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Il peso dell'amore. tre casi per il prof. francesco de stisi
Il peso dell'amore. tre casi per il prof. francesco de stisi
Il peso dell'amore. tre casi per il prof. francesco de stisi
E-book278 pagine4 ore

Il peso dell'amore. tre casi per il prof. francesco de stisi

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Francesco de Stisi, ex professore, amante di Montaigne, del cinema e della buona cucina, si è trasformato in investigatore privato. In due precedenti romanzi (Il peso della giovinezza e Il peso della bellezza) ha affrontato e risolto sei casi di altrettante giovani donne in fuga. Nel Peso dell’amore subito altri tre casi per lui: la figlia di un boss della malavita fuggita a Parigi con il suo ragazzo; la nipote di un senatore sposatasi in segreto con un anziano professore spagnolo; la sorella di un famoso industriale alle prese con un amico dalle ardue pretese.
Tre giovani donne alle prese con il più nobile dei sentimenti: l’amore, nella constatazione di quanto esso, tuttavia, possa essere anche un peso insostenibile.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ott 2013
ISBN9788868556389
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    Il peso dell'amore. tre casi per il prof. francesco de stisi - Guido Croci

    magnate

    1.  L’amore ha le gambe corte. Il caso di Eleonora P., la figlia del boss.

    Quando varcò la soglia dell’ufficio del capo, per un attimo temetti per le sorti di Maria Leone. Sarà perché i due ceffi rimasti a guardia della porta erano più brutti e cattivi di Lee Van Cleef ed Eli Wallach. Stavo per chiamare a rinforzo i barracuda del colonnello Lo Dritto e il mastino napoletano di sua moglie, ma desistei: era tutto previsto: c’era stata una regolare richiesta di appuntamento. Al telefono, dopo essersi presentato, aveva limpidamente chiesto a Maria: Lei sa chi sono?, e lei, altrettanto limpidamente, aveva risposto: So benissimo chi è lei. Io, al posto del capo, avrei aggiunto: E lei, sa chi sono io?, ma Maria non è come me, lei non è una tipa curiosa e non le importava assolutamente niente d’afferrare le sfumature con le quali spernacchiano i boss.

    L’avevo visto solo di spalle. Era piuttosto alto eppure, non so perché, risultava tozzo, collo taurino e portamento napoleonico. Stando ai giornali, era sputato il Robert De Niro degli Intoccabili, con i lineamenti del viso più regolari, però, qualche centimetro in più, e con l’aggiunta di una possente pancia da nove mesi. Nel vederlo di persona, benché di spalle. Dico, rispetto alla somiglianza con il grande Robert. Sembianze fisiche a parte, che dire tuttavia del boss? Si può parlare di un boss senza non scadere negli inevitabili luoghi comuni? Allora non dirò niente. Anzi, no, qualcosa dirò. Poco, ma qualcosa dirò. Sebbene da ormai tre anni la notte accedo con impeto e favore nella camera da letto del capo, la curiosità è un bene che mi sta ancora a cuore e che ogni tanto vale la pena di condividere. Però, ripeto, dirò poco. Dunque.

    Il boss, negli anni Sessanta, era stato un precoce re del cemento. Negli anni Settanta, con grande acume, aveva iniziato a diversificare l’attività, passando, anzi affiancando il cemento con l’eroina. Sempre di polvere si trattava. La particolare convenienza stava nell’evidenza che, all’occorrenza, si poteva scambiare una polvere con l’altra, anche se non mi risulta che qualcuno abbia mai toccato con mano un condominio o un grattacelo costruiti con la diacetilmorfina? Non ditemi niente: non volevo ripetere la parola eroina e ho cercato un sinonimo nel personal computer. Non l’avessi mai fatto. Anche grattacelo non mi convinceva e ho parimenti cercato. Ho trovato: fregacelo, sfregacelo, graffiacelo, raschiacelo, grattugiacelo, rubacelo, sgraffignacelo. Ora: va bene che erano le sei e un quarto di una domenica di luglio da quaranta gradi in frigorifero, però - diavolo d’un Buddha lacerato dalla predica del Savonarola sull’Apocalisse! - quel picchio di p.c. era già bell’e cotto di primo mattino!

