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Makabrai
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E-book766 pagine10 ore

Makabrai

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Info su questo ebook

Inseguendo il "cattivo" attraverso i suoi mondi. Nerissima storia di storie.
LinguaItaliano
Data di uscita7 ott 2019
ISBN9788831642743
Makabrai

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    Anteprima del libro

    Makabrai - Augusto Scano

    633/1941.

    PARTE 1

    Marzia

    1

    Le patate al forno avevano, in alcuni dei loro lati, una croccantezza piacevole. Merito della cottura sapiente. Quelli erano i lati migliori delle patate. La quadridimensionalità della patata. I pitagorici e i loro discendenti, consapevoli e inconsapevoli, incappucciati e non, ne avevano vagheggiato per secoli la probabilità, ma senza riuscire a coglierla, mai del tutto. Remo masticò ancora un paio di quelle patate.

    -Ho bisogno di una guardia del corpo.

    Gli disse Marzia. Remo guardò la collanina d’argento che le pendeva appesa al collo. Il ciondolo era precipitato, diventando invisibile, tra i grandi seni esibiti dalla scollatura dell’abito. Remo tagliò una fetta di pescespada, argomentò:

    -Ci sono delle ottime agenzie che forniscono quel tipo di personale, signora. Non capisco perché lei voglia che svolga io un lavoro così semplice.

    -Mi occorre qualcuno che sappia pensare e che sappia comprendere quanto mi sto sforzando, contro tutti mi creda, di realizzare.

    Remo alzò lo sguardo. I vetri della veranda erano picchiettati dalla pioggia. Quelle minuscole trasparenze deformavano il verde ghiaccio del mare che là fuori restava calmo, oltre la balconata della trattoria. La nuova arte, l’arte della nuova era non può essere quella dell’esterno, quella delle protesi tecnologiche. No, quella sarà solo la transizione. La nuova arte verrà dall’interno, dal teatro dei nuovi cervelli umani potenziati. Non sapienti fuori, ma finalmente, di nuovo, sapienti dentro, con una potenza di fuoco mentale mai prima immaginabile. Scrutò il pulviscolo di gocce sul vetro e i molti universi in cui, così, si frammentava la realtà. Chi pensi che abbia creato questi universi dentro altri universi, se non la mente? Dove pensi che stiano, realmente, tutti questi mondi e il nulla che li nega e il vuoto e l’infinito e l’eterno, se non dentro la mente di un’artista? Gli umani hanno sempre e soltanto visto solo un millimetro quadrato della cattedrale, non hanno mai immaginato neppure l’esistenza dell’opera intera. La cattedrale rizomatica, moltiplicantesi, che li contiene e che l’artista, tra loro umani, solo l’artista, ha concepito. Invisibile alla vista distratta dei più, come un numero irrazionale. Come l’eccitazione del carbonio che ha concesso la vita organica. Il cervello è il padre dei mondi. La materia è la madre, la prescelta di turno. Ma non c’è bisogno di crederla vergine o, persino, blasfemi! Di adorarla. Altrimenti dovreste adorare anche l’antimateria, o la materia oscura. Le altre spose del cervello dell’artista. L’oscura, poi, sarebbe molto più importante delle altre due. Pensava Remo. Prese tra le dita un’altra patata. Se la mise sulla lingua e richiuse la bocca per iniziare a masticarla.

    -Qual è il suo problema, signora?

    Marzia, con la lunga unghia del dito medio, laccata di amaranto, tracciò una linea sottile sulla condensa che imperlava l’esterno del suo bicchiere. Là dentro, il vino bianco aspettava, tranquillo, come mai prima. Marzia guardò il segno che aveva appena inciso. Nessun archeologo l’avrebbe mai trovato, nessun antropologo avrebbe mai esercitato la sua fantasia sul possibile significato sotteso in quel lemma di chissà che lingua dimenticata. No. Quel bicchiere sarebbe stato tolto dal tavolo, portato in cucina e messo in lavastoviglie o lavato a mano. Nessuna traccia della civiltà che lei, in quel tratto del dito aveva condensato, avrebbe trovato spazio nella memoria di un qualche futuro.

    -Gli strozzini.

    Rispose a Remo. Senza guardarlo. Recuperò il ciondolo, tirandolo su per la catenina. Aprì il palmo della mano sinistra e lo poggiò sul monte di Venere.

    -San Giuda?

    Chiese Remo.

    -Proprio lui.

    Marzia appoggiò gli occhi su quelli di Remo.

    -Vede. È questo che intendo quando dico che non mi serve una semplice guardia del corpo.

    -Per così poco? Un santo lo possono riconoscere in molti.

    Remo abbassò lo sguardo sul piatto. Infilzò con la forchetta un altro boccone di pesce. Marzia allungò le mani verso la mano sinistra di Remo, quella che impugnava la forchetta. Il gingillo le rovinò un’altra volta nel canyon, tra le mammelle giganti. Con entrambe le mani, un ragnone di carne, afferrò la mano di Remo. Remo le puntò gli occhi in faccia, sorrise:

    -Ma che fa, signora?

    -Mi aiuti, lei può aiutarmi davvero.

    Marzia strinse. Remo sentì la cuspide delle unghie artigliargli la pelle della mano.

    -Tolga le mani, signora. Potrebbero ancora servirle.

    Marzia le ritrasse.

    -Scusi. Non so cosa m’è preso.

    Quel trancio di pesce spada che Remo aveva scelto prima e aveva preso con la forchetta era, intanto, scivolato via, per andarsi di nuovo a confondere con gli altri bocconi rimasti nel piatto. Chissà che non mi dimentichi e non scelga un altro pezzo al posto mio. Aveva, forse, pensato il pezzo di pesce. Ma la cosa, tra Remo e quel pezzo di pesce, era solo stata rimandata. Remo, infatti, lo rinfilzò e, stavolta, riuscì a portarselo fino alla bocca. Questa aprendosi, con un tempismo che non poteva essere frutto del caso, lo accolse ed i denti, con poche masticate, decisero che era pronto per essere ingoiato. Cosa che Remo eseguì, dimostrando anche in quell’atto, una precisione altrettanto competente.

    -Mi dica, quanti soldi deve a quella gente?

    -Tanti.

    -Più di quelli che le costerei io?

    Marzia indugiò appena un istante prima di giudicare:

    -Sì. I nostri comuni amici mi hanno avvertita. So che le sue prestazioni sono molto care, ma, a quei bastardi, io devo nove milioni.

    -Ha esagerato con la ristrutturazione di quel centro…

    -Multimediale.

    Suggerì Marzia.

    -Multimediale.

    Ripeté Remo. Bevve un sorso d’acqua.

    -Non ho esagerato. Ora che è finito, è perfetto.

    -C’era un manicomio lì, o sbaglio?

    -Non sbaglia. A vederlo oggi è difficile pensare che quell’edificio sia stato un manicomio.

    Quando vedranno il mondo di oggi tra qualche secolo, finita questa schifezza, sarà quasi impossibile immaginare che sia lo stesso mondo. Disse Remo a se stesso. Ma rimase zitto. Tornò a guardare il mare, nell’al di là del vetro.

    -Le piace il mare?

    -Non lo so.

    -Però lo guarda spesso.

    -Quando posso.

