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Prima di andare via
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E-book119 pagine1 ora

Prima di andare via

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Info su questo ebook

Ci riuniamo in una stanza del Policlinico.   Ci aiutiamo, anche se sappiamo di essere oltre ogni possibilità di aiuto.   Perché quando non hai veramente più nulla da perdere, puoi fare qualsiasi cosa.  Qualsiasi cosa.  Non ci sono più confini.  Neanche tra il bene e il male.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita21 gen 2020
ISBN9788833664361
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    Anteprima del libro

    Prima di andare via - Massimiliano Ciotola

    34

    Massimiliano Ciotola

    PRIMA DI ANDARE VIA

    Pubblicato da © Pubme - Collana Ater

    Prima Edizione Gennaio 2020

    Immagine di copertina: M an sitting on a concrete bench - autore Burst - https://www.pexels.com/

    Il logo di Ater è stato creato da Antonio Esposito.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autrice. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da considerarsi puramente casuale.

    Questo libro contiene materiale coperto da copyright e non può essere copiato, trasferito, riprodotto, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’autrice, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941).

    0

    Si è lavata.

    Si è messa un bel pigiama di seta lucida.

    Non ha più pianto.

    La testa gira, leggera.

    Riesce a pensare: finalmente. Poi scivola nel buio.

    1

    Non è negli occhi.

    Io negli occhi degli altri non ci vedo nulla.

    La piega delle labbra, i denti che si serrano, le spalle curvate, i sospiri… quelli sì. Quelli parlano.

    Ma gli occhi?

    Potrei guardare Marco Casali diritto negli occhi e non ci vedrei nulla.

    Se lo guardassi negli occhi, mica lo capirei che sta morendo.

    Ma se osservi come sta seduto, come si tiene le mani, se fai caso a come le sopracciglia si abbassano, lì al centro della fronte.

    Se ti accorgi che dentro sta male…

    Magari non capisci quanto è grave. Ma che c’è qualcosa che non va, in questo omaccione col bavero del giubbino alzato a parare gli spifferi, che se ne sta chino su questi orrendi sgabelli di plastica, in questo orrendo corridoio grigio… se lo guardi anche solo un attimo con più attenzione, non puoi non accorgertene.

    O forse sono io che ci faccio più caso? Ogni tanto me lo chiedo.

    Sarà perché pochi mesi fa c’ero seduto io, lì?

    Alza lo sguardo prima che io mi avvicini. Mi stava aspettando.

    Aspettiamo sempre qualcuno. Lucia dice che è perché, sotto sotto, la voce che spera non si zittisce mai.

    Secondo me ha ragione, ma non glielo dirò mai.

    «Il signor Casali?»

    Annuisce, si alza, prende la mano che gli tendo e me la stringe. Io sono abbastanza alto, ma mi sovrasta di una decina di centimetri, almeno. La mano è fredda, la stretta meno forte di quanto mi aspettassi, ma ferma.

    «Piacere, Lombardi. Francesco Lombardi.»

    Annuisce appena. Tempo cinque secondi e avrà dimenticato il mio nome.

    Mi guarda in faccia, vorrebbe parlare. Sono occhi castani, magari un po’ arrossati.

    So cosa vorrebbe dirmi, e so che non me lo dirà.

    Non lo fa nessuno, all’inizio.

    Prende un respiro, abbassa lo sguardo e il braccio.

    Poi mi guarda di nuovo.

    «Mi scusi, dottore. Ma penso che stiamo perdendo tempo…»

    Mi viene quasi da sorridere. Non so se lui se ne accorge.

    Annuisco.

    «Non sono un dottore, signor Casali. Venga con me.»

    Mi viene dietro, un passo alle mie spalle.

    Normalmente avrebbe ragione lui.

    Sarebbe solo una perdita di tempo.

    Normalmente.

    2

    Marco ha smesso di ascoltare il Professore già da qualche minuto.

