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Il Dio del fiume
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Il Dio del fiume
E-book973 pagine14 ore

Il Dio del fiume

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Info su questo ebook

Un antico regno fondato sull’oro.
Una leggenda distrutta dall’avidità.
Il capolavoro del maestro dell’avventura, in una nuova traduzione.

L’antico Regno d’Egitto è stato per secoli una civiltà splendente e rigogliosa. Ora, però, a bagnare le sue aride terre non sono più solo le dolci acque del Nilo, ma anche un fiume di intrighi e complotti. Taita, il giovane eunuco dall’ingegno straordinario, poeta, medico, inventore, sa bene come mantenere un segreto e proprio per questo è una delle proprietà più preziose del nobile Intef.

Eppure, quando sua figlia, la bellissima principessa Lostris, viene data in sposa al Faraone Mamose VIII, inspiegabilmente il potente signore gli ordina di seguirla. Di colpo, Taita si ritrova immerso in un mondo di oscure visioni e biechi tradimenti, e diventa il custode dell’amore clandestino tra Lostris e Tanus Harrab, il giovane guerriero per il quale la principessa rinuncerebbe persino allo scettro.

Ma fuori dal palazzo, il grande Regno d’Egitto, diviso da lotte intestine e assediato da nemici spietati, corre pericoli persino maggiori. E soltanto Taita ha il potere di salvarlo.

LinguaItaliano
Data di uscita28 nov 2023
ISBN9788830593145
Il Dio del fiume
Autore

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

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    Anteprima del libro

    Il Dio del fiume - Wilbur Smith

    Il fiume giaceva pesantemente sul deserto, luminoso come metallo fuso sversato da una fornace. Il cielo fumava di foschia per il gran caldo e il sole si abbatteva su ogni cosa come un martello da fabbro. Nel miraggio, le colline desolate ai fianchi del Nilo sembravano tremare sotto quei colpi.

    La nostra barca avanzava spedita accanto alle macchie di papiri, abbastanza vicina che si riusciva a sentire, dai campi sulla sponda opposta, il crepitio dei secchi d’acqua degli shadoof attaccati ai loro lunghi bracci controbilanciati. Un suono che si armonizzava con il canto della ragazza a prua.

    Lostris aveva quattordici anni. La più recente inondazione del Nilo era iniziata proprio nel giorno in cui la sua luna rossa femminile era fiorita per la prima volta, una coincidenza che i sacerdoti di Hapi avevano considerato altamente propizia. Lostris, il nome da donna che le avevano scelto per rimpiazzare quello da bambina, significava Figlia delle Acque.

    Me la ricordo benissimo in quel giorno. Con il passare degli anni sarebbe diventata ancora più bella, sarebbe diventata più equilibrata e regale, ma mai più avrebbe emanato in modo altrettanto travolgente quell’ardore di femminilità virginale. Ogni uomo là a bordo, persino i guerrieri sulle panche dei vogatori, ne era cosciente. Né io né chiunque altro riuscivamo a staccare gli occhi da lei. Mi riempì di un senso di inadeguatezza e di un desiderio profondo e struggente: perché, nonostante io sia un eunuco, sono stato castrato solo dopo aver conosciuto la gioia del corpo di una donna.

    «Taita» mi disse a gran voce, «canta con me!» E, quando obbedii, sorrise di piacere. La mia voce era una delle tante ragioni per cui, ogni volta che poteva, mi teneva accanto a sé: il mio timbro tenorile integrava alla perfezione la sua splendida voce da soprano. Cantammo una delle vecchie canzoni d’amore dei contadini che le avevo insegnato e che restava una delle sue preferite:

    Il mio cuore svolazza come una quaglia ferita

    quando vedo la faccia del mio amato

    e le mie guance avvampano come il cielo dell’alba

    di fronte allo splendore del suo sorriso…

    Da poppa, un’altra voce si unì alle nostre. Una voce maschile, profonda e possente, a cui però mancavano la chiarezza e la purezza della mia. Se la mia voce era quella di un tordo che salutava l’alba, quella era la voce di un giovane leone.

    Lostris voltò il capo e il suo sorriso brillò come i raggi del sole sulla superficie del Nilo. L’uomo a cui aveva rivolto quel sorriso era mio amico, forse l’unico vero amico che avessi, ma sentii comunque il gusto amaro dell’invidia bruciarmi il fondo della gola. Eppure, mi sforzai di sorridere a Tanus come faceva lei: con amore.

    Il padre di Tanus, Pianki, il nobile Harrab, era stato una figura di alto rango in seno alla nobiltà egizia, ma sua madre era stata la figlia di uno schiavo tehenu affrancato. Come molti del suo popolo, aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri; era morta di febbre malarica quando Tanus era ancora un bambino e, dunque, il ricordo che avevo di lei era imperfetto. Tuttavia, le anziane dicevano che raramente, in uno dei due regni, si era vista una bellezza come la sua.

    D’altro canto, avevo conosciuto e ammirato il padre di Tanus prima che perdesse la sua vasta fortuna e le sue grandi tenute, che erano quasi state in grado di rivaleggiare con quelle del faraone stesso. Era stato scuro di pelle, gli occhi egizi del colore dell’ossidiana lucidata; un uomo dotato più di forza fisica che di bellezza, ma dal cuore generoso e nobile: qualcuno potrebbe dire troppo generoso e troppo fiducioso, perché era morto in assoluta miseria, con il cuore spezzato da coloro che aveva ritenuto suoi amici, isolato nelle tenebre, tagliato fuori dalla luce della benevolenza del faraone.

    Così, sembrava che Tanus avesse ereditato il meglio dei genitori, tranne la ricchezza terrena. Per indole e forza, era come suo padre; per bellezza, come sua madre. Pertanto, perché avrei dovuto risentirmi del fatto che la mia padrona lo amasse? Anch’io lo amavo. Io, da povero castrato, sapevo che non avrei mai potuto averla, nemmeno se gli dei mi avessero innalzato a una condizione superiore a quella di schiavo. Eppure, tale è la perversità della natura umana che desideravo ciò che non avrei mai potuto avere e sognavo l’impossibile.

    Lostris era seduta sul suo cuscino a prua, con le giovani schiave distese ai suoi piedi, due ragazzine nere di Kush, flessuose come pantere e completamente nude, a eccezione dei collari d’oro. La stessa Lostris indossava solo una gonna di lino stinto, crespo e bianco come l’ala di una garzetta. La pelle della parte superiore del suo corpo, accarezzata dal sole, aveva il colore del legno di cedro oliato proveniente dalle montagne dietro Biblo. I suoi seni avevano le dimensioni e la forma di fichi maturi, pronti a essere colti, con le punte di granato rosa.

    Aveva lasciato da parte la parrucca formale e portava i suoi capelli naturali in una coda laterale che le cadeva su un seno come una spessa corda nera. L’inclinazione degli occhi era accentuata dalla polvere di malachite verde argento abilmente cosparsa sulla parte superiore delle palpebre. E verdi erano anche i suoi occhi, ma più scuri, più limpidi, il colore che ha il Nilo quando le sue acque si ritirano e depositano il prezioso carico di limo. In mezzo ai seni, appesa a una catena d’oro, portava una statuetta di Hapi, la dea del Nilo, in oro e lapislazzuli preziosi. Ovviamente, era un pezzo di straordinaria fattura perché glielo avevo realizzato io, con le mie mani.

    D’un tratto, Tanus alzò la mano destra, con il pugno stretto. Come fossero un sol uomo, i vogatori interruppero i colpi e tennero sospese a mezz’aria le pale dei remi, che nella luce del sole scintillavano e gocciolavano. Dopodiché, Tanus girò con forza il remo di governo che faceva da timone e gli uomini che stavano sul lato sinistro affondarono i remi, vogando in senso contrario e creando una serie di piccoli mulinelli sulla superficie dell’acqua verde. Il lato a dritta spinse avanti con forza l’imbarcazione. Questa virò così bruscamente che il ponte si inclinò in maniera preoccupante; poi, entrambi i lati si misero a vogare insieme, facendola schizzare in avanti. La prua affilata, sulla quale erano dipinti gli occhi azzurri di Horus, scostò le dense distese di papiro e si proiettò fuori dalla corrente del fiume, nelle acque chete della laguna che si trovava poco più avanti.