    -…se  avessi i soldi ti porterei ogni giorno al mare…

    Canticchiò Marzia, sottovoce. Remo le guardò il colore degli occhi. Ardesia verde. Gli occhi di Marzia gli accesero nella mente la faccia di Greta Garbo. Osservò meglio Marzia. Sì. Ecco a chi somigliava. Neppure troppo vagamente. Acconciatura e abiti e modi erano quelli del Ventunesimo secolo. Le tette no giudicò Remo. Le tette non sono né quelle della Garbo, né quelle di un’epoca. Sono grosse e basta. Esistono categorie trasversali. Si sa. Le labbra nemmeno Stimò Remo. Anche queste sono troppo gonfie. Forse non sono nemmeno artificiali. Forse le ha proprio così. Ma, per il resto, Marzia era identica alla diva del cinema. Sentenziò Remo. Marzia si sentiva studiata. La cosa la divertì. Forse stava persino esercitando la sua forza di attrazione su quell’uomo cupo. Bell’omone cupo pensò Marzia. La luna, la marea. La capacità femminile di stabilizzare un pianeta o di mandarlo in tilt. Si sentì ragazza, su un barcone in gita sul fiume e le gorgogliò in gola una strana voglia di cantare. Remo offuscò subito lo specchio frivolo di quel momento dove Marzia, allontanati i suoi crucci quotidiani, si stava riflettendo, godendosi la tregua. Dalla sua gru Remo sganciò, sul ponte della chiatta, il carico pesantissimo che affondò subito la leggerezza di quell’istante. Breve? Per forza. E’ un istante! L’istante, comunque, affogò, silenzioso, sul fondo di quel fiume.

    -Lei ha figli, signora?

    Anche gli occhi di Marzia scivolarono, lenti, verso il basso. Finirono incagliati sul fondale di cotone della tovaglia marrone. La faccia di Marzia invecchiò di qualche anno. Remo ne vide più nette le rughe e vide, chiare, le promesse delle rughe imminenti, quelle ancora in formazione.

    -No. Cioè… io ed il mio ex marito ne avevamo uno.

    -E’ morto?

    Remo spinse l’aratro dentro il solco delle rughe di Marzia, le scavò ancora più a fondo.

    -E’ annegato nella piscina della nostra villa. 

    -Questo ha distrutto il vostro matrimonio?

    -Anche questo. Il mio ex marito c’ha messo il suo e… io il mio.

    -Il suo ex vive ancora in Brasile?

    -Sì. Sempre a San Paolo…

    Marzia, all’improvviso, alzò gli occhi su Remo.

    -Ma, scusi, se le sa già queste cose, perché me le chiede?

    Remo tornò a scrutare il mare. Il temporale s’era raggrumato sull’altro braccio del golfo, quello antistante. Golfo innaturale, ricavato coi frangionde. Da quelle due estremità: Remo ed il temporale si sogguardavano. Erano due pupille nerissime, negli angoli dello stesso occhio. Il cielo opaco e la terra limacciosa facevano le palpebre. L’orizzonte, s’intuiva vicinissimo, ma restava invisibile, oltre il nervo ottico, per la pioggia.

    -Perché voglio sentire come me le racconta lei, signora.

    Marzia bevve il vino bianco che le restava nel bicchiere.

    -Bevo ogni tanto. Non sono più alcolizzata.

    -Lo so, signora, lo so. Il suo ex marito non può aiutarla?

    -No. Lo ha già fatto. E’ stato da subito contrario al mio progetto. E, adesso che sta male, non voglio dargli anche quest’altra angoscia. Lui non è più un uomo ricco. Ha perso molto, troppo, in questi anni. E ora perderà tutto. E’ quasi terminale. Ma tanto lei saprà benissimo anche questo…

    Remo visualizzò il cancro che stava divorando il cervello di quell’uomo. Le onde che mangiavano la spiaggia, anno dopo anno, incontenibili. Le coste del mondo erose dal mare che saliva. Cos’era la vita, nella sua stupida declinazione umana? La malattia o la salute del sistema solare? Il mare o la terra? La vita distruttrice, ammorbante, dell’umanità era la morte della vera vita, quella della Natura? La Natura avrebbe strappato via da sé la vita umana? Come l’occhio che ci dà scandalo? Rise dentro di sé per quella rimembranza di vangelo. I testi delle religioni moderne gli avevano sempre solleticato il sarcasmo. Il rudere del grattacielo, quello che dava il nome al quartiere scacciapensieri ombreggiò sulla porzione d’arenile e sulla superficie del mare che aveva di fronte. Un filo di luce giallastra l’aveva colpito alle spalle. Il menhir. Remo giocò a ricordare i grandi megaliti che aveva fatto innalzare ai suoi sacerdoti perché dagli Urali gettassero la loro ombra sui limiti occidentali di quelle piccole terre scure, le terre della sera, quelle terre che poi avrebbero avuto il nome d’Europa, e sulla prima porzione d’oceano. Come grandi denti. Illuminati dal fuoco dell’oriente a cui Remo ed i suoi sacerdoti avevano voltato le spalle.

    -Ha smesso di piovere?

    Domandò Marzia.

    -Sembra di sì, signora. Le va di fare una passeggiata?

    Marzia sorrise e ringiovanì di qualche anno.

    -Quindi, accetta il lavoro?

    -Sì.

    -Non abbiamo parlato del suo compenso…

    -Facciamo così: intanto mi dia tutti i soldi che ha con sé adesso.

    Marzia fece due sbuffetti di riso dal naso.

    -Una rapina?

    Remo continuava a fissarla. Marzia impostò il suo sguardo su una gradazione più intensa. Si sistemò la scollatura dell’abito. Con un tono di voce più basso:

    -Vuole anche i miei vestiti?

    Remo corrugò la fronte, allontanò appena la sedia dal tavolo.

    -Allora?

    Marzia soffiò dalle labbra il suo disappunto. Con ostentazione. Si voltò, prese la borsa appesa per il manico alla sua sedia. La mise sul tavolo, accanto al piatto. Ci rovistò dentro e ne tirò fuori il portafoglio. Lo offrì a Remo.

    -Ecco. Faccia pure.

    Remo lo aprì. Prese le banconote, il bancomat, le carte di credito e gli spiccioli. Mise tutto nella tasca della sua giacca di velluto viola. Restituì il portafoglio vuoto a Marzia.

    -Vuole anche le chiavi dell’auto?

    -Sì, è meglio. Mi dia anche quelle.

    Marzia le prese dalla borsa e gliele diede. Remo le mise insieme al resto, nella stessa tasca.

    -Adesso sono completamente in suo potere.

    Rise, di gusto. Remo si alzò.

    -Venga.

    -Dove?

    -Non ha detto che le andava di fare una passeggiata?

    -Già. Sì, mi va. Andiamo.

    Si alzò anche Marzia, chiese:

    -Le sigarette posso tenerle?

    -Certo. Mi aspetti pure fuori, cominci a fumare, se vuole. Qui pago io.

    -Grazie, un vero gentiluomo.

    Marzia uscì nella piazzetta del borgo medioevale. La pioggia aveva smesso di scendere. L’acqua, dalle grondaie sui tetti delle case, correva dentro i tubi, come nello scivolo di un’acqua park, e si tuffava sui sampietrini luminosi per il poco sole invernale. Un raggio fioco di questo schiaffeggiò all’improvviso un’antenna metallica conficcata tra le tegole di un edificio. Marzia sollevò la testa. S’immaginò d’aver visto battere le ali ad un angelo. Sorrise di quel pensiero. Non lo faceva da quando era bambina. Prese il pacchetto di Camel Silver dalla borsa. Se ne mise una in bocca. Frugò il fondo della borsa e trovò l’accendino. Lo avvicinò alla punta della sigaretta. Lo accese, accese la sigaretta e fece un tiro lungo. Buttò via il fumo grigio chiaro verso le nuvole grigio scuro, macchiate qua e là di una luminescenza debole e così… così inaffidabile.

    -Un angelo… - disse tra sé, un sussurro  -e che dovrebbe dirmi un angelo?

    Remo pagò il conto. Lasciò la mancia al cameriere. Uscì dalla trattoria. Andò verso Marzia. La prese sottobraccio.

    -Andiamo giù, al porto turistico. Il caffè lo prendiamo lì. Ti va?

    Marzia inclinò la testa di lato.

    -E’ bello sentirti darmi del tu.

    -Non ci aspettano solo momenti belli.

    -Questo lo so. Ma quelli che mi capita di riconoscere, non me li faccio più scappare.