    Nell’udire quella sfilza di strani vocaboli, Javier Maria Murillo avrebbe detto, ammiccando come mia nonna Gelsomina: Francisco, roba da ridere, no?. Per lui ero Francisco, gli piaceva molto il mio nome, e presto capii perché. Avevo frequentato Javier durante il mio secondo soggiorno a Siviglia, al tempo in cui giravo, affranto e smarrito, tra le cento città d’Europa. Era un giovane dal portamento assai composto, quasi lezioso, studiava medicina all’Università di Granada e dipingeva come il suo celeberrimo antenato. Almeno così sosteneva, d’essere diretto discendente di Bartolomé Esteban Murillo. Allora, non m’ero di certo preso la briga d’accertare il fatto; oggi sarebbe stato diverso, ora che il mio nuovo mestiere cominciava sul serio a piacermi.

    Javier Maria studiava medicina e dipingeva. Non so cosa c’azzecca la scienza medica con il dipingere. So che i medici sono affamati d’arte e ne parlano con estrema disinvoltura, che talvolta sfocia nella superficialità se non quasi in una forma di garbata irriverenza; il recente incontro con il dottor Birindelli, l’omone giovane con la testa rasata e la barba folta e scura del Doge Alvise Mocenigo ritratto dal Tintoretto, compagno di scazzottate di Beatrice Rho, n’era stata l’ennesima conferma. Che questa ritrosa passione dei dottori per la pittura sia il retaggio d’una antica posizione di dominio, allorché nella Firenze del Trecento gli artisti si associarono alla corporazione dei medici e degli speziali? Serbando di fatto i primi, e per lungo tempo, un ruolo subalterno nei confronti dei secondi, giacché i medici e, soprattutto, gli speziali fornivano loro le materie prime: terre, pigmenti e colori? Che senza, gli artisti, non avrebbero potuto dipingere neppure la porta di casa? La medicina, proprio nella sua fase costitutiva e di ricerca di una pertinente identità, s’affermò come arte medica. Ippocrate dovette combattere non poco contro chi confutava la legittimità della medicina in quanto arte, téchne, quale fertile mediazione fra teoria ed esperienza. E’ solo col Rinascimento che inizierà la grande trasformazione dell’arte medica in scienza medica.

    D’altro canto, il medico non è mai stato né sarà mai un artista, poiché non ha prodotto né produrrà mai nulla. Per dirla con Gadamer, la capacità del medico di produrre è, a ben vedere, una capacità di ristabilire, la possibilità di agevolare in un essere umano il ritorno in salute e il rientro nella vita. I medici sanno - o dovrebbero sapere – che non sono loro, e neppure la loro abilità professionale, per grande che sia, ad essere al centro dell’attenzione, quanto la natura favorita dal loro sostegno, quella straordinaria capacità della vita di ristabilirsi ed equilibrarsi da sola. Chi ha dovuto affrontare un terribile male e ne sia uscito vittorioso, manifesta gratitudine verso i dottori che l’hanno assistito, ma nel profondo, se è credente, benedice il Signore Onnipotente; se non lo è, rende grazie proprio a quella stupefacente attitudine dell’esistenza a ricostituirsi e riequilibrarsi in solitudine.

    Non ero mai stato un grande estimatore dei giganti del Siglo de oro. Di Murillo, prediligevo soprattutto la produzione più tarda, non i dipinti raffiguranti santi, madonne e angeli vari, ma quelli che registrano deliziosamente scene e personaggi della vita quotidiana. Insomma, non tanto il Murillo del Gesù buon pastore quanto quello dei Fanciulli che mangiano la frutta. Javier Maria, nel suo studio, teneva in bella vista tre fedeli, ammirevoli, riproduzioni della Ragazza alla finestra. In questo, nel rifare più volte lo stesso soggetto, aveva preso da Jean-Baptiste Siméon Chardin, il pittore del silenzio. Volentieri ne avrei acquistata una, anzi, probabilmente, l’avrei ricevuta in dono, ma il vagabondare ha le sue ferree regole. Come tutte le cose di questo mondo.