    Lostris interruppe il canto e si schermò gli occhi per guardare davanti a sé. «Eccoli!» gridò, indicando con la piccola mano aggraziata. Le altre barche della flottiglia di Tanus erano disseminate come una rete sulle propaggini meridionali della laguna, bloccando l’ingresso principale del grande fiume e impedendo qualunque via di fuga in quella direzione.

    Naturalmente, Tanus aveva scelto la postazione settentrionale per sé, sapendo che lì la competizione sarebbe stata particolarmente impetuosa. Io avrei preferito di no. Non che sia un codardo, ma devo sempre tenere in considerazione la sicurezza della mia padrona. Si era fatta allettare dalla prospettiva di salire a bordo della Soffio di Horus dopo parecchie macchinazioni in cui, come sempre, aveva coinvolto me. Nel momento in cui suo padre fosse venuto a conoscenza della sua presenza nel cuore della caccia, cosa che di certo sarebbe successa, la faccenda si sarebbe già messa sufficientemente male per me, ma se avesse anche scoperto che ero stato io a lasciarle trascorrere un giorno intero in compagnia di Tanus, nemmeno la mia posizione privilegiata mi avrebbe protetto dalla sua ira: le sue istruzioni riguardo a quel giovane uomo erano inequivocabili.

    Tuttavia, a bordo della Soffio di Horus, io sembravo l’unica anima preoccupata; gli altri fremevano di eccitazione. Tanus fermò i vogatori con un segnale perentorio della mano; la barca si arrestò gradualmente e rimase a oscillare delicatamente sulle acque verdi tanto calme che, quando guardai la superficie e vidi il mio riflesso restituirmi lo sguardo, restai come sempre sorpreso dal modo in cui la mia bellezza si era perpetuata negli anni. Mi pareva che il mio viso fosse più bello dei fiori di loto azzurro ceruleo che lo incorniciavano. Però non ebbi tanto tempo per ammirarlo, perché l’equipaggio si stava dando un gran daffare.

    Uno degli ufficiali issò il vessillo di Tanus sulla testa d’albero. Era l’immagine di un coccodrillo azzurro, con la coda eretta a cresta di gallo e le fauci spalancate. Solo un ufficiale del grado di Migliore dei Diecimila aveva diritto a un vessillo personale. Tanus aveva ottenuto quel grado, insieme al comando della divisione dei Coccodrilli Azzurri in seno alla guardia d’élite del faraone, prima di compiere vent’anni.

    Ora, il vessillo sulla testa d’albero era il segnale dell’inizio della caccia. Sull’orizzonte della laguna il resto della flottiglia appariva minuscolo per la distanza, ma i remi iniziarono a sferzare l’acqua ritmicamente, sollevandosi e cadendo come ali di oche selvatiche in volo, luccicanti sotto la luce del sole. Dalla poppa di ciascuna barca si disegnarono sulle acque placide le infinite increspature delle loro scie, che rimasero a lungo sulla superficie, come plasmate nell’argilla solida.

    Tanus abbassò il gong sulla poppa; era un lungo tubo di bronzo. Ne fece scendere l’estremità sotto la superficie dell’acqua. Quando sarebbe stato colpito con un martello dello stesso metallo, i suoni acuti ed echeggianti si sarebbero propagati nell’acqua, riempiendo di terrore la nostra preda. A discapito della mia serenità, sapevo che tutto ciò si sarebbe potuto prontamente trasformare in un accesso omicida.

    Tanus rise di me. Nonostante l’eccitazione, aveva colto i miei scrupoli. Per essere un soldato rude, era dotato di un insolito sesto senso. «Vieni quassù, sulla torre di poppa, Taita!» ordinò. «Puoi suonare il gong per noi, così per un po’ non penserai alla sicurezza della tua bella pelle.»

    Mi sentii offeso dalla sua leggerezza ma sollevato dall’invito, perché la torre poppiera è alta sull’acqua. Eseguii l’ordine muovendomi senza fretta e con dignità, e passandogli accanto mi fermai per rivolgergli un’esortazione seria. «Attento alla sicurezza della mia padrona. Capito, ragazzo? Lei è in tutto e per tutto sfrenata quanto te: non incoraggiarla all’imprudenza.» Mi potevo permettere di parlare in quel modo a un celebre comandante di diecimila uomini perché un tempo era stato mio discepolo e in più di un’occasione avevo usato il bastone su quelle natiche marziali. Mi rivolse lo stesso sorrisino di quei tempi, sfrontato e impudente come sempre.

    «Vecchio amico, lascia la signora nelle mie mani, ti supplico. Non c’è niente che io possa apprezzare di più, credimi!» Non lo redarguii per il tono tanto sgarbato, perché avevo una certa fretta di prendere posto sulla torre. Da lì, lo osservai prendere in mano il suo arco.

    Quell’arco era già famoso in tutto l’esercito, anzi, lo era lungo tutto il corso del grande fiume, dalle cateratte al mare. Glielo avevo disegnato io quando si era stancato delle armi modeste che aveva avuto a disposizione fino a quel momento. Suggerii di provare a produrre un arco con materiali nuovi al posto dei legni deboli che crescono nella nostra angusta valle fluviale: magari legni esotici come il durame d’olivo proveniente dalla terra degli Ittiti o l’ebano di Kush, o materiali ancora più insoliti come il corno di rinoceronte o le zanne d’avorio di elefante.

    Fin dall’inizio avevamo incontrato una miriade di problemi, a partire dalla fragilità di quei materiali esotici. Allo stato naturale, nessuno di essi si sarebbe piegato senza spezzarsi e solo la zanna più grande di elefante, e dunque la più costosa, ci avrebbe consentito di ottenere un arco. Risolsi entrambi i problemi riducendo l’avorio di una zanna più piccola in schegge che incollai tra loro per ottenerne una circonferenza e uno spessore sufficienti a plasmare un arco intero. Sfortunatamente, era troppo rigido per consentire a un uomo di tenderlo.

    Tuttavia, da lì in poi era stato un passo semplice e naturale laminare e unire i quattro materiali che avevamo scelto: olivo, ebano, corno e avorio. Ovviamente, c’erano stati mesi di esperimenti con varie combinazioni tra i materiali e i tipi di colla usata per tenerli insieme. Non riuscimmo mai a realizzare una colla sufficientemente forte. Alla fine, per impedire che si sfaldasse, risolsi il problema avvolgendo tutto l’arco con del filo di argentone. Ordinai a due grossi uomini di aiutare Tanus a stringere il filo combinando insieme tutta la loro forza e la colla ancora calda. Raffreddandosi, raggiunse una combinazione quasi perfetta di forza e flessibilità.

    A quel punto, tagliai delle strisce di budello da un formidabile leone dal manto nero, che Tanus aveva cacciato e ucciso nel deserto con la sua lancia da guerra dalla punta di bronzo. Conciai le strisce e le intrecciai tra loro per formare la corda. Il risultato fu quell’arco luccicante dalla forza così straordinaria che solo un uomo, tra le centinaia che ci avevano provato, sarebbe riuscito a tenderlo al massimo delle sue capacità.

    Lo stile regolamentare del tiro con l’arco che veniva insegnato dai maestri d’armi consisteva nel fissare il bersaglio e tendere l’arco accoccato contro lo sterno, tenere la mira per un tempo ponderato e poi scoccare a comando. Tuttavia, nemmeno Tanus aveva la forza per tendere quell’arco e mantenere la mira, ed era stato costretto a sviluppare uno stile del tutto nuovo. Si metteva di lato rispetto al bersaglio e mirava da sopra la spalla sinistra, sollevando bruscamente l’arco con il braccio sinistro in tensione e, con uno strappo convulso, tirava a sé la freccia finché le piume non gli sfioravano le labbra, mentre i muscoli delle braccia e del petto si gonfiavano per lo sforzo. Nell’istante di massima estensione, apparentemente senza mirare, scoccava la freccia.

    All’inizio le sue frecce volavano a caso, come api impazzite che abbandonano il favo, ma lui si esercitò giorno dopo giorno e mese dopo mese. Le dita della mano destra gli si scorticarono e sanguinarono per lo sfregamento contro la corda dell’arco, ma guarirono e si rafforzarono. La parte interna dell’avambraccio sinistro, nel punto in cui la corda lo sferzava allo scoccare della freccia, era livida ed escoriata, ma gli fabbricai una protezione di cuoio. E Tanus si tratteneva al poligono, esercitandosi senza tregua.

