana. Hai paura eh? Paura di avere un figlio ed essere additata, oltre che strana, anche perversa? Fai bene ad aver paura, sciocca e insulsa femmina. Continuava ad alitare e parlare digrignando i denti. Ma io da te non vorrei nulla, fuorché una cosa. Con la mano sinistra cominciò a tastarle i fianchi in cerca della borsetta col denaro. Un uomo come me, da una donna come te, non si farebbe mai sfior…... Un colpo improvviso lo stordì, mandandolo a terra tramortito.

    Quando Jerg cadde Luna vide il viandante sconosciuto nell’ombra, le era di fronte. Una sagoma scura, alta e teutonica. L’uomo girò i tacchi e se ne andò, sparendo nell’oscurità del vicolo. Mentre lei si precipitò in strada, alla luce delle lanterne, dalla parte opposta. Tirò la briglia di Occhiobruno, che era rimasto fermo sulla via, e corse verso casa.

    Sdraiata sul letto, stanca della giornata, mentre guardava il cielo notturno fuori la finestra che sovrastava il suo letto, Luna udì un rumore nel caminetto. Si girò di scatto e vide della cenere cadere dalla canna fumaria. Piccole luci argentee vennero giù, portando con loro un piccolo foglio bianco. Lo posarono lentamente sulla cenere spenta da mesi, poi risalirono la canna e scomparvero. Lucciole. Si alzò dal letto e prese tra le mani il rotolino di carta bianca. Emanava un profumo dolce, di qualche fiore a lei ignoto. Lo srotolò e vide che c’era scritto qualcosa, con un inchiostro azzurro.

    "Tra le stelle del cielo ti ho vista. Bella come luce in una notte scura. Incanto di un sogno infinito. Fragile come rosa appena sbocciata. Pura come acqua di sorgente. Limpida, vera, impetuosa, ribelle e intelligente. Mai sarai sola in questa vita".

    Il biglietto finiva lì, non era firmato. Ed era uno dei tanti che a scadenza mensile le veniva recapitato dal camino da qualche anno.

    Seduta sul letto se lo rigirava tra le mani, lo leggeva e rileggeva. Lo odorava. Poi lo prese e lo ripose nella scatola di legno bianco che teneva sotto il letto. Prima di richiuderla fissò il contenuto, poi la rimise al suo posto.

    Si sdraiò nuovamente, chiudendo le ante interne della finestra. Chiunque scrivesse quei biglietti, fosse stato anche uno dei giullari della locanda che tanto la detestavano, la rendeva felice per un attimo. Chiuse gli occhi e piombò in

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