    Un tardo pomeriggio, mentre contemplavo per l’ennesima volta le copie della Ragazza, Javier s’accostò spalla a spalla per confidarmi a mezza bocca che seppure non poteva dirlo liberamente in giro, ma a lui, rispetto al suo antenato, piaceva di più Francisco de Zurbarán.

    Zurbarán era stato da sempre del tutto fuori dalla mia portata e voglia – sì, lo so che a pagina 28 del Gatto rosso mattone ho affermato che avrei voluto tanto vedere il suo Gesù bambino che si ferisce con la corona di spine, ma non si può mica prendere tutto sul serio ciò che si scrive in un romanzo - fino ad un pranzo davanti al minuto quarto anteriore d’un maialino arrosto. Due mesi prima. Passeggiavo senza fretta nelle placide viuzze di Segovia, quando un tizio da dietro, correndo appresso a non so che cosa, quasi mi scaraventò a terra. Insieme a lui. Era un sabato della prima settimana di aprile dell’anno seguente quello della distruzione della mia famiglia.

    «Che modi sono!?».

    Mi voltai e mi discostai un poco nel dirlo e vidi un uomo in età avanzata nerboruto e calvo che mi fissava dritto negli occhi. Poteva benissimo essere un maestro di qualche arte marziale. Che il suo obiettivo fossi proprio io? Ancora non conoscevo la stretta di mano micidiale di Gianni Lo Dritto, né il dorso e i pettorali da quarta misura del fido Ercolino, alto quanto Renato Rascel senza scarpe, nondimeno ben piazzato e proporzionato, e dunque a chi avrei potuto chiedere aiuto? A Egidio Delle Corti, che con due cantilene al giorno scioglieva le sue preoccupazioni esistenziali con la rapidità di un panetto di burro dentro un altoforno? A Francesco Sapori, che aveva trasformato il suo irruente, nativo, febbrile impulso viscerale in una stronzata d’amore letterario? A Tonio Trevigian, che l’unica volta che nella storia dell’umanità i produttori di Cartizze avevano minacciato di ritirare dal mercato tutta la loro produzione, aveva personalmente acceso duecento candele alla Madonna del Carmine con l’esplicita richiesta d’allontanare di duecento anni, un anno per ogni candela, l’annunciato, tragico evento? A Piero Rometti, che giurava e spergiurava che l’uomo è una margherita? No, dico! Lì ci voleva il Robert De Niro di Toro scatenato, altro che ex colleghi di liceo, piuttosto meglio qualche battuta alla Guglielmo Guglielmini: Maestro, maestro, prova a prendermi col destro.

    «Mi perdoni. Lei è italiano, vero?». Per un attimo pensai che girassi con un cartello in testa con su scritto: A scanso d’equivoci, dichiaro sin da subito d’essere italiano. Denominazione d’origine controllata e garantita.

    «Sì, sono italiano e lei come mai parla la mia lingua?».

    «Mia nonna, la madre di mio padre, era italiana ed anche se mio nonno ad un certo punto ha imposto a tutta la famiglia di parlare solo spagnolo, io ho continuato a studiare l’italiano e a praticarlo appena ce n’era l’occasione».

    «Con ottimi risultati». Era la verità. Il fatto d’essermi catapultato addosso era già bello che dimenticato. E’ una mia prerogativa, a cui sono molto affezionato, quella di abbandonare istantaneamente le piccole avversità della vita quotidiana. Abbiamo altro a cui pensare e di cui preoccuparci, no?

    «E’ gentile, la ringrazio... Le posso offrire qualcosa?».

    «Niente, grazie».

    «Sicuro? Un caffè, un succo di frutta?».

    «No davvero, non prendo niente». Mica potevo dirgli che avrei gradito un calice di Krug Grande Cuvée.

    «Mi scusi per prima». Inaspettatamente, l’uomo in età avanzata nerboruto e calvo tornò sui suoi passi. Ne approfittai.

    «Non si preoccupi, non è successo niente, piuttosto, posso chiederle cosa stava rincorrendo con tanta foga?».