    Persino io persi fiducia nella sua capacità di padroneggiare l’arma, lui invece non si arrese mai. Con lentezza, una lentezza straziante, arrivò a controllare l’arco al punto che, finalmente, fu in grado di scagliare tre frecce con una rapidità tale da farle essere in volo contemporaneamente. Almeno due su tre colpivano il bersaglio, un disco di rame grosso come una testa d’uomo, a una distanza di cinquanta passi da Tanus. Quelle frecce avevano una forza tale da trapassare il metallo spesso come il mio mignolo.

    Tanus chiamò quell’arma possente Lanata, che per caso era anche il nome da bambina della mia padrona, un nome ormai messo da parte. Ora si trovava a prua con la donna al suo fianco e l’arma omonima nella mano sinistra. Formavano una splendida coppia, ma la cosa era fin troppo ovvia per tenermi tranquillo.

    Dissi a gran voce: «Padrona! Torna qui immediatamente! Quel posto non è sicuro». Non mi degnò nemmeno di un’occhiata furtiva, ma mi fece un cenno da dietro la schiena. Tutto l’equipaggio della galea lo vide e il più sfrontato rise sguaiatamente. Doveva essere stata una di quelle piccole megere nere delle sue ancelle a insegnare a Lostris quel gesto, più adatto alle donne delle taverne lungo il fiume che alla figlia d’alto lignaggio della Casa di Intef. Valutai se esprimere la mia disapprovazione, ma rinunciai subito a una linea tanto incauta, perché la mia padrona è incline alla moderazione solo in alcuni stati d’animo. Invece, mi misi a percuotere il gong di bronzo con un vigore sufficiente a mascherare il mio imbarazzo.

    Il suono acuto ed echeggiante si propagò tra le acque limpide della laguna; d’un tratto, l’aria fu satura di fruscii d’ali e un’ombra si proiettò sul sole quando, dalle macchie di papiro, dalle pozze nascoste e dallo specchio d’acqua aperta, una grande nube di uccelli acquatici si alzò in volo. Appartenevano a un centinaio di varietà diverse: ibis bianchi e neri dalle teste rapaci, sacri alla dea del fiume; stormi di oche starnazzanti dal piumaggio color ruggine, ciascuna con una goccia vermiglia al centro del petto; aironi con un piumaggio che andava dal verdastro-azzurro al nero pece, i becchi simili a spade e i battiti d’ala possenti; e così tante anatre da mettere in dubbio l’occhio e la credibilità dello spettatore.

    La caccia agli uccelli di palude è uno dei passatempi più amati dalla nobiltà egizia, tuttavia quel giorno eravamo lì per dare la caccia a una preda diversa. In quel momento, a notevole distanza davanti a noi, vidi un certo subbuglio sulla superficie trasparente. Era pesante ed enorme ed ebbi paura perché sapevo quale terribile bestia si fosse mossa in quel punto. L’aveva vista anche Tanus, ma la sua reazione fu del tutto diversa dalla mia. Emise un forte latrato, come un cane da caccia, e i suoi uomini gridarono con lui e si piegarono sui remi. La Soffio di Horus schizzò in avanti come fosse uno degli uccelli che oscuravano il cielo sopra di noi e la mia padrona lanciò un gridolino di eccitazione, dando un pugnetto alla spalla muscolosa di Tanus.

    Ancora una volta le acque si intorpidirono e Tanus segnalò al timoniere di seguirne il movimento, mentre io martellavo sul gong per rafforzare e corroborare il mio coraggio. Raggiungemmo il punto in cui avevamo visto il movimento e l’imbarcazione rallentò gradatamente fino a fermarsi, mentre ogni uomo sul ponte si guardava intorno con impazienza.

    Solo io puntai lo sguardo direttamente oltre la poppa. L’acqua sotto lo scafo era bassa e trasparente, quasi come l’aria sopra di noi. Lanciai un grido forte e acuto come quello della mia padrona, e lasciai la battagliola di poppa con uno scatto all’indietro, dato che il mostro era esattamente sotto di noi.

    L’ippopotamo è caro a Hapi, dea del Nilo, e avremmo potuto cacciarlo solo con la sua dispensa speciale. Ecco perché quella mattina, nel tempio della dea, Tanus aveva pregato e offerto un sacrificio, con la mia padrona stretta al suo fianco. Ovviamente Hapi è la sua dea patrona, ma dubitavo che fosse quello l’unico motivo per cui lei aveva partecipato con passione alla cerimonia.

    La bestia che vidi sotto di noi in quel momento era un enorme, vecchio maschio. Ai miei occhi sembrò grosso come la nostra galea, una sagoma gigantesca che si profilava sul fondo della laguna; la resistenza dell’acqua lo rallentava, tanto che si muoveva come la creatura di un incubo. Sollevava sbuffi di fango da sotto gli zoccoli proprio come un orice alza la polvere quando corre sulle sabbie del deserto.

    Con il remo di governo, Tanus fece virare la barca e noi accelerammo dietro il maschio. Ma persino con quell’andatura lenta e leziosa si allontanò velocemente da noi, la sua sagoma scura scomparve nelle verdi profondità della laguna antistante.

    «Vogate! Per l’alito pestilenziale di Seth, vogate!» gridò Tanus ai suoi uomini, ma quando uno degli ufficiali agitò le code nodose della frusta si accigliò e scosse la testa. Non avevo mai visto usare la frusta se non ce n’era motivo.

    D’un tratto, il maschio emerse in superficie, davanti a noi, e soffiò fuori dai polmoni una nube di vapore fetido. La puzza ci investì, nonostante fosse decisamente fuori dalla portata dell’arco. Per un istante, la sua schiena formò una scintillante isola di granito nella laguna; poi l’animale fece un respiro sibilante e, vorticando su se stesso, sparì di nuovo.

    «Seguitelo!» tuonò Tanus.

    «Eccolo» gridai, indicando il fianco della barca, «sta tornando indietro.»

    «Bravo, vecchio mio» disse Tanus, canzonandomi, «siamo ancora in tempo a fare di te un guerriero.» Era una prospettiva ridicola, perché io sono uno scriba, un saggio e un artista. Il mio eroismo è mentale. Tuttavia, provai un brivido di piacere: mi succede sempre di fronte a un elogio da parte di Tanus, e la mia trepidazione per il momento si perse nell’eccitazione dell’inseguimento.

    Più a sud, le altre galee della flottiglia si erano unite alla caccia. I sacerdoti di Hapi avevano tenuto rigorosamente il conto di quelle formidabili bestie nella laguna e avevano dato il loro benestare alla macellazione di cinquanta di esse in vista dell’imminente festa di Osiride. Il che significava che nel gregge della dea all’interno della laguna sacra ne sarebbero rimaste quasi trecento, un numero che i sacerdoti consideravano ideale per tenere le vie acquatiche sgombre dalle erbacce soffocanti, per impedire che le macchie di papiro invadessero le terre arabili e per fornirne con regolarità la carne al tempio. Al di fuori dei dieci giorni della festa dedicata a Osiride, solo ai sacerdoti era consentito mangiare la carne degli ippopotami.

    Così, la caccia si riversò lungo le acque come una danza intricata, con le barche della flottiglia che serpeggiavano e piroettavano, e le bestie terrorizzate che fuggivano loro davanti, immergendosi e soffiando e brontolando quando risalivano in superficie per poi immergersi di nuovo. Eppure, ogni immersione era più breve della precedente e gli affioramenti agitati si fecero più frequenti via via che svuotavano i polmoni senza riuscire a riempirli prima che le barche all’inseguimento fossero sopra di loro e le costringessero a immergersi nuovamente. Nel frattempo, sulla torre poppiera di ciascuna galea, si facevano sentire i gong di bronzo, che si fondevano con le grida di eccitazione dei vogatori e con le esortazioni dei timonieri. Tutto era baraonda selvaggia e confusione, e io mi ritrovai a gridare e a fare il tifo insieme ai più assetati di sangue.

