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La leggenda del dono di Taon
La leggenda del dono di Taon
La leggenda del dono di Taon
E-book518 pagine7 ore

La leggenda del dono di Taon

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Info su questo ebook

«Il Dono di Taon tornerà e sarà accompagnato da un mago destinato a riportare alla luce quelli della sua razza e da un guerriero discendente da un’antica popolazione. Tornerà e prenderà il posto che gli spetta, liberando un dio e portando la pace in una nazione segnata dalle guerre.»

Guidato da questa profezia il giovane mago Yak parte, ma lo fa di fretta, nel cuore della notte, confuso, braccato da coloro che credeva alleati.
La dea Taon ha finalmente scelto un nuovo rappresentante, un Dono che potrà ristabilire la pace nel Regno delle Terre del Fuoco logorato dalle rivolte. Trovare il Dono di Taon e proteggerlo però non sarà semplice.
Yak, Dweed e Falaan partono così per un viaggio verso i margini del Continente, nella speranza di portare a termine il loro compito e prepararsi a una guerra che ormai incombe.
A.M. Ami ci regala un romanzo d’esordio che ci fa crescere con i personaggi, pagina dopo pagina. Un fantasy avvincente, adrenalinico e ben orchestrato.
LinguaItaliano
Data di uscita22 giu 2020
ISBN9788868674731
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    Anteprima del libro

    La leggenda del dono di Taon - A. M. Ami

    vivi.

    Prologo

    All’epoca dei grandi cambiamenti, quando gli dei giocavano su terreno mortale e i mortali si accingevano a raggiungere lo status divino, una storia si diffuse a nord del Mar Proibito. Passando di bocca in bocca, raggiunse ogni angolo del Continente, fino ad oltrepassare le vaste distese di acqua e i ghiacciai invalicabili.

    Ambientata in un mondo ormai da tempo scomparso, questa è la leggenda del Dono di Taon.

    La storia ha inizio nella più grande fra le città delle Terre del Vento, chiamata Dauron in onore dell’imperatore che vi aveva regnato millenni addietro. In quegli anni le sue strade erano invase da una ricchezza di colori, profumi e popolazioni che nemmeno l’immaginazione più creativa sarebbe in grado di dipingere. Stranieri provenienti da ogni Paese e regione, mercanti che vendevano la loro variegata merce, svariati animali che pullulavano nelle strade… La vita era il principale abitante della città.

    Quella notte, però, tutto era calmo. Le strade erano stranamente silenziose e persino le guardie si rilassavano alle loro postazioni, addormentandosi o arrischiandosi a fare una partita a carte, incuranti dei possibili pericoli.

    La luna ormai piena e luminosa, tanto da impedire la vista delle numerose stelle, rendeva l’atmosfera magica e irreale. La città sembrava in quel momento frutto di un potente incantesimo, gli abitanti pure illusioni.

    A emergere dal mare di nebbia magica, come baluardo di Dauron, era il palazzo del governatore. Lì, nella camera più alta della torre, dormiva quella notte una bambina di otto anni. Due guardie sonnecchiavano dinanzi alla porta della sua stanza, gli elmi abbassati a coprire gli occhi e il capo appoggiato allo schienale della sedia.

    All’interno, Falaan era arrotolata nelle coperte di seta profumate di fiori, il viso allegro e il respiro regolare. Nei suoi sogni vedeva prati verdi, cascate, ruscelli, piccoli animali del bosco e usignoli che cantavano allegramente. Vedeva se stessa correre per i prati, immergere i piedi nudi nella fresca acqua dei ruscelli, ridere. Mai i sogni di Falaan erano stati brutti o tormentati, fino a quella notte.

    Proprio mentre correva dietro a una leggera farfalla dal colore del cielo, la bambina inciampò in una radice che dal terreno dirompeva in superficie e si rituffava nella terra umida. Alzando gli occhi vide di fronte a sé un enorme albero, con la corteccia annerita e le foglie di un pallido grigio. Un forte vento si alzò e tutti gli animali si dileguarono.

    Proteggendosi con le proprie esili braccia, Falaan vide il sole oscurarsi, il cielo perdere il proprio turchese limpido e macchiarsi di nero e i prati scomparire dinanzi a lei per dare posto a una distesa di terra brulla. Iniziò a tremare, per il freddo e per la paura.

    Un rumore giunse da molto lontano. Esso si ripeté diverse volte, con un’intensità che andava crescendo. Un ululato. Un lupo.

    No, un dio.

    La bambina rimase stesa a terra e aspettò con il respiro ansante, gli occhi pieni di terrore. Un altro suono giunse, molto più vicino. Era un ringhio talmente potente da far vibrare la terra sotto i suoi piedi e proveniva da una superba tigre.

    No, una dea.

    Il lupo arrivò di corsa e la tigre spiccò un balzo, superando agilmente Falaan per scontrarsi con il suo nemico. Uno scontro che avrebbe deciso le sorti del Continente.

    il risveglio della bambina fu accompagnato da un urlo che sembrò diffondersi in tutta la città, spezzando l’incantesimo in cui era caduta quella notte.

    A miglia e miglia di distanza, un giovane ragazzo stava scappando di casa. Armato di un grande coraggio e di un potere che nemmeno lui capiva, il giovane attraversava le vie della sua città a piedi nudi.