    «Come mai me lo chiede?».

    «Semplice curiosità». Sorrise d’un sorriso aperto e gioviale. Notai un non so che di fanciullesco in lui.

    «La capisco, anch’io sono curioso. Ebbene: una donna. Stavo rincorrendo una donna».

    «Un osso duro?».

    «Come tutte le donne».

    «Già». Ero di fronte ad un altro bell’esemplare di misogino galante. Poco male: non è che pretendevo d’essere l’unico.

    «Come ebbe a dire Sherlock Holmes: Le donne sono un male necessario. Senta: le va del cochinillo al forno?». Saltò di palla in frasca.

    «Maialino al forno?». Per un attimo pensai che il mio interlocutore si fosse all’improvviso rimbecillito.

    «Esattamente, e di eccellente qualità, siamo a Segovia! Qui si mangia il migliore maialino di tutta la Spagna, e forse del mondo».

    «Ma non è ancora mezzogiorno!». La risposta non era poi tanto dissimile dalla domanda.

    «E con questo? Io ho fame, lei no?».

    Per farla breve, mi portò a pranzo alla Mesón de Cándido. Ho già parlato di questo ristorante in qualche altro lontano scritto, tanto lontano che non lo ricordo nemmeno, elogiando il piatto forte della casa: il maialino arrosto, appunto, cotto lentamente in un ampio camino a legna. Allora però non conoscevo ancora il porcetto sardo. Adesso era diverso e potei affermare con tranquillità: «E’ davvero eccellente, non c’è che dire, ma la prima volta che capita in Sardegna, assaggi il maialino di Ittiri: è insuperabile. Si scioglie in bocca. Al ristorante Al Corso, in pieno centro, lo preparano divinamente». Parlammo di maiali di varie razze e misure, dalla pelle più o meno scura, provvisti o meno d’un dorso irsuto, e non di donne, quel giorno, e di Francisco de Zurbarán.

    L’uomo in età avanzata nerboruto e calvo non era maestro d’arti marziali, ma professore di Storia dell’arte alla Università Complutense di Madrid. A Segovia aveva una seconda casa dove si rifugiava il fine settimana. Zurbarán era uno suoi pittori prediletti. Mi disse: «Vede, Zurbarán dipinge scene e personaggi immobili; nei suoi quadri, l’intensità spirituale e le emozioni interiori prendono completamente il sopravvento su qualsiasi forma di dinamismo. Un esempio su tutti? Vada a vedere la Santa Casilda di Burgos al Museo Thyssen di Madrid. Per farla breve: nei suoi dipinti tutto è fermo. Non succede niente. A me piace proprio per questo».

    Riflettei: Anche nei miei racconti non succede niente.

    Robert De Niro aveva sfornato una prole assai esigua: una sola figlia, Eleonora, che lui amava più di Zio Paperone la sua montagna di dobloni d’oro. Ebbene, Eleonora, la figlia del boss, da quindici giorni era sparita insieme al suo fidanzato, il figlio di un marchese. Questo era il motivo della comparsa di Robert De Niro nell’agenzia La Scelta migliore. Davanti al capo aveva perentoriamente affermato: «Occorre rapidità e discrezione nel ritrovarla. Rapidità e discrezione!».

    Il capo, anche in questa circostanza, non era venuta meno alle attese quando di getto aveva rassicurato l’istante: «Caro signore – diamine: non poteva mica dire caro boss – le assicuro che si è messo nelle mani giuste. Il nostro professor de Stisi, per simili frangenti, è il miglior agente investigativo sulla piazza, veloce nelle indagini e riservato al massimo grado, e stia pur certo che se sua figlia è ancora in vita, lui la riporterà presto a casa».

    Maria Leone non si smentiva mai, solo che la forza dell’abitudine gioca brutti scherzi: aveva trascurato il fatto che ora davanti a lei c’era Al Capone. «Cara signorina – i boss, si sa, per molti versi sono uomini d’altri tempi - cosa vuole dire con quel se è ancora in vita? Chi mi conosce sa che ho un sola parola: se è successo qualcosa alla mia piccola, io faccio una strage!». Al che Maria Leone, ripresasi prontamente dalla gaffe, s’era affrettata a specificare che era semplicemente un modo di dire senza alcun concreto costrutto, giacché tutto sarebbe andato per il meglio. Era una prova d’amore bella e buona, almeno così la interpretai, giacché - Demonio d’un Buddha dilaniato dalla predica del Savonarola sull’Apocalisse! - nella tragica circostanza, di certo il primo a lasciarci le penne sarebbe stato il sottoscritto. La qual cosa non mi andava proprio a genio! Capite bene: non avrei più potuto rivolgermi all’amato Montaigne, per assicurarmi il sollievo capitale dinanzi all’imperscrutabile follia dell’umana esistenza. Roba da incacchiarsi veramente.

    Ora, ci sono due o tre cose da dire. Intanto, provai a sostenere che, date le contingenze, sarebbe stato meglio mandare al mio posto Lo Dritto o Ercolino o qualche altro agente, magari Bruno Garzetti, il servo di scena, che all’occorrenza poteva pure allestire qualcosa se non proprio di spettacolare, almeno di fruttuoso a fargli salvare la pelle, che io altro non avrei potuto fare se non provare a prendere a schiaffi le pallottole calibro quarantacinque in arrivo, cosa peraltro tutt’altro che facile, v’assicuro. Lo sguardo del capo, però, era stato di quelli: Il caso è tutto tuo, Francesco. Puoi sempre scegliere di andare a dormire sotto Ponte Sisto e a letto con il capo dei barboni di Trastevere. Ora: passi per Ponte Sisto, ma piuttosto che andare a letto con il capo dei barboni di Trastevere avrei affrontato pure King Kong nella versione originale. Robert De Niro, per prevenire le malelingue, aveva messo in giro la voce di aver portato la sua piccola – che per dovere di cronaca aveva ventidue anni - in un luogo segreto per farle dimenticare il fidanzato. Di vero c’era che effettivamente il padre non vedeva di buon occhio quella relazione. Tutt’altro. Non a caso, astutamente, Maria Leone, a proposito del ritrovamento di Eleonora, s’era guardata bene di parlare al plurale: cosa poteva importare mai al boss di riacciuffare il figlio del marchese? Quanto a me di scoprire perché Max Brotti, il capo di Agnese Speranza, sentiva il cinguettio degli uccellini, quando non s’appiccicava con miss cosce straccia pipoli, s’intende.

    Insomma: questo era uno dei rari, se non unici casi in cui, se fossi stato un investigatore privato senza troppi scrupoli, avrei potuto mettere in conto di fare fuori io stesso uno dei due fidanzatini dopo averli ritrovati, magari durante il viaggio di ritorno. Meglio il nobile fidanzato. Scommetto che avrei goduto della riconoscenza del boss a vita e anch’io l’avrei sostituito al primo raduno utile dei capi mafia, come lo strizzacervelli Ben Sobel in Terapie e pallottole, anche se il mio film non prevedeva nessuna scena finale col rientro in campo del gangster Paul Vitti. Rispetto, poi, al perché si fosse rivolto alla Scelta migliore, è presto detto: per ritrovare sua figlia, poteva Al Capone affidarsi alle forze dell’ordine? E nel caso di fallimento, cosa avrebbe potuto sbraitare? Siete solo chiacchiere e distintivo! Solo chiacchiere e distintivo!? Poteva avvalersi dei suoi scagnozzi, questo sì, tuttavia c’era un accordo con il padre dell’innamorato di Eleonora e l’accordo prevedeva che la questione doveva trovare soluzione nella massima riservatezza: ecco perché, sia lui che il marchese, avevano preteso rapidità e discrezione. Per la verità, se tutti gli scagnozzi del boss erano brutti e cattivi quanto i due ceffi a guardia della porta di Maria Leone, di certo Lee Van Cleef ed Eli Wallach avrebbero smesso di fare cinema e la vicenda della fuga dei due fidanzatini sarebbe andata in prima pagina ancor prima d’iniziare.

    Il giorno dopo la visita di Al Capone, arrivò di prima mattina la telefonata del marchese Massimiliano Severo Gracchi Lucchetti, padre del fidanzato di Eleonora, e lo stesso pomeriggio arrivò proprio lui, in carne ed ossa. E’ un modo di dire, ma non nel caso del marchese Gracchi Lucchetti, che era sul serio scheletrico, lungo e allampanato quanto la parte superiore d’un cipresso calvo, tanto che, nel vederlo, anche lui di schiena, non mi sarei meravigliato se all’improvviso si fosse spezzato in due. Le gambe e il bacino da un lato e il busto, le braccia e la testa, dall’altro. A quel punto, non avrei saputo dire quale delle due parti avrebbe varcato l’uscio del capo. Se la parte con la testa, pure pure, ma nel caso dell’altra? Salvo che non mi sia perso l’innovazione scientifica dell’ultima ora, non mi risulta che le gambe e il bacino siano provvisti del dono della parola e, dunque, in tale combinazione, come avrei potuto proseguire il mio racconto?

    Il marchese Massimiliano Severo Gracchi Lucchetti, per mia fortuna, entrò tutto intero e raccontò la sua versione dei fatti, in perfetta sintonia con quella di Robert De Niro, ancorché con motivazioni ed evidenze del tutto differenti. Constatata la scomparsa del figlio Tommaso, anche lui non aveva voluto mettere di mezzo le forze dell’ordine: non era snob. Poteva un marchese entrare in un misero e polveroso commissariato o in una umile, disadorna caserma dei carabinieri? Diamine, no! Non era la prima volta che, nell’ufficio del capo, le forze dell’ordine venivano, per un motivo o per l’altro, bistrattate, tant’è, che a stare a sentire i clienti dell’Agenzia, a polizia e carabinieri non rimaneva che andarsene in massa a prendere il sole sulla spiaggia della tenuta presidenziale di Castel Porziano. A torso nudo. D’altro canto, il marchese, con la sua posizione e i suoi soldi, se non si fosse rivolto in prima persona a qualche agenzia investigativa, più d’uno avrebbe potuto supporre che non avesse una gran voglia di ritrovare il figlio, anche se s’era affrettato a mettere in giro la voce che era andato alla London School of Economics per frequentare un master internazionale centrato sul concetto di città educante. Tommaso aveva da poco festeggiato il suo ventiquattresimo compleanno e s’era appena laureato in Scienze Politiche. La cosa poteva pure starci, tanto più che, a dispetto di ciò che si possa all’impronta immaginare, alla London il piatto forte non è l’economia, bensì le scienze politiche e sociali. Anche il marchese era contrario, se possibile, forse più di Al Capone, a quella relazione tra il suo rampollo ed Eleonora, che definiva senza mezze misure scellerata, e pure lui voleva al più presto rintracciare Tommaso nel massimo riserbo. Risultò evidente che s’erano messi d’accordo persino nelle parole, quando il marchese se ne uscì con un’altrettanta perentoria raccomandazione sulla necessità di operare con rapidità e discrezione.

    Una strana coppia, dunque, divisa per tutto nella vita, con un problema contingente che li univa, li costringeva a stare uno accanto all’altro. Una volta risolto il problema, ciascuno avrebbe ripreso la sua strada, dimenticandosi completamente dell’esistenza dell’altro.

    Presi il caso in mano: per modo di dire. Il boss e il marchese erano certi del fatto che i due ragazzi avevano organizzato la loro fuga giacché il loro amore mai avrebbe incontrato il consenso di entrambi e non li sfiorava neppure lontanamente l’idea di mettere in discussione la loro ferma determinazione di non permettere che quel rapporto potesse consolidarsi. Eleonora e Tommaso stavano insieme da soli tre mesi e già era successo di tutto. Pochi giorni talvolta valgono quanto un’intera vita. Sull’atteggiamento ottusamente intransigente della strana coppia non ho nulla da dire, poiché la mia posizione, in tema di povertà genitoriale, è nota; aggiungo soltanto che tale miserabilità intellettuale attraversa la società e

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