    Tanus aveva concentrato tutta la propria attenzione sul primo maschio, quello più grosso. Ignorò le femmine e gli animali più giovani che riaffioravano a una distanza di tiro adeguata al suo arco e seguì la formidabile bestia in tutte le sue circonvoluzioni, avvicinandosi inesorabilmente ogni volta che veniva a galla. Malgrado la mia eccitazione, non potei fare a meno di ammirare la maestria con cui Tanus manovrava la Soffio di Horus e il modo in cui l’equipaggio rispondeva ai suoi cenni. Ma, a dirla tutta, aveva il dono di saper ottenere il meglio dai suoi sottoposti. Altrimenti come avrebbe fatto, senza fortuna e senza l’appoggio di un grande sostenitore, a raggiungere così velocemente un grado tanto elevato? Ciò che aveva ottenuto, lo aveva ottenuto per merito e a dispetto dell’influenza malevola di nemici nascosti che avevano disseminato il suo percorso di ogni ostacolo possibile.

    D’un tratto, la bestia emerse in superficie a meno di trenta passi dalla prua. Spuntò scintillante nella luce del sole, un orribile mostro nero, spruzzando nubi di vapore caldo dalle narici, come la creatura dell’oltretomba che divora i cuori di coloro che gli dei giudicano non all’altezza.

    Tanus aveva accoccato una freccia; sollevò il formidabile arco e la scoccò nello stesso fugace istante. Lanata suonò la sua terribile musica scintillante e la freccia schizzò fuori in una macchia indistinta che ingannava lo sguardo. Mentre stava ancora sibilando in volo, ne seguì un’altra e poi un’altra ancora. La corda dell’arco ronzò come un liuto e le frecce andarono a segno, una dopo l’altra. La bestia mugghiò mentre quelle si infilavano da capo a coda nel suo ampio dorso e poi si immerse di nuovo.

    Erano dardi che avevo concepito io stesso espressamente per quell’occasione. Avevo tolto dalle frecce gli impennaggi piumati, sostituendoli con minuscoli galleggianti di baobab, come quelli che i pescatori usano per segnalare la posizione delle loro reti. Questi scivolavano lungo il fusto della freccia, verso l’estremità, in modo da restare dov’erano durante il volo ma da staccarsi quando la bestia si immergeva, trascinandoli dietro di sé nell’acqua. I galleggianti erano attaccati alle punte di bronzo con un sottile filo di lino avvolto intorno all’asta; una volta che il galleggiante si era staccato, il filo si svolgeva. Dunque, mentre il maschio si allontanava velocemente sott’acqua, i tre minuscoli galleggianti affiorarono in superficie e fecero su e giù alle sue spalle. Li avevo verniciati di un giallo acceso per attirare gli sguardi e fare in modo che la posizione del maschio si rivelasse all’istante, benché si trovasse sul fondo della laguna.

    Così, Tanus riuscì ad anticipare tutte le folli corse di quella formidabile bestia e a mandargli rapidamente incontro la Soffio di Horus per piazzargli un’altra serie di frecce dentro il dorso nero scintillante quando sporgeva fuori dall’acqua. Ora il maschio trascinava dietro di sé un florilegio di bei sugheri gialli, mentre l’acqua si screziava dei vortici rossi del suo sangue. Malgrado le emozioni fortissime del momento, non potei fare a meno di provare pena per la creatura colpita ogni volta che riaffiorava, mugghiando, per diventare oggetto dell’ennesima grandinata di sibilanti frecce letali. La mia compassione non era condivisa dalla mia giovane padrona, che era nel bel mezzo della mischia e che gridava piacevolmente di terrore ed eccitazione.

    Il maschio si presentò di nuovo in superficie, davanti a noi, ma adesso era rivolto verso la Soffio di Horus che stava per investirlo. Spalancò le fauci così tanto che riuscii a vedergli la gola in profondità: un cunicolo di carne rosso fuoco in grado di inghiottire agevolmente un uomo. Le mascelle avevano una tale varietà di zanne che rimasi senza fiato e rabbrividii. L’arcata inferiore aveva falci d’avorio concepite per mietere gli steli duri e fibrosi del papiro; quella superiore sfoggiava scintillanti puntali bianchi spessi come un mio polso e in grado di tranciare lo scafo di legno della Soffio di Horus con la stessa facilità con cui io avrei potuto affondare i denti in una torta di farina di farro. Di recente, avevo avuto l’opportunità di esaminare il cadavere di una contadina la quale, mentre raccoglieva papiro sulla riva del fiume, aveva disturbato una femmina di ippopotamo che aveva appena dato alla luce un piccolo. La donna era stata tranciata in due pezzi così netti che sembrava fosse stata colpita dalla più affilata delle lame di bronzo.

    Ora, quel mostro furente dalle fauci zeppe di denti scintillanti, ci stava venendo incontro con fare minaccioso, e nonostante mi trovassi in alto nella torre di poppa, nel punto più lontano possibile da esso, mi accorsi che non ero in grado di emettere alcun suono o di compiere movimenti: proprio come una statua di un tempio, ero paralizzato dal terrore.

    Tanus scoccò l’ennesima freccia che volò precisa dentro la bocca spalancata, ma la sofferenza di quella creatura era già così intensa che parve non accorgersi di quell’ulteriore ferita, anche se alla lunga si sarebbe di sicuro dimostrata fatale. Partì all’attacco, senza freni né esitazione, puntando dritto sulla prua della Soffio di Horus. Un ruggito spaventoso di rabbia e angoscia mortale si levò da quella gola tormentata, tanto che al suo interno si ruppe un’arteria e dalle mascelle aperte uscirono schizzi di sangue a profusione. Sotto la luce del sole, gli zampilli si trasformarono in nubi di condensa rossa, al tempo stesso meravigliose e raccapriccianti. Poi, il maschio si abbatté contro la prua della nostra galea.

    La Soffio di Horus fendeva l’acqua con la velocità di una gazzella in fuga, ma in preda alla furia la bestia era ancora più veloce e la sua massa era talmente compatta che fu come se fossimo andati a sbattere contro una sponda rocciosa. I vogatori finirono gambe all’aria sulle panche, mentre io fui scaraventato in avanti contro la battagliola della torre di poppa, in modo così violento che esalai tutta l’aria dai polmoni e sentii un forte dolore al petto.

    Eppure, malgrado il pericolo in cui mi trovavo, rivolsi tutta la preoccupazione alla mia padrona. Attraverso le lacrime per i dolori atroci che provavo, la vidi sbalzata in avanti per l’impatto. Nel tentativo di salvarla Tanus fece scattare un braccio, ma nell’urto anche lui aveva perso l’equilibrio e l’arco nella mano sinistra lo ostacolò ulteriormente. Riuscì solo a frenarne lo slancio per un momento, ma poi lei vacillò davanti alla battagliola, mulinando disperatamente le braccia mentre la schiena si inarcò sul bordo.

    «Tanus!» gridò, con una mano protesa verso di lui. Lui riacquistò l’equilibrio con destrezza da acrobata e cercò di afferrarle la mano. Per un istante le loro dita si sfiorarono, ma poi fu come se qualcosa la strappasse via scagliandola in acqua.

    Dalla mia postazione rialzata a poppa, riuscii a seguire la sua caduta. Si rigirò nell’aria come un gatto e la gonna bianca veleggiò verso l’alto, mettendo a nudo le sue splendide cosce. A me parve che non smettesse mai di cadere e il mio grido angosciato si mischiò al suo gemito disperato.

    «La mia bambina!» urlai. «La mia piccina!» Ero certo che fosse perduta. Fu come se tutta la sua esistenza, come l’avevo conosciuta, scorresse nuovamente davanti ai miei occhi. La rividi nei panni della bambina ai primi passi e riudii le paroline affettuose che rivolgeva a me, la sua bambinaia adorante. La vidi crescere fino a diventare una donna e mi vennero in mente tutte le gioie e le angosce che mi aveva fatto provare. In quel momento, mentre la stavo perdendo, le volli ancor più bene di quanto gliene avessi voluto in tutti quei quattordici, lunghi anni.

    Cadde sul grande dorso insanguinato della bestia infuriata e, per un istante, rimase lì, a braccia e gambe divaricate, come un sacrificio umano sull’altare di una ripugnante religione non meglio identificata. L’ippopotamo girò in tondo, uscendo quasi completamente dall’acqua, e voltò all’indietro la sua enorme testa deforme nel tentativo di raggiungerla; gli occhi porcini iniettati di sangue brillarono di un furore cieco e le possenti fauci sbatterono tra loro nel tentativo di morderla.

