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Fucking smiles
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E-book203 pagine2 ore

Fucking smiles

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Info su questo ebook

Fucking smiles è un romanzo che tratta, da un punto di vista ironico e grottesco, alcuni dei temi più contemporanei dei giorni nostri: solitudine e incomunicabilità. Il narratore, incapace di affrontare un trauma subito, sceglie di assopirsi e resta immobile, in balìa degli eventi. Ambientato in un non meglio specificato luogo della Campania, ne riporta i cliché avvalendosi dell’umorismo nero.
LinguaItaliano
Data di uscita22 feb 2021
ISBN9788833467979
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    Anteprima del libro

    Fucking smiles - Angelo Antonio Izzo

    strada".

    PRIMA PARTE

    1.

    Stai bene. Sei guarito. Sei pronto. Devi solo crederci.

    Appena entro nella sala d’aspetto del dottor Agostino Del Bronco vengo accolto da Take on me degli A-ha. Federica, la sua assistente, viene verso di me e dice: «Buonasera, il dottore sta visitando un paziente, la prego si accomodi. La chiameremo noi.»

    Aspetto su una poltroncina verde mentre lei torna in ambulatorio. Ha i capelli castano chiaro, legati in una folta coda da un elastico viola. Indossa un lungo camice bianco, lentiggini sul viso e incisivi sporgenti. I pochi segni particolare di un volto altrimenti anonimo.

    "Take on me/ Take me on/ I’ll be gone/ In a day or two.

    Lo studio del dottor Del Bronco è al quarto piano di un edificio in centro. Non è molto spazioso. La sala d’aspetto conta sei posti a sedere. Al centro c’è un tavolino di vetro con sopra un mucchio di vecchie riviste. A sinistra un balconcino che affaccia sul niente. Le pareti sono gialle, tappezzate di poster su anatomia e patologie cliniche. C’è anche un quadro in cui è rappresentata un’autostrada e una stazione di servizio. Un vecchio siede sopra a una panchina con le gambe incrociate e guarda verso la strada.

    I poster informativi recitano:

    "Come prevenire il tumore alla prostata? In caso di familiarità con il tumore alla prostata, farsi visitare da un urologo appena compiuti quarant’anni".

    "L’obesità è un fattore di rischio per il tuo organismo. Può provocare: infarto, ictus, ipertensione, angina pectoris, aterosclerosi, obesità del cuore, diabete, colecisti, pancreatite, gastrite, obesità del fegato, costipazione, gotta, osteoartrite, osteocondrosi, flatulenza".

    "Modi in cui si può trasmettere HIV/AIDS: sesso non protetto, gravidanza, tossicodipendenza, trasfusioni di sangue infetto. Modi in cui non si può trasmette HIV/AIDS: contatto fisico, attraverso il cibo, bacio, morso d’insetto".

    Dall’ambulatorio esce l’assistente, che accompagna fuori una signora obesa con una cartellina in mano. Poi viene verso di me.

    «Prego, venga» mi fa, e io la seguo in ambulatorio. Appena entro la puzza di fumo mi fa tossire.

    Agostino Del Bronco se ne sta dietro la sua scrivania in mogano, pigia i tasti sopra alla tastiera del Surface e fuma un sigaretto senza filtro. È circondato da scatole di medicinali e strumenti medici vari. Cicca dentro a un bicchiere di vetro con del bourbon rimasto imbevuto sul fondo. Un piccolo ventilatore fa ondeggiare i lunghi capelli stopposi tra il grigio e il nero. Gli occhiali da vista vintage scendono lungo il naso brufoloso, sopracciglia folte e scure, la fronte spaziosa disseminata da rughe. Non rade il viso da almeno una settimana. Indossa un pesante maglione marrone chiaro nonostante sia piena estate

    «Il fumo le dà fastidio?» chiede, e io scuoto la testa. «Allora si segga e mi dica tutto» dice, senza distogliere lo sguardo dallo schermo del portatile. Qualcuno suona al campanello e lui ordina all’assistente di andare ad aprire e di chiudere la porta dell’ambulatorio quando esce.

    «Su, mi dica tutto» ripete, con voce rauca. E io faccio per dirglielo questo tutto, ma lui mi interrompe e chiede: «Aspetti, lei chi è?»

    Gli ricordo che è il mio medico di base da circa cinque anni, e che negli ultimi tempi ci siamo visti con costanza.

    «Ora cerco nel database. Cognome?» domanda, e io glielo dico.

    «Un cognome abbastanza comune. Mica lei è quello che ha fatto causa all’ospedale perché lo ha reso impotente dopo averlo operato di fimosi?» Scuoto la testa.

    «Allora si chiama?» chiede, e io glielo dico.

    «Ah, mh, ah, mh, mh… azz, mh, accidenti, che brutta storia, una tragedia la sua» borbotta, mentre cerca nel database. «Ora ho capito» annuncia, e per la prima volta mi degna di uno sguardo. «Mi dica tutto.»

    «Allora, dottore...» faccio io, e d’un tratto gli squilla il telefono e mi fa segno di aspettare. Risponde: «Pronto, con chi parlo? Ah, mh, sì. Cognome? Mi faccia controllare nel database. Lei non è mica la signora che ha perso tre dita sul lavoro e ha fatto causa alla fabbrica dove lavorava? No eh? Mi dica come si chiama. Ah, ok, ora ho capito. Per quello deve chiedere al mio collega. Arrivederci.»

    A quel punto gli chiedo se posso raccontargli perché sono lì, e lui mi invita ad aspettare. Sento vibrare un cellulare dentro a un cassetto della sua scrivania. Il dottore lo recupera e risponde prontamente: «Signora Moretti, le ricordo che questo è il numero dove possiamo parlare di certe cose. Non chiami più sull’altro. Ora mi spieghi tutto. Ah, mh, sì, mh, capito. Si può fare ma le costerà. Ok, va bene. Mi dia al massimo una settimana. Arrivederci.»

    Ripone il telefono dentro al cassetto che richiude subito, dice fra sé: «Questi certificati falsi si vendono come il pane.»

    Torna a scrivere al portatile e io rimango in silenzio ad aspettare che dica qualcosa. Solo dopo cinque minuti si ricorda che esisto e chiede – per l’ennesima volta – di dirgli tutto. E io glielo dico questo tutto.

    «Allora, dottore… sono andato in quel centro che mi aveva consigliato. Mi sono trovato bene, certo, mi ha aiutato molto, ma mi hanno dimesso due settimane fa. Io però non mi sento affatto guarito, anzi, si stanno ripresentando già alcuni sintomi. La verità è che non potevo più permettermi di pagare e quelli del centro hanno anticipato le dimissioni. E ora il mio vecchio datore di lavoro mi chiama per propormi un nuovo impiego, ha parlato di fare il custode da qualche parte, visto che non posso più lavorare con gli altri in fabbrica. Ma io non mi sento pronto per certe cose, però se non accetto forse mi licenzierà e io non so proprio come farò a tirare avanti.»

    A quel punto sposta di lato il Surface e mi guarda dritto negli occhi. Alza le spalle e dice: «E allora? Qual è il problema?»

    Le mani tremano. Inizio a grattarmi sopra le braccia dal nervoso finché la pelle non diventa rossa.

    «Mi stia a sentire, se l’hanno dimessa significa che è guarito, che è di nuovo pronto per la società. Non pensi troppo che nel suo stato non porta che guai. Accetti questo lavoro e inizi a rifarsi una vita. Io purtroppo non ci posso fare niente, a meno che… senta, se non ha voglia di tornare a lavoro e vuole prolungare la vacanza per un altro poco, abbiamo due soluzioni: o va giù in strada e fa il pazzo così la internano da qualche parte e diventa un problema dello stato, oppure vedo io di farle qualche certificato aumm aumm. Però le costerà. Ma se gioca bene le sue carte potrà anche richiedere la pensione, e sta apposto per sempre. Io contatti all’INPS ce li ho. Questo le costerà ancora di più però.»

    Gli ricordo che mentre ero ricoverato ho dovuto continuare a pagare anche l’affitto del mio appartamento e sono al verde.

    «Allora mo che esce di qua si tolga i vestiti e prenda a sberle la prima vecchia che trova. Alla polizia dirà che lo hanno ordinato le voci che sente. O fa questo, oppure accetta il nuovo impiego e va avanti con la sua vita.»

    Abbasso lo guardo, ho dei graffi lungo le braccia, inizio anche a sudare. Del Bronco invece torna a pigiare i tasti sulla tastiera del portatile, mi lancia una fugace occhiata e dice: «Su, non faccia così. Le prescriverò qualche psicofarmaco, gli stessi che le davano in struttura.» Del Bronco mi prescrive le ricette per i farmaci, le stampa e me le dà. «Ce la farà, ne sono certo» dice.

    Lo saluto. Faccio per andare ma lui mi ferma.

    «Aspetti, posso chiederle un favore? Mi serve qualcuno con una certa sensibilità» chiede, e io annuisco.

    «Sto scrivendo un romanzo, ci lavoro da un po’ a essere sinceri. È ambientato in America, nei primi del novecento. Parla di un uomo bianco cresciuto in una riserva di indiani. Proprio mo ho scritto una scena importantissima, la può leggere e darmi un opinione?» E io annuisco, per quanto trovi tutto questo a dir poco assurdo. Gira il portatile verso di me tutto eccitato.

    «Interessante il nome del protagonista» commento mentre leggo.

    «È un omaggio a Chuck Norris e a uno dei mie pittori preferiti» dice, compiaciuto.

    «Strana accoppiata, ma funziona.»

    2.

    Cinque del pomeriggio, nell’ufficio del signor Pancetta, dirigente presso una delle filiali dell’azienda produttrice di mattonelle Coccia&Trotta.

    «La vedo bene, nonostante tutto» dice Edoardo Pancetta, che con fatica si alza dalla sedia da ufficio in vera pelle rinforzata e mi stringe la mano. Gli mostro un vacuo sorriso, le nostre mani si lasciano e lui torna a sedersi, lo fa lasciandosi cadere all’indietro, come se le gambe non riuscissero a reggere i suoi centottanta chili.

    «Prego, si sieda» dice, e mi fa segno di prendere posto sopra una delle sedie bianche in plastica di fronte alla scrivania. Annuisco e mi siedo, lui poggia le mani sopra la scrivania, mostrando dita tozze e corte, salsicciotti.

    «Se lei è qui, significa che ha preso una decisione in merito alla mia offerta. Per telefono è stato abbastanza sconclusionato, non ho ben capito cosa intendesse fare, se accettare o meno il posto. Ebbene, mi auguro che venendo qui abbia deciso, perché, e non ha idea di quanto mi dispiaccia, ma ha due sole possibilità: o accetta il lavoro da custode o va in cassa integrazione, con tutto ciò che ne consegue.» La sua voce è forte, decisa, scoppiettante. Una voce prorompente che mal si sposa col viso tondo, le guance paffute, il ciuffo color carbone superstite della mietitura della calvizie che scivola sulla fronte sudata, gli occhi minuscoli e semichiusi, nascosti da occhiali doppi e ovali. Sembra quasi che stia dormendo e qualcuno parli per lui, magari nascosto dietro alla sua sedia, come succedeva in un cartone animato che vedevo da ragazzino.

    «Si metta nei miei panni, il lavoro da operaio in fabbrica non è da sottovalutare, comporta concentrazione e se questa viene meno si mette in pericolo il fabbisogno dell’azienda, ma soprattutto la propria e l’altrui incolumità. L’azienda per cui io e lei lavoriamo produce mattonelle di prima qualità dapprima che i nostri genitori e forse i nostri nonni nascessero. Stanislao Coccia e Anselmo Trotta si sono fatti dal niente e hanno creato un impero che ancora oggi sfama molte famiglie. E lo sa perché non c’è stato mai alcuno incidente sul lavoro? Perché l’incolumità dei dipendenti è una priorità per la Coccia&Trotta

    Sopra la sua scrivania ci sono una manciata di documenti sporchi di caffè e briciole, una giraffa peluche ricucita sotto il collo, che penzola penosamente; carte di caramelle ammucchiate qua e là, un porta sigari vuoto poggiato sopra quella che immagino sia una foto di famiglia capovolta, e una decina di lecca lecca dalla forma di uno smile giallo.

    «Io lo so cosa sta passando, non creda che sia insensibile di fronte alla sua condizione precaria. Mia moglie, quella grande bucchina…» D’un tratto la sua enorme pancia vibra. La camicia a righe blu fa sempre più fatica a contenerla, si porta una mano alla bocca e sussulta, come se avesse represso un gran rutto dal sapore di caramelle mou. «Mia moglie, dicevo, quella gran donna, da un giorno all’altro che fa? Se ne va di casa e mi fa chiamare dal suo avvocato. Loredana vuole il divorzio, mi dispiace assai Edoardo, ma così è la vita: l’amore come viene così se ne va, mi dice quel vile, ma si scorda di farmi presente che se la fotte da tre anni e mezzo. E io mo, oltre a dirigere la filiale più grossa e importante della CocciaandTrotta, devo difendermi da un avvocato bastardo che mi vuol fottere anche i beni oltre alla donna, e a casa devo combattere con un moccioso di sette anni che ancora si fa la cacca addosso e una babysitter polacca che non capisce un’acca di italiano e che non posso licenziare perché...» si guarda intorno, poi si china verso di me e sento la sedia cigolare. «Beh, a te che sei riservato lo posso dire: me la sono fatta una volta, rapporto consensuale ovviamente, ma nella foga le ho lasciato qualche livido, niente di serio. Solo che quella puttana moldava dice che si è fatta le foto dei lividi e che mi denuncerà. Così m’ha detto quando ho provato a darle il benservito.» Si ritrae, poggia il gomito sopra la scrivania e si fa pensieroso.

    «Non era polacca?» gli chiedo.

    «Chi?»

    «La babysitter.»

    «Sì, è polacca.»

    «Poco fa ha detto che era moldava.»

    «Tu sei un ragazzo veramente intelligente, con la cura per i dettagli. E adesso diamoci del tu che ormai siamo in vena di confidenze. Comunque, col mio discorso di prima ti volevo far capire che so quello che stai passando. Come lo chiamano? Disturbo post-tragico da stress, non è vero? Di quello hai sofferto, giusto?»

    Apro bocca, pronto per correggerlo di nuovo, ma poi mi passa la voglia. Annuisco.

    «Ma è tutto apposto mo, sì? Mi hai fatto preoccupare molto, hai fatto preoccupare a tutti qui in fabbrica.» Annuisco.

    «È per questo che ho pensato a te per il lavoro da custode allo stabilimento abbandonato ad Alvizzano. Un paese tranquillo per un lavoro tranquillo, proprio quello di cui hai bisogno adesso: solitudine e tanta pace.»

    Sospiro, guardo sotto la scrivania: qualche formica è stata attirata dalle briciole, camminano tranquille sopra le scarpe nere e lucide del signor Pancetta.

    «Ho deciso di firmare il contratto.»

    «Oh, ma questa è una grandissima notizia!» fa lui tutto eccitato. Raccoglie uno dei documenti sulla scrivania, scrolla le briciole a terra ignaro di star sfamando un gruppo di formiche, e me lo porge.

    «Sono cinque pagine, firmamele tutte e cinque, qui, in basso a destra» indica il punto esatto in cui devo firmare.

    «Non ho una penna.»

    «Ma te ne do quante ne vuoi di penne! Dieci, cinquanta, centomila penne tutte per te! Inchiostro di prima qualità!» Sghignazza e tira fuori la stilografica dal taschino della camicia. La poggia sopra ai documenti. «Fammi vedere quanto sei bravo a scrivere il tuo nome per cinque volte.»

    Firmo, senza soffermarmi a leggere il

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