    Scesero i primi gradini della scala che portava ai moli, quasi abbracciati. Ogni tanto Remo si fermava per dire parole nell’orecchio sinistro di Marzia. Con quei bisbigli nell’orecchio le faceva il solletico. E le cose che le diceva erano cose che la facevano ridere. A Remo piaceva ascoltare la risata di Marzia. E gli piaceva anche guardarla ridere. Guardarla, mentre controllava i tre che erano stati seduti al tavolo nel fondo della veranda della trattoria, i tre che adesso, di lontano, li stavano seguendo.

    2

    La sabbia sul bagnasciuga era dura. Sopra ci si camminava bene. Il grattacielo in rovina era lì, otto metri sopra di loro, sul terrazzo dove finiva il piano stradale. Lo illuminavano pochi lampioncini a forma di pallone da calcio, ancora funzionanti sulla ringhiera arrugginita. Il mare era un’ossidiana liquida. Remo e Marzia mettevano i loro passi uno dopo l’altro, quasi al buio. Remo sentiva le piccole onde rompersi sulla riva ed il respiro dei tre, là dietro, che si sforzavano di non fare rumore. Ma l’impegno, come accade spesso, si sa, non viene premiato.

    -Hai freddo?

    Le chiese Remo.

    -Un po’. Il mare dev’essere gelido.

    -L’acqua degli oceani sotterranei è quasi sempre calda.

    -Ci sono centri termali, sottoterra?

    -Gli oceani non sono soltanto quelli che dividono i pianeti tra loro e questi dal sole. Gli oceani dividono anche i vari strati di questo pianeta. Ogni strato ha la sua superficie emersa, il suo cielo, e dopo questo, prima dell’altro strato di terra, c’è un oceano.

    -Un’arancia con tante bucce?

    -Strani cetacei abitano quegli oceani interni. E ancora più strane sono le orche che vivono negli oceani che stanno tra Marte e Giove o dopo l’orbita strana di Plutone. Mangiano asteroidi e planetoidi, come se fossero plancton.

    -Credo di capirti.

    -Forse sì. Mi sembri una donna intelligente.

    -Ti sorprende che esistano donne intelligenti?

    Remo le sorrise.

    -Spesso mi capita di sorprendermi del fatto che esistano uomini intelligenti. Dalle donne è scontato aspettarsi l’intelligenza. Ma proprio per questo, da una donna bisognerebbe pretendere qualcosa di meglio della semplice intelligenza.

    Marzia non resistette:

    -Cosa?

    Remo restò zitto. Sentì avvicinarsi i passi dei tre alle loro spalle. Si fermò. Marzia non si era accorta di quelli. Ma si fermò anche lei. Ed anche i tre là dietro. Cinque persone ferme, sulla spiaggia, in una sera d’inverno, nell’oscurità. Remo sentì i respiri di quei tre, molto più nitidi. Dovevano essere a non più di dieci metri. Immobili. Marzia gli strinse la mano. Lui la lasciò fare. Marzia avvicinò il viso a quello di Remo.

    -Se vuoi, puoi baciarmi, non ti denuncerò per questo.

    Remo estrasse una pallina dalla tasca della sua giacca. E la mise tra la sua bocca e quella di lei. Marzia fece un passo indietro.

    -Cos’è questa pallina?

    -La testa di mio zio.

    Marzia indietreggiò ancora, sorrise.

    -Capisco. Quindi tuo zio si frappone tra me e te? Posso sapere come si chiama?

    -Ruggero. Perché vuoi saperlo?

    -Se non gli piaccio, voglio sapere il suo nome. Conoscerlo. Insomma avere l’opportunità di farmi apprezzare.

    -Giusto.

    Remo aprì la mano di Marzia. Ci mise dentro la pallina.

    -Ecco.-  le disse  -Ora puoi presentarti.

    Marzia avvicinò la pallina al viso, per provare ad osservarla meglio, in quella oscurità. La rigirò tra le mani.

    -Una pallina da tennis. Una pallina da tennis senza feltro. Nuda.

    -Mio zio Ruggero. Strizzala e sarà come aver fatto conoscenza.

    Marzia seguì il consiglio. Avvinghiò le dita della mano destra intorno alla pallina, e la strozzò un paio di volte.

    -Ecco due belle pulsazioni per il cuore di tuo zio.-  E poi, con gli occhi sempre fissi dentro quelli di Remo-  Pensi che io gli sia piaciuta?

    -Credo di sì.

    Remo le mise un braccio dietro le spalle. Si abbassò un po’ e, con l’altro braccio, la prese nell’incavo morbido tra le cosce ed i polpacci, piegandole le gambe e sollevandola da terra. Marzia rise.

    -Sei un romanticone. Che fai? Mi prendi addirittura in braccio?

    Quei tre non si muovevano. Stavano aspettando che Remo e Marzia si lasciassero andare ad effusioni più coinvolgenti. O che?  Principianti o vecchi? Si interrogò Remo. Il comportamento, in quelle due categorie di criminali, era talvolta simile, sebbene con motivazioni diverse e, spesso, con esiti opposti. Senza il tempo la vita non ha uno spazio dove esistere. Trovò anche il tempo di pensare Remo, nei pochi secondi che ancora lo separavano dalla mossa di quei derelitti. Confondere la cultura con il folclore che della cultura è solo l’infima parte, è un tratto di questa epoca stupida. Le cattedre di antropologia culturale nelle università, non fanno meno ridere di quelle che, fino al XVII secolo di questa era volgare, erano dedicate all’astrologia. L’ignoranza si stanca facilmente della ragione e segue il cuore che, puntualmente, la prende per il culo.

    -Sei capace di non perdere lo zio Ruggero?

    Domandò a Marzia.

    -Perché dovrei perdere questa pallina?- la esibì a Remo nella tenaglia della sua mano destra  -E’ così dolce…

    Remo si voltò, fece tre passi di corsa fino a calpestare la schiuma delle onde e lanciò Marzia dentro il buio del mare. Marzia frantumò la superficie dell’acqua gelata. Il tonfo fu sordo. E subito sommerso da un unico strillo acuto. Lo strillo acuto e unico di Marzia. Remo sparì, nell’oscurità. I tre si precipitarono sulla riva.

    -Andate a prenderlo!-  Urlò il capo del trio.  -Io tiro fuori la troia dall’acqua.

    In due, di corsa, svanirono nel buio. Il terzo posò per terra lo zainetto di pelle. Avanzò di pochi passi tra le onde morbide. Il fondo del mare scendeva, all’improvviso, di parecchi centimetri e lui si ritrovò con l’acqua che gli bagnava il petto. Pensò alle sue scarpe nuove. Quasi mille euro. Bestemmiò ad alta voce. Non sentiva più annaspare Marzia. Non sarà mica affogata, la troia? Qui si tocca bene. La preoccupazione che Marzia fosse affogata gli si trasformò immediatamente nella testa. Diventò paura. Vide la faccia del suo capo incazzato. Il ghigno che quell’omino con le gambette storte, con i baffi oleosi, mezzo pelato e grassottello, faceva sempre quando qualcuno sbagliava qualcosa, prima di punirlo.

    -Signora! Dov’è? Signora?

    -Sono qui… qui…

    Sentì la voce davanti a sé. E vicinissimo sguazzare e pestare l’acqua. La vide. In piedi. Due passi avanti a lui. Con l’acqua alla gola. Si teneva sulle punte. Una ballerina, acquatica, estrema.

    -Venga, mi dia la mano.

    Marzia avanzò, a saltelli, fino a prendergli la mano. Lui la tirò a sé e si rigirò per tornare indietro. Muoversi nell’acqua coi vestiti bagnati. Ogni movimento era pesante. E questa troia è di piombo! Marzia gli si era avvinghiata al torace e tremava. Arrivò alla riva esausto. Marzia non lo mollava. Lui se la strappò dai vestiti. E la posò sulla sabbia. Marzia sussultava. E mugugnava. Il freddo. Lui si piegò. Si guardò le scarpe. Rovinate.

    -Maledetto quel dio…

    Imprecò.

