Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

2068: L'uomo che distrusse il futuro
2068: L'uomo che distrusse il futuro
2068: L'uomo che distrusse il futuro
E-book313 pagine4 ore

2068: L'uomo che distrusse il futuro

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In un futuro non troppo lontano, gli Stati Nazionali hanno perso la loro indipendenza e l'Europa è unita sotto un unico governo centrale.
Il divario tra le classi sociali è divenuto incolmabile, e le città sono divise in Settori, ognuno abitato da una differente casta di cittadini.
La tecnologia è tutta in mano al Governo Unico, che la gestisce con l'aiuto delle multinazionali e la complicità delle tre associazioni criminali principali.
Il tessuto sociale si regge su tre regole semplici: produci, consuma, muori.
Aaron Swenson è un criminale che sta scontando una condanna in uno dei settori periferici della città, ed è l'unico che sa come interagire con la Rete, la tecnologia che gestisce l'organizzazione della popolazione. Ci riesce grazie ad un impianto bionico difettoso e un socio zelante che non esiste.
Per smascherare l'inganno del Governo Unico dovrà mettersi contro tutti e scendere a compromessi con le persone più pericolose del pianeta. Aaron ha un'unica regola: tutto ciò che non riuscirà a cambiare, lo distruggerà.

NOTE E INFO:

2068 è il primo capitolo di un ciclo Cyberpunk: L'Uomo che Distrusse il Futuro.

La storia è autoconclusiva e può essere letta in maniera indipendente dagli altri romanzi della serie. L'unica trama che rimane aperta è quella principale, che si snoderà per tutti i prossimi volumi.

Questa è un'opera indipendente, nessun editore è stato maltrattato nella sua realizzazione!

SCRITTORI INDIPENDENTI è il marchio della omonima pubblicazione su Medium di Marco Mancinelli.

LinguaItaliano
Data di uscita5 feb 2017
ISBN9781370340132
2068: L'uomo che distrusse il futuro
Autore

Marco Mancinelli

Marco è nato a Roma quarantadue anni fa. È cresciuto coltivando diverse passioni; quella per la scrittura, se la porta dietro dalle scuole elementari, nata dalla lettura di Mark Twain, all'età di otto anni. Da allora ha cominciato a scrivere e non si è più fermato. Durante questi anni ha capito una cosa della scrittura: non si scrive mai per se stessi, ma sempre per gli altri. Ha pubblicato quattro romanzi, Cyberblood nel 2013, In equilibrio sul silenzio nel 2014, Nero Uomo nel 2016 e 2068 - L'Uomo che Distrusse il Futuro nel 2017, e quattro racconti, Sussurri dal profondo, La stagione della temperanza, Il sorriso di Elena e Il Risveglio del male. Dal 2016 fa parte del team di Extravergine d'Autore, un progetto editoriale che si occupa di self-publishing, con l'obiettivo di far emergere gli autori di maggiore qualità e farli conoscere ai lettori. Perchè il self-publishing è una cosa seria. Oltre a scrivere, si dedica con dedizione ad altre attività: astronomia, bodyboarding e computer. Vive in periferia, con la moglie e una banda di gatti anarchici. Ama la musica, ma è stonato come una campana rotta e non suona nessuno strumento. Tra i suoi gruppi preferiti ci sono: Porcupine Tree, Marillion, Nine Inch Nails, Tool, Editors, Social Distortion, Spiritual Front e Bad Religion.

Autori correlati

Correlato a 2068

Ebook correlati

Fantascienza per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su 2068

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    2068 - Marco Mancinelli

    2068

    Marco Mancinelli

    Romanzo

    © 2017 Marco Mancinelli

    Smashwords Edition

    Editing:

    Francesco Melchiotti

    Sito web dell'autore:

    www.cyberblood.it

    Profilo Medium dell'autore:

    https://medium.com/@Anouche

    Romanzi dello stesso autore,

    disponibili in ebook e cartaceo in libreria e nei principali store:

    Cyberblood

    In Equilibrio sul Silenzio

    Nero Uomo

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale e non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone. Se desiderate condividere questo ebook con un’altra persona, acquistate una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di tornare a Smashwords.com e acquistare la propria copia.

    Grazie per il rispetto al duro lavoro di questo autore.

    Questa è un'opera di fantasia. Se vi sentite chiamati in causa dagli eventi o dai personaggi descritti in queste pagine, consultate un buon psicoanalista. Forse riuscirà a rimettervi a posto la testa.

    2068 è un romanzo indipendente.

    Nessun editore è stato maltrattato nella sua realizzazione!

    A mia madre e mio padre.

    INDICE

    Titolo

    Dedica

    Swenson1

    1s1.

    2s1.

    3s1.

    4s1.

    5s1.

    6s1.

    7s1.

    8s1.

    9s1.

    10s1.

    11s1.

    12s1.

    13s1.

    14s1.

    Keenan1

    1k1.

    2k1.

    3k1.

    4k1.

    5k1.

    6k1.

    7k1.

    8k1.

    Swenson2

    1s2.

    2s2.

    3s2.

    4s2.

    5s2.

    6s2.

    7s2.

    8s2.

    9s2.

    10s2.

    11s2.

    12s2.

    13s2.

    14s2.

    15s2.

    Keenan2

    1k2.

    2k2.

    Swenson3

    1s3.

    2s3.

    3s3.

    Keenan3

    1k3.

    Nota dell'autore

    Swenson

    1

    Settore 8, ore 14.58

    Piove da otto giorni. Ma ho come l'impressione che lo stia facendo da tutta la vita. Il problema comunque non è il temporale, e forse non sono nemmeno io: è questa dannata città.

    Osservo impotente le strade allagate, dietro un vetro antiproiettile sudicio, incrostato di merda di piccione, polline e altra merda di piccione. La vista della pioggia mi deprime. Doverla contemplare attraverso degli escrementi mi getta in uno stato di sconforto tale che potrei decidere di farla finita sul serio. Mi basterebbe varcare la soglia di casa per qualche minuto. Il tempo che impiegherebbe la polizia a rintracciare il segnale della mia cavigliera, mettere il sedere sulla prima vettura disponibile, guidare fino qui, e rompermi la testa a suon di bastonate per avergli procurato tutte queste rogne.

    In ogni caso, non ho l'inclinazione al suicidio. Quindi sospiro e mi allontano dalla finestra. Vado a sedermi sul divano e cerco di concentrarmi su qualcosa che non abbia a che fare con la pioggia, il guano o la polizia. Solo che non ho niente altro a cui pensare al momento.

    Un tuono squassa l'aria, all'improvviso. Il tempo di un sussulto e subito la mia vita torna a galleggiare nella monotonia.

    Stendo la gamba sinistra sul pavimento, pizzico i pantaloni di rayon tra le dita e tiro leggermente un lembo di tessuto. La caviglia si scopre e io fisso ilLEDlampeggiante del dissuasore correzionale, come lo chiamano i porci. Questo aggeggio mi costringe nel mio appartamento per quasi tutto il tempo, a fare la conta delle mie disgrazie. Posso uscire solo per un'ora, verso mezzogiorno, e ho il percorso obbligato: casa, il bazar di Yamish, lo spaccio di droghe — in caso mi ammalassi e avessi necessità di acquistare farmaci, che tanto non posso pagare, visto che ho perso il diritto all'assistenza sanitaria il giorno che mi hanno condannato a scontare quattro anni di arresti domiciliari — e poi di nuovo casa.

    «Se lo guardi, non smetterà di lampeggiare, poco ma sicuro».

    È Tomas. Pensavo non ci fosse, invece eccolo lì, appoggiato al muro della cucina, vicino al frigorifero. Se ne sta immobile, mi scruta senza fare altro, con le gambe incrociate e le braccia pure, con quel suo sguardo cinico ed inclemente, che certe volte lo sbatterei al muro, tanto non lo sopporto.

    «L'intermittenza delLEDmi rilassa. È quasi ipnotico», provo a spiegargli, concentrato sulla luce che si accende e si spegne.

    «Fa' come ti pare», taglia corto lui con un gesto di sufficienza.

    Decido di ignorarlo. Oggi non ce la faccio a litigare. E poi devo cercare di rilassarmi. Stasera ci sarà da lavorare e non voglio arrivarci troppo su di giri.

    Mentre provo a friggermi il cervello con il ritmo luminoso del LED, qualcuno bussa alla porta. Guardo l'orologio appeso al muro, sopra la porta del cesso. Sono già le quindici.

    «Vai tu o vado io?», sghignazza Tomas.

    Sbuffo e mi alzo dal divano. Mi trascino fino alla porta, e ci metto un secolo. Apro senza guardare chi è, ché tanto lo spioncino elettronico me lo hanno disattivato, visto che non posso avvicinarmi nemmeno per sbaglio a nulla che contenga un chip.

    «Ciao, Aaron».

    Eccola qui, la mia vicina di casa, puntuale come al solito. Tiene tra le mani un piatto di resina, e me lo porge: purea di patate termostabilizzate e pasticcio di simil-carne, a base di composti vegetali irradiati e polifosfati.

    «Grazie, Pam… non dovevi disturbarti». È il solito teatrino che va in scena a quest'ora tutti i giorni: lei mi porta il pranzo e io mi fingo colpito dalla sua premura.

    «Nessun disturbo, mi fa piacere, lo sai».

    Mi sorride. Le labbra, carnose e sensuali, sono il risultato di un impianto ben riuscito. È andata in uno di quei centri specializzati all'interno del Perimetro a fare l'intervento. Hanno fatto davvero un buon lavoro, sembrano vere. Non l'ho mai baciata, ma credo che passerebbero anche quel tipo di test. Suppongo le siano costate una fortuna. Non so perché lo abbia fatto. Le sue non erano male. Forse un po' sottili, ma non sfiguravano di certo. Tutto il resto credo sia naturale, anche se penso abbia barato sull'età. Ho il sospetto che abbia fatto un ciclo di terapie per stabilizzare gli organi e ritardarne l'invecchiamento. Dimostra poco meno di trent'anni, ma ho come l'impressione, dai discorsi che fa, che ne abbia vissuti molti di più. Azzarderei una cinquantina, ma potrei anche sbagliarmi.

    È alta e dinoccolata, con le gambe lunghe, i fianchi tonici e il seno piccolo e sodo. La pelle sul viso è tirata e liscia, bianca come una nevicata. Gli occhi sono verdi e grandi, come quelli di una bambola. Pam lavora nel secondo Settore: serve ai tavoli di uno dei migliori ristoranti della città.

    Comunque, prendo il piatto e indugio qualche secondo, tenendolo sotto al naso, fingendo di apprezzarne l'aroma. Che, va detto, sono piuttosto sicuro sia l'effetto di una essenza artificiale. Lo faccio ogni volta, questo gesto, mi sembra cortese nei confronti della mia dirimpettaia.

    «Ha l'aria di essere davvero delizioso».

    Lei sorride e abbassa lo sguardo. Le sue guance si colorano di rosso.

    Mi dispiace non poterla far accomodare in casa. Ci arresterebbero entrambi… dovessimo sopravvivere al pestaggio, ovvio.

    L'InterGendarmeria, i cui agenti sono chiamati affettuosamente porci dagli abitanti del sesto Settore in poi, non è certo famosa per la sua indulgenza.

    «Se vuoi, ti preparo qualcosa anche per cena».

    Il volto di Pam si cristallizza in una espressione di speranza e attesa.

    «Ti ringrazio», rifiuto con garbo, «ma ho altri programmi, per la serata. Mi sa che non farò in tempo a mangiare. Sei molto gentile, comunque».

    «Ci vai anche questa notte?».

    Sembra seriamente preoccupata, almeno il suo tono di voce lo è, visto che continua a sorridere.

    Lei è l'unica a sapere della mia attività al Donkey, a parte quelli coinvolti, che in ogni caso ignorano la mia identità.

    Conosco Pam da circa due anni; da quando mi hanno sbattuto quaggiù, nell'ottavo Settore, a scontare la mia condanna. Abbiamo fatto amicizia quasi subito. La prima volta, ci siamo incontrati nell'ascensore, mentre io rientravo dopo aver usufruito della mia ora di libertà per fare la spesa.

    La legge prevede che mi vengano corrisposti quindici crediti al giorno, per il vitto e le medicine. Peccato che un pasto degno di questo nome ne costi almeno venti, da queste parti. Forse con quindici ce la farei dal nono Settore in poi, ma c'è da dire che laggiù non camperei abbastanza per riuscire a spendere la mia pensione da detenuto: mi accopperebbero appena uscito dall'edificio solo per scaricarsi i miei miseri crediti sulle loro carte di valuta. Almeno i farabutti che ne posseggono una. Gli altri, quelli senza carta, mi taglierebbero la gola solo per divertirsi un po', o al limite per dare un senso alla giornata. La loro, ovviamente.

    «Stiamo lavorando ad una cosa grossa, te l'ho detto. Potrebbe cambiare tutto».

    Il sorriso di Pam si spegne. Le sue labbra sintetiche spariscono all'interno della bocca, ripiegate su loro stesse.

    «Aaron, lo sai che… se ti scoprono…».

    La interrompo. Scuoto la testa e faccio la stessa cosa con le mie, di labbra, fingendomi accigliato.

    «Lo so, Pam. Ed è davvero carino che ti preoccupi per me. Lo apprezzo, sul serio. Solo che…».

    Lei annuisce. Ha capito. Ne abbiamo parlato tante volte, qui in piedi davanti la soglia del mio bilocale adibito a carcere; lei in piedi sul pianerottolo e io a dondolare aggrappato alla porta di casa. Le regole mi vietano di far accedere chicchessia all'interno della zona di detenzione. In teoria non potrei nemmeno intrattenermi in queste conversazioni. Ho hackerato la cavigliera e sono riuscito a disabilitare la funzione di ascolto. L'ho sistemata in modo che somigli ad un guasto tecnico, che non viene rilevato dal Server centrale. In caso di controllo diretto, i porci non avranno la possibilità di accusarmi di nulla. E comunque, dubito che penserebbero lo abbia fatto di proposito; sarebbe un gesto troppo idiota da parte mia, visto che la pena, in caso di un'accusa confermata per manomissione di tecnologia governativa, sarebbe il carcere a vita all'interno di una struttura di massima sicurezza.

    Purtroppo non ho potuto fare lo stesso con i sensori di radiazioni infrarosse. Ci ho provato, ma non c'è stato verso di disabilitarli facendolo passare per un guasto.

    Sollevo leggermente il piede. «Adesso devo rientrare. Mi dispiace, ma questo aggeggio…».

    Se indugio troppo, il sensore percepisce la presenza di un'altra persona e invia un segnale al Server. Di solito il Governo non è così fiscale con i detenuti agli arresti domiciliari, ma è meglio non sfidare la sorte. Tempo fa, prima che mi beccassero, ci ho rimesso un occhio, a causa dei porci, oltre a ritrovarmi con diverse ossa spezzate e la milza da buttare. Mi hanno pestato, finché non ho avuto più fiato per supplicarli di smettere. Mi hanno abbandonato in un vicolo del sesto Settore, ad affogare nel mio stesso sangue. Buon per me che ho amici leali a cui sta a cuore la mia vita. Quando ho ripreso conoscenza, ero in convalescenza presso una clinica illegale, gestita dalla mafia asiatica, in uno dei Settori periferici. L'impianto all'occhio risale a quel periodo. Così come l'inizio dei miei guai. Quelli veri.

    «Va bene», si arrende Pam, «io torno nel mio appartamento. Se hai bisogno, chiama».

    «Grazie ancora».

    «Aaron?».

    «Dimmi».

    «Sta' attento, questa sera».

    Le sorrido per rassicurarla, chiudo la porta e vado in cucina.

    Tomas non c'è più.

    Meglio così, non avevo voglia di mangiare col suo brutto muso intorno.

    2

    Settore 8, ore 23.17

    «Se ti beccano, sei fregato!», ridacchia Tomas.

    Cerco di ignorarlo. Pensa di essere divertente, invece è solo parecchio irritante.

    Passo lo scanner lungo la cavigliera e aspetto, trattenendo il respiro. L'ho costruito e programmato io, questo aggeggio, e mi fido del mio lavoro. È tutta matematica, niente è lasciato al caso. So che non può fallire, ma ho paura ugualmente. Se al Server arriva una notifica di anomalia, il mio appartamento si riempirà di porci. A quel punto posso pure considerarmi un uomo morto. Matematico pure questo.

    Il primo bip mi avvisa che il codice è riuscito ad ingannare il firewall della cavigliera. Soffio fuori l'aria e riprendo subito un lungo respiro. Questa era la parte più semplice. Ho fatto credere al software del Governo che c'è stata una richiesta di accesso direttamente dal Server. Adesso inizia la parte più complessa dell'exploit: il mio virus deve bypassare una serie di blocchi di sicurezza e ordinare alla cavigliera di sganciarsi, rimanendo però operativa.

    «Stavolta, non ce la fai».

    È difficile ignorare qualcuno di così irritante, ma ci provo lo stesso. Un secondo bip fa scattare la chiusura meccanica della cavigliera, che cade sul mio piede con un tonfo.

    «Beccati questo, coglione!», esulto mostrando il dito medio a Tomas.

    Lui sorride e batte le mani, con un gesto di scherno. «Bravo, bravo. Facevo il tifo per te».

    Lo mando a quel paese e vado alla porta. Recupero la giacca dall'attaccapanni e la indosso. Controllo che nelle tasche ci sia tutto, quindi rinnovo il gestaccio verso Tomas.

    «Non aspettarmi alzato, farò tardi».

    «Magari dopo ti raggiungo».

    «Non è indispensabile». Sappiamo tutti e due che sto mentendo.

    «Senza di me sei perso, amico!».

    Esco dall'appartamento e attraverso il lungo pianerottolo fino all'ascensore. Quando passo davanti la porta di Pam, alzo un braccio in segno di saluto: sono quasi sicuro che sta lì dietro, attaccata al monitor dello spioncino, in apprensione per me.

    Se solo sapesse tutta la verità, passerebbe le notti a tormentarsi. Come faccio io.

    Lei crede che io mi veda ancora con quelli del vecchio gruppo, e che stiamo cercando un sistema per bucare la rete dati governativa, alla ricerca di chissà quale informazione top secret da rivelare alla popolazione oppressa dal sistema.

    Scavalco l'immondizia ammucchiata sul pavimento e mi infilo nell'ascensore. Ci sono rifiuti anche qui, e un tanfo terribile, come se ci avessero abbandonato un cadavere. Pesto un cartone vuoto che conteneva cibo liofilizzato e seleziono il piano terra sulla tastiera.

    Con questo semplice gesto sto già violando la legge. La condanna che mi hanno inflitto prevede il divieto di avvicinarmi a qualunque apparecchiatura elettronica. L'unica eccezione riguarda i lettori delle tessere di credito, con cui in teoria dovrei pagare gli acquisti finalizzati alla sussistenza.

    L'ascensore scende lento, mi pare più del solito, o forse è solo una mia impressione, complice il tanfo di carogna che mi sta nauseando. Arrivo al piano terra e mi fiondo fuori dalla cabina. L'atrio del palazzo è una specie di discarica, tra rifiuti, oggetti di uso comune abbandonati o forse dimenticati e pozzanghere d'acqua e fango. Mi faccio largo tra quello schifo ed esco in strada.

    La pioggia sta ancora lavando la città, anche se con meno intensità rispetto a questa mattina. Tra gli scrosci, percepisco e distinguo il vociare caotico che sale dal mercato: il cuore pulsante di questo Settore.

    L'acqua ha rimestato tutta la sporcizia organica e artificiale che di solito si raccoglie lungo i marciapiedi; dall'asfalto crepato salgono invece zaffate terribili, che sanno di marcio. Mi stringo nella giacca di rayon sintetico e mi avventuro a passo veloce sotto la pioggia.

    Esco dal giardino privato dell'edificio e mi lascio ingoiare dalla frenesia del mercato. Devo sgomitare fin da subito per farmi largo in un intrico di persone, ruote di biciclette arrugginite e risciò a pagamento, che basta un attimo di distrazione e ti travolgono senza troppi convenevoli.

    Le bancarelle si susseguono l'una a ridosso dell'altra, senza rispettare un ordine preciso. La merce esposta è varia e quasi tutta di contrabbando; quella migliore viene dal Perimetro, rubata ai ricchi, destinata ai pezzenti.

    L'ottavo Settore è famoso per il suo mercato. È il più grande della città. Si estende per circa due chilometri, lungo quella che una volta era un'arteria principale — almeno finché ci sono state le automobili a percorrerla — su tre file di banchi che dividono la strada in due ampi corridoi. I posti più ambiti sono quelli delle file centrali, perché hanno lo sbocco su entrambi i passaggi. Pur di non perdere la propria posizione, i proprietari di queste attività, su cui il Governo ha scarso controllo e giurisdizione, non chiudono mai. Per quasi tutti, si tratta di attività a conduzione famigliare. Si fanno i turni per dormire: padri, madri, figli, nonni e nipoti. L'importante è che ci sia sempre qualcuno a portare avanti gli affari. Chi si ferma è perduto, così come chi lascia il proprio posto. In questo senso, le attività più impegnative da gestire sono quelle legate alla vendita di cibo, che sono però anche quelle più redditizie.

    Quasi davanti al giardino del palazzo dove vivo, c'è un bazar, una specie di emporio gastronomico dove puoi trovare un po' di tutto. Credo sia l'unico nei dintorni che può vantare una costruzione coperta in muratura, con una porta e un tetto solido. Tutte le altre sono aperte sul davanti, anche quelle che servono pasti caldi. I tetti e i divisori laterali sono per lo più ricavati da lamiere ondulate e pannelli in polipropilene, residui di costruzioni di almeno cinquanta anni fa, abbattute dal tempo o da mani che avevano in mente migliori progetti per loro.

    Quando il Governo ha iniziato a chiudere un occhio sulle attività dei Settori esterni, si è scatenata una vera e propria lotta per ottenere le condizioni, gli spazi e la visibilità migliori. Col passare degli anni, tutte le attività commerciali sono scivolate lentamente nell'illegalità. Effettuare un censimento all'interno del mercato è impossibile. Così come controllare il flusso di merci che vengono scambiate o vendute.

    Le tre mafie principali, asiatica, italiana e russa, si sono spartite la gestione dei Settori, nel controllo dei mercati. Dal secondo in poi, tutti i commercianti versano un balzello ad una di queste organizzazioni criminali, che a loro volta pagano il Governo affinché non si intrometta nei loro affari. Per il momento, è un equilibrio che regge bene, anche se è piuttosto instabile. Periodicamente assistiamo a scontri acerbi tra le mafie nel tentativo di rosicchiare quote e territori di influenza. Di solito tutto si esaurisce con qualche cadavere, un giro di arresti di circostanza, qualche processo farsa e nuove trattative tra i capiclan.

    Finché continueranno a girare abbastanza soldi per tutti, mafie e Governo Unico, la situazione rimarrà gestibile.

    Faccio lo slalom tra la gente che, nonostante la pioggia e l'ora, affolla le strade come fosse mezzogiorno. Qualcuno in bicicletta o su un risciò si ferma di tanto in tanto per chiedermi se ho bisogno di un passaggio. Io ringrazio, ma rifiuto.

    I banchi che vendono cibo sono quelli più colorati, addobbati come si faceva una volta con gli alberi di Natale. Forse nel Perimetro ancora c'è l'usanza di addobbarli, gli alberi. Là certe tradizioni sono più tenaci da smantellare. Aiuta il fatto che nessuno cerca di accoltellarti per strada per rubarti un paio di calzoni sporchi, così hai il tempo di concentrarti sulle cose futili della vita. Come le tradizioni, appunto.

    Dai corti banconi a vista si innalzano i vapori aromatici delle zuppe calde, dei pasticci di pollo vegetale e delle tipiche pietanze asiatiche, quasi tutte piccanti e affogate in spezie naturali o, per lo più, in essenze chimiche composte.

    Qualcuno propone, con scritte fluorescenti su cartelli multicolore, vere bistecche di manzo, e verdure e frutta fresca, tutto appena colto negli orti del Perimetro. Ovviamente, ogni avventore si assume la responsabilità di ciò che crede di star mangiando, perché, con buona probabilità, la maggior parte di quella roba viene direttamente dalle coltivazioni intensive della zona industriale, dove si fa largo uso di ingegneria genetica, transgenesi e chimica. Il tutto senza la garanzia di un controllo etico, qualitativo o medico, perché la domanda è alta, e la necessità di produzione costante, senza battute d'arresto, prevale sul buon senso. Al Governo non interessa se la popolazione multietnica dei Settori esterni si suicida giorno dopo giorno, avvicinandosi ogni ora un passo in più verso la morte per intossicazione e avvelenamento. L'importante è che tutti, chi produce e chi vende, in un modo o nell'altro portino soldi nelle casse del paese. Tutto il resto è rumore di fondo, come le persone che sviluppano tumori o malformazioni agli organi interni a causa del cibo, le stesse che poi crepano senza la possibilità di accedere alle cure mediche di base, in grado di garantire una morte, se non priva di sofferenze, almeno dignitosa.

    Impiego una quarantina di minuti per raggiungere il Donkey. Senza la calca ce la farei in venti, ma non ho mai potuto appurarlo nella pratica, considerato che il Silos, la lunga strada del mercato, brulica di umanità ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette. Come un enorme formicaio umano, dove tenersi occupati è l'unica via d'uscita da una vita opprimente e degradante. Ci si dà da fare per non pensare alla propria condizione. Il mercato è la gabbia preferita dai cittadini dei Settori esterni. È il loro anestetico, la cura contro un'esistenza inutile e misera. Li tiene occupati mentre il governo li ammazza.

    Qui fuori al locale c'è la solita ressa, come tutte le notti. Ragazzi di varie età, vestiti con abiti sintetici dai colori audaci, formano una lunga e disordinata fila, che si snoda quasi fino alle prime bancarelle del Silos. Parlano, ridono, strillano, fumano e bevono, come se la festa fosse già iniziata prima di entrare.

    In questo periodo è in circolazione una nuova droga chimica, che chiamano Zip. È un gel denso di colore ambrato, e inodore. Te lo spalmi sulle narici e sulle gengive, e aspetti che faccia effetto. Impiega circa venti minuti ad entrare in circolo nel sangue e ad arrivare al cervello. Quando lo fa, è come se una bomba esplodesse nella testa: i sensi si amplificano e l'umore va su di giri, a causa della produzione massiccia di endorfine rilasciate dall'ipofisi, sotto lo stimolo della droga. L'effetto è devastante e può durare diverse ore, prima di svanire lentamente, lasciandoti con una acuta emicrania e un senso di disagio. Disagio che prosegue nei giorni e muta da tristezza ad angoscia nel giro di pochissimo. Il principio attivo dello Zip, dopo lo stimolo iniziale esagerato, inibisce la produzione naturale di endorfine, lasciando il corpo con una forte carenza plasmatica di queste sostanze. Per rimediare, l'unica soluzione è assumere altro Zip, e la giostra riprende. Si può andare avanti in questo modo per un anno, prima che ti si frigga il cervello o che la depressione ti convinca a fare un bel salto nel vuoto dall'ultimo piano dell'edificio più vicino.

    Nei Settori interni lo Zip è fuori legge; questo significa che spacciarlo o assumerlo equivale a firmare una condanna a morte. I porci farebbero in modo di non farti arrivare vivo o cosciente al processo. L'ho visto succedere tante di quelle volte che ormai, un po' come tutti, considero il pestaggio alla

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1