    In qualche modo, Lostris riuscì a ricomporsi e ad aggrapparsi a due asticciole di frecce che spuntavano dall’ampio dorso del maschio a mo’ di maniglie. Restò lì, a braccia e gambe divaricate; non gridava più, impegnata con tutta la mente e con tutto il corpo a restare viva. Quelle zanne curve d’avorio fendevano l’aria, tintinnavano una sull’altra come lame di guerrieri a duello. Era come se ogni morso la mancasse di un nonnulla, mi aspettavo che da un momento all’altro i suoi splendidi arti venissero tranciati come un delicato tralcio di vite e temevo di vedere il suo sangue dolce e giovane mescolarsi alle bestiali effusioni che uscivano a fiotti dalle ferite dell’animale.

    A prua, Tanus si riebbe rapidamente. Per un istante lo vidi in faccia: un’espressione terribile. Mise da parte l’arco, che non gli sarebbe servito a nulla, e strinse invece l’elsa della spada sguainando la lama dal suo fodero di pelle di coccodrillo. Era un pezzo scintillante di bronzo lungo come il suo braccio e la lama era stata affilata al punto da potergli radere i peli sul dorso della mano.

    Con un balzo fu sulla falchetta, dove restò in equilibrio per un attimo mentre osservava le folli rotazioni del maschio ferito mortalmente nell’acqua sottostante. Dopodiché si gettò e cadde come un falcone in picchiata, la spada stretta con entrambe le mani e puntata verso il basso.

    Cadde sul grosso collo dell’animale, atterrando a cavalcioni, come se stesse per cavalcarlo verso l’aldilà. Tutto il peso del suo corpo e lo slancio del folle salto diedero forza alla sua spada nell’atto di colpirlo. Metà della lama affondò nel collo dell’ippopotamo, alla base del cranio, e seduto a mo’ di fantino Tanus ruotò e spinse il bronzo affilato ancora più in profondità, sfruttando entrambe le braccia e la forza delle sue ampie spalle. Ferito dalla lama, l’animale diventò una furia. Gli sforzi fatti fino ad allora parvero poca cosa rispetto a quel nuovo impeto. L’animale sollevò buona parte della sua enorme massa fuori dalla laguna, fece oscillare la testa da una parte e dall’altra schizzando nell’aria enormi scrosci d’acqua che arrivarono talmente in alto da abbattersi sul ponte della galea, e quasi oscurarono come un sipario la scena ai miei occhi inorriditi.

    Per tutto il tempo osservai la coppia sbatacchiata impietosamente sul dorso del mostro. L’asticciola di una delle frecce a cui Lostris si era aggrappata si spezzò e lei per poco non cadde violentemente in acqua. Se fosse successo, sarebbe certamente finita nelle grinfie dell’animale, maciullata da quelle zanne d’avorio. Tanus si sporse all’indietro, la afferrò con un braccio e la raddrizzò, mentre con la mano destra non cessò mai di spingere ulteriormente la lama di bronzo nella collottola dell’animale.

    Incapace di raggiungerli, l’ippopotamo si morse ai fianchi infliggendosi terribili squarci tanto che, per una cinquantina di passi intorno alla galea, le acque si invermigliarono e gli schizzi di sangue imbrattarono di rosso cremisi sia Lostris che Tanus, dalla cima del capo alla pianta dei piedi. I loro volti si trasformarono in maschere grottesche sulle quali splendeva il biancore dei loro occhi.

    Gli spasimi agonizzanti della bestia li portarono molto lontano dalla fiancata della galea e a bordo fui io il primo a riacquistare le facoltà mentali. Gridai ai vogatori: «Seguiteli! Non lasciateli allontanare!». Ed essi schizzarono alle rispettive postazioni lanciando la Soffio di Horus all’inseguimento.

    In quell’istante sembrava che la punta della spada di Tanus avesse incontrato e perforato l’articolazione delle vertebre nel collo della bestia. L’immensa carcassa entrò in tensione e si irrigidì. L’animale si girò sulla schiena, le quattro zampe distese e bloccate, e si inabissò nelle acque della laguna, portandosi appresso verso il fondale Lostris e Tanus.

    Soffocai il grido di disperazione che mi stava uscendo dalla gola e gridai un ordine al ponte sottostante. «Retrocedere! Non travolgeteli! Nuotatori a prua!» Persino io rimasi sorpreso dalla forza e dall’autorevolezza della mia voce.

    La galea smise di avanzare e, prima che potessi riflettere sull’avvedutezza di quello che stavo facendo, mi ritrovai alla testa di un manipolo di corpulenti guerrieri che si lanciarono sul lato opposto del ponte. Probabilmente guardando qualsiasi altro ufficiale annegare avrebbero applaudito, ma non il loro Tanus.

    Quanto a me, mi ero già tolto il gonnellino ed ero nudo. Nessun’altra circostanza mi avrebbe convinto a farlo, nemmeno la minaccia di cento sferzate, perché avevo consentito soltanto a un’altra persona di vedere le ferite che mi erano state inflitte tanto tempo prima dal boia di stato, ed era stata la stessa persona che aveva ordinato che su di me venisse usato il coltello da castrazione. Ma ora, per una volta, avevo del tutto scordato la vistosa mutilazione della mia mascolinità.

    Sono un ottimo nuotatore e, malgrado con il senno di poi tale avventatezza mi faccia rabbrividire, credo davvero che mi sarei tuffato e che avrei nuotato in quelle acque rosse di sangue nel tentativo di soccorrere la mia padrona. Tuttavia, mentre mi preparavo davanti al parapetto della barca, le acque subito sotto di me si aprirono e spuntarono due teste, entrambe grondanti d’acqua e vicine come un paio di lontre in amore. Una era scura e l’altra bionda, ma entrambe emisero il suono più improbabile che avessi mai udito. Ridevano. Gridavano e urlavano e gorgogliavano dalle risate, mentre annaspavo verso la fiancata della barca, stretti l’uno tra le braccia dell’altra con tanta forza che ero certo che stessero realmente rischiando di annegarsi a vicenda.

    Di fronte a quell’atteggiamento frivolo e al pensiero della terribile follia che ero stato sul punto di commettere, la mia ansia si trasformò immediatamente in sdegno. Nel trovare il bambino che si è perduto, il primo istinto di una madre è di fustigarlo; allo stesso modo udii la mia voce abbandonare la profonda autorevolezza che aveva mostrato e farsi stridula e querula. Stavo ancora rimproverando la mia padrona con tutta la mia nota eloquenza quando lei e Tanus vennero tirati fuori dall’acqua e trascinati sul ponte da una dozzina di mani volenterose.

    «Piccola selvaggia, sconsiderata e sfrontata!» inveii contro di lei. «Piccolo maschiaccio avventato, egoista e indisciplinato! Mi avevi fatto una promessa! Avevi giurato sull’imene della dea…»

    Lei mi corse incontro e mi gettò entrambe le braccia al collo. «Oh, Taita!» gemette, sempre tra uno scoppio di risa e l’altro. «L’hai visto? Hai visto Tanus correre in mio soccorso? Non è stato il gesto più nobile di cui tu abbia mai sentito parlare? Proprio come l’eroe di una delle tue storie migliori.»

    Il fatto che fossi stato sul punto di compiere un gesto altrettanto eroico venne del tutto ignorato, cosa che non fece altro che accrescere la mia irritazione. Per giunta, mi accorsi d’un tratto che Lostris aveva perso la gonna e il suo corpo freddo e bagnato premeva contro di me, completamente nudo. Stava mostrando agli occhi indelicati degli ufficiali e degli uomini le più belle e sode natiche dell’intero Egitto.

    Afferrai lo scudo più vicino e lo usai per coprire entrambi i nostri corpi mentre gridavo alle sue giovani schiave di trovarle un’altra gonna. I loro risolini non fecero che accrescere la mia rabbia, e non appena Lostris e io fummo di nuovo pudicamente coperti mi scagliai contro Tanus.

    «Quanto a te, sconsiderata canaglia, ti manderò a rapporto dal mio signore Intef! Ti farà strappare la pelle della schiena a suon di frustate.»

    «Non farai nulla di tutto ciò» disse Tanus, ridendo di me e gettandomi attorno alle spalle un braccio muscoloso e bagnato per abbracciarmi con una forza tale da sollevarmi, «perché farebbe scudisciare anche te altrettanto allegramente. E comunque, grazie per la sollecitudine, vecchio mio.»

    Si guardò velocemente intorno, senza staccare il braccio dalla mia spalla, e si accigliò. La Soffio di Horus era distaccata dalle altre imbarcazioni della flottiglia, ma ora la caccia si era conclusa. Tranne la nostra, ogni galea aveva ottenuto la quota di selvaggina che i sacerdoti avevano imposto.

    Tanus scosse la testa. «Non abbiamo sfruttato al massimo le nostre possibilità, giusto?» brontolò e ordinò a uno dei suoi ufficiali di issare il segnale di richiamo per la flottiglia.

    Dopodiché, si sforzò di sorridere. «Spilliamo una brocca di birra insieme: ora ci sarà un po’ da aspettare e questo lavoro ci ha fatto venire sete.» Raggiunse la prua, dove le giovani schiave si stavano dando un gran daffare con Lostris. All’inizio ero talmente arrabbiato da non aver voglia di unirmi al loro spuntino improvvisato sul ponte. Piuttosto, mantenni un distaccato decoro a poppa.

    Lostris rabboccò la coppa di Tanus con birra schiumante. «Oh, lasciagli tenere il broncio per un po’» le udii sussurrargli teatralmente. «Quel vecchio tesoro si è spaventato terribilmente, ma quando avrà fame gli passerà. Adora mangiare.»

    È l’ingiustizia fatta persona, la mia padrona. Io non metto mai il broncio, non sono un goloso e all’epoca avevo solo trent’anni, ma per una quattordicenne chiunque abbia più di vent’anni è vecchissimo e ammetto che in effetti, quando si parla di cibo, ho i gusti raffinati di un intenditore. L’oca selvatica arrosto con i fichi di cui stava facendo sfoggio con ostentazione era uno dei miei piatti preferiti e lei lo sapeva bene.

    Li feci patire ancora un po’ e solo quando Tanus mi portò con le proprie mani una brocca di birra e mi blandì con tutto il suo fascino mi degnai di cedere un po’ e lasciai che mi conducesse a prua. Tuttavia, ce l’avevo ancora un po’ con loro finché Lostris non mi baciò su una guancia e, a volume sufficientemente alto perché tutti la udissero, disse: «Le mie ragazze dicono che hai preso il comando della nave come un veterano e che ti saresti gettato in acqua in mio soccorso. Oh, Taita, cosa potrei mai fare senza di te?». Solo allora le sorrisi e accettai la fetta di oca che insisteva mangiassi. Era deliziosa e la birra era di qualità superiore. Ciò nonostante mangiai poco, perché devo tenere conto della mia silhouette e poi la frecciatina che aveva fatto sul mio appetito mi bruciava ancora un po’.

    La flottiglia di Tanus era sparpagliata in tutta la laguna, ma iniziò a raggrupparsi. Notai che, come noi, anche altre galee avevano subito dei danni. Due navi si erano scontrate nella foga della caccia, e altre quattro erano state attaccate dalla preda. Tuttavia, si radunarono rapidamente e andarono a occupare le rispettive postazioni di battaglia. Poi, allineate a poppa e con i gagliardetti sgargianti che sventolavano in fila sulle teste d’albero proclamando la portata del carniere di ciascuna galea, ci superarono di slancio. Quando furono al fianco della Soffio di Horus, gli equipaggi levarono un’acclamazione. Tanus gli tributò il saluto con il pugno serrato e il vessillo dei Coccodrilli Azzurri venne ammainato, come se avessimo appena ottenuto una clamorosa vittoria contro ogni pronostico. Un atteggiamento infantile, forse, ma a dire il vero sono tuttora sufficientemente infantile per apprezzare il cerimoniale militare.

    Non appena la cosa si fu compiuta, la flottiglia occupò le postazioni di battaglia e le mantenne contro la brezza leggera che si era alzata, facendo abile uso di pagaie e remi. Ovviamente, non c’era ancora segno degli ippopotami uccisi. Per quanto ogni galea ne avesse ammazzato almeno uno, mentre altre ne avevano ammazzati due o addirittura tre, le carcasse erano colate a picco sui fondali verdi della laguna. Sapevo che Tanus si doleva segretamente del fatto che la Soffio di Horus non fosse stata la barca di maggior successo e che il nostro incontro protratto con il maschio dominante avesse limitato il bottino a quell’unico animale. Era avvezzo a eccellere. Tuttavia, non era il solito Tanus esuberante e ci abbandonò frettolosamente sulla prua per andare a sovrintendere alle operazioni di riparazione dello scafo della Soffio di Horus.

    La carica della grossa bestia aveva spaccato il fasciame subacqueo e stavamo imbarcando tanta di quell’acqua che si era reso necessario sgottare costantemente le sentine con secchi di cuoio. Era una procedura assolutamente inefficiente e distoglieva gli uomini dai loro doveri di vogatori e guerrieri. Di certo la si sarebbe potuta migliorare, pensai tra me.

    Così, mentre attendevamo che le carcasse delle bestie morte affiorassero, mandai una delle giovani schiave a prendere il cesto con i miei strumenti per la scrittura. Quindi, dopo un’ulteriore, breve riflessione, presi ad abbozzare un’idea per la rimozione meccanica dell’acqua dalle sentine di una galea da combattimento in azione, un metodo che non richiedesse l’impegno di mezzo equipaggio. Si basava sul medesimo principio dei secchi d’acqua degli shadoof. Pensai che sarebbero bastati due uomini, invece che una dozzina, come stava avvenendo in quel momento con i secchi.

    Una volta completato lo schizzo, riflettei sulla collisione che aveva procurato il danno. Storicamente, le tattiche usate in battaglie tra le flottiglie di galee di fiume erano sempre state le stesse degli scontri di terra. Le navi si piazzavano una di fianco all’altra e si scambiavano gragnuole di frecce. Poi si avvicinavano, lanciavano i rampini, abbordavano e terminavano la contesa a colpi di spada. I capitani delle galee facevano sempre il possibile per evitare una collisione, considerata sciatteria marinaresca.

    «E se…» pensai d’un tratto, mettendomi a disegnare una galea dalla prua rinforzata. Via via che l’idea prendeva corpo con precisione, aggiunsi sulla linea di galleggiamento un corno come quello dei rinoceronti. Avrebbe potuto essere intagliato nel legno duro e rivestito di bronzo; puntato in avanti e leggermente verso il basso, lo si sarebbe potuto conficcare nello scafo di un’imbarcazione nemica per squarciarne la pancia. Ero talmente assorto che non udii Tanus avvicinarsi alle mie spalle. Mi strappò dalle mani il rotolo di papiro e lo studiò con bramosia.

    Ovviamente, capì subito che cosa stessi facendo. Quando suo padre aveva perso la propria fortuna, avevo fatto tutto ciò che era in mio potere per trovare un ricco benefattore disposto a sponsorizzare il suo ingresso in un tempio come scriba novizio, in modo che procedesse negli studi e nell’erudizione. Ero davvero convinto che, con i miei insegnamenti, avesse tutte le possibilità di diventare una delle grandi menti dell’Egitto, magari con il tempo si sarebbe portato allo stesso livello di Imhotep che, mille anni prima, aveva progettato le prime meravigliose piramidi a Saqqarah.

    Naturalmente non ci ero riuscito, perché lo stesso nemico il cui rancore e i cui artifici avevano distrutto il padre di Tanus si era messo in testa di ostruire il cammino dello stesso Tanus. Nessun uomo nel paese avrebbe potuto prevalere su un’autorità così bieca. Pertanto, avevo aiutato Tanus a entrare nell’esercito. Malgrado la mia delusione e i miei dubbi, era stato lui a scegliere quella carriera fin da quando aveva imparato a reggersi sulle sue gambe e aveva brandito per gioco una spada di legno contro gli altri bimbi.

    «Per tutti i foruncoli sulle chiappe di Seth!» esclamò allora, mentre studiava i miei disegni. «Tu e quel tuo pennello valete quanto dieci flottiglie complete, per quel che mi riguarda!»