    Una donna passeggiava proprio in quel momento per Rafat. Portava una lunga tunica di un blu scuro molto intenso e un pesante mantello color del cielo notturno che strisciava con l’orlo sulle pietre della strada. Quando avvertì che qualcuno si stava avvicinando si fermò, la mano sfiorava il ligneo cancello di casa.

    Si voltò e vide un ragazzo con i calzoni logori e la camicia sdrucita. I capelli neri, lunghi e sporchi, gli ricadevano sulle spalle fradici di fango, i piedi nudi e imbrattati di terra.

    I loro sguardi si incrociarono. La donna si lasciò cadere il cappuccio del mantello sulle spalle, scoprendo i lunghi capelli dorati, e aprì il cancello. Sorrise. Un sorriso benevolo e generoso, a cui nessun bambino avrebbe saputo resistere. Un sorriso pervaso di magia, che avrebbe convinto chiunque a seguirla.

    Il ragazzo fece qualche passo in avanti, poi si guardò attorno furtivamente e infine tornò con lo sguardo a quella strana donna. Spaventato ma incuriosito, oltrepassò il cancellò ed entrò nella piccola casa, chiedendosi chi fosse la sua soccorritrice.

    1. Sette anni dopo

    Rafat era una delle città più antiche del Continente e delle Terre del Fuoco, risalente al periodo della pre-glaciazione. Costruita in fondo a una valle contornata da una serie di colline, era circondata da alte mura che andavano sgretolandosi. L’accesso alla città era possibile attraverso due ampi cancelli e un ponte levatoio, là dove il fiume Camir scorreva a dissetare le fertili terre della regione.

    L’antichità era predominante in Rafat e, camminando per i numerosissimi sentieri, alcuni stretti a tal punto da permettere il passaggio di una sola persona, era impossibile non immaginarsi le varie storie che si raccontavano su quella città. Storie che riguardavano tempi antichi, quando ancora i maghi non esistevano, storie tanto incredibili da essere diventate ormai leggende.

    L’edifico più antico dell’antica Rafat era la Torre Alta, un vero e proprio palazzo. L’ala nord era stata distrutta tempo addietro da una seria di scontri verificatasi fra maghi e stregoni. Dopo svariati anni solo l’ala sud, l’ala est e la torre rimanevano intatte. Quest’ultima superava in altezza le mura e persino la Pietra Nera, il palazzo del governatore.

    Era proprio lì che, per quasi mille anni, aveva vissuto l’adunanza di Taon, ed era proprio lì che i maghi apprendisti venivano istruiti. L’ala est era diventata un tempio, aperto al pubblico, ma il resto del palazzo era dedicato esclusivamente ai maghi e ai sacerdoti adepti dell’adunanza, l’unica ufficialmente riconosciuta.

    Coperta da mattoni di un bianco macchiato di fumo, la Torre Alta possedeva tre entrate: una per l’ala est e due per l’ala sud, su entrambi i lati. L’entrata del tempio era composta da una rampa che colmava tutta la facciata, con un peristilio di colonne in marmo, sormontato da una cornice raffigurante la storia di Taon. Il fregio riportava l’immagine scolpita della dea tigre.

    L’entrata principale dava invece sulla Strada del Sole, la più grande di tutta Rafat. Era composta anch’essa da una rampa, con possenti colonne che arrivavano fino al tetto del palazzo, di un color ocra molto scuro. I portoni, in legno d’acero, erano colossali e non venivano aperti da decenni. Al loro fianco c’era, infatti, una piccola porta in ferro nero usata comunemente da maghi e sacerdoti.

    All’interno si apriva un’ampia sala con finestre di vetro dipinto e lunghe tende di un profondo blu notte. Un tappeto indaco copriva la pavimentazione fino all’altro estremo della sala, dove un enorme scalone in pietra nera portava ai piani superiori. Lì, tra numerosi corridoi, vi erano le stanze dei sacerdoti e le biblioteche ricche di volumi sulla magia e la sua storia.

    Tuttavia, il luogo più spettacolare e leggendario della Torre Alta era proprio la torre. Costruita con pietre sconosciute di color blu cobalto, il tetto in mattonelle nere, la torre possedeva un’entrata accessibile soltanto dall’interno dell’ala sud, cosicché nessuno potesse accedervi senza permesso. Ogni piano della torre, a cui si accedeva attraverso una scala a chioccola in pietra, coperta da pesanti tappeti celesti, possedeva almeno due stanze che venivano utilizzate dai maghi come aule per le lezioni.

    Proprio in una di quelle stanze un gruppo di giovani maghi inesperti stava in quel momento seguendo una lezione. Il professore, un mago dell’adunanza piuttosto anziano, con lunghi capelli neri striati di grigio, camminava avanti e indietro in attesa che qualcuno finisse di preparare la pozione richiesta.

    I ragazzi erano di fronte ai loro calderoni e sfogliavano freneticamente i libri per capire come soddisfare la richiesta di Isembar il mago. E proprio tra di loro vi era il protagonista della storia, perso nei suoi pensieri.

