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Acero e Acciaio
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E-book382 pagine5 ore

Acero e Acciaio

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Info su questo ebook

Anno 1888. Tra la Francia della Belle Époque e la Londra vittoriana, s’intersecano le vicende di sette personaggi all’inseguimento di un prezioso Stradivari: un geniale ma squattrinato pittore che sogna i tropici, un collezionista idealista che vuole a tutti i costi riscattare la memoria del maestro, un’eterogenea banda di delinquenti improvvisati che tenta il colpo della vita, un giovane poliziotto di Scotland Yard dal fiuto eccezionale, un eccentrico aristocratico con la passione per gli enigmi investigativi e la nipote, adolescente ribelle. Le loro vite ruotano intorno alla ricerca del leggendario violino, su cui pesa la maledizione di sfuggire sempre a chi più lo desidera.
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2021
ISBN9788832144765
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    Anteprima del libro

    Acero e Acciaio - Paolo Santaniello

    storica.

    CAPITOLO PRIMO

    Parigi, luglio 1888

    Paul si era alzato presto quella mattina, aveva indossato l’ultima camicia pulita e il suo vecchio cappellaccio ed era uscito in strada, incamminandosi di buon passo verso il II arrondissement, dove era in programma il primo dei suoi due appuntamenti della giornata.

    Parigi.

    Meravigliosa Parigi.

    Già a quell’ora brulicava di vita, di ogni genere di vita.

    Attraversando a piedi il buon pezzo della città che lo separava dalla sua meta, Paul ne assaporò i profumi, i sapori, i colori: soprattutto i colori.

    Magnifica l’atmosfera, magnifiche le architetture. Più d’ogni altra cosa, era magnifica la varietà infinita dell’umanità che vi abitava.

    Strada dopo strada, avvicinandosi al centro, Paul vide le vie popolarsi di uomini e donne di ogni età, impegnati nelle più diverse occupazioni.

    Dalla sua bottega, il panettiere sfornava baguette dorate, orgoglioso della fragranza con cui deliziava l’aria del quartiere; le signorine uscivano a fare una passeggiata di buon’ora e il sole era già così forte da dover aprire gli ombrellini; il vetturino di una carrozza salutava, incrociandolo, il suo collega al trotto, prima di immettersi cantando nella strada principale; due poeti, confrontandosi con voci acute da ragazzini, si accomodavano al tavolo all’aperto di un caffè, già presi dalla passione travolgente dell’arte, mentre il garzone tirava la tenda per far loro ombra.

    Paul era nato a Parigi e vi era ritornato dopo aver fatto il giro del mondo; ma in quell’estate del 1888 non poteva permettersi di viverci: non aveva più soldi. La stava attraversando a piedi, appunto per risparmiare il denaro di una carrozza. Anche la pensione in cui alloggiava, pur economica, gli avrebbe fatto credito soltanto per un altro paio di giorni. Ecco perché aveva organizzato quei due appuntamenti in un’unica giornata: per pagare un pernottamento in meno nella costosa capitale.

    La mattinata si annunciava caldissima.

    Paul aveva in tasca soltanto un pugno di franchi, una matita e un’agendina, che tirò fuori per esser certo di non sbagliarsi: il suo appuntamento prima di mezzogiorno era al Louvre, con un ricco mecenate dal quale sperava di ottenere finanziamenti; l’appuntamento del pomeriggio era a Montmartre, con un uomo ben disposto e influente nel mondo dell’arte, dal quale sperava di ottenere... finanziamenti.

    Sono le ultime due carte che ho da giocarmi, per questa stagione, pensava. Se va male con entrambi, tornerò subito in Bretagna a dipingere: la vita a Pont-Aven costa molto meno che a Parigi.

    Studio per un violino

    Il sole era già alto quando Paul arrivò, accaldato ma ancora presentabile, all’ufficio nei pressi del Louvre, dove aveva il suo appuntamento.

    Francois Henri Moreau lo accolse in uno studio monumentale, che sembrava una sala di museo, gremita di oggetti d’arte: quadri, fini ceramiche portoghesi e, più di ogni altra cosa, strumenti musicali ad arco e a corda, la grande passione di Moreau.

    Paul passò accanto a viole e violoncelli dalle forme sinuose e dalle vernici lucide, per poi soffermarsi sopra quell’oud: un liuto arabo che, con le sue decorazioni a forma di occhi e bocca, parve sorridergli. Lo interpretò come un buon auspicio per l’esito dell’incontro. Il padrone di casa indossava abiti preziosi e leggeri; quell’aspetto distinto metteva in soggezione Paul, nei suoi vestiti modesti, con quei baffoni incolti e i capelli sempre lunghi e spettinati.

    «Caro amico, è un onore avervi ospite nel mio studio: questo appartamento mi è stato concesso per la collaborazione con il Salon di Parigi, sapete? Ho pensato di trasferire qui la mia collezione privata.»

    «Il piacere è mio» rispose Paul, «vi faccio i più vivi complimenti: vedo pezzi davvero impressionanti.»

    «Non merito complimenti, lo dico senza falsa modestia, sono solo un collezionista: l’arte la posso ammirare, apprezzare, comprare, custodire; non creare. Non sono, e me ne rammarico, un artista come voi.»

    «Ma anche gli artisti hanno bisogno di mecenati e acquirenti che ne valorizzino il lavoro, per progredire» mangiare era la parola che Paul aveva pensato «quindi la vostra opera è ben meritoria, credetemi, per lo sviluppo delle arti.»

    «Oh, ne convengo; infatti, ricordo benissimo, dell’ultima volta che ci incontrammo, quando cercaste di vendermi uno dei vostri quadri!»

    «Senza successo, se ben rammento...» e su questo Paul non poteva sbagliarsi: non aveva venduto che due o tre quadri in tutto, nell’ultimo anno.

    «Avrei estremo rincrescimento, se vi foste ritenuto offeso dal mio rifiuto» si affrettò a dire Moreau «e sono contento che abbiamo la possibilità di incontrarci di nuovo, così posso dirvi, in tutta onestà, che i vostri quadri sono magnifici, per quello che ne può capire un semplice amatore come me. È evidente come la pittura sia la vostra passione, la vostra vita. Io vivo allo stesso modo le mie passioni, ma per arti differenti: la musica e la liuteria.»

    Moreau indicava con la mano le teche con i suoi gioielli: dal sitar indiano al mandolino italiano.

    «Avete detto bene: dipingere è la mia vita. Perdonatemi, allora devo aver frainteso la lettera che mi avete inviato. Avevo immaginato un vostro interessamento orientato alla pittura; qui a Parigi non avrei molte opere da mostrarvi; ma se voleste degnarvi di far visita al mio studio in Pont-Aven, vi metterei a disposizione tutti i dipinti che ho realizzato nell’ultimo anno: vi assicuro che il viaggio nelle Antille ha dato frutti che vi stupirebbero.»

    Moreau stava ascoltando solo per formale cortesia: non era interessato ai dipinti di paesaggi delle Antille, era chiaro, e non sarebbe andato fino in Bretagna per vedere quelle tele, né alcun altro quadro. Paul lo aveva capito dal primo sguardo, ma si sentì in dovere di provarci comunque.

    «Vi prego, basta» tagliò corto Moreau. «I vostri capolavori sarebbero sprecati per me, non intendo acquistarli; non sono la persona giusta per valorizzare quel genere di arte.»

    «Apprezzo la vostra schiettezza, ma allora per quale motivo mi avete scritto e fatto venire qua da voi, oggi?»

    Moreau sorrise e si avvicinò alla scrivania, aprendo il grosso cassetto centrale. «Ho un lavoro da commissionarvi.»

    Paul fu felice di udire quelle parole.

    Lavoro vuol dire paga. Magari con un bell’anticipo.

    Si accostò subito al tavolo.

    Moreau fece scivolare dall’ampia fronte stempiata gli occhialini con montatura argentea e aprì sulla scrivania un faldone pieno di fogli: «Guardate che meraviglia.»

    Dinanzi agli occhi di Paul apparvero, tracciati in inchiostro nero, disegni di forme tonde e serpeggianti; volute complesse, eleganti. In un primo momento non capì di cosa si trattasse; parevano figure astratte, ma al tempo stesso sensuali e familiari. Infine mise a fuoco: «...Un violino?»

    «È un mio studio per il ritratto di un violino molto speciale» specificò Moreau.

    Erano disegni a china, precisi e realistici; diverse vedute dello strumento, in scala, da tutte le prospettive. Aveva più l’aspetto di una riproduzione di tipo tecnico, che una creazione artistica.

    «Avete fatto voi questi disegni?» chiese Paul.

    «Sì» confermò Moreau orgoglioso, «ma sono solo schizzi: niente, a paragone di quello che potrebbe dipingere un grande artista come voi.»

    Paul era interdetto.

    «Volete che io faccia per voi il ritratto di un violino?» domandò incredulo.

    «Questo non è un violino qualsiasi! È il re di tutti i violini! Questo è il Messia!» Moreau pronunciò quella parola come fosse avvolta da un alone di sacralità.

    «Il Messia...» ripeté Paul ancora perplesso. «In che senso? Perché questo nome?»

    «Così lo chiamava il mio maestro e ben riassume la sua fama: si tratta di uno strumento leggendario» Moreau batté con il dito sopra un punto preciso del foglio, la riproduzione fedele dell’etichetta:

    "Antonius Stradivarius Cremonensis Faciebat Anno 1716"

    «Ah, uno Stradivari!» lesse Paul. «E come mai è chiamato il Messia

    «È una storia lunga, ma se siete interessato al lavoro, più tardi, con calma, ve la racconterò. Fu proprio il mio maestro, Jean Alard, ad attribuirgli il nome e a portarlo in Francia dall’Italia.»

    «In Francia, bene. Significa che avete il violino con voi? È nella vostra collezione?»

    «No» un lampo balenò negli occhi di Moreau «non è in mio possesso, né si trova esposto in alcun museo, attualmente. Anzi, non ho mai avuto il piacere di vedere lo strumento di persona in tutta la vita!»

    «Allora come avete potuto fare dei disegni così accurati?»

    «Li ho copiati e rielaborati dagli studi di vari liutai e collezionisti che hanno avuto la fortuna di tenere il pezzo fra le mani. Ho confrontato tre diversi autori; per rintracciare ciascuno di loro, ho impiegato molto tempo e a ciascuno ho pagato un caro prezzo. È un lavoro di anni.»

    Paul cominciava a comprendere l’ossessione maniacale di quell’uomo per i violini; forse per quell’oggetto in particolare. Prima l’aveva sottovalutata.

    Almeno pagherà bene pensò.

    Tuttavia qualcosa non lo convinceva.

    Paul scosse la testa: «Sono lusingato, ma non penso sia un lavoro adatto a un pittore come me. Potrebbe essere lavoro per un ingegnere. Quello che chiedete è una riproduzione, non un’opera artistica!»

    «Non fraintendetemi. Non voglio che voi facciate nuovi disegni del mio studio: voglio che diate un’interpretazione personale e raffinata, secondo il vostro gusto. Realizzate uno o più quadri aventi come soggetto il Messia e vi prometto fin da ora che li acquisterò.»

    Paul era abituato a dipingere all’aperto, paesaggi; oppure soggetti umani; non certo violini. Non era entusiasta dell’idea. Aveva bisogno di denaro ma quella storia non lo faceva sentire a suo agio, era poco credibile.

    «Dovrei lavorare vedendo l’oggetto di persona, ovviamente: dove si trova in questo momento?»

    «Mi sarebbe piaciuto esporlo qui a Parigi anche per un tempo limitato, ma non è stato possibile. Vedete, il violino è stato comperato anni fa da un inglese. Speravo di acquistarlo io stesso, ma da quando lo strumento ha lasciato la Francia, ogni cosa è diventata più difficile.»

    «Allora dovrei andare in Inghilterra, per vedere il violino?»

    «Vi pagherei le spese del viaggio, in anticipo. In aggiunta al pagamento dell’opera una volta compiuta, che m’impegno ad acquistare. Che ne dite? Vogliamo parlare dei dettagli? Siete interessato alla mia proposta?»

    Paul era incerto: tutta la faccenda gli sembrava strana, ma aveva urgente bisogno di liquidità: in quel frangente la parola anticipo suonava alle sue orecchie più piacevole della musica di tutti gli Stradivari d’Europa. Sì, voleva conoscere qualche dettaglio in più: di quanti soldi si stava parlando, ad esempio, e quanto tempo ci sarebbe voluto. Quando aprì la bocca per domandare quei particolari, invece, un impulso irrazionale gli suggerì una domanda del tutto diversa:

    «Di che colore è il Messia?»

    «Colore?» esitò spiazzato Moreau. «Non capisco quale importanza possa avere.»

    «Tutta l’importanza del mondo» rispose Paul. «Il colore è tutto! I vostri disegni sono a china e non ci sono colori. Nel mio lavoro di artista, viceversa, io non sono in grado di esprimere nulla, senza passare per il colore.»

    «Vi prego di scusarmi: sapete, a causa del mio daltonismo sono portato a sottovalutare sempre la questione dei colori, così importante per voi pittori. Per quanto concerne il Messia, be’... le descrizioni sono unanimi nel definirlo arancio-marrone chiaro.»

    Daltonico! Paul si scoraggiò a quella notizia. Costui non potrà mai apprezzare appieno la mia arte! È condannato a una percezione incompleta del mondo; ciò che per me è passione e vita, per lui risulta incomprensibile. Dovrei rifiutare su due piedi questo lavoro e andare via!

    «Forse potrei lavorare altrettanto bene su una copia. Un buon liutaio riuscirebbe a realizzare una riproduzione, da questi disegni?»

    «Una copia? No, lo escludo: deve essere l’originale» di nuovo quel lampo balenò nello sguardo di Moreau. «Forse i vostri occhi non noterebbero la differenza, proprio come i miei sono insensibili a certe differenze cromatiche; ma vi assicuro che per me ha tutta l’importanza del mondo, come il colore l’ha per voi! Il Messia è unico. Credo fermamente che solo la spiritualità del pezzo originale possa trasmettere all’anima certe emozioni; confido che saprà toccarvi in profondità e ispirare la vostra arte.»

    Paul era sempre più perplesso. Tutta quella storia esoterica e spirituale gli sembrava campata in aria dal principio alla fine. Non capiva, le parole vaghe di Moreau lo insospettivano: tutto il ragionamento suonava falso, poco convincente.

    Questa faccenda parrebbe una truffa, ma non riesco a capire dove sia l’imbroglio.

    In quel momento, il signor Moreau tirò fuori l’orologio dal taschino, lo sbirciò e disse: «Volete farmi l’onore di essere mio ospite a colazione, al Café de la Comédie? Facciamo una passeggiata, nel frattempo parleremo dei dettagli; così avrete tempo e agio di riflettere sulla mia proposta.»

    «Con molto piacere» Paul accettò subito: a una colazione gratis non era proprio il caso di dire di no. Si era fatto tardi, ma aveva ancora tempo prima del suo appuntamento del pomeriggio e lo stomaco andava riempito in qualche modo. Avrebbe fatto della colazione un pranzo, risparmiando.

    «Porteremo queste con noi» disse Moreau; raccolse dal tavolo alcune carte e tutti i disegni del suo studio dentro una cartellina, poi chiuse con cura i lacci alle estremità e si mise il faldone sottobraccio e il cilindro in capo.

    I due uomini si avviarono verso il portone.

    Passando di nuovo davanti allo scaffale con l’oud arabo, Paul stavolta ebbe l’impressione che le decorazioni a forma di occhi e bocca dello strumento non fossero più sorridenti come prima, ma avessero assunto una smorfia tragica: strani scherzi della percezione.

    Un elefante con la coda di scorpione

    Il vetturino salutò con ossequio Moreau, sollevando il cappello; pareva lo conoscesse bene, probabilmente passava ogni giorno a prenderlo intorno a quell’ora.

    «Buongiorno, Charles! Andiamo al caffè, ma fai la solita deviazione, per favore: voglio far vedere a quest’amico l’elefante!» comandò Moreau.

    La carrozza procedeva con andatura regolare e i vigorosi cavalli, battendo al piccolo trotto il selciato delle strade più trafficate della capitale, sbucarono sul lungo Senna. Paul contemplò beato la moltitudine di suoni e colori tutt’intorno: i riflessi argentei dell’acqua frastagliata di mille increspature, i barcaioli in lontananza, i cappelli variopinti delle donne sotto il sole, gli imponenti edifici con le facciate esposte a mezzogiorno.

    Paul si domandò se il suo daltonico compagno di viaggio potesse percepire, in quella scena, emozioni simili alle sue, o se invece la sua tavolozza più limitata gli precludesse a vita il godimento pieno di quel colorato spettacolo.

    Non aveva ben capito cosa significasse quel riferimento a un elefante; se ne rese conto soltanto quando la carrozza arrivò in prossimità del Campo di Marte.

    Le quattro zampe di quel mostro poggiavano sul suolo del giardino, sopra altrettante piattaforme megalitiche. Dai basamenti si proiettavano in alto, molto inclinate verso l’interno, quattro gigantesche travi fatte d’ossa di ferro intrecciate. L’inclinazione era tale che la pancia e il corpo della bestia parevano volersi sollevare a fatica, sotto la spinta poderosa degli arti meccanici. Non aveva la testa, il mostro, ma quattro spalle possenti, quattro scapole che sporgevano fuori dal dorso, a sbalzo.

    Moreau fece fermare la carrozza subito dopo il Ponte di Jena: «Vedete? Eccolo lì! Quello è il nostro nemico!» tuonò, puntando il dito verso l’elefante.

    Paul osservò da vicino la struttura reticolare di quel confuso ammasso di metallo. Numerosi operai erano al lavoro nel colossale cantiere di cui tutti i giornali avevano parlato, per più di un anno, col nome di Tour en fer, la torre di ferro. La costruzione incompleta arrivava già a un’altezza superiore a quella della cattedrale di Notre-Dame, ma non era neppure al secondo livello e dava nel suo complesso l’idea di un tozzo ma smisurato gazebo.

    «Il progresso!» continuava Moreau. «Guardatelo lì, il simbolo del progresso: potete giudicare da solo di quali bruttezze va adornandosi oggi la nostra città.»

    «È presto per giudicare: l’opera non è finita» ribatté Paul.

    «Già, a questo mostruoso elefante manca ancora la testa e la proboscide... o piuttosto una velenosa coda di scorpione! La guglia! Una punta che dovrà innalzarsi, secondo il progetto, fino a oltre trecento metri d’altezza!»

    «Sarà l’edificio più alto del mondo» Paul alzò gli occhi fino al punto del cielo in cui sarebbe arrivata la sommità della torre.

    «Esatto: l’edificio più alto del mondo! Non vi ricorda nulla questa idea? Il desiderio di arrivare fino al cielo! Non è altro che la storia biblica della torre di Babele, con la differenza che oggi l’ingegno dell’uomo dispone di sufficienti innovazioni tecniche per realizzarla sul serio. Riuscite a immaginarla, quando sarà finita, quella coda di scorpione? Quel pungiglione, colmo del veleno dell’orgoglio umano, puntare osceno e impertinente all’insù?»

    «Avete così poca stima dell’ingegno umano? È lo stesso che ha prodotto i violini che tanto amate» obiettò Paul.

    «Ma l’ingegno di un uomo dovrebbe sempre tendere verso il bello, per gli altri uomini e per il Signore, non idolatrare un’industria disumana e profana!» insisteva Moreau. «Voi avete ben presente come oggigiorno si sono moltiplicate di numero le alte ciminiere delle fabbriche, che deturpano il paesaggio e ammorbano l’aria? Ebbene, cos’è questa Tour en fer, se non un monumento alla ciminiera? I nostri politici lo impongono come il simbolo stesso del progresso: una modernità fatta di bulloni e acciaio nudo, che sovrasta dall’alto l’intera città per celebrare il dominio della Macchina sull’Uomo.»

    «Veramente io avevo letto che era concepita per celebrare il centesimo anniversario della Rivoluzione del 1789» ricordò Paul.

    «Guardate laggiù» Moreau indicò con il mento un uomo che stava sistemando, in un punto strategico del giardino, una macchina fotografica sopra un cavalletto da campo, con l’aiuto di un assistente. «Quelli sono i pittori del futuro! Senza utilizzare nessuna arte, in pochi minuti, possono dipingere un quadro come lo dipingereste voi, usando soltanto una macchina.»

    Paul protestò, punto sul vivo: «Oh no, quello non sarebbe mai un quadro come lo potrei dipingere io o un qualsiasi altro pittore. Sono quadri ben diversi! Vi concedo che l’immagine, presa con quel dispositivo, sarà una riproduzione fedele del cantiere, come quella del violino che avete sottobraccio nella vostra cartelletta; ma è del tutto differente dal lavoro che facciamo noi pittori.»

    «E in che cosa differisce? Le fotografie non sono forse ritratti perfetti?»

    Paul cercò una risposta rapida ed efficace: «Differisce nel colore! Quelle immagini non hanno i colori.»

    Io e quest’uomo non ci intenderemo mai, pensava intanto, abbiamo due visioni troppo diverse del mondo. Io lo vedo a colori, egli lo vede in grigio, bianco e nero.

    «Ah, giusto! Di nuovo i colori» sorrise beffardo Moreau, «ma non lo sapete che grazie al progresso avremo presto anche delle macchine che faranno ritratti a colori, proprio come i vostri quadri?»

    «Non sarebbe comunque la stessa cosa» borbottò il pittore.

    «E non lo sapete che, in America, un ingegnere ha inventato un congegno che può suonare la musica al posto degli esseri umani? Verrà presto il giorno in cui ogni attività artistica sarà sostituita da una macchina; verrà il giorno in cui una macchina potrà dipingere quadri meglio dell’uomo, pure a colori! E un’altra suonare musica meglio di un violino Stradivari! Magari esisteranno macchine in grado di danzare o di scrivere romanzi e poesie, e perfino il teatro non sarà più che una macchina che funzionerà senza intervento umano. Il progresso distruggerà l’arte! Ecco perché dico che il progresso è il mio maggior nemico, ed è anche il vostro, credetemi.»

    «Non dovreste essere così pessimista: il progresso potrebbe creare nuove espressioni artistiche.»

    «Non questo progresso, però!» Moreau, infervorato, indicò lo scheletro d’acciaio del gigantesco elefante. «Questo tipo di progresso industriale annulla l’umanità dell’arte, mi capite? Diventa il trionfo della Macchina priva di anima, che produce risultati straordinari in maniera automatica. Tutto ciò schiaccia la creatività del nostro spirito, ne comprime il ruolo a nulla. Gli artisti come voi, gli amanti della bellezza classica come me... tutti noi abbiamo il dovere di difendere e preservare il carattere peculiare, umano, dell’arte dalla feroce disumanizzazione dell’era delle macchine.»

    Paul annuiva senza convinzione, non trovando più argomento per ribattere a quell’impetuosa retorica. Ricordò vagamente una petizione, circolata negli ambienti parigini e firmata da moltissimi artisti di spicco, per impedire la costruzione di quella torre. Una petizione che egli non condivideva e che non avrebbe mai firmato. Si sentiva tanto diverso da tutti gli altri artisti di Francia. Del resto quella petizione non aveva raggiunto il suo scopo.

    È per questa ragione che avete voluto condurmi qui, signor Moreau? avrebbe voluto rispondere. Per arruolarmi nella vostra crociata delle bellezze classiche contro il progresso e la modernità?

    Preferì tacere. Il tono ironico di quelle parole avrebbe indispettito l’interlocutore e precluso la possibilità di ottenere un lavoro nonché, cosa più urgente, una colazione gratis.

    «Basta così! Charles, portaci lontano da quest’orribile elefante meccanico» comandò il signor Moreau al cocchiere. «Dedichiamoci alle cose belle, adesso!»

    La carrozza ripartì.

    Il Messia

    Al Café de la Comédie i due uomini occuparono uno dei tavoli all’aperto, all’ombra e al fresco delle tende, per parlare di un violino straordinario e fare colazione, ormai quasi all’ora del pranzo. Un bicchiere d’acqua, un caffè, qualche biscottino senza pretese per Moreau. Brioche e croissant per Paul, se possibile più di due, con il cappuccino, beninteso, e, sempre per Paul, una fetta di torta e una limonata dissetante. Il pittore un po’ si vergognava nel mangiare a sbafo e sfruttare la generosità del suo ospite, ma il signor Moreau era stato tanto gentile e disponibile nel pregarlo di approfittare. Paul non se l’era fatto ripetere due volte.

    Non era tuttavia per niente convinto di tutta la storia del ritratto di un violino che gli era stata propinata. Il lavoro offerto aveva qualcosa di sospetto e per giunta questo signor Moreau risultava un personaggio sgradevole. Così, per poterci capire di più, gli chiese i dettagli dell’operazione.

    La cartella con i disegni era aperta sul tavolo. Francois Henri Moreau si mise comodo, accavallando le gambe, accese la pipa e, traendo ispirazione dalle immagini tracciate con la china sulla carta, raccontò la storia del Messia.

    «Sapete, è proprio grazie a questo violino che nacque negli uomini la passione per il collezionismo di strumenti ad arco; passione, o mania dovrei dire, di cui ammetto d’essere schiavo. Il primo grande collezionista del genere fu il conte italiano Ignazio Alessandro Cozio, di Salabue: personaggio raffinatissimo, nobile di nascita e d’animo, uomo di grazia e gusto. Il conte acquistò dalla famiglia Stradivari una partita di strumenti, fra i quali il nostro Messia, che all’epoca però non aveva ancora questo nome... Spero di non annoiarvi con tante chiacchiere e vi chiedo scusa fin d’ora se mi dilungo nei particolari: è una cosa che mi succede sempre, quando parlo di ciò che mi appassiona di più.»

    Paul aveva già finito il primo croissant; fece un cenno col capo, mostrandosi interessato, come a dire non mi state per nulla annoiando, anzi è un piacere ascoltarvi. Vi prego, seguitate. Intanto avrebbe avuto il tempo di continuare l’abbondante colazione.

    Moreau proseguì.

    «La descrizione delle qualità del violino, redatta da Salabue nelle sue annotazioni, è un campione di autentica poesia e fu la mia prima fonte d’ispirazione nella creazione di questi disegni. Nel 1827, approfittandosi di un momento di decadenza del conte, un commerciante, di nome Luigi Tarisio, acquistò da lui l’intera collezione Stradivari a prezzo stracciato. Tarisio si definiva collezionista, ma era solo un mercante privo di scrupoli, che per puro arrivismo era riuscito a mettere le mani sui violini più belli del mondo. La sua intenzione era di arricchirsi, rivendendo la collezione all’estero e per questo motivo si recava spesso a Parigi, dal liutaio francese Vuillaume. Ed ecco come arriva fino a me tutta la storia: Vuillaume era il suocero di Alard. Ne avrete di sicuro sentito parlare: Jean Alard, uno dei musicisti più apprezzati di Francia, mio maestro di violino in gioventù, il Cielo lo abbia in gloria, è scomparso pochi mesi fa. Mi onoro di essere stato suo allievo, anche se con scarsi risultati... ahimè, come violinista sono mediocre, se non scadente. In compenso Alard mi ha trasmesso le sue grandi passioni, prima fra tutte quella per l’eccezionale Stradivari, che egli battezzò il Messia.»

    Paul stava concludendo la trionfale colazione con una fetta di torta della casa, cercando di seguire il racconto del proprio interlocutore, ma in mezzo a tanti passaggi, aveva già perso il filo.

    «Ogni volta che Tarisio veniva a Parigi a incontrare Vuillaume, amava decantare senza fine le lodi del suo pezzo migliore: quel violino eccezionale, così ben conservato e così sublime nella perfezione di ogni dettaglio. In tutti i suoi viaggi, tuttavia, il mercante italiano non portò mai con sé il famoso strumento. Vuillaume gli chiedeva di provarlo, Tarisio rifiutava, promettendolo per il futuro. La volta successiva, Vuillaume rinnovava la richiesta, Tarisio rimandava di nuovo. Un giorno era presente anche il maestro Alard, all’epoca ancora molto giovane, che di fronte all’ennesimo rifiuto di Tarisio, pronunciò la battuta, poi rimasta famosa: Il vostro violino è come il Messia degli ebrei: è sempre atteso, ma non appare mai

    «Ah, ecco perché il Messia!» disse Paul e riprese a sorseggiare il cappuccino.

    «Già, da allora fu chiamato Messia; il nome e le circostanze hanno contribuito all’aura di leggenda attorno allo strumento. Tarisio si ostinò per tutta la vita a non voler mostrare il suo Messia ai potenziali acquirenti, dunque morì senza riuscire a venderlo. Alla sua morte Vuillaume e Alard rintracciarono lo Stradivari in Italia. Pensate un po’: era nascosto in una fattoria! Venne alla luce in una stalla, proprio come il suo omonimo predecessore.»

    «Quindi finalmente il Messia giunse a portare la buona novella in Francia, giusto?» terminò Paul.

    «Invece no!» scattò Moreau, con un balenio di stizza. «Il maestro Alard era sposato alla figlia di Vuillaume: alla morte del suocero, la collezione sarebbe passata a lui, gli spettava di diritto! Ma il Maligno ci mise lo zampino e il giusto corso delle cose deviò in una direzione disgraziata. La collezione fu esposta in Inghilterra, nel 1872, alla Exhibitions of Ancient Musical Instruments di Londra; in quell’occasione, un aristocratico inglese, lord Campbell, se ne innamorò e fece un’offerta esorbitante per acquistarlo come pezzo singolo. Così il prezioso Stradivari fu venduto e rimase in Inghilterra. Alard non era presente, o non lo avrebbe mai permesso. Da allora non è più tornato in Francia.»

    «Immagino la frustrazione del maestro» commentò Paul «diseredato del suo tesoro più

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