    -Per colpa di quel coglione…

    Alzò lo sguardo verso il buio, per vedere di scorgere i suoi compagni che erano andati a prendere Remo, il coglione. Niente, anzi. Al buio s’era aggiunta una muraglia di nebbia. Strizzò gli occhi. Una pietra lo colpì in faccia. E lo fece cadere seduto.

    -Ma che cazzo…

    Un’altra pietra, più forte. Restò stordito. Si sentì scorrere acqua calda sulla faccia. No. Si leccò le labbra. Non era acqua calda. Riconobbe il sapore del sangue sulla bocca.

    -Il naso…

    Si toccò il naso. Era sganciato. Dondolava. Sulla lingua sentì qualche pezzetto di dente. Lo sputò. La luce di una torcia lo accecò per un attimo. Si coprì gli occhi con il dorso della mano. Riaprì appena le palpebre. Intravide lo zainetto che aveva lasciato prima di entrare in acqua. Stava ad un metro da lui. Ci si buttò sopra. Lo aprì e tirò fuori il revolver. La luce si spense. Lui sparò tre colpi dove prima c’era la luce. Silenzio. Un oggetto di plastica lo colpì sulla fronte. E gli ricadde tra i piedi. Lui lo prese dalla sabbia. Era una torcia elettrica. L’accese. Proiettò la luce davanti a sé. Buio e nebbia. Nebbia bianchissima. Si girò con la luce in mano ed illuminò altre porzioni di spiaggia, di buio e di nebbia. A due metri da sé, tra quelle nuvole di bruma, vide Marzia che sbatteva le mascelle. I capelli impastati sulla testa. La faccia livida. Ed una pallina da tennis che quella teneva stretta in mano. Vide anche le due pietre che lo avevano colpito. Non erano pietre. Erano i suoi due compari. Le loro teste. Distanziò i piedi e li affondò meglio nella sabbia, per assestarsi. Puntò la luce di fronte, insieme alla canna del revolver che aveva nell’altra mano. Un po’ di sangue gli colò sugli occhi, lo strofinò via con la manica del giaccone. Niente. Oscurità. Nebbia. La risacca del mare. Fioca. I molari di Marzia che battevano un tempo di bossa nova. Percussioni di quella notte triste. E silenzio. Poi osservò la torcia. Ricordò d’essere un obiettivo visibile. Bestemmiò e la spense. Buio. Due lame gli si infilarono nel collo, sotto le orecchie. Poté sentirle scendere lisce, veloci, dall’alto verso il basso, lunghissime, fino a fargli il solletico al cuore. Poté persino immaginare che fossero coltelli da sushi e che lui potesse essere il grande tonno che qualcuno quella sera avrebbe mangiato. Poi, non poté più né sentire né immaginare.

    3

    Marzia si risvegliò dentro un letto. Sentì crepitare la legna prima di riuscire a girare appena il viso e di poter vedere le fiamme dentro il camino.

    -Questa terra è sempre stata la terra delle paludi. Dopo il regno dei Rutuli, a sud, solo paludi, fino al Circeo. La maga Circe, lei e la sua Colchide.

    Disse la voce di Remo. Marzia voltò stavolta tutta la testa verso l’altro lato del letto. Una vertigine. Passò subito. Remo era seduto su uno sgabello.

    -Che oggi sarebbe la Georgia… E ti viene in mente Stalin…

    Gli disse allora lei. Si soprese nel non riconoscersi la voce. Roca. Bassissima. Sembro un trans pensò. Ma insistette:

    -Circe ha avuto parenti strani… Medea per esempio…

    -E’ anche stata una terra di briganti. Ma questo in fondo vale per tutta l’Italia, almeno da Diocleziano in poi.

    Aggiunse Remo. Marzia considerò il piumone che la copriva.

    -Un doppio spessore. Ottima qualità.

    Disse a bassa voce. Lo sollevò appena e guardò sotto.

    -Sono nuda… Mi hai spogliato tu?

    Sorrise. Ricordò Remo che la prendeva in braccio e la lanciava in mare, come una bambola di pezza. Si rabbuiò.

    -Perché l’hai fatto?

    -Per giocare con quei signori. Ci avrebbero rovinato la serata.

    -Invece così… è stata… indimenticabile. Dove siamo?

    -In un villino abusivo. Tra le querce del Foglino.

    -Quant’è che sono qui?

    -Un giorno.

    -Ventiquattro ore? Mi staranno cercando tutti…

    -Quello che ha mandato i tre di ieri sera, ti cerca di sicuro.

    Remo si alzò dallo sgabello. Si sedette sul bordo del letto. Carezzò Marzia sulla guancia.

    -Volevo farti i complimenti. Sei stata brava.

    -Per cosa?

    -Per aver salvato la testa dello zio Ruggero.

    Le indicò la pallina che stava poggiata sul comodino.

    -Ah, per così poco.

    -Non solo per quello. Anche per aver guadagnato nove milioni di euro.

    Marzia inarcò le sopracciglia.

    -Cosa?

    -Non devi più restituirli.

    -No?

    -No. Loro ancora non lo sanno. Ma tu non devi più niente a nessuno.

    Marzia sospirò.

    -E’ una pazzia e… tu sei un pazzo. Comunque non più di me che ti ho voluto.

    -La pazzia, come la chiami tu, è libertà. Assoluta. Quella vera, quella che fa paura a tutti. 

    Si chinò e le baciò il lobo dell’orecchio sinistro.

    -A quasi tutti.

    Precisò. Marzia provò ad intercettare le labbra di Remo con le sue. Ma Remo fu più veloce e si allontanò.

    -Nemmeno un bacio?

    -Avremo tempo per questo. Sei molto stanca.

    -Non scommetterci.

    -Adesso devi riposarti, ancora un po’. Ti aspettano giornate intense.

    Remo si alzò dal letto. Prese la pallina dal comodino e se la mise in tasca. Uscì dalla stanza. Marzia restò a guardare il fuoco. Il fuoco era bello. Poteva essere devastante, ma, se contenuto, in un camino, o in una donna, poteva essere soltanto bello, poteva essere la risata a cui non si ha mai il coraggio di lasciarsi andare. Pensò di pensare una cosa così, ma non la pensò fino in fondo perché era già nel dormiveglia. Si addormentò felice e sognò Lucifero. Il Lucifero che sognò Marzia, non era quello che veniva raccontato nella versione ufficiale. No. Marzia sognò di essere la responsabile dell’ufficio stampa degli angeli ribelli. Sapeva che il dio a cui si erano ribellati era stato un angelo come loro. Poi aveva acquisito potere, appoggi, clientele e aveva tentato il colpaccio, s’era proclamato dio, sopra tutti gli altri. Chi era con lui, era con lui. Chi non era con lui, era contro di lui. Lucifero aveva deciso di ribellarsi, di combattere quell’impostura e, con un pugno di impavidi, aveva mosso guerra al sedicente dio. Nel sogno di Marzia, neppure la guerra era andata come raccontavano gli storici di regime. Nessuno dei due schieramenti era riuscito a prevalere sull’altro.  Nessuno dei due era risultato essere più forte dell’altro. Così avevano deciso di stipulare una tregua. Ognuno dei due avrebbe tenuto per sé una parte del mondo, governandola. Era iniziata una guerra fredda, fatta di piccole guerre locali, mai combattute direttamente dai due contendenti, una guerra fredda fatta di spionaggio e di propaganda, tanta propaganda. Dio aveva preso per sé il cielo. Lucifero la terra. Quest’ultimo s’era così beccato l’onere di reggere quei territori dove vivevano gli umani. Che erano davvero brutte bestie, come una volta, in privato, li aveva definiti dio, contento di aver affibbiato al rivale quella patata bollente. Marzia, nel sogno, aveva avuto l’incarico di redigere una biografia ufficiale di Lucifero. Intervistandolo, aveva scoperto che dio ed il diavolo erano fratelli. Lucifero lo aveva dichiarato serenamente, al solito suo, senza mostrare di vergognarsene. La cosa l’aveva lasciata interdetta. Aveva chiesto al responsabile dell’ufficio della propaganda come avesse dovuto comportarsi. Testimoniare o non testimoniare quella verità. Quello le disse, paternamente: Fai la tua scelta, Marzia. Nessuno ti giudicherà per quello che testimonierai. È una questione che riguarda solo la tua coscienza. E Marzia si svegliò, con l’odore del caffè appena fatto nel naso.