    Le bestemmie disinvolte di Tanus sul nome del possente dio Seth mi preoccupano sempre. Nonostante siamo entrambi uomini di Horus, continuo a non credere nella plateale offerta di ingiurie verso gli esponenti del pantheon delle divinità egizie. Personalmente, non passo mai accanto a un luogo sacro senza offrire una preghiera o fare un piccolo sacrificio, per quanto umile o di poca importanza sia il dio che ospita. Si tratta, a mio parere, di mero buonsenso e buona assicurazione. Di nemici tra gli uomini ne abbiamo a sufficienza per non cercarne deliberatamente altri tra gli dei. Io sono particolarmente ossequioso verso Seth, perché la sua temibile reputazione mi terrorizza; ho il sospetto che Tanus lo sappia e che si comporti così appositamente per prendermi in giro. Tuttavia, il gradevole tepore delle sue lodi mi fece scordare subito il mio disagio.

    «Come ci riesci?» pretese di sapere. «Il soldato sono io e oggi ho visto tutto quello che hai visto tu. Perché le stesse idee non sono venute a me?»

    Ci tuffammo immediatamente in un’accesa discussione sui miei disegni. Naturalmente Lostris non avrebbe potuto restare esclusa a lungo, e ci raggiunse. Le ancelle le avevano asciugato e intrecciato nuovamente i capelli e le avevano ritoccato il trucco. La sua bellezza fu una distrazione, soprattutto perché mi si fermò accanto e con un braccio sottile mi cinse con noncuranza una spalla. Non avrebbe mai sfiorato in quel modo un uomo in pubblico, perché si sarebbe trattato di un oltraggio al costume e al pudore. Ma in fin dei conti io non sono un uomo e, pur essendosi appoggiata a me, i suoi occhi non si staccarono mai dal viso di Tanus.

    I pensieri per lui risalivano all’epoca in cui aveva imparato a camminare, quando con fare adorante procedeva a inciampi dietro l’altero Tanus, che aveva dieci anni, cercando di copiarne fedelmente ogni gesto e ogni parola. Quando lui sputava, lei sputava. Quando lui imprecava, lei farfugliava la stessa bestemmia, finché Tanus si era lagnato malamente con me. «Non puoi convincerla a lasciarmi perdere, Taita? È solo una bimba!» Ora non si lagnava tanto, notai.

    Alla fine, fummo interrotti da un richiamo della vedetta di prua e accorremmo tutti a scrutare la laguna con trepidazione. La prima carcassa di ippopotamo stava riaffiorando. Salì di pancia via via che i gas nel suo intestino si espandevano e le budella si gonfiavano, come un pallone da bambini ottenuto da una vescica di capra. Una galea corse spedita a raccoglierla. Un marinaio salì con qualche fatica sulla carcassa e legò una corda a una zampa. Non appena ebbe terminato, la galea trainò il corpo verso la sponda opposta.

    A questo punto, i giganteschi cadaveri stavano riaffiorando tutt’intorno a noi. Le galee li raccolsero e li trascinarono via. Tanus ne assicurò due alla nostra gomenetta di poppa e i vogatori arrancarono ai remi per trainarle nell’acqua.

    Mentre ci avvicinavamo alla riva, mi schermai gli occhi per proteggermi dai raggi obliqui del sole e scrutai avanti. Sembrava che ogni uomo, donna e bambino dell’Alto Egitto stesse attendendo sulla riva. Erano tantissimi e stavano ballando e cantando e agitando fronde di palma per dare il benvenuto alla flotta in arrivo. Il movimento incessante delle loro tuniche bianche sembrava un frangente di burrasca sulla sponda della laguna placida.

    A mano a mano che ciascuna galea si accostava alla riva, squadre di uomini vestiti solo di succinti perizomi entravano nell’acqua fino alle ascelle per fissare delle corde alle carcasse gonfie. Nell’eccitazione, non pensarono alla minaccia costante dei coccodrilli, annidati in quelle acque verdi opache. In ogni stagione, quei draghi feroci divorano centinaia di persone del nostro popolo. A volte, sono talmente audaci da correre fin sul terreno per agguantare un bambino che gioca sul ciglio dell’acqua o una contadina che sta lavando i panni o raccogliendo acqua per la famiglia.

    Ora, fortemente affamata di carne, la gente era interessata a una sola cosa. Afferrarono le corde e trascinarono le carcasse a riva. Mentre risalivano a fatica la sponda fangosa, i numerosi pesciolini argentei che avevano banchettato nelle ferite aperte si attardarono a lasciare la presa e vennero trascinati fuori insieme alle carcasse. Spiaggiati sulle sponde sabbiose, sbatacchiavano e tremolavano come stelle cadute a terra.

    Uomini e donne, tutti armati di coltelli o asce, sciamarono come mosche sui corpi. In un delirio di avidità, si rivolsero a vicenda grida e parole forti, come avvoltoi e iene sulla preda uccisa da un leone, disputandosi ogni boccone mentre infliggevano fendenti alle gigantesche carcasse. Sangue e schegge d’osso schizzavano in aria al ritmo dei colpi e dei fendenti delle lame. Quella sera, al tempio, ci sarebbero state lunghe code di feriti in attesa che i sacerdoti curassero loro le dita amputate e gli squarci profondi fino all’osso, là dove le incaute lame erano scivolate.

    Per metà di quella notte anch’io sarei stato indaffarato, perché in alcuni posti ho una reputazione di medico che sorpassa persino quella dei sacerdoti di Osiride. Modestamente, devo ammettere che tale reputazione non è del tutto immeritata e Horus sa che il mio onorario è decisamente più ragionevole di quello degli uomini sacri. Il nobile Intef mi consente di tenere per me un terzo di tutto ciò che guadagno, e dunque sono un uomo piuttosto agiato, malgrado la mia condizione di schiavo.

    Dalla torre poppiera della Soffio di Horus osservai la pantomima dell’umana fragilità che andava in scena sotto di me. Per tradizione, il popolo può mangiare sulla battigia la propria dose della carne frutto della caccia, a patto che nessuna preda venga portata via. Vivendo come noi in una terra verdeggiante che viene fertilizzata e innaffiata dal grande fiume, il nostro popolo è ben nutrito. Tuttavia, la dieta base delle classi più povere è rappresentata dal grano e tra un pezzo di carne e quello successivo possono passare mesi. Per di più, la festa era un momento in cui le normali inibizioni della vita quotidiana venivano messe da parte. Era concesso eccedere in ogni aspetto corporale; nel cibo, nel bere e nella passione carnale. Il mattino seguente ci sarebbero stati dolori di pancia, mal di testa e recriminazioni matrimoniali, ma quello era il primo giorno della festa e non sarebbero stati posti freni a nessun appetito.

    Sorrisi mentre osservavo una madre, nuda fino alla cintola e impiastricciata da capo a piedi di sangue e grasso, spuntare dalla cavità intestinale di un ippopotamo con un grumo gocciolante di fegato saldamente tra le mani e lanciarlo a uno dei suoi figli, nel parapiglia urlante dei bambini che circondavano la carcassa. La donna tornò nel ventre della bestia, mentre il bambino, stringendo a sé il bottino, scappò verso uno delle centinaia di fuochi accesi lungo la spiaggia. Lì, un fratello maggiore gli strappò il pezzo di fegato dalle mani e lo gettò sui carboni, mentre una banda di monelli più giovani gli si stringeva intorno con trepidazione, sbavando come cagnolini.

    Il bambino più grande infilzò il fegato a malapena scottato con un ramoscello verde e i fratelli e le sorelle vi si gettarono sopra e lo divorarono. Quando lo ebbero finito, ne chiesero ancora a gran voce, mentre il grasso e il succo colava loro sul viso e gocciolava dal mento. Probabilmente, molti dei più giovani non avevano mai assaggiato prima la deliziosa carne della mucca di fiume. È dolce e tenera e non stopposa, ma soprattutto è grassa, più della carne di manzo o di asino selvatico striato, e il midollo è un’autentica prelibatezza, adatta al grande dio Osiride stesso. Il nostro popolo era affamato di grasso animale e il suo sapore gli fece perdere la testa. Se ne ingozzò, com’era suo diritto quel giorno.

    Fui felice di starmene in disparte da quella folla sfrenata, soddisfatto dalla consapevolezza che i commessi del nobile Intef avrebbero messo le mani sui tagli migliori e sul midollo per le cucine del palazzo, in cui i cuochi avrebbero preparato alla perfezione il piatto destinato a me. Nella casa del visir ho la precedenza su chiunque altro, persino sul maggiordomo o sul comandante delle sue guardie del corpo, entrambi nati liberi. Ovviamente non se ne parla mai apertamente, ma tutti riconoscono tacitamente la mia posizione privilegiata e superiore e pochi oserebbero metterla in discussione.

    Osservai i commessi al lavoro, mentre mettevano le mani sulla quota del mio signore, governatore e gran visir dei ventidue nomi dell’Alto Egitto. Agitarono i loro lunghi bastoni con la perizia dovuta a una lunga pratica, prendendo a randellate ogni schiena svestita o ogni natica nuda che si presentasse come bersaglio gridando richieste.

    I denti d’avorio degli animali appartenevano al visir e i commessi li raccolsero tutti. Erano preziosi come le zanne degli elefanti che arrivano dagli scambi commerciali con la terra di Kush, oltre le cateratte. L’ultimo elefante in Egitto era stato ucciso oltre mille anni prima, durante il regno di uno dei faraoni della Quarta Dinastia o, perlomeno, è quello che i geroglifici sulla stele del suo tempio rivendicano. Naturalmente, dai frutti della caccia il mio signore era tenuto a versare la decima ai sacerdoti di Hapi, pastori titolari del gregge di mucche di fiume della dea. Tuttavia, l’ammontare della decima era a giudizio del mio signore e io, che avevo la responsabilità generale della contabilità del palazzo, sapevo dove sarebbe andata a finire la maggior parte del tesoro. Il mio signore Intef non si abbandona a generosità non necessarie, nemmeno nei riguardi di una dea.

    Quanto alle pelli degli ippopotami, appartenevano all’esercito e sarebbero state trasformate in scudi da guerra per gli ufficiali dei reggimenti delle guardie. I quartiermastri dell’esercito sovrintendevano alla scuoiatura e al trattamento delle pelli, ciascuna delle quali era delle dimensioni di una tenda beduina.

    La carne che non si fosse riuscita a consumare sulla sponda sarebbe stata messa in salamoia oppure sarebbe stata affumicata o fatta seccare. In teoria, sarebbe stata usata per nutrire l’esercito, i membri dei tribunali e dei templi e altri funzionari civili dello stato. Tuttavia, in pratica, buona parte di essa sarebbe stata venduta in segreto e i proventi sarebbero finiti in modo piuttosto naturale nei forzieri del mio signore. Come ho già detto, dopo il faraone, era l’uomo più ricco dell’Alto Regno, e ogni anno lo diventava sempre di più.

    Alle mie spalle scoppiò un nuovo trambusto e io mi voltai immediatamente. La flottiglia di Tanus era tuttora in azione. Le galee si erano allineate in assetto da combattimento, poppa contro poppa e parallele alla costa, ma a una distanza di cinquanta passi, sulla linea dell’acqua più profonda. I fiocinieri attendevano davanti alla battagliola di ogni nave con le armi pronte, puntate verso la superficie della laguna.

    La chiazza di sangue e interiora nell’acqua aveva attirato i coccodrilli. Erano accorsi in tanti a banchettare non solo dalla laguna, ma addirittura dal corso principale del Nilo, e i fiocinieri li stavano aspettando. Le lunghe aste di ogni arpione culminavano con una piccola punta di bronzo dai barbigli terribili. Una dura corda di lino era intrecciata a un occhiello nella punta di ferro.

    L’abilità dei fiocinieri era davvero incredibile. Nel momento in cui uno di quegli spaventosi esseri simili a lucertole fosse scivolato nell’acqua verde agitando la formidabile coda crestata e muovendosi come una lunga ombra scura, silenziosa e letale sotto la superficie, sarebbero stati lì ad attenderlo. Avrebbero lasciato che il coccodrillo passasse sotto la galea e poi, mentre riaffiorava sul lato opposto il fiociniere, con i movimenti celati dallo scafo della nave, si sarebbe sporto in fuori e avrebbe assestato un colpo verso il basso.

    Non si trattava di una botta violenta, ma quasi di un colpetto delicato con la lunga asta. La punta di bronzo era affilata come l’ago di un chirurgo e poteva affondare per tutta la sua lunghezza nella pelle spessa e squamosa del rettile. Il fiociniere mirava alla nuca e quei colpi erano talmente ben assestati che in molti casi perforavano il midollo spinale e uccidevano la creatura istantaneamente.

    Tuttavia, quando un colpo non andava a segno, l’acqua esplodeva mentre il coccodrillo ferito finiva in preda a folli convulsioni. Girando l’asta dell’arpione, la punta metallica si staccava e restava conficcata nel collo corazzato del rettile. A quel punto, quattro uomini tiravano a sé la creatura usando la cima di lino per controllarne le contorsioni. Se il coccodrillo era di grossa stazza – e alcuni erano lunghi quattro volte un uomo steso al suolo – le spire della cima si srotolavano fumanti sulla falchetta, scorticando i palmi degli uomini che tentavano di tenerla.

    Quando succedeva, persino le folle affamate sulla spiaggia si fermavano un istante per acclamarli e incoraggiarli a gran voce e per assistere alla lotta, finché il coccodrillo non veniva assoggettato oppure la corda si spezzava con quello che sembrava un colpo di frusta e i marinai finivano a gambe all’aria sul ponte, di schiena. Più spesso, la robusta cima di lino resisteva. Non appena l’equipaggio riusciva a far girare la testa del rettile dalla propria parte, l’animale non era più in grado di raggiungere a nuoto l’acqua profonda. A quel punto, lo si poteva trascinare in un guazzabuglio di schiuma e acqua bianca contro la fiancata della nave, dove un’altra squadra armata di mazze attendeva di rompergli il cranio duro come la roccia.

    Quando le carcasse dei coccodrilli furono trascinate sulla sponda, io scesi a riva per esaminarle. Gli scuoiatori del reggimento di Tanus erano già al lavoro.

    Era stato il nonno del nostro attuale re a garantire al reggimento il titolo onorifico di Guardie dei Coccodrilli Azzurri e a concedergli il vessillo del Coccodrillo Azzurro. L’armatura da combattimento è ottenuta dalle pelli coriacee di questi draghi. Trattata e conciata debitamente, si indurisce a sufficienza per bloccare una freccia o per far slittare la lama della spada di un nemico. È molto più leggera del metallo e decisamente più fresca da indossare nel sole del deserto. La vista di Tanus, con l’elmo di coccodrillo decorato da piume di struzzo e con il pettorale dello stesso cuoio, lucidato e tempestato di stelle di bronzo, è in grado di incutere terrore nel cuore di un nemico o scompiglio nel ventre di qualsiasi fanciulla che posi gli occhi su di lui.

    Mentre misuravo e prendevo nota di lunghezza e circonferenza di ogni carcassa e osservavo gli scuoiatori all’opera, non provai alcuna pena per quegli orrendi mostri, a differenza di quanto accaduto per le mucche di mare uccise. Per me, non esiste in natura una bestia più detestabile del coccodrillo, con l’unica eccezione forse dell’aspide velenosa.

    La ripugnanza che provavo si centuplicò quando uno scuoiatore squarciò il ventre di uno dei più grossi tra quegli animali grotteschi, facendo scivolare nel fango i resti parzialmente digeriti di una ragazzina. Il coccodrillo aveva inghiottito tutta la parte superiore del suo corpo, dalla cintola in su. Nonostante i succhi gastrici ne avessero sbiadito e ammorbidito la carne fino a renderla bianca e malgrado la testa della fanciulla si stesse squamando a partire dal cranio, i suoi capelli erano tuttora intatti, intrecciati per bene e attorcigliati sopra il viso spettrale, in rovina. Come ulteriore tocco macabro, intorno alla gola c’era una collana e sui polsi ridotti all’osso c’erano dei graziosi braccialetti di perle rosse e azzurre di ceramica.

    Quelle raccapriccianti spoglie mortali erano appena state rivelate quando si udì un grido tanto acuto e straziante da perforare gli schiamazzi della moltitudine; una donna si fece largo sgomitando tra i soldati e corse fin lì, abbandonandosi sui ginocchi accanto ai poveri resti. Si strappò le vesti e lanciò l’orribile lamento del lutto.

    «Mia figlia! La mia bambina!» Era la stessa donna che era venuta al palazzo il giorno prima per denunciare la scomparsa della figlia. I funzionari le avevano detto che, con ogni probabilità, la ragazzina era stata sequestrata e venduta come schiava da una delle bande di criminali che terrorizzavano le campagne. Tali bande erano diventate

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