    Il suo nome era Yak. Pur facendo parte degli Ikriani, diretti discendenti di quelli che una volta erano chiamati i cacciatori, Yak era magro e piuttosto fragile, ma la sua forza non stava nella prestanza fisica, come tutti i suoi parenti. Yak era un apprendista mago, di circa diciannove anni, età che i maghi consideravano infantile, con un grande potenziale e una delle maestre migliori che gli potessero capitare. Era stato, infatti, istruito da Igbal, sacerdotessa capo dell’adunanza di Taon, la dea tigre della Luce. L’adunanza di Taon, originaria delle Terre del Fuoco, era tra le più antiche esistenti e Igbal aveva ormai la bellezza di quattrocentonove anni.

    Il padre di Yak, un omone di due metri, era a capo delle spedizioni di caccia che rifornivano mensilmente Rafat; era un uomo rude e semplice, che non era mai riuscito a dimostrare al figlio il proprio affetto. Contrariato dal dono che Yak possedeva, si era sempre opposto a lasciarlo crescere come un mago. «Farà una brutta fine se entra a far parte di quel circolo» diceva sempre, ma Yak non gli aveva mai dato ascolto e, all’età di dodici anni, era scappato da casa e aveva incontrato Igbal.

    La madre di Yak era, anch’essa, una donna semplice e frugale, che aveva dedicato tutta la sua vita alla crescita e all’educazione delle sue sette bambine. Yak, sesto di otto figli, era l’unico maschio.

    Si può facilmente immaginare la felicità del padre alla nascita di un bel maschietto dopo ben cinque femminucce, un bambino che poteva crescere ed educare affinché lo aiutasse nel suo lavoro di cacciatore. Altrettanto facilmente si può immaginare la delusione quando, al compimento dei suoi sei anni, il piccolo Yak scoprì i suoi poteri.

    Quel mattino erano stati invitati tutti i bambini del quartiere in cui vivevano Yak e la sua famiglia, il quartiere Nero di Rafat, in cui risiedeva la popolazione più povera della città. Dopo un pranzo interamente preparato dalla madre, finalmente il bambino aveva aperto i suoi regali. D’abitudine, gli Ikriani non amavano fare regali e, per i compleanni, erano soliti donare cibi o utensili. Essi non erano per le cose superflue e vane, dedicavano tutta la loro vita al proseguimento di scopi materiali: avere un buon lavoro, essere a contatto con la terra, mettere su una bella famiglia…

    E Yak aveva ricevuto ciò che tutti si aspettavano: un cestino con della frutta, un altro con del pesce, un intero bue macellato e dei vestiti cuciti dalle sorelle e dalla madre; ma tra i regali aveva trovato anche una lunga lancia, con la punta di pietra grezza, fabbricata da suo padre appositamente per lui, perché la potesse usare durante la sua prima caccia, che si sarebbe dovuta tenere il giorno seguente.

    Tuttavia, l’occasione per provare il suo nuovo regalo si era presentata prima di quanto il bambino non si fosse aspettato. La festa era stata infatti interrotta dopo poche ore da un Twer affamato che era riuscito a eludere la sicurezza di Rafat, mandando tutti nel panico.

    Yak aveva osservato l’animale e poi l’arma che teneva in una mano. Sotto gli occhi del Quartiere Nero di Rafat l’aveva poi diretta con un gesto della mano contro il Twer che, spaventato, era fuggito. Da quel giorno tutti capirono che il bambino possedeva dei poteri magici.

    L’unico, in tutta la famiglia. Le sue sette sorelle, infatti, non avevano dimostrato nessuna particolare inclinazione per la magia, crescendo come la madre insegnava loro: lavando, cucinando e pensando a un futuro marito.

    Tutte erano molto affezionate al fratello, unica figura maschile che era stata sempre presente in casa, ma solo tre di loro avevano instaurato con lui un rapporto più profondo.

    Yon, la più piccola, cresciuta anche da Yak. La ragazza, che aveva cinque anni in meno del fratello, era da sempre stata molto attenta a ciò che la circondava, spinta dalla curiosità verso il mondo e ciò che non conosceva.

    Ylana, nata un anno prima di Yak. Lei era la più simile alla madre, semplice e attaccata alla terra, voleva molto bene al fratello e lo invidiava anche perché lui poteva frequentare una scuola, che invece lei non si poteva permettere.

    Infine, Yden, la terza nata, che aveva risollevato l’umore del loro padre. Alta e robusta, Yden aveva sempre avuto una particolare inclinazione per armi e attività fisiche ed era entrata all’età di sedici anni tra i cacciatori di Rafat.

    In quanto mago apprendista, Yak aveva lezione alla Torre Alta ogni mattino. Era poi solito girare per la città insieme alle sue sorelle o accompagnato da Igbal, quando la sacerdotessa non aveva impegni. Soltanto la sera tornava a casa, quando ormai tutti erano andati a dormire e soltanto Yon era ancora sveglia, pronta a dargli una parte della cena che era avanzata.

    Quel giorno Yak era molto distratto e, mentre prendeva da una boccetta il muschio rosso descritto all’interno del libro, nemmeno si accorse di averne buttato più del doppio nel calderone.

    Continuò a osservare fuori dalla finestra, pensando alla discussione che aveva avuto con suo padre proprio quel mattino. L’uomo l’aveva sorpreso la notte precedente quando il ragazzo stava rientrando di nascosto a casa. Da sette anni credeva che il figlio lavorasse in una piccola bottega del loro quartiere, e gli aveva chiesto per quale motivo fosse in giro per Rafat a quell’ora di notte e Yak, spaventato, non era stato in grado di pensare a una scusa valida.

