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Tu non spegnere le luci
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Tu non spegnere le luci
E-book308 pagine4 ore

Tu non spegnere le luci

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Info su questo ebook

In quattro epoche diverse, quattro destini si incontrano, scontrano e intrecciano: sono le vite di donne che portano nomi di battesimo simili, ognuno derivato da Elisa. Una giovane e ingenua governante vive l’Unità d’Italia; una contessa francese sul finire dell’Ancien Régime trova se stessa; una figlia dei fiori italo-americana scopre di avere poteri sovrannaturali; una fotoreporter agli albori del nuovo millennio diventa l’ultima custode di un diario segretissimo. Attraverso i luoghi e le epoche, la storia e gli uomini illustri che l’hanno scritta, il viaggio a volte estremo di queste donne sarà il pretesto per continuare a guardare e ricordare. Il pretesto per un Viaggio dentro la Donna.
LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2016
ISBN9788898894925
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    Anteprima del libro

    Tu non spegnere le luci - Debora Borgognoni

    Indice

    Parte prima: Tu chiamami ragazza

    I LA RAGAZZA DEL PASSATO

    II LE RAGAZZE DEL MISTERO

    III LA RAGAZZA DELLA MIA MEMORIA

    IV LA RAGAZZA DELL'INTERVISTA

    V LA RAGAZZA DELLA CARROZZA

    VI LA RAGAZZA CHE CUSTODISCE LE STORIE

    VII LA RAGAZZA DAL NOME LUNGO

    VIII LA RAGAZZA DELLE DOMANDE

    IX LA RAGAZZA DELL'ISTINTO

    X RAGAZZA DI IERI, RAGAZZA DI OGGI

    XI LA RAGAZZA DELLA VERITÀ

    XII LE RAGAZZE DELLA METAMORFOSI

    XIII LE RAGAZZE DEL DIARIO

    Parte seconda: Tu parlami di Elisa

    I LA RAGAZZA DEI SENSI

    II LA RAGAZZA DELLA LUNA

    III RAGAZZA DI MOTEL

    IV LA RAGAZZA DELL'ALBA

    V LA RAGAZZA CHE NON SPEGNE LE LUCI

    Note dell'Autrice e ringraziamenti

    NOTE

    Titolo: Tu non spegnere le luci

    Autrice: Debora Borgognoni

    Editore: Temperino rosso edizioni

    Prima edizione 2016

    L'immagine di copertina è stata realizzata da

    (c) Tlà Comunicazione

    Disegno di Giuditta Massaro

    (c) 2016 Temperino Rosso Edizioni Fortini

    ISBN 978-88-98894-92-5

    Femmine come la terra,

    femmine come la guerra,

    femmine come la pace,

    femmine come la voce,

    femmine come la croce.

    Femmine come la sorte,

    femmine come la morte,

    femmine come la vita,

    femmine come l'entrata,

    femmine come l'uscita,

    femmine come le carte.

    Il giorno dei giorni

    Luciano Ligabue

    Parte prima: Tu chiamami ragazza

    I LA RAGAZZA DEL PASSATO

    I passi rimbombano. Deve essersi messa le ciabatte pesanti. Rimbombano come un tempo scandito con precisione e pure con un po' d'arroganza. Perché il tempo che si fa sentire mentre passa è sempre un po' arrogante; il tempo non dovrebbe farsi contare, così come il passato non dovrebbe tornare a chiedere conti in sospeso.

    Quel giorno il passato è riaffiorato, è uscito consapevolmente da un luogo dimenticato trionfando tra il vecchiume tutt'intorno. Ha chiesto un conto insolito a una ragazzina di tredici anni. Lei si chiama Liza Capote e vive nella Little Italy di Bridgeport, Connecticut, nell'anno 1957.

    La storia comincia sempre così. L'ha raccontata tante volte, e tutte le volte ricorda il rumore delle ciabatte pesanti di sua nonna, quel tempo scandito con arroganza e quel passato ingrato con una sua propria coerenza di intenti.

    Ricorda la cenere grigia che cade sul pavimento, ricorda quella fragile materia incolore che allora somigliava tanto alla sua vita.

    Ricorda l'odore di canfora dell'armadio, la scivolosità della stoffa damascata all'interno, il buco creato dai tarli dentro il quale le era possibile nascondere i pacchetti di sigarette. E tramite il quale il passato ha preteso di essere letto.