    -Buongiorno, angioletto.

    Le disse Remo, porgendole la tazzina fumante.

    4

    Remo posò il binocolo. Tornò a godersi il mondo ad occhio nudo. I camerieri si muovevano veloci tra gli invitati. I festoni luminosi erano una ragnatela elegante che avvolgeva la parte centrale del parco. Il ragno di quella luce era il terrazzo della villa e le sue otto vetrate. Otto lunghe zampe sottili che dal tetto piovevano sul cortile di pietra nera, riflettendovisi in una molteplice cicatrice bianca. Il messaggio che Remo stava aspettando, arrivò. LA MUCCA E’ NEL RECINTO. Remo fece una smorfia. Non gli piaceva quando le sue collaboratrici ironizzavano usando quel codiciume per cerebrolesi. Un altro messaggio. IL CORTO E’ MONTATO. Remo, stavolta, approvò: e lo spirito e il volgare, ma quanto mai calzante, doppio senso. Il padre della mucca uscì in giardino. Sempre accompagnato dalle sue tre guardie del corpo.

    -L’inseparabile trinità dei miserabili.

    Considerò sottovoce Remo. Lo smoking non donava a quell’uomo. Anzi, lo rendeva ridicolo.  Remo ricordò don Calogero Sedara, nel Gattopardo. Sibilò pure un tempo di valzer. Ma smise subito. La rimembranza gli scivolò verso il Fantozzi, invitato alla cena di gala della contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, ma Remo lo riagguantò (il suo pensiero) e lo riportò su Paolo Stoppa. Paolo Stoppa che nel film di Visconti prestava il suo corpo al personaggio, andò facilmente (e stavolta Remo lo lasciò andare) a riempire, col suo corpo, l’anima di un altro personaggio, lo strozzino Savino Capogreco, nel secondo episodio di Amici Miei.

    -Perché è il corpo che possiede l’anima e non il contrario, come credono i profani.

    Commentò Remo, sottovoce. Sì, Savino Capogreco andava bene per il padre della sposa. In effetti, quell’omino grassoccio, mezzo calvo, basso, coi baffi unti e le gambette arcuate; quell’omino che tutti correvano a salutare, era davvero uno strozzino. Ma, a differenza di Savino Capogreco del film di Monicelli, quell’omino lì non era soltanto uno strozzino. Era il capo della cosca mafiosa più prestante al momento sul mercato, il mercato internazionale, quello libero e maggiordomo dei padroni del mondo. Però mai, e meno che mai quella sera, il padre della sposa prendeva pose da boss. Sarebbe stato forse vintage, ma poco adatto ai tempi. L’omino aveva sempre un approccio friendly, e quella sera, si sarebbe detto un oste che riceve cordialmente gli avventori nella sua trattoria di campagna.

    -Dissesto dei territori. Acqua, cielo e terra inquinati, rifiuti tossici nascosti male, ovunque. Degrado assoluto su ogni fronte. Uno scenario più apocalittico di quanto, durante la guerra fredda, fosse mai stato possibile immaginare. Ce ne sarebbe più che abbastanza per ripensare il modello, non di sviluppo, ma di vita. Però poi guardi le facce di quelli che dovrebbero ripensare e capisci subito che non sono nemmeno in grado di pensare, figurarsi ripensare. E si va avanti così, giorno dopo giorno, sempre peggio, qui a Zombi Land.

    Mormorò Remo. L’omino basso si allontanò dal giardino e, coi suoi tre mastini, raggiunse lo chalet ai margini del parco, dove aveva allestito un piccolo ufficio per sbrigare qualche affare, quando abitava nella villa. Quella sera, prima della cerimonia, avrebbe ricevuto pochi intimi nello chalet. Allo scopo di risolvere qualche questione grave e troppo urgente per poter essere rimandata.

    -Si sentirà come Marlon Brando nel Padrino.

    Bisbigliò Remo a se stesso. Controllò l’orologio. Quindi giudicò:

    -Almeno per un’ora ancora.

    5

    Il visore notturno era perfetto. Tutto quel verde davanti agli occhi era rilassante.

    -Che è successo?

    Chiese il padre della sposa.

    -La luce. È andata via la luce.

    Gli rispose uno dei tre gorilla.

    -E il generatore di emergenza?

    Insistette l’omino coi baffi unti che era anche il padre della sposa.

    -Non funziona.

    Gli rispose un altro dei tre. Il padre della sposa si alzò dalla scrivania.

    -Fatemi luce coi telefonini. Usciamo da qui. Andiamo a vedere che succede.

    Fuori c’era solo il buio. Il parco e la villa erano scomparsi. Certo erano di sicuro dentro il buio, da qualche parte, ma, così com’era messa la cosa, non si vedevano. Ma no, eccoli. In fondo alla penombra fatta dalle torce dei telefonini, emergevano, qua e là, le sagome grigie delle cose. E le sagome grigie delle persone. Molti telefonini avevano iniziato ad accendere la propria luce e le macchie scodinzolanti del chiarore, nell’aria e per terra, aumentarono.

    L’omino con le gambette arcuate sentì arrivare anche qualche risata. E delle voci:

    -… uno scherzo

    -… un gioco…

    -…ma dai!

    -…che cretini…

    Il cardinale era arrivato col suo telefonino vicino allo chalet. Appena lo vide, si fece incontro al padre della sposa.

    -Che capita, amico mio? Stavo venendo da te per il nostro appuntamento, quando è saltata la luce.

    -Un guasto, eminenza. Adesso risolviamo.

    Remo zumò sulla faccia dell’omino basso. Era incazzato. La cosa gli piacque. Anche il generale della NATO, illuminando i passi con la torcia del telefonino, li raggiunse. Ridendo, con un calice di vino rosso mezzo pieno tra le dita della mano libera, gli disse:

    -Non hai pagato la bolletta? Venivo qui nel tuo ufficio per la nostra chiacchierata e s’è fatta notte fonda… - poi, appena più serio -Se vuoi un aiuto per il blackout, dico ai miei ragazzi di occuparsene.

    Il padre della sposa strappò dalle mani di uno dei suoi gorilla il telefonino e diresse il fascio di luce sugli occhi del generale che si riparò con il dorso della mano guantata.

    -Oh! Attento… amico mio.

    -Io pago sempre tutti.

    Precisò l’omino mezzo calvo. Girò la luce, cercò e trovò il viso del cardinale. Anche lui si difese dalla luce con il dorso della mano guantata. Ma stavolta uno zaffiro, lo zaffiro della pietra, la pietra nell’anello, scintillò.

    -E questo lo sapete tutti.

    Concluse. Un colpo silenziato raggiunse la gamba destra del cardinale che si inginocchiò sulla sinistra e bestemmiò il suo dio.

    -Eminenza, vi sentite male?

    Chiese il generale. Il sangue sulla porpora dell’abito, in quella semioscurità, non fu subito visibile. Il cardinale ringhiava di dolore.

    -Un infarto.

    Valutò il generale.

    -‘sto cazzo.

    Bofonchiò l’alto prelato. Anche il secondo colpo silenziato colpì una gamba destra. La gamba destra del generale. Questo la piegò, fece due saltelli sulla sinistra, pronunciò una lunghissima U, la protrasse in un solo respiro, preso tra i denti stretti e le labbra aperte in un cerchio, quasi volesse baciare qualcuno, qualcuno invisibile nel buio, poi, col terzo saltello perse l’equilibrio e cadde sull’erba rasata del prato. Il padre della sposa si guardò intorno. Gli altri ospiti erano distanti. Non si erano accorti di niente.

    -Portateli via.

    Sibilò ai suoi tre gorilla.

    -Dove?

    Domandò preoccupato uno dei tre.

    -Nello chalet. Per ora metteteli lì. Svelti. Ci stanno sparando addosso.

    I cinque colpi che seguirono furono quasi simultanei. Il padre della sposa non li sentì arrivare, proprio come non aveva sentito arrivare i primi due. Roteò la luce in basso intorno ai suoi piedi. Vide i corpi dei suoi gorilla, del generale e del cardinale, stramazzati sull’erba. Erano morti. Sulla fronte di ognuno c’era un punto rosso scuro. Non era un tilaka e quei cinque non erano indù. L’omino gonfiò le guance e sbuffò via il grosso respiro che aveva appena fatto senza accorgersene. A Remo che adesso lo guardava dentro il visore, in primo piano, verde come Hulk, sembrò più rassegnato che incazzato. Era un buon inizio.

    6

    Il padre della sposa, o l’omino basso, oppure lo strozzino, stava seduto al buio, dietro la scrivania, nella sala grande dello chalet. Sentì bussare alla porta.

    -Signore? E’ permesso?

    -Sì.

    Uno dei tanti addetti alla sorveglianza entrò.

    -Tutto bene, signore?

    -Sì.

    -Perché sta al buio? Il guasto è stato riparato.

    Il gorilla restò zitto per tre secondi, lunghi secondi.

    -Qui fuori c’era un casino, signore…

    -Sì.

    -Ho fatto nascondere i cinque cadaveri, signore. Sono nella serra, per il momento. Spero di aver fatto la cosa giusta...

    -Sì.

    -Posso accendere la luce, signore?

    -No.

    Il gorilla si avvicinò alla scrivania, lento, per non inciampare nel buio. Si fermò quando sentì il bordo della scrivania premere poco sopra le ginocchia.

    -Gli invitati non si sono accorti di niente, signore. Ma credo che tra poco la squadra del generale ed il segretario del cardinale inizieranno a cercare…

    -Sì.

    -Andiamo avanti con la festa, signore?

    -Sì.

    -A questo proposito c’è un altro problema, signore. Lo sposo è arrivato. Ma la sposa… sua figlia, signore, non si trova. Gli uomini di scorta non rispondono alle chiamate.

    Il padre della sposa si alzò dalla poltrona di pelle. Girò intorno alla scrivania. Si diresse verso la porta dello chalet.

    -Che faccio, signore? Vengo con lei?

    -Sì.

    7

    -E questo che sarebbe?

    -Era dentro la torta nuziale, signore. Una videocassetta VHS, signore. La torta ha iniziato a suonare.

    -La torta?

    -Sì, signore. A squillare non era la torta, ma un telefonino che c’era stato messo dentro. Questo però l’abbiamo scoperto dopo. All’inizio abbiamo pensato a una bomba. Ci siamo allontanati. Poi, siccome non scoppiava niente, ma lo squillo continuava, abbiamo aperto la torta e c’era il telefonino.

    L’omino con le gambette arcuate si sistemò il farfallino. Smise di passeggiare sulla moquette a scacchi. Incitò il suo gorilla perché andasse avanti:

    -E allora?

    -Allora, signore, abbiamo risposto. Una voce di donna con l’accento slavo, ci ha detto di guardare al primo piano della torta. Il piano terra della torta, per capirci, signore.

    -Ho capito. E al piano terra c’era la videocassetta VHS?

    -Proprio così, signore. Dentro una custodia, c’era la videocassetta.

    -Ci serve un video registratore per visionarla. Dove lo troviamo un videoregistratore per VHS?

    -Ho mandato un paio di ragazzi in un ristorante cinese che conosco, credo che lì qualcuno possa aiutarci.

    -Appena hai il video registratore vieni qui da me. Accertati che tutti gli ospiti se ne siano andati.

    -Già controllato, signore. Tutti via. Qualcuno ha domandato.

    -Cosa?

    -Volevano sapere il tipo di indisposizione che è venuta a sua figlia. Alcune persone sono amiche di sua figlia ed erano un po’ preoccupate perché non risponde neppure al cellulare.

    -Non risponde nemmeno a me.

    -E’ rimasto solo suo genero, signore.

    -Non è ancora mio genero. Visto che la cerimonia non c’è ancora stata.

    -Non vuole andarsene. Dice di voler sapere cos’è successo. E di essere stato umiliato e… -  il gorilla si sforzò di ricordare la parola precisa che aveva usato il promesso sposo, la trovò e la disse -offeso.

    -Umiliato e offeso? Ha detto così?

    -Sì, signore, ha detto proprio così.

    L’omino ricordò il titolo di quel romanzo russo. Umiliati e offesi. Ricordò pure il nome dell’autore, Dostoevskij. Era stato costretto a leggerlo da ragazzo per far contento il bibliotecario del riformatorio, quando era stato ospite di quella struttura per un anno. Il bibliotecario era un personaggio importante in quel posto. Faceva girare lì dentro sigarette e giornalini porno. Ed era bravissimo a fare i pompini. Questo l’omino lo ricordava bene. Dopo aver letto quel romanzo da ragazzo, l’omino s’era ripromesso di non leggere mai più romanzi in vita sua. E, tranne qualche rara trasgressione, s’era sempre attenuto a quella regola di condotta morale.

    -Mandalo via.

    Ordinò al suo gorilla.

    -Se fa resistenza, signore?

    -Picchialo, ma non in faccia. A mia figlia piace la faccia di quell’imbecille.

    -Grazie, signore.

    L’omino alzò la testa e guardò negli occhi il suo gorilla.

    -Sei ancora innamorato della mia bambina, vero?

    Il gorilla arrossì. A volte i gorilla lo fanno, anche se è difficile accorgersene. Abbassò lo sguardo.

    -Sì, signore. Per me non è stato un gioco.

    L’omino gli diede uno schiaffetto leggero sul mento.

    -Adesso vai. E fai entrare quell’altro coglione.

    -L’attendente del generale, signore?

    -Sì. Lo fai entrare e poi ti vai a fare un giro di perlustrazione dentro e fuori la villa, con tutti gli altri uomini.

    -Ma, signore, lei così rimane senza protezione…

    -Se avessero voluto accopparmi l’avrebbero già fatto.

    8

    L’attendente del generale era in borghese. Entrò senza salutare. Raggiunse l’omino che stava seduto sulla scrivania con le gambette arcuate ciondolanti. Gli si parò dinanzi. A meno di mezzo metro di distanza.

    -Se non mi dice dov’è il generale, sarò costretto ad interessare le autorità competenti.

    L’attendente parlò con la sua voce profonda. Un baritono. L’italiano che usava era discreto. Fuoriusciva solo a piccoli sbuffi, negli accenti mal messi e nella pronuncia di alcune sillabe, la sonorità tipica dell’americano che parla in italiano e che lo fa somigliare sempre troppo ad Oliver Hardy. Ad Oliver Hardy doppiato in italiano da Alberto Sordi, ovvio. Competente Pensò l’omino dai baffi unti. Cos’è davvero la competenza? Si domandò.

    -Quali autorità sarebbero le autorità competenti?

    -Le nostre.

    -Di cosa mi sta minacciando?

    L’omino s’immaginò che quello lì davanti gli rispondesse: Se non ci ridate il generale vi mandiamo in bancarotta, vi dichiariamo uno stato canaglia che accoglie i terroristi e vi bombardiamo, distruggendo tutte quelle rovine di merda e quelle statuette e quadretti che mettete a muffire nei vostri ridicoli musei. L’omino, immaginando quella risposta, sentì le vene riempirglisi del virus della nota malattia infantile che coglie molti anche in età matura, il patriottismo. Invece, l’attendente disse:

    -Io non la sto minacciando. Io le sto chiedendo dov’è il generale.

    L’omino si sollevò sugli avambracci e saltò giù dalla scrivania. Si ritrovò con la faccia davanti al petto dell’attendente. Scartò di lato e si diresse verso il mobile bar.

    -Beve qualcosa?

    -No.

    -Io sì.

    Aggirò il bancone di mogano e si posizionò dietro quella trincea. Prese una bottiglia ambrata dal rum che ne riempiva la metà. Un bicchiere. La pistola. L’attendente si avvicinò al bancone, si appoggiò allo sgabello.

    -Allora?

    Gli domandò.

    -Bisognerà inventare qualcosa da far dire ai TG.

    -Come?

    -Un attacco terroristico…

    -Si spieghi meglio.

    Disse l’attendente. L’omino gli sparò in bocca.

    9

    L’immagine di sua figlia lo commosse. Era sgranata. Legata ad una spalliera svedese. Le erano stati rasati i capelli. I suoi capelli biondi. Pensò l’omino. Indossava ancora l’abito bianco, quello da sposa. Ma era nuda, dall’ombelico in giù. La luce che la illuminava era poca. Era quella dei ceri votivi. Ceri votivi rossi, sparsi intorno ai suoi piedi. Aveva gli occhi chiusi. Ma respirava. L’inquadratura scese, fino a riprendere i piedi, dunque zumò e li lasciò in primo piano. Le avevano tagliato le dita dei piedi. Le ferite erano state cauterizzate, ma un po’ di sangue gocciolava ancora. Un catino di rame era stato messo sotto i piedi, per raccoglierlo. Non correrà più come prima. Pensò l’omino. La rivide correre, bambina. Rivide i primi passi che la figlia aveva fatto muovendoglisi incontro, come un robot sconquassato e lui che indietreggiava, ridendo, con le mani tese verso di lei, pronto a raccoglierla, se fosse caduta. Si massaggiò le guance con il palmo delle mani. Scacciò i sentimenti dalla testa. Si concentrò sullo schermo di quel vecchio televisore ancora in grado di trasmettere le immagini di un videoregistratore VHS. Il campo tornò ad allargarsi. Si estese fino a far rientrare nel quadro una sedia ed un albero di Natale. Un uomo con una maschera salì sulla sedia. La maschera era di legno. Intagliata in modo rozzo. Un buco grande per la bocca. Due piccoli per gli occhi. A quel pezzo di legno avevano appicciato ciuffi di capelli biondi. L’omino li riconobbe. Indossava un abito da scimmia, di quelli dozzinali per il carnevale. Le mani le aveva guantate. Guanti di pizzo blu che lasciavano scoperta soltanto l’ultima falange. Rimase a lungo zitto, in piedi sulla sedia. Immobile, una statua. Tanto che l’omino stava per convincersi che il video si fosse bloccato. Ma poi guardò la figlia, appesa accanto a quello, e la vide respirare. All’improvviso, la scimmia con la maschera da sciamano ed i guanti di pizzo mosse le braccia. Mimava il volo di un grande uccello. Prese a declamare:

    -È stanca la puttana distrutta dal lavoro. Mi spoglio e lei s’addorme tra i suoi capelli d’oro. Son solo innanzi al corpo di questa nuda bella e il cazzo che s’impenna sulla sua grotta mesta è stella, la cometa, di questa pora crista.

    L’immagine del video sfumò nel buio. Sul fondo nero presero a scorrere i titoli di coda. L’omino pigiò il pulsante del telecomando e fermò l’immagine. C’erano i nomi degli altri suoi due figli. I nomi delle mogli degli altri suoi due figli, i nomi dei suoi tre nipotini. C’erano i nomi delle sue mogli, la prima e la seconda. Era separato da entrambe. C’era il nome della donna con cui si vedeva da un anno. C’era il nome del figlio di quella donna. Gli indirizzi di tutti e gli indirizzi dei luoghi dove tutti svolgevano la loro vita quotidiana. L’omino si alzò e prese a passeggiare sulla moquette a scacchi. Stando attento a non guardare lo schermo del televisore. Si tolse le scarpe e passeggiò ancora. Dopo un po’ si tolse i calzini. Si osservò le dita dei piedi. E guardò lo schermo del televisore. L’immagine era sempre lì. Con tutti quei nomi e quegli indirizzi. Una mappa. Una mappa semplice della sua vita. Una mappa che chiunque avrebbe potuto percorrere facilmente per trovare e raggiungere il suo punto debole. Chiunque fosse stato tanto pazzo per farlo.

    10

    Dieci giorni di silenzio. Dieci giorni senza alcun contatto da parte di alcuno. Dieci giorni in cui l’omino si industriò ad attivare i nodi della sua rete di conoscenze perché da qualche remota periferia del suo mondo (mondo sotterraneo e mondo di superficie) potesse arrivargli un’informazione. E l’omino che aveva sempre sofferto d’insonnia, in quei dieci giorni, dormì anche meno. Dopo quei dieci giorni, la mattina dell’undicesimo giorno, un piovoso giorno di dicembre, un giorno molto piovoso, l’omino ricevette una telefonata. Numero sconosciuto C’era scritto sul display. L’omino, con gli occhi gonfi ed il cuore che, come un disperato Graal, gli traboccava di rancore, rispose:

    -Pronto?

    -Certo, stai facendo fronte a un bel casino, lo capisco. Alcuni dei più strategici tra i tuoi compagni di merende sparati nel giardino della tua villa, durante la cerimonia per il matrimonio di tua figlia. Però, se ci pensi, non ti ho ancora portato via le cose che per te sono importanti. Quelle le hai ancora. Avrei potuto ucciderti. Posso ucciderti. Ma non servirebbe. Il debito che Marzia ha con te passerebbe a qualcun altro di voi. Invece se qualcuno pagasse il debito di Marzia, quel debito sarebbe estinto. Estinto. Che parola elegante, vero? Il caro estinto. Oppure: estinto, come un dinosauro. Tu pagherai il debito. Nove milioni non sono poi così tanti, per te. Tu pagherai il debito di Marzia. Non si tratta di vincere. Nessuno vince. Nessuno perde. Sii saggio. In questa lotta, in ogni lotta, uno dei due contendenti deve decidere di fare il saggio, o di fare il pazzo. E fare il pazzo non ti conviene. Io sono troppo più bravo di te a fare il pazzo. Non puoi fare il pazzo meglio di me. Io sono un pazzo perfetto. Non ti rimane che l’altro ruolo disponibile, quello del saggio. Lì puoi riuscire meglio di me. In quel ruolo hai una possibilità.

    Dentro il silenzio che seguì le parole di Remo, l’omino avvertì un freddo asciutto. Quel silenzio era una finestra, da quella finestra l’omino poteva affacciarsi e osservare un altro ecosistema, qualcosa dove l’umano non era ammesso. Dove le leggi fisiche erano diverse, dove la vita biologica non era nemmeno quella a base di carbonio. La visione di quel silenzio lo disturbò. Provò una sensazione a cui non era più abituato. Era l’angoscia, ma l’omino ne aveva dimenticato anche il nome. E quell’angoscia gli rubò un brivido. Chiese:

    -Mia figlia?

    -Paga il debito e, tra un po’ di tempo, la riavrai.

    -Quanto tempo?

    -Un anno, forse tre.

    L’omino trattenne un urlo. Domandò, pacato:

    -Cosa?

    -La riavrai viva e tutta intera… a parte le dita dei piedi, ovvio. Un anno, o tre anni, al massimo cinque anni. Non un mese di più. Lo sai cos’è che sto comprando con la prigionia di tua figlia?

    -Sì. Stai comprando anni di vita per la tua Marzia e… per te.

    -No, per me no. Io sono già morto e rinato tante di quelle volte in questi millenni che uccidermi non ti servirebbe granché. Io sono dovunque ormai e sono sempre.

    Pazzo di merda pensò l’omino.

    -Sì, sono un pazzo di merda. Dal tuo bassissimo punto di osservazione delle cose.

    Gli disse Remo.

    -Un’ultima domanda, piccolo uomo. Perché non ucciderai Marzia o me?

    -Perché qualcuno ucciderebbe subito mia figlia.

    -Però, nel tempo in cui tua figlia sconterà la sua condanna, tu sarai libero di continuare a cercarla, stando attento a non farti scoprire da chi la tiene in custodia, morirebbero insieme a lei, pur di non fartela prendere.

    L’omino socchiuse gli occhi. Ascoltò il picchiettio della pioggia sul tetto della mansarda dove si trovava in quel momento. Tra pochi giorni sarà Natale pensò e non ebbe il modo di fermare quel pensiero.

    -E’ vero, piccolo uomo. Si sente già forte la puzza del vostro inetto cristo.

    L’omino chiuse la comunicazione. Guardò il display colorato.

    -Maledetto Steve Jobs.

    Disse. Scagliò l’arnese contro la parete dove quello si frantumò in stelle di vetro e polvere cosmica.

    11

    -Perché hai voluto proprio questo edificio?

    -Perché ho visto subito come avrei potuto farlo diventare.

    Rispose Marzia.

    -Non sembra il solito panopticon.

    Considerò Remo.

    -Non lo era neppure quando doveva fungere da manicomio. E poi, io mi sono persuasa di questo. Io credo che nel panopticon, intendo il panopticon filosofico, la metafora della condizione sociale, il tizio che vede e controlla tutti i carcerati senza essere visto, ecco, io credo che quel tizio non esista. Nella torre non abita nessuno, capisci Remo?

    -Sì. Tutti quelli che hanno osato scostare la tenda del sancta sanctorum di tutti i templi non hanno mai trovato il dio, hanno sempre trovato il nulla.

    -Nemmeno la statua addobbata o la mummia di un extraterrestre?

    Scherzò Marzia.

    -L’illusione di Dio è la maschera più bella del nulla.

    Disse Remo sottovoce.

    -Neppure un Anunnaki?

    Insistette Marzia. Remo le infilò due dita tra il collo e l’orecchio e le fece il solletico. Marzia scattò in avanti, con un balzo a piè pari.

    -Non lo devi fare.

    Lo rimproverò ridendo. Aspettò che lui, con un passo, la riprendesse sotto braccio. Ricominciarono la loro passeggiata nel corridoio esterno. Sotto, fuori dai vetri, cinquanta metri più in basso, c’era il mare.

    -Mi sono convinta anche di un’altra cosa.

    -Cosa?

    -Tu, Remo, sei un artista.

    Remo soffiò una risata dal naso.

    -Ed io sono la tua musa. E la tua mecenate.

    -Vero. Sei umana, Marzia. Nel senso più alto che è possibile concedere all’umano. Forse un po’ incattivita dalla vita, ma compassionevole. La compassione è una qualità importante in un umano intelligente. In un umano stupido è aberrante. Ami la bellezza e ami l’umanità. Come tu possa trovare dei nessi tra le due cose, resta il mistero più profondo generato dalla tua esistenza.

    -Vorrei che tu facessi qualcosa per me.

    Remo si fermò. La strinse a sé, senza spezzarle la spina dorsale, e mentre le punte dei loro nasi erano unite, le sussurrò:

    -Ieri sera ho fatto per te l’esegesi di Ash VS Evil Dead. Ash, il modello antropologico dell’americano medio. E quindi, ormai, dell’uomo occidentale. E quindi, ormai, dell’uomo contemporaneo. Semplice, ignorante, stupido, appena un po’ razzista e sessista, appena, solo per far scattare lo scontato effetto comico che produce il vintage. Ash è pratico. E’ americano. E’ efficace. Funziona, contro il diavolo, contro i non-morti, contro il Male. Non ha bisogno della verità. Lui la crea. E’ l’erede dell’Europa morta a seguito dei suoi due suicidi, le due guerre mondiali. Anche se s’è trattato più di eutanasia, uso questa parola per definire quello che è successo, so che è imprecisa. L’Europa era vecchia, estenuata, cerebralmente lesa, paranoica e ottusa, come molti vecchi. E la morte le è stata procurata dal figlio prediletto. Una morte per niente indolore. Per questo la parola eutanasia non è esatta. Era un malato terminale. L’Inghilterra, l’impero inglese, quello che poi sarebbe diventato l’Anglosfera, ha ucciso il genitore. Il figlio deve uccidere il padre per diventare adulto. Ne ha usato l’eredità e a sua volta è stata uccisa dagli USA. Si deve arrivare ad odiare il padre, prima di ucciderlo. Come i cristiani hanno odiato gli ebrei, fino a che è esistito il cristianesimo. Ash Williams che all’inizio della serie è solo l’Eletto, verso la fine della serie, diventa il Salvatore. Ma un salvatore comico, autoironico, stupido, umanissimo, simpatico, finalmente.

    -Io non sto parlando della tua esegesi di ieri sera, Remo. In questi due anni che ti conosco, ho visto la tua capacità artistica. Tu sei un mostro di bravura. I tuoi plastici, i tuoi manichini, i feticci d’uomo che impasti e a cui dai vita...

    Remo la baciò. Poi la lasciò respirare. Marzia:

    -Quando fai le tue opere d’arte, canalizzi le tue pulsioni, la tua violenza viene sublimata in arte.

    -Io non sono violento, Marzia. E non ho pulsioni da canalizzare.

    -Vorrei che tu facessi il mio feticcio e che gli facessi vivere una vita diversa, più bella della mia. Più bella perché artificiale. La mia gemella potrebbe dire le parole che tu hai pensato per lei. Pensare i pensieri che tu vuoi lei pensi. Diventerebbe il mio specchio ed io il suo specchio- si fermò un attimo -Cosa riflette uno specchio con davanti un altro specchio?

    Remo la baciò ancora. Marzia gli prese la lingua tra i denti e strinse. Remo le puntò un dito sulla gola. Marzia lasciò la presa. Remo si staccò da lei. Marzia sorrise.

    -Mi stai facendo impazzire, Remo. Dopo due anni è ancora tutto come all’inizio. Ti voglio sempre dentro di me. Se non ci sei, io mi tocco e ti penso. Vorrei mangiarti. Vorrei sempre il tuo sperma nella mia bocca. Quando mi parli sento le tue parole rimbombarmi dentro la testa. Sei un fiume che tracima, allaga, affoga, distrugge. Ma quando si ritira lascia dentro di me il suo prezioso limo. Io voglio il tuo limo, per i miei fiori, Remo.

    -Il Remo che vuoi tu è quello che tengo prigioniero dentro di me. Non puoi averlo, non puoi perché non posso lasciarlo libero.

    -Perché no?

    -Perché lui è la mia parte umana. Non sono riuscito ad annientarla completamente. L’ho atrofizzata, mummificata, ma è ancora viva ed io non posso, non voglio lasciarla libera. Lasciato libero, quel tumore potrebbe ricominciare a crescermi dentro.

    -Non è per questo, Remo.

    -No?

    -No. Tu ami un’altra.

    Remo scoppiò in una risata. Si allontanò da Marzia. Appoggiò la schiena alla parete curva del corridoio. Il mare laggiù, al di là del vetro, s’era alzato in montagne sparse di neve, quelle onde maculate di schiuma riverberavano il cielo grigio e circondavano l’orizzonte, questo tirò fuori la sua testa tre volte, per respirare, prima di affogare e sparire in fondo all’abisso. L’abisso invisibile, s’intende.

    -E chi sarebbe quest’altra? Una delle ragazze che mi porti per giocare dentro al letto?

    -E’ comico l’amore umano, vero Remo?

    -Vero.

    Remo sentiva che Marzia si stava divertendo. La lasciò giocare. Era giusto così.

    -Mi strazia sentire che non mi amerai mai come hai amato quell’altra.

    -Chi ti dice che io l’abbia amata?

    -Allora lo vedi che c’era un’altra?

    -Cosa vuoi Marzia?

    -Te l’ho detto, voglio un feticcio a mia immagine e somiglianza.

    -Lo sai che quel pupazzo che mi stai chiedendo di costruirti ti ucciderà?

    Ernest

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    Accendo il pc. Il desktop mi si propone con immagini sempre nuove. Paesaggi naturali, persino astronomici. Scorci di metropoli. Foto

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