    Gli aveva risposto, con voce praticamente impercettibile, che era uscito a prendere una boccata d’aria e il padre l’aveva guardato per qualche momento. Infine, gli aveva aperto la porta e l’aveva letteralmente spinto dentro, tanto forte da farlo cadere a terra.

    La piccola Yon l’aveva accolto in camera con una ciotola di zuppa fredda e un tozzo di pane duro. Quando l’aveva visto entrare bianco in volto gli aveva chiesto cosa fosse successo, ma Yak non era riuscito a parlare.

    Il mattino seguente, quando tutti si erano riuniti per colazione, il padre di Yak si era seduto di fronte al ragazzo e era rimasto ad osservarlo durante tutto il pasto.

    «Frequenti ancora quella pazza?» aveva chiesto ad un certo punto, rompendo il silenzio. Il suo tono era così stranamente pacato che tutti, in casa, si erano voltati a guardarlo.

    Yak aveva sentito la propria mano tremare, mentre cercava di portare alla bocca il cucchiaio con il latte. «Igbal non è una pazza» aveva ribattuto fermamente.

    La madre e le sorelle di Yak si erano tutte alzate dal tavolo, posando le loro ciotole sul bancone della cucina e lasciando i due uomini da soli.

    «Diventerai un pazzo anche tu» aveva commentato il padre, mettendosi in bocca un pezzo di pane. «Anzi, forse lo sei già.»

    Yak non aveva detto nulla e aveva continuato a bere il suo latte. Tutti in casa sapevano che lui frequentava la Torre Alta; tutti tranne suo padre. Lui non avrebbe approvato e certamente l’avrebbe costretto a lasciare l’adunanza per andare a svolgere qualche lavoro pesante.

    Uno strano odore, come di carne bruciata, interruppe per un momento i suoi pensieri. Cercò di allontanarlo dalla propria mente, tornando ancora una volta a quella mattina.

    Il padre si era alzato da tavola. «Non hai risposto alla mia domanda.»

    Yak aveva finito la propria ciotola ed era rimasto a guardare i residui del pane per qualche istante. «Ogni tanto» aveva detto con voce tremante.

    L’uomo si era girato e l’aveva fulminato con lo sguardo. «Se hai intenzione di entrare a far parte di quella banda di pazzi, allora dovrai fare a meno di questa casa. Non voglio uno come te qua.»

    Yak aveva alzato lo sguardo e si era trovato a fissare quegli occhi duri. Dopo un momento, si era alzato da tavola, aveva posato la sua ciotola ed era uscito di casa senza dire più una parola.

    Era fatta. Ormai non poteva più tornare indietro, doveva trovare un posto dove stare o sarebbe finito a dormire per strada insieme ai barboni della città.

    Un improvviso gorgoglio lo distrasse, seguito da alcune urla e da una mano che gli afferrava il braccio. Yak tornò così bruscamente alla realtà e si rese conto che dal suo calderone straripava una sostanza giallognola, che presto iniziò a produrre un fumo dal pessimo odore.

    «Che hai combinato?» chiese infuriato Isembar.

    Yak allora notò che il mago lo stava tenendo stretto per il polso e che tutti i suoi compagni si erano voltati verso di lui. Intercettò lo sguardo di Fel, il suo migliore amico, che tratteneva a stento le risate.

    Il liquido giallo continuò ad uscire, poi, improvvisamente, saltò in aria con un’esplosione che rivestì pareti, mobili e maghi. Quando fu ricoperto da quella sostanza disgustosa, il volto di Isembar si strinse accigliato, talmente forte che Yak iniziò a temere potesse implodere da un momento all’altro.

    Alla fine, il mago scosse il ragazzo per qualche secondo e tornò alla sua solita espressione: adirata ma controllata: «Questa volta l’hai combinata grossa. Ti porterò nell’ufficio di Igbal, immediatamente!» urlò, tirandolo per costringerlo a uscire dall’aula.

    All’ultimo piano della torre l’ufficio di Igbal era segnalato da una pesante porta a due ante color mogano, con la raffigurazione della dea scolpita nel legno. Ai lati erano state disposte due piante che raggiungevano il soffitto, con succosi frutti rossi che i maghi antichi utilizzavano come veleno.

    All’interno la stanza era una delle più calde e accoglienti di tutta la torre e dell’intero palazzo. Le pareti erano state verniciate di un profondo color sabbia, un tappeto poco più scuro steso a terra attutiva i passi.

    La scrivania della donna era stata posizionata al centro della stanza, di fronte alle ampie finestre. La luce entrava in maniera uniforme e rischiarava ogni angolo dell’ufficio, rendendo l’atmosfera cordiale e confortevole.

    Ciò che più colpiva in tutta la stanza era l’enorme dipinto che ritraeva un uomo dai lunghi capelli dorati, a cavallo di una tigre, in mano una spada d’argento. Era Quer, il primo ed unico Dono di Taon che fosse mai esistito, il solo che avesse mai rappresentato la dea tigre.

    Quando Isembar aprì violentemente le porte del suo studio, Igbal era intenta a scrivere una lettera di estrema importanza, con mano ferma e decisa. Alzò lo sguardo sul mago che le stava di fronte e, non appena vide il ragazzo che teneva stretto per un braccio, sospirò.