    Ricorda pagine ingiallite, un cuoio spesso con le cuciture bianche, le parole scritte in modo ordinato; un oggetto piccolo e immenso perché senza una fine, perché è come un cerchio che gira senza trovare la propria chiusura. L'oggetto datato 1865 è quel pezzo di vita che le era stato nascosto, perché forse faceva ancora parte della leggenda.

    E poi ricorda le ciabatte che a un certo punto si fermano e la serratura che viene aperta. Ricorda la voce della donna anziana che la chiama col nome italiano, la mano che si allunga per portarle via il diario, la sensazione di essersi alleggerita e al tempo stesso di aver ceduto un pezzo di sé; il terrore e la desolazione dopo la scoperta e la consapevolezza.

    Ricorda gli occhi chiusi che rimandano una sola immagine. Un sacchettino di lana fatto a mano con i ferri da maglia, con alle estremità due nastrini di raso bianco per chiuderlo.

    II LE RAGAZZE DEL MISTERO

    L'aereo sobbalza. Io ondeggio nel mio sedile. Si accendono le luci: sembra di essere al cinema alla fine di un film che ti ha lasciato appiccicato alla poltrona coi popcorn in braccio e la tua mano che ritmicamente ne pesca una manciata. Su e giù, occhi e sedere incollati, persino durante i titoli di coda. Perché è quello il momento della riflessione. Lì bisogna incamerare e risputare. Ed ecco che si accendono le luci proprio mentre tu vorresti dire: Ancora un attimo. Che almeno finisco i popcorn. Ma la scusa non regge e tu fai come gli altri. Ti alzi e torni alla tua vita.

    Una voce parla. È il comandante; dice di allacciare le cinture. L'aereo non smette di vibrare. Mi stringo nella copertina blu elettrico firmata American Airlines e alzo lentamente la tendina dell'oblò. È una perturbazione. L'aereo la sopporterà meglio dei suoi passeggeri. L'11 settembre 2001 è lontano undici anni, ma per gli americani la paura torna anche con un semplice temporale.

    Ormai sono sveglia. La perturbazione, le luci e la voce del comandante mi hanno completamente acceso i sensi. Ho freddo e questa aria condizionata perenne e gelida mi ha seccato la gola. Appena scesa a terra so che si trasformerà in un raffreddore. Credo di avere anche una certa fame. Sono partita con in corpo un solo tè. È decisamente ora di mangiare.

    Mi scusi, posso ordinare uno snack?.

    La mia vicina di posto mi guarda sconvolta. Ha i capelli in disordine e si è alzata il paraocchi bianco per la notte sulla testa, a mo' di cerchietto. Le bomba i capelli come una tipa uscita da una rivista anni Sessanta. Poi anche lei si volta a guardare la hostess che si avvicina a fatica, sballottandosi da un posto all'altro per raggiungermi.

    Osservo la donna in divisa blu con quel foularino rosso, che mi mostra la lista infilata nella tasca davanti al mio sedile, e mi dice in tono gentile che quando la perturbazione finirà, potrò ordinare dal menù. Aggiunge che passeranno con bevande e cadeaux. Le hostess dell'American Airlines sono tutte anziane e ti ispirano più sicurezza, come se non ci fosse pericolo di schiantarsi a terra con una hostess più vecchia di te. Eh, già, perché io prendo un aereo a settimana eppure ho ancora paura di volare.

    Certo. La ringrazio, rispondo io.

    Non avevo pensato alla perturbazione, che probabilmente mi avrebbe fatto maledire il cibo. Forse, invece di uno snack mi piacerebbe un caffè italiano. Mi sembra già di sentirne l'aroma. Un caffè forte, ristretto, magari fatto con la moka, come quello di mia madre che aveva la cremina e che io non ho mai assaggiato perché mia madre è morta quando avevo solo tredici anni. Il caffè non si beve a tredici anni.

    Una napoletana in America ha queste immense pecche del cibo e del caffè. Non ti abitui mai completamente a mangiare pasta scotta col ketchup al posto di spaghetti Gragnano con passata di pomodoro, così come non ti abitui mai al caffè liofilizzato buttato in dosi formato-famiglia in bicchieri di carta da 33cl.