    Io penso che il Professore lo sappia, ma c’è il ruolo da rispettare.

    Il rituale da mandare avanti.

    Ogni tanto Marco annuisce, ma non cambia mai l’espressione del viso.

    S’è rintanato dentro, in quella parte piccola e scura dove le parole non arrivano davvero, se non come un’ovattata litania di sillabe.

    A me quella parte è nel centro del petto. Non so se è così anche per lui.

    Quando sarà uscito da questa saletta, quando starà camminando per uscire dall’ospedale, ricorderà solo qualche frase, parole sparse.

    Magari le ripeterà al cellulare, quelle che ricorda, anche se ha poco da dire e ancora meno persone a cui dirlo.

    L’ho letta bene la tua cartella, Marco.

    Più ti guardo, più penso che potresti andare bene.

    «Quindi capisce che la terapia aggressiva non è consigliabile, signor Casali. La cosa preferibile è studiare un protocollo di supporto, anche con analgesici specifici, per il futuro.»

    Si muove appena sulla sedia. Le labbra si contraggono.

    La parola è passata, certo.

    L’hai sentita, l’hai capita e dalla testa è passata oltre.

    È scesa fino al posto buio e caldo dove ti stai nascondendo. Perché la voce che spera ha trovato un appiglio, e la voce che spera è furba. È viscida.

    Il Professore ha detto futuro.

    C’è un futuro. Non dare retta a nient’altro.

    Nega anche l’evidenza del perché sei qui, in questo reparto, in questa stanzetta, in questa puzza di disinfettanti scadenti.

    C’è un futuro.

    Però non ci guarda negli occhi. Né il Professore, né me.

    Lo sa chi sono, lo sa che siamo sulla stessa barca. Altri prima di lui, nello stesso momento, hanno avuto un bagliore di speranza. Folle, insensata. Viscida.

    E hanno cercato nei nostri volti una conferma.

    Un cenno d’assenso, un sorriso, qualunque cosa che confermi che sì, avete sentito bene, vivrete. Vivrete ancora e non morirete e tutto andrà bene.

    Ne ho visti.

    A volte il rituale funziona, è per questo che continuano a usarlo.

    Anche qui, in questa stanzetta spoglia che dovrebbe essere il Regno della Scienza.

    Ma secondo me i rituali sono superstizioni belle e buone.

    A volte funzionano, a volte non funzionano.

    Non c’è metodo, non c’è statistica. Non c’è ragione.

    A volte noi ci alziamo e usciamo da questa stanza convinti di avere la forza di superare tutto questo.

    E per il Professore, e per tutti quelli come lui, per questo risultato erratico vale comunque la pena provarci.

    Marco no. Marco non ci guarda.

    La parola futuro è entrata, è passata, ma non ha acceso nient’altro che un’effimera scintilla.

    Io lo so.

    Il Professore è arrivato alla parte in cui consiglia il sostegno psicologico. Tocca a me.

    «Può essere molto utile, senz’altro. Il confronto con altre persone non va assolutamente sottovalutato. Informazioni, consigli… anche una nuova prospettiva.»

    Mi guarda, prevedibile come sempre.

    «Francesco è diventato una risorsa molto importante. Il suo lavoro di counseling sta dando ottimi risultati.»

    Io sorrido di rimando.

    Marco non sta recependo una parola di quello che il Professore dice. Non ascolterà nulla di quello che gli dirò io.

    Incontri di gruppo, assistenza domestica, aiuto per le pratiche burocratiche, bla bla bla.

    Diventerà tutto un pappone confuso e mellifluo.

    È normale.

    Per quanto strano possa sembrare, detto da me, detto da noi, adesso non c’è fretta.

    3

    «Posso chiamarti Marco? Lasciamo perdere le formalità inutili… Il primo incontro è giovedì alle 10, qui. Ti chiedo uno sforzo, lo so. Ma fidati: non sarà una perdita di tempo, non sarà inutile.

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