    «Ha distrutto un calderone e sporcato il laboratorio» affermò Isembar con voce dura. «Un’altra volta.»

    Igbal annuì, alzando una mano come a zittirlo. «Va bene, Isembar, lascialo pure a me. Ora puoi tornare dagli altri apprendisti, userete il laboratorio di riserva.»

    Il mago scrutò con occhi fiammeggianti il giovane Yak, poi lo lasciò andare e, dopo essersi leggermente inchinato - non troppo a fondo, per non prestare troppo rispetto a Igbal - uscì dalle porte, richiudendole alle sue spalle.

    La donna si mise più comoda sulla sedia, nascondendo la lettera sotto un cumulo di fogli. «Allora, Yak, che cosa è andato storto questa volta?»

    Il giovane apprendista si guardò le mani, tremando di fronte allo sguardo della sacerdotessa. «Ho messo troppo muschio rosso, signora.»

    La donna sorrise sotto i baffi, ma nel suo tono, quando parlò, non si udì alcuna traccia di divertimento. «Yak, quante volte ti devo dire che un mago deve sempre…»

    «Avere il controllo dei propri pensieri» terminò lui, poi sospirò e iniziò a giocherellare con le dita della mano. «Lo so. Mi dispiace di avervi deluso nuovamente, forse non sono adatto a fare il mago».

    Un’improvvisa forza costrinse il ragazzo ad alzare lo sguardo.«Yak, tu puoi diventare qualcuno di molto potente. Io ho creduto in te fin dal primo momento, ma c’è bisogno del consenso di ogni membro dell’adunanza affinché tu possa diventare un vero mago. Anche di Isembar. Devi impegnarti, Yak.»

    «Lo so, signora. Lo farò, signora» rispose lui, a disagio sotto lo sguardo di fuoco della sacerdotessa.

    Lei gli sorrise comprensiva. «Lo so che lo farai, ma ho bisogno di essere sicura che quando ti chiederò di svolgere un compito tu sarai pronto.»

    «Che tipo di compito, signora?» chiese Yak incuriosito dall’improvviso cambiamento.

    La donna scosse la testa. «Ora non è il momento. Quando saprò che sarai pronto, te lo dirò» rispose, con voce più dolce e benevola «adesso sarà meglio che ritorni da Isembar, ti starà aspettando».

    «Certo, vado subito, signora» disse il ragazzo, abbassando nuovamente la testa. Si voltò e fece per aprire le porte, ma Igbal lo richiamò.

    «Ah, Yak?»

    «Sì, signora?» chiese lui osservandola, la mano sulla maniglia.

    «Ci vogliono solo due manciate di muschio rosso.»

    Yak sorrise. «Grazie, signora» uscì dalla stanza e percorse il corridoio con la massima calma, ritardando il più possibile il ritorno a lezione.

    Passarono quattro lunghi anni da quel giorno, quando finalmente arrivò il momento che Yak attendeva da tanto tempo: la cerimonia. L’ultimo ostacolo prima di entrare a far parte dell’adunanza di Taon.

    Quel giorno si svegliò nel fienile di casa sua, immerso nella più totale oscurità. Da quando aveva discusso con suo padre, Yak non era mai tornato dentro casa. Non aveva mai più rivisto la faccia burbera di quell’uomo che tanto odiava, né il viso gentile di sua madre. Vedeva soltanto Yon e Ylana, le uniche due sorelle che gli fossero rimaste accanto.

    Si stiracchiò, puntando lo sguardo sul fascio di luce che entrava nel fienile. Illuminava, come ogni mattina, il piatto che Yon gli aveva lasciato per terra. Il ragazzo si avvicinò alla colazione e vide un pezzo di formaggio con del pane morbido. Li prese entrambi e iniziò a sfamarsi, bevendo di tanto in tanto un goccio di latte. Si sentiva in preda all’ansia, lo stomaco si contorceva e le gambe gli tremavano.

    Aspettava il giorno della cerimonia da quando aveva conosciuto Igbal e lei gli aveva raccontato tutto sui maghi e sulle adunanze. Quella volta, undici anni prima, la donna gli era sembrata come una madre tenera e generosa.

    «Le adunanze sono nate circa ottocento anni fa, quando agli dei e ai loro Doni è stato riconosciuto un qualche privilegio. Le adunanze originali sono tante quanti gli dei, mentre ci sono altre adunanze più piccole, ma pur sempre importanti, che hanno a capo sacerdoti invece che i Doni» gli aveva raccontato mentre lui beveva, come in quel momento, del latte.

    «Che cosa sono i Doni?» aveva chiesto lui incuriosito.

    Lei gli aveva sorriso. «Ogni dio che noi conosciamo possiede una sorta di rappresentante terreno, che viene chiamato Dono, il quale gode di straordinari poteri. Non è potente quanto il dio che rappresenta, ma può decidere del male o del bene della propria adunanza e di tutte quelle affiliate».

    «Anche voi siete un Dono?»

    Ricordò che il sorriso della donna si era spento in quel momento e un brivido aveva attraversato la schiena del ragazzo, come se la stanza fosse piombata improvvisamente nel gelo più totale. «No, io sono soltanto una sacerdotessa. Taon ha avuto un unico Dono, Quer, morto tanti anni fa. Da allora non esiste più un’adunanza originale di Taon, ma la nostra qui a Rafat viene riconosciuta come la più grande e la più influente».