    Osservo intorno a me questo aereo pieno di gente sconosciuta, senza più guardare la mia vicina. Sento che il suo sguardo si posa minaccioso su di me e la cosa mi mette in imbarazzo. Poi guardo l'orologio. Sono passate due ore. Sono a metà strada. O meglio, a metà cielo. Ho una sensazione che non passa e vorrei trovarmi già a terra, dove non è concesso all'essere umano riflettere troppo e preoccuparsi delle sensazioni strane. Ma qui, in aria, è un mio diritto farlo, e quella cosa mi sembra una nota stonata in una musica perfetta, impercettibile a me e agli altri. Non è come questo temporale che fa traballare l'aereo. Questa è semmai una pioggerella londinese, quasi nebulizzata.

    Prima della perturbazione stavo sognando, ecco. Sognavo di essere lei. Ancora lei. Quella donna immaginaria di nome Élise de Bérger - e dio solo sa cosa evoca in me questo nome ogni volta che lo pronuncio - che mi ha preso metà corpo, che fa lavorare l'inconscio senza sosta. Non so chi lei sia o sia stata. So che arriva a puntate, tipo un telefilm che ti sei abituato a vedere ogni giorno. Vorresti conoscere il finale e allo stesso tempo non arrivarci mai per non smettere quell'abitudine apparentemente inutile.

    Ma oggi tutto sembra trovare il proprio incastro. Tutto sembra dirmi che i misteri sono un succo con un retrogusto un tantino amaro. Sto volando verso un mistero, del resto. Sto volando verso una donna che ha pagato per un'intervista. Chi mai lo farebbe? Non può essere un caso.

    Certo... Sarà un segno del destino. Lei mi aiuterà a scoprire chi è la donna che sogno. Anzi, diciamola tutta: la donna che si impossessa di me. In fondo Liza Capote è una sensitiva, no? Ma esisteranno persone sensitive? ... Naaaa! Forse è solo una pazza con manie di grandezza e i miei sogni sono solo sogni. Quello che è certo è che Liza Capote non è una persona come le altre.

    Tutto quello che so di Liza Capote è che fa di professione la sensitiva. Mi incuriosisce sapere in cosa consista questo lavoro. Credo sarà la mia prima domanda.

    Tre giorni fa mi arriva una telefonata.

    Ehi, ciao, sono Brian. Come sta andando la vacanza?.

    Direi bene, Brian. Sono sospettosa e decido di non sbilanciarmi. Brian è uno dei miei capi. Di norma con lui non mi sbilancio nemmeno quando non ho nessun sospetto.

    Dimmi tutto, Brian. Ci sono problemi in redazione?.

    No, non lo chiamerei problema. Però dovresti venire in ufficio, se puoi anche domani, mi dice lui con fare splendido.

    Brian, io non prendo ferie da un anno. Se c'è qualche problema, spediscimi tutto via e-mail e se ho tempo ci lavoro da casa.

    Non te lo chiederei se non fosse una cosa seria. So benissimo che non fai una vacanza da tanto tempo. Comunque dai, concedimi di dire che vivere a Malibu è come essere sempre in vacanza! Ma... davvero è un anno? Cazzo, hai tirato però, eh!.

    Un anno, sì, dico in tono supplichevole.

    Mi prendo la responsabilità di aggiungere un'altra settimana alle tue ferie. Ma domani devi essere qui. Ti prego.

    Non ci posso credere. Brian sta per vincere. E io non ho parole da aggiungere. Non so mai contrattare. Non sarei mai stata un bravo avvocato, ma nemmeno un commerciante se è per questo. Per fortuna ho scelto di fare la fotoreporter.

    Dimmi almeno di cosa si tratta! Non mi farai venire lì solo per decidere se prendere o no il caso, spero!.

    Non è un caso. E davvero questa volta non si può rifiutare. Non te ne pentirai, vedrai. Domani mattina alle nove. Graziegraziegrazie, mia cara. A domani.

    E così appende. Jim mi guarda incredulo. Io sono rossa di rabbia trattenuta, e la piccola Pam mi chiede spazientita chi era al telefono.

    Brian aveva ragione, non potevo rifiutare. E io ci ho guadagnato mille dollari, un tour di Chicago e una settimana in più di vacanza.

    Liza Capote li aveva contattati il giorno prima. Aveva chiesto di me, nome e cognome. Aveva offerto duemila dollari per farsi intervistare, e aveva redatto un contratto in cui aveva diviso le quote: fifty-fifty tra me e i soci della redazione. In quei duemila dollari c'erano anche i soldi del volo e dei trasferimenti, che lei aveva stimato intorno ai cinquecento dollari e della cui prenotazione si sarebbe occupata personalmente; quindi ne rimanevano millecinquecento, ma la mia cifra rimaneva invariata a mille, come da clausola contrattuale. Era una storia al limite del ridicolo.

    Quando Brian si è accorto di avermi adulata fin troppo, ha provato a togliermi la settimana supplementare, ma io sono stata irremovibile. In fondo mi sono presa una bella responsabilità. Ho avuto solo due giorni per scoprire qualcosa su Liza Capote. Ho scaricato dal web tutto il materiale a disposizione. Molti siti parlano di lei come il braccio destro della polizia, trent'anni prima, nei casi di persone scomparse. A quell'epoca ne risolse molti. Il caso più eclatante fu il ritrovamento di una ragazzina di tredici anni nel lago Michigan, scomparsa da undici mesi.

    Negli anni Ottanta Liza Capote era una vera e propria celebrità. Vedove disperate, madri distrutte dalla perdita di un figlio si buttarono su di lei per avere un segno che le anime dei loro morti continuassero a vivere in un'altra dimensione. Si dice però che la Capote non accettò mai di diventare una sorta di medium, se non per la polizia. Una fila interminabile si stabilì davanti al suo portone, con tanto di inviati televisivi e di testate giornalistiche.

    Il suo indirizzo è cambiato dagli anni Ottanta, ma Liza Capote continua a vivere a Chicago. E io sto per arrivarci, quindi in queste due ore devo ripassare le domande che mi sono preparata. Lei ha due possibilità: fingere di rispondere o passare direttamente al motivo per cui mi ha chiamata. Perché un motivo dev'esserci, questo è certo. E le mie domande saranno solo un contorno, una foglia di insalata sotto una bistecca al sangue.

    La tentazione di dormire è forte, molto più di quella di scrivermi domande cui una sensitiva sessantottenne non risponderà. Se ora mi riaddormento, sognerò ancora lei, la mia metà-corpo. Sono tentata di farlo perché sono tentata di sapere cosa sta per succederle. Ogni notte mi corico con la paura di lei e con la brama di vederla, di vivere in lei.

    Ora la mia vicina di posto mi fissa le orecchie. Mi passo la mano sul lobo destro, quello più vicino a lei; è automatico. Sotto le mie dita sfilano le quattro perle grigie, divise da asticelle d'argento. Davanti ai miei occhi si para l'immagine dell'orecchino. È il mio preferito.

    La vicina si volta verso il corridoio e io sospiro. Forse almeno oggi dovrei lasciare questo sogno. Dovrei concentrarmi su Liza Capote. Su questo puzzle che mischierà i tasselli per rendermi il gioco più divertente. O forse solo maledettamente estenuante.

    III LA RAGAZZA DELLA MIA MEMORIA

    Vedo le strade in uno scorrere di fotogrammi infinito e veloce. Cambiano le stagioni, convulse metamorfosi, alberi in fiore, vie lastricate di ghiaccio, foglie dorate trascinate dal vento, stelle oltre le fronde. E le strade tornano sempre le stesse.

    Ora io mi chiamo Élise Victoire Amélie de Médagonne, contessa de Bérger, e vivo durante gli ultimi raggi di sole dell'Ancien Régime.

    Un raggio abbaglia Élise e crea un duro contrasto sul suo viso, per metà mangiato dalla luce. Quando Antoine l'ha aiutata a spostare la coiffeuse in quell'angolo della camera, non si è accorta che Élise aveva un motivo preciso per farlo. Ora lo specchio riflette il quadro. Élise vede se stessa per due volte. La vera e la dipinta. Dentro quella tela, dentro quei colori spalmati con aggressività, la dolcezza della persona è paradossalmente accresciuta. Fili di capelli biondi mossi dal vento, angoli della bocca leggermente alzati, iridi brillanti, verdi con puntini marroni, mani composte che mostrano la forza nelle vene.

    È lo specchio ovale a parlare con sincerità. Guarda un viso pallido che si sta riempiendo di cipria, gli occhi castani perché non c'è sole e il sorriso latente ma poco convinto.

    Élise muove lo sguardo. Chi sono delle due? Entrambe? Nessuna? È un'ossessione ormai. Perché continuo a guardarmi? Cosa cerco in quel dipinto? Non ho più quella freschezza e non capisco perché Monsieur Bernard mi abbia dipinta così.

    Chiude gli occhi. È finalmente sola ma la voce della sua cameriera, Caroline, fa eco nella stanza; quelle parole crude e dette con tono tremante la tentano, ed Élise cerca di ricordarle. Eravamo nelle stalle. Era sera. Faceva freddo, ma portammo la coperta e il fieno ci avvolgeva. Lui mi baciò le labbra, poi infilò la lingua ed io mi sentii quasi svenire. Era la prima volta che lo faceva. Caroline, con questo racconto ti sei guadagnata un ruolo di prima cameriera, e l'hai tolto a mia sorella. Sono stata impulsiva, e spero di non dovermene pentire, ma la tua sincerità e quell'ingenua audacia sono le parti di me che mancano. Ne ho bisogno attraverso te. Forse.

    Caroline, con le mani in grembo, abbassa lo sguardo. La cuoca, la terza persona presente nelle cucine in quella fredda notte primaverile, si siede rassegnata e la voce sottile di Caroline esce poco per volta. Madame, io immaginavo fosse sbagliato, ma lui volle farlo a tutti i costi. Siamo innamorati, potete perdonarci per questo? ... Certo, Madame, scusate la domanda, e il suo sguardo è ancora più impaurito.

    Caroline prende coraggio. Di nuovo. Mi leccò dappertutto: i seni, l'addome, il pube. Forse urlai di piacere, non so. Lui di certo fu invogliato a continuare. Mi prese la mano e la portò al pene. Poi lo mise dentro di me. Inizialmente sentii un dolore acuto, poi provai un piacere fortissimo. Bruciammo nel camino il fieno sporco di sangue e tornammo nelle nostre camere. I nostri incontri durarono una settimana, finché lui se ne andò da palazzo, non so dove, tre giorni fa.

    Caroline, ma di chi stai parlando? Chi è lui?.

    Pierre, contessa de Bérger, Pierre Coltrand, il vostro stalliere.

    Cosa c'è di male in fondo? Hai solo fatto l'amore con lo stalliere, quel Pierre di cui non ricordo nemmeno il viso. E io mi sono accorta di essere stata ancora una volta intransigente, di averti obbligata a raccontarmi qualcosa che mi faceva rabbia. Rabbia perché ne provo invidia.

    La coiffeuse ora rispende. È una striscia luminosa che sembra chiamarla, come ha fatto poco prima, quando dal suo letto nel quale si era infilata a fatica dopo una giornata interminabile, l'aveva raggiunta di nuovo in cerca di una risposta, di una districata vigorosa a quel fitto gomitolo lanciato nella sua vita. O forse no, era solo istinto. Lo specchio non era cambiato, rifletteva la sua immagine. Pallida e stanca, certo, ma era lei. Aveva allungato la mano e cautamente toccato il vetro. Aveva sentito un ticchettio. E lo aveva visto lì, incastrato a un piccolissimo chiodo che tiene unita la cornice. Un orecchino pendente, con in fila quattro bellissime perle grigie, divise da asticelle d'argento.

    Ora, con l'orecchino fra le mani, pensa a ritroso ai simboli che il destino le sta consegnando a poco a poco. Il primo era arrivato due giorni prima, e si concentra su questo, lasciando andare i racconti di Caroline e il desiderio represso da troppo tempo.

    Urla, chiasso. Xavier Bernard non smette di chiamarla. Il frastuono rimbomba dentro quel cerchio di ovatta, e intanto l'acqua scavalca il corpo, e il viso, e i sensi. L'odore verde è un viaggio dentro un vaso di Pandora, scoperchiato troppo presto ma con troppo pudore.

    E ora il silenzio sembra vento, raccoglie tutti i suoni e li chiude nella sua scia.

    Oltre il verde specchio d'acqua il buio è una membrana avvolgente. Élise è sprofondata nel nulla. Cammina e la materia a tratti si ricompone, dandole più sicurezza. Le sembra di aver fatto parecchia strada quando vede in lontananza un lieve riflesso di luce. Corre, inciampa. Corre come se non avesse addosso abiti ingombranti o panier o corsetti. Ci sono delle scale. Lei deve arrivare in cima. Ma sono più piani e le scale si intrecciano come un labirinto astