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Mariani e la cagna
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E-book260 pagine5 ore

Mariani e la cagna

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Info su questo ebook

Il commissario Mariani è salito al Centro di rieducazione cardiovascolare per fare visita alla madre Emma. Come altre volte, fa due passi nella zona. Non sentendo abbaiare una cagna che di solito gli faceva festa, occhieggia attraverso la siepe e la vede insanguinata. Spinge il cancello ed entra. A terra c’è anche un uomo, Patrizio Debenedetti: è stato ucciso con un colpo di arma da fuoco. Le indagini sull’omicidio sono affidate al commissario Arnaldi, mentre Mariani viene inviato a Roma per un convegno. Quando ritorna, dopo pochi giorni, scopre che la principale indiziata è Vanna Penchi, un’inserviente del Centro, la donna che cinque anni prima aveva accusato di stupro Debenedetti, la donna a cui era stato dato il nome “Cagna”. Mariani non vuole essere coinvolto, anche per i pessimi rapporti con Arnaldi, ma quando Emma afferma di poter fornire un alibi alla Penchi deve agire, perché deve sapere quanto siano attendibili i ricordi di sua madre che, dopo il pesante intervento, non ha riacquistato la completa lucidità.

Maria Masella è nata a Genova. Ha partecipato varie volte al Mystfest di Cattolica ed è stata premiata in due edizioni (1987 e 1988). Ha pubblicato una raccolta di racconti – Non son chi fui – con Solfanelli e un’altra – Trappole – con la Clessidra. Sempre con la Clessidra è uscito nel 1999 il romanzo poliziesco Per sapere la verità. La Giuria del XXVIII Premio “Gran Giallo Città di Cattolica” (edizione 2001) ha segnalato un suo racconto La parabola dei ciechi, inserito successivamente nell’antologia Liguria in giallo e nero (Fratelli Frilli Editori, 2006). Ha scritto articoli e racconti sulla rivista “Marea”. Per Fratelli Frilli Editori ha pubblicato Morte a domicilio (2002), Il dubbio (2004), La segreta causa (2005), Il cartomante di via Venti (2005), Giorni contati (2006), Mariani. Il caso cuorenero (2006), Io so. L’enigma di Mariani (2007), Primo (2008), Ultima chiamata per Mariani (2009), Mariani e il caso irrisolto (2010), Recita per Mariani (2011), Per sapere la verità (2012), Celtique (2012, terzo classificato al Premio Azzeccagarbugli 2013), Mariani allo specchio (2013), Mariani e le mezze verità (2014), Mariani e le porte chiuse (2015) e Testimone. Sette indagini per Antonio Mariani (2016), Mariani e il peso della colpa (2016) e Nessun ricordo muore (2017), con protagonista la coppia Teresa Maritano e Marco Ardini.Per Corbaccio ha pubblicato Belle sceme! (2009). Per Rizzoli, nella collana youfeel, sono usciti Il cliente (2014), La preda (2014) e Il tesoro del melograno (2016). Morte a domicilio e Il dubbio sono stati pubblicati in Germania dalla Goldmann. Nel 2015 le è stato conferito il premio “La Vie en Rose”.
LinguaItaliano
Data di uscita28 ott 2017
ISBN9788869432347
Mariani e la cagna

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    Anteprima del libro

    Mariani e la cagna - Maria Masella

    CAPITOLO 1

    Mercoledì 27 giugno 2012, mattina

    Anche questa mattina sono salito per salutarla, sperando che oggi sia meglio di ieri. Non è un peso alzarsi due ore prima, guidare fino a Recco, poi imboccare la strada verso Ruta: l’estate ci regala un cielo di un azzurro smagliante e i colori delle case che si intravedono appena fra la vegetazione ancora fitta brillano come gioielli ma meno dei frammenti di mare strinato dalla tramontana.

    Come ogni giorno, da quasi due settimane, ho guidato da Genova Quinto a Recco. Niente autostrada, per godermi la vecchia Aurelia.

    Poco prima di Ruta ho preso il bivio sulla sinistra e ho affrontato i tornanti.

    Me la sono presa troppo comoda, forse per paura, e sono arrivato che lei era già in palestra per la rieducazione. Ho deciso di aspettare che finisse.

    Non ho un caso e sono abbastanza padrone del mio tempo.

    In tutto il territorio del Centro di riabilitazione cardiovascolare è severamente vietato il fumo e, per una sigaretta, si deve oltrepassare il cancello. Subito dopo, in zona franca, un’anima pia ha sistemato bene in vista un vaso di coccio pieno di sabbia e di cicche.

    Potrei restare lì; altre volte l’ho fatto, anche in compagnia di uno dei medici che hanno in cura mia madre. Oggi no, perché preferisco non sentire ancora una volta che il cuore è ok, i reni e i polmoni pure… Tutti i loro discorsi amichevoli e incoraggianti non placano la pena che mi opprime mentre lei mi guarda. Ecco, sopporto i medici quando sono professionalmente distanti.

    Ho voglia di star solo e non mi è mai piaciuto fumare stando fermo in piedi.

    La casa di cura è quasi in vetta e comunque alla fine della strada: l’unica alternativa è scendere.

    Ne fumerò una scendendo e una risalendo, piano piano, sforzandomi di assaporare l’aria non ancora afosa, come ho fatto altre volte.

    Ho acceso e ho cominciato la discesa.

    Ormai la mia meta, il punto di svolta, è sempre il primo cancello oltre cui si vede e non vede il tetto di una villa: è piatto perché adibito a posteggio.

    Mi fermo.

    C’è uno strano silenzio.

    Le altre volte ero accolto da un festoso abbaiare. Gli animali mi piacciono e probabilmente a quel cane, una cagna, io non dispiaccio, perché dopo il primo giorno, quando mi aveva abbaiato contro, le altre volte arrivava e infilava la testa fra le sbarre per accogliere una grattatina dietro le orecchie. La tengono alla catena, ma abbastanza lunga da poter arrivare al cancello.

    Una cagna giovane, forse non di razza, ma ben fatta, con qualcosa del pastore tedesco.

    Oggi niente.

    Mi trattengo qualche minuto sperando nel suo arrivo.

    Niente.

    Mi accosto di più al cancello e lancio un’occhiata oltre le sbarre. Sì, lo ammetto, sono di razza curiosa.

    Ed è alla seconda occhiata che la vedo, a terra, su un fianco, ancora alla catena. Vedo il sangue.

    È la mano ad agire senza che la testa abbia impartito ordini, è l’istinto del questurino. Spingo il cancello con la sinistra, mentre la destra sfiora l’arma di ordinanza.

    È aperto.

    Entro cercando di non fare rumore.

    L’uomo a terra, riverso, lo vedo dopo pochi passi, prima me lo nascondeva un fitto cespuglio di oleandro rosa.

    Mi accosto. Due dita sulla giugulare, nessun battito. Gesto superfluo perché gli manca parte del viso: colpo di arma da fuoco, ravvicinato.

    Con la sinistra chiamo la Questura per segnalare un probabile omicidio.

    Ritorno verso la cagna, questa è ancora viva. Il proiettile non deve aver leso organi vitali, ma ha provocato una pericolosa perdita di sangue. Dalla tasca tolgo il fazzoletto pulito che porto soltanto per vecchia abitudine e cerco di tamponare la ferita come posso.

    La cagna si muove appena e le accarezzo il dorso per calmarla.

    È arrivata la Scientifica e subito dopo la Petri.

    – Non eri in pausa?

    – Avevo lavoro d’ufficio da sbrigare, commissario; quando ho saputo, sono salita anch’io.

    Annuisco, avrei fatto lo stesso. Dopo le prime foto, solleviamo il corpo con cautela; sfilo i documenti dalla tasca posteriore dei pantaloni di tela. Debenedetti Patrizio.

    Riprendo il cellulare e comunico ai colleghi della Questura l’identità della vittima.

    Torrazzi lo riconosco dal passo pesante e dalla solita protesta per la scomodità del posto.

    – Una villetta con panorama sul Monte di Portofino e ti lamenti?

    Si stringe nelle spalle. – Salita maledetta, due volte ho rischiato di finire fuori strada.

    Non posso dargli torto, questi tornanti sono stretti e la vegetazione fitta fa effetti di luce e ombra che confondono.

    – E il corpo dove è?

    Indico alle mie spalle: – Qui dietro, ma prima dai un’occhiata al cane che è ancora vivo. Sei un medico.

    – E il morto è morto. – Ma già si china accanto al cane e scosta appena il fazzoletto inzuppato di sangue. Lo indica: – È tuo?

    – Sì, ho cercato di fermare l’emorragia, dopo aver visto il morto e aver chiamato.

    – Io non posso fare niente di più, Antonio. – Si gira verso la Petri: – Non sarebbe male chiamare un veterinario, a Recco uno ci sarà.

    Lei annuisce.

    – E ora andiamo a vedere il corpo.

    – Il decesso risale a poco più di un’ora fa, Antonio.

    Guardo l’orologio. – Sono le nove e quaranta, l’ho trovato alle nove meno un quarto.

    – Quindi gli avevano sparato da una decina di minuti, al massimo una ventina.

    – Quando sono passato in auto, e saranno state le otto e un quarto, il cane ha abbaiato come sempre, non mi è sembrato più agitato del solito. Andavo piano perché è una strada dannatamente brutta, ci si deve concentrare per prendere bene le curve. Anche se l’ho percorsa spesso in queste ultime due settimane.

    Parlando ci siamo spostati per permettere ai colleghi della Scientifica di lavorare.

    – La strada è infernale, ma è un gran bel posto – commenta guardandosi attorno.

    Annuisco.

    – Tua madre come sta?

    – Si è ripresa bene, fisicamente; dovrebbero dimetterla a giorni. Dicono che si impegna molto nella rieducazione.

    – Ne avevi dubbi? Io no, per il poco che la conosco. Immagino che esegua tutti gli esercizi con puntiglio.

    – L’unica lamentela è il suo rifiuto di trascorrere quelle due ore serali nel salone a guardare la tv. Si sistema in un angolo a leggere o scambia quattro parole con il personale. L’ho detto ai medici che sulla tv è inutile insistere. – Ma neppure con lui riesco ad aprirmi. Soltanto Fran e i medici sanno la verità.

    Spegne con cura la sigaretta che ha acceso quando ci siamo allontanati dal corpo, ripone la cicca in un sacchettino che infila nella tasca della giacca. – Così non inquino il luogo del delitto!

    Annuisco sorridendo.

    – Appena è pronto ti faccio avere il referto dell’autopsia. – Sistema meglio la giacca che gli vedo da anni ed è diventata sempre più tirata. – E ti telefono per spiegarti a voce.

    – Se passi, mangiamo un boccone insieme.

    Intanto è arrivato, con suo comodo, anche il PM. Commenta che i delitti mi capitano proprio fra i piedi e che almeno avrò le informazioni di prima mano e non dovrò andare in giro a scovarle.

    – Non ho visto molto, anzi niente.

    Neppure mi ascolta. – Aspetto la sua relazione dettagliata, Mariani, e che risolva presto il caso. – Si guarda attorno, abbassa la voce. – Ho tardato per un motivo. Ho voluto controllare.

    Se aspetta che gli chieda lumi, possiamo far notte, e in questa stagione il buio viene tardi.

    Lo vedo cercare inutilmente di resistere alla tentazione di dirmi cosa ha controllato; riderei se non ci fosse quel morto poco lontano.

    – Ne ho avuto il sospetto appena ha comunicato le generalità della vittima. Patrizio Debenedetti, figlio di Patroclo Debenedetti. – Forse coglie la mia occhiata interrogativa, perché aggiunge: – Costruzioni, Mariani. Costruzioni edili.

    – Non avevo associato – ed è la pura verità. Non gli chiedo perché è importante la parentela, per me non cambia nulla, se non che sarà più difficile muovermi; per lui invece questo omicidio sarà da risolvere presto e bene, cioè senza importunare chi ha diritto a pace e privacy.

    – Come sempre è troppo disattento alla realtà sociale in cui operiamo. Le raccomando discrezione e rapidità.

    Annuisco perché non costa nulla.

    Se ne va.

    Affido alla Petri le incombenze di rito e torno su, per un rapido saluto.

    Neppure l’irritazione per i sapienti consigli del PM riescono ad arginare la pena: come mi chiamerà oggi?

    Troverò chi ha ucciso Patrizio Debenedetti, almeno lo spero.

    Sono tornato su a passo spedito, lasciandomi il caso alle spalle. Come mi chiamerà oggi?

    Pomeriggio

    Non mi ha chiamato Antonio e neppure Nino. A questo non devo pensare: ho un caso. Sto per cominciare il solito rito di aprire un fascicolo quando arriva la convocazione urgente dal questore.

    Vado e non faccio anticamera.

    – Si accomodi, Mariani. Volevo parlarle…

    Si è interrotto, aspetto che continui. Cosa prevedo? Che voglia parlarmi del caso Debenedetti, anzi raccomandarmi rapidità, prudenza e, se possibile, di non andare a pescare un colpevole fra la gente che conta.

    – Non chiede cosa ho da dirle?

    Mi stringo nelle spalle. – Non volevo interromperla, so che me lo dirà.

    – Il convegno a Roma… – tossicchia – Era prevista la partecipazione del commissario Razeto… – Un altro colpo di tosse. – Di Razeto. Dovevo andare io, ma lei è la persona giusta per rappresentare la nostra Questura.

    Odio i convegni e tutti i miei superiori lo sanno.

    E continua: – Le farò avere in giornata tutta la documentazione. Sarà anche una specie di vacanza, ne avrà bisogno – non lo sopporto quando fa l’amico. – Avrà anche la possibilità di stringere utili amicizie.

    – E l’omicidio a Ruta?

    – Non avrei potuto affidarlo a lei, Mariani. No, non mi fraintenda, ho piena fiducia nelle sue capacità.

    E allora? Ma lo penso e non lo dico. So che niente lo turba quanto i miei silenzi.

    – In fondo lei, Mariani, è parte in causa.

    Ancora taccio, a stento.

    – Mi sono chiesto se è opportuno che se ne occupi la stessa persona che è anche testimone.

    Testimone? Ma sto zitto.

    – Ha trovato il cadavere e può dare informazioni per la corretta datazione dell’omicidio. Ecco, che sia proprio lei a indagare non mi sembra la giusta scelta.

    Se fino a dieci minuti prima non avevo alcun desiderio di indagare sull’omicidio di Debenedetti Patrizio, ora vorrei trovare chi ha sparato a lui e alla cagna. Non chiedo a chi lo affiderà. Mi alzo. – A disposizione del collega che si occuperà delle indagini. Sa dove trovarmi.

    Uscendo incrocio Arnaldi. Quindi sarà lui a sostituirmi.

    Arnaldi sempre abile nel non vedere e non sentire quando è opportuno: dalla faccenda Razeto, come ormai la chiamano tutti, nessuno ha subito meno danni di lui, il più vicino, anzi l’amico di Razeto.

    Mia madre ha sempre detto che l’odio e il disprezzo fanno male a chi li prova e non a chi dovrebbe riceverli; ma è difficile non odiare e non disprezzare. Esco, di furia, per caffè, sigaretta e camminata sotto i portici già roventi di piazza della Vittoria.

    Quando rientro, la Petri, espressione di pietra, mi comunica che il commissario Arnaldi desidera raccogliere la mia testimonianza e mi aspetta nel suo ufficio. Sto uscendo quando commenta: – Ho saputo che gli è stato affidato il caso. – Non un gesto tradisce irritazione o sconcerto. Soltanto la sua occhiata dice che condivide i miei pensieri, forse i miei sentimenti.

    Annuisco.

    – Avevo aperto un fascicolo, commissario.

    – Mettilo nel mio cassetto.

    – Quello con la chiave?

    Un altro assenso. Lo tengo chiuso con una banale serratura che chiunque riuscirebbe ad aprire, ma è un modo per segnalare che è spazio privato; alla Petri avevo affidato una delle due chiavi quando mia madre era stata operata d’urgenza; poi avrebbe voluto rendermela, ma le avevo detto di tenerla. – Che nome hai messo sul fascicolo?

    – Di solito lo sceglie lei, commissario.

    Debenedetti? Meglio di no. – Cagna, Petri. Cagna. Se non fosse stato per quella bella cagna, non avrei trovato il corpo e sarei rimasto fuori. Dal delitto, dall’incazzatura e dalle grane che, sento, arriveranno.

    Sorride. – Allora Cagna.

    – Arnaldi – e un cenno di saluto.

    – Vieni, collega. – Indica una delle due sedie davanti alla sua scrivania. – Come saprai, dovrò occuparmi dell’omicidio di Debenedetti. Tu hai trovato il cadavere, sei passato poco prima che gli sparassero. Dovresti dirmi quello che ricordi. – Esita e aggiunge: – Tutto.

    È quell’ultima parola a spegnere la mia scarsa voglia di collaborare, già messa a dura prova dall’appellativo collega.

    Smuove oggetti e fogli.

    – Posso riferirti il poco che so, quel poco che ho già spiegato al PM quando è arrivato sul posto.

    – Benissimo.

    Gli ho riferito, ha preso nota. Mi ha congedato dicendo che mi avrebbe fatto avere la deposizione per la firma.

    Ora sono nel mio ufficio. Passando ho dato un chiamo alla Petri e, quando arriva, le indico la sedia che sarebbe la mia.

    Mi guarda interrogativa e resta in piedi.

    – Mi mandano a Roma. – La vedo impallidire e subito aggiungo: – No, non un trasferimento. Solo uno stupido convegno.

    – Doveva andare Razeto. – Esita. – La documentazione l’avevo raccolta io, commissario. – Guarda alle mie spalle, per non incrociare il mio sguardo. – Forse per tenermi occupata. Ma l’ho pensato a posteriori; mentre lavoravo, l’avevo creduta prova di fiducia.

    Annuisco. Anche lei, come me, sta accumulando cicatrici che dolgono all’improvviso. Il lavoro, il lavoro ben fatto, è una gran medicina. – Il tuo mestiere lo conosci, ispettore Petri. Ora mi interroghi, in modo decente. È un ordine. – E non mi piace darne.

    Esita e poi occupa la mia sedia, mentre io mi siedo di fronte. – Non capisco, commissario.

    – Sono le giuste domande a far ricordare, Petri.

    Borbotta, ed è da segnare sul calendario, che io so interrogare meglio di lei.

    Faccio segno di no. – Le giuste domande aiutano a vedere, ma è difficile porsele da soli.

    – A che ora ha trovato il corpo?

    Sì, conosce il suo mestiere e guida il testimone a ritroso! – Otto e quarantacinque, ispettore, ne sono certo perché ho guardato l’orologio.

    – Da quanto tempo era davanti al cancello?

    Arnaldi non me lo ha chiesto! Invece è importante. – Vediamo… Cinque minuti? È possibile anche due o tre in più. Quando sono arrivato al cancello della villetta, avevo appena finito una sigaretta, ho spento la cicca contro una pietra e sono tornato su, di pochi passi, per gettarla in un cassonetto della spazzatura, quello che serve la villetta di Debenedetti e la casa poco più in basso. Ho notato che il cancello era soltanto accostato, mentre mi allontanavo dal cassonetto. Non prima.

    La vedo prendere nota dei tempi.

    – Ora dovrebbe descrivermi i suoi movimenti da quando è arrivato al Centro di riabilitazione al momento in cui si è trovato davanti al cancello.

    – Aspetta. – Cerco di rivedere una per una le mie azioni. – Sono arrivato al Centro di riabilitazione alle otto e diciotto. Infatti mia madre era appena entrata in palestra, per la seduta di tre quarti d’ora, e sarebbe rimasta fino alle nove. Ho salutato la dottoressa che la segue, perché l’ho incrociata in corridoio. E sono uscito per fumarmi una sigaretta camminando.

    – In tutto quanto può averci impiegato?

    – Fra lasciare la palestra, percorrere il corridoio, salire una rampa, percorrere un secondo corridoio, salutare la dottoressa, uscire?

    – Sì, quanto tempo?

    – Dieci minuti, ma potevano essere nove o undici.

    Annuisce. – Comunque è un intervallo abbastanza preciso. E dall’uscita fino al cancello della villetta?

    – È abbastanza semplice. Ho tolto dalla tasca il pacchetto e l’accendino, ho acceso dopo un minuto, proprio il tempo necessario per arrivare dove è consentito. – Chiudo gli occhi per rivedere i miei gesti in sequenza.

    – Non ha risposto alla mia domanda, commissario.

    – Hai ragione. Ero rilassato, camminavo con calma anche guardando il bel panorama – ignoro la sua occhiata perplessa, forse mi ritiene indifferente alle bellezze naturali… – Quindi cinque minuti.

    – Sommando i tempi, otto e diciotto più undici, più uno, più altri cinque. Dovrebbe essere arrivato al cancello alle otto e trentacinque. Mettiamo in conto qualche minuto di esitazione prima di spingere il cancello e siamo alle otto e quaranta. – Mi guarda e tace.

    – Sì, avrei dovuto trovare il corpo qualche minuto prima delle otto e tre quarti.

    – I tempi non tornano, commissario. Forse ha impiegato più tempo fra la palestra e l’uscita…

    Inizio il gesto di alzarmi, come fossi io a dirigere l’interrogatorio, e mi rimetto seduto. Le vedo un sorrisetto e poi: – Se camminando pensa meglio, si alzi. E può anche accendere una sigaretta.

    Mi accosto alla finestra, la socchiudo. È nel gesto di accendere che ricordo. Mi giro verso la Petri. – Stava uscendo un’infermiera, ormai ne conosco molte di vista. Mi ha chiesto se avevo una sigaretta, le aveva finite. Solidarietà fra fumatori.

    – Aveva finito un turno?

    – Era in pausa, ogni tre o quattro ore hanno una pausa di mezz’ora. Mi ha detto che era stanca e non si sentiva di fare su e giù per andare a comprarle fino a Ruta.

    – Non è così vicino, fra

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