    Subito dopo si era alzata, gli aveva spettinato i capelli e augurato la buona notte, uscendo dalla stanza senza più dire una parola. Il mattino seguente non gli aveva più parlato dei Doni, ma aveva risposto alle infinite domande del bambino sui maghi.

    «Un mago che non appartiene ad un dio viene chiamato Stregone e non può prendere la propria forza dalla divinità che serve. Gli stregoni sono molto più potenti di noi maghi, poiché possono trarre il potere direttamente dalla natura.»

    «La natura non è una cosa buona?»

    Gli occhi di Igbal si erano rabbuiati una seconda volta, facendo calare nuovamente la temperatura della casa.

    «Il potere strappato alla natura è illimitato, non finisce mai, e chi ha un potere illimitato non si accontenta mai di ciò che ha. Comunque, tutte queste sono solo teorie e speculazioni; la verità è che nessuno conosce abbastanza gli stregoni e questo spaventa». Poi aveva sospirato e il sorriso era comparso nuovamente sulle sue labbra.

    Da quel giorno Yak aveva sempre temuto che lui fosse destinato ad essere uno stregone. Tutti, alla Torre Alta, avevano avuto dei sospetti su di lui, messi a tacere dalla sacerdotessa.

    Tuttavia, dopo la cerimonia, Yak avrebbe finalmente potuto dire di essere un mago. Un vero mago, non uno stregone, non un pazzo come lo chiamava suo padre. Sì, quello sarebbe stato un giorno molto importante per Yak, ma anche per tutto ciò che sarebbe avvenuto in seguito.

    La cerimonia dei maghi apprendisti si sarebbe tenuta nel tempio di Taon, che per un’intera giornata sarebbe rimasto chiuso al pubblico. Yak sapeva che il tempio era stato allestito proprio in funzione di quella cerimonia dai maghi e dai sacerdoti adepti.

    Tutto era pronto, bisognava soltanto preparare gli apprendisti. I ragazzi venivano fatti lavare e vestire, dovevano imparare a memoria alcune brevi frasi da pronunciare durante la cerimonia e dovevano trovare un incantesimo che mostrasse a tutti i presenti il loro potere.

    L’incantesimo era ciò che spaventava più di tutto Yak. Nonostante fossero passati anni da quando era entrato a far parte dei maghi apprendisti, ancora non era stato in grado di perfezionare il proprio potere. Non riusciva a controllarlo e si ritrovava sempre a fare qualche disastro.

    Isembar era stato contrario ad ammetterlo alla cerimonia fino a una settimana prima. Lui e Igbal avevano discusso animatamente per più di due ore su Yak e il ragazzo aveva aspettato fuori dall’ufficio della sacerdotessa, teso e nervoso, fino a quando la donna non l’aveva accolto con un sorriso tanto ampio da riempirlo di gioia.

    La pioggia che cadeva fitta quel mattino interruppe i pensieri di Yak. Ormai stava per finire l’inverno, ma il tempo ancora non si decideva a migliorare. Faceva sempre freddo e pioveva ormai da settimane; dov’era la primavera? Dov’erano i bambini con i loro giochi, gli anziani che passeggiavano? Dov’erano gli animali?

    Volò per le strade di Rafat, inzuppandosi, e raggiunse la Torre Alta. Nell’aula più ampia i suoi compagni stavano aspettando di iniziare la preparazione, tesi sotto ai lunghi mantelli scuri. Quando il ragazzo entrò tutti si fermarono ad osservarlo per qualche istante, poi tornarono alle proprie occupazioni.

    Fel si avvicinò all’amico. «Non mi aspettavo di vederti oggi, ho sempre pensato che Isembar avrebbe fatto i salti mortali per impedirti di compiere la cerimonia.»

    Yak sorrise nervoso. «L’ho sempre pensato anch’io.»

    Una porta si aprì e tutti i sacerdoti dell’adunanza entrarono. Igbal, in testa agli altri, indossava un vestito di un rosso cupo e lucente che rimandava la luce artificiale delle candele. Da lontano Yak pensò fosse ricoperto di diamanti insanguinati.

    «Buongiorno, giovani maghi» disse la donna con voce calda «spero che questa notte abbiate riposato e non vi siate preoccupati troppo per la cerimonia. Non dovete temere, il peggio l’avete affrontato in questi anni da apprendisti.»

    Yak sentì lo stomaco contorcersi e si passò una mano sulla pancia per cercare di calmarlo.

    «Ora ognuno di noi sacerdoti vi accompagnerà a prepararvi» continuò Igbal, facendo segno agli altri con le braccia. Uno per uno, i giovani apprendisti uscirono dalla stanza, fino a quando Yak non rimase da solo.

    La donna guardò il suo prediletto e sorrise di nuovo. «Ti senti pronto, Yak?»

    Il ragazzo alzò le spalle, sentendosi improvvisamente fradicio di pioggia. La donna gli lanciò un asciugamano e gli fece segno di uscire dalla stanza. «La preparazione sarà lunga e noiosa, ma voglio che tu ti concentri principalmente sull’incantesimo che dovrai eseguire davanti a noi questa sera. Hai già qualche idea?»

    Yak scosse la testa. «Pensavo a qualcosa di semplice.»

    Igbal richiuse la porta dietro di sé e lo invitò a scendere le scale. «Non devi aver paura di sbagliare, Yak. Questa è la tua cerimonia, devi mostrare il meglio di te.»

    «Appunto» rispose il ragazzo sconfortato.

    Lei rise. «Non sminuirti di fronte ai maghi dell’adunanza e di fronte alla stessa Taon. Ora vai fuori e ripercorri le strade di Rafat fino a quando non ti sarà venuto in mente qualcosa. Nel frattempo» continuò, tirando fuori un libricino da sotto il mantello, «dai un’occhiata alle frasi che ho sottolineato per te. Devi impararle entro questa sera.» Yak prese in mano il libro rivestito di velluto rosso e lo tenne sul palmo per qualche secondo, poi guardò la sacerdotessa e annuì: «Quando devo tornare?».

    «Quando ti sentirai pronto e non avrai più il timore di mostrare le tue doti magiche.»

    Allora non tornerò mai pensò il ragazzo fra sé e sé. Prese un respiro profondo e aprì la porta della Torre Alta.

    Il cielo azzurro segnava la fine della pioggia e l’arrivo del sole a riscaldare l’aria, risvegliando la città dal lungo letargo dell’inverno. Yak scosse gli scuri capelli ancora umidi, il cuore stretto in una presa di pietra. Iniziò a vagare per Rafat, attraversando la Strada del Sole e svoltando verso la Strada Ghiaiosa.

    Senza nemmeno rendersene conto si stava dirigendo verso il mercato, luogo di incontro per tutta la popolazione. Oltrepassò il Vicolo dello Sgorbio e si infilò in un cunicolo che in pochi conoscevano. La puzza di sudore ed escrementi gli attaccò il naso con violenza. Portandosi la manica della logora tunica al viso, Yak aumentò il passo.

    Sbucò in una stretta via e proseguì più lentamente, fino a giungere alla taverna preferita di suo padre, il Cinghiale Imbufalito. Aprì la porta del retro e si immerse nel locale, dove uno schiamazzo di gente che urlava gli aggredì le orecchie.

    Salutò con la mano la proprietaria, una donna bassa e grassa con i capelli unti e le mani perennemente sporche di birra. Si destreggiò fra i tavoli fino a raggiungere la porta principale, che aprì per tornare all’aria fresca.

    La Via dei Sogni pullulava di persone che si stavano dirigendo come Yak verso il mercato, ma il ragazzo sogghignò mentre si avviava verso la sua scorciatoia, un altro piccolo vicolo che attraversò in fretta per evitare il Concimatore, figura leggendaria inventata dagli adulti per spaventare i bambini.

    Attraversò infine un piccolo arco in pietra che portava in un’altra corta galleria e fece il suo ingresso nella via in cui ogni mese si svolgeva il mercato di Rafat, la Rampa Nuova. Era stata in origine la via che il fondatore della città aveva percorso dopo averne eretto le mura. Era ricoperta di ciottoli di ogni colore, che talvolta formavano dei disegni di una bellezza incredibile, creati da artisti accuratamente selezionati dall’imperatore.

    Con gli anni la Rampa Nuova aveva perso la sua importanza in fatto di politica, poiché il governatore non vi passava più sovente, ma non aveva mai smesso di essere il centro della vita di tutta la città. Il mercato, uno dei più grandi di tutte le Terre del Fuoco, era secondo soltanto a quello di Dauron e di Lancia, che si teneva ogni quattro mesi.

    Durante i giorni del mercato, a Rafat era possibile incontrare viandanti e mercanti provenienti da ogni parte delle Terre del Fuoco. Da quasi un anno erano soliti venire, ormai, degli artisti di strada che allestivano un vero e proprio circo al centro della Rampa Nuova. Yak non ci era mai stato, ma aveva spesso accompagnato le sue sorelle all’insaputa dei genitori, approfittando dell’occasione per girare da solo.

    Quel giorno il mago fu attratto proprio dal tendone blu, alla cui entrata era appostato un uomo che sarebbe parso serio, se non fosse stato per i vestiti che indossava. La calzamaglia bianca, la giacchetta gialla e il cilindro verde stonavano con l’espressione autorevole del volto ricoperto da due enormi baffoni bianchi.

    «Vuole assistere allo spettacolo?» chiese con voce in falsetto guardando il ragazzo.

    «Di che si tratta?»

    Gli occhi della guardia si illuminarono e un sorriso apparve sotto i mustacchi. «Oh, si tratta di magia, ragazzo».

    Yak lo squadrò per qualche secondo, poi tirò fuori il borsellino. «Vediamo questa magia.»

    «Oh no» rispose l’uomo osservando i soldi «per lei è gratuito. Fra maghi ci si intende.»

    I veri maghi fanno parte delle adunanze, non se ne vanno in giro per il Continente a mettere su spettacoli, pensò irritato. Infine, alzò le spalle. «Va bene.»

    L’altro sorrise. «Prego, mi segua» disse facendo cenno verso l’entrata «mi segua, bisogna correre o rischia di non trovare posto.»

    L’uomo si inoltrò nel tendone e fece largo a Yak, che dopo pochi passi si ritrovò stretto tra due gradinate immerse nel buio più totale. Con qualche sforzo il ragazzo riuscì finalmente a salire e prendere posto, con lo strano uomo seduto accanto a lui.

    «Di quale adunanza fate parte?» chiese sottovoce, ma proprio in quel momento le luci si accesero e l’uomo al suo fianco non rispose. Guardandosi attorno, il mago si rese conto di quanta gente si fosse riunita a vedere lo spettacolo, in quel momento tutti rapiti dal palcoscenico.

    Spostando il suo sguardo vide una ragazza abbigliata con un costume perlato e un cilindro bianco posato sui capelli biondi. In mano teneva quella che sembrava essere una bacchetta e accanto a sé aveva una pila di fogli bianchi. Con movimenti aggraziati e acrobatici allo stesso tempo ne prese uno. Con la bacchetta iniziò ad incidere qualcosa e Yak comprese che in realtà si trattava di una lunga matita. Mostrò infine il suo lavoro al pubblico, che poté ammirare il disegno di una bellissima pantera. Ci furono pochi secondi di silenzio, poi una porta si aprì e il felino uscì con passo felpato sul palco.

    Tutti applaudirono, ma il ragazzo non ne capiva il motivo; era chiaro che tenessero già una pantera addestrata dietro le quinte.

    L’uomo vestito di giallo e verde gli tirò una gomitata. «Ha visto che brava? Rimangono sempre tutti estasiati» esclamò emozionato.

    Nel frattempo, la pantera si era avvicinata alla ragazza e le si era accoccolata accanto. Un altro foglio era stato preso e sopra, tutti poterono vedere, era stato incisa una stella.

    Le luci si spensero e per qualche istante non fu possibile vedere nulla, fino a quando una debole luce non penetrò nel tendone. Sembrava piccola ma potente e fluttuava nell’aria seguendo una danza che solo lei conosceva. Altre piccole lucine seguirono la prima, disponendosi come a creare un cielo stellato. Yak era stupito e scettico allo stesso tempo; lo spettacolo era meraviglioso, ma non si trattava certamente di magia.

    «Questo è il nostro pezzo forte» sussurrò l’uomo buffo vicino a lui.

    Le luci si accesero nuovamente e, sparite le stelle, sul palco era scomparsa anche la pantera ed erano invece giunti altri due uomini coperti da lunghi mantelli blu. Uno dei due prese un foglio, mentre la ragazza saliva una scala che era stata sistemata lì vicino dall’altro uomo. Quando pose il piede di fronte a sé, nel vuoto, tutti gli spettatori trattennero il respiro.

    Con eleganza la ragazza pose l’altro piede davanti al primo, rimanendo in perfetto equilibro su quello che Yak sapeva essere un supporto trasparente. Gli spettatori scoppiarono in un fragoroso applauso, mentre il secondo uomo girava il foglio e mostrava a tutti di aver disegnato una semplice retta.

    «Un filo comparso dal nulla» bisbigliò l’uomo in calzamaglia.

    Yak aggrottò le sopracciglia e rimase ancora più scettico di prima. La ragazza stava attraversando l’intero palco volteggiando su quello che ora tutti potevano vedere: un sottilissimo filo che luccicava.

    Il pubblico scoppiò in un fragoroso applauso e la scala fu rimossa. La ragazza attraversò le tende e lasciò il palco, mentre gli altri due uomini facevano cadere a terra i loro mantelli. Avevano delle lunghe tuniche nere e indossavano delle maschere argentate che brillavano per le luci soffuse del tendone.

    Uno dei due prese in mano un lungo bastone, l’altro continuava a disegnare; mostrò agli spettatori il disegno di un drago colorato di rosso. Il bastone prese improvvisamente fuoco e un turbine d’aria fece roteare le fiamme, che si disposero in modo da formare un grosso muso di drago con le fauci aperte.

    Infine, ecco di fronte a Yak un drago di fuoco che volteggiava all’interno del tendone. Gli spettatori si spaventarono e si ripararono sotto le panche, mentre i due uomini sul palcoscenico facevano muovere l’apparizione.

    «Che ne dice, le piace?» chiese l’uomo seduto accanto a Yak.

    Il ragazzo ammirò per qualche secondo il drago, poi spostò il suo sguardo verso i due uomini. «Qual è il trucco?»

    L’altro rise. «Dovrebbe saperlo bene che non c’è nessun trucco.»

    Yak sospirò e si alzò, lasciando il tendone senza essere fermato. Tornato all’aria aperta annusò l’odore dei vari profumi che riempivano la Rampa Nuova in quella giornata. Carne, verdure, spezie… Si poteva trovare qualsiasi tipo di ingrediente al mercato di Rafat.

    Sospirò pensando al motivo per cui si era recato lì. Attraversò tutta la Rampa Nuova e giunse nel Quartiere Vecchio di Rafat, dove alcune vecchie case circondavano ciò che era rimasto di un antico tempio dedicato a Taon. Si sedette su uno dei giganteschi mattoni bianchi che avevano costituito i pilastri e rimase lì a pensare.

    Igbal si aspettava che lui si presentasse alla cerimonia e non poteva deluderla, per quanto il ragazzo fosse spaventato all’idea di combinare uno dei suoi soliti pasticci in un momento tanto importante. Doveva trovare un incantesimo che gli permettesse di fare una bella figura, qualcosa di semplice ma emozionante allo stesso tempo.

    Mentre era perso nelle sue riflessioni il sole si era già alzato a indicare la metà della giornata e il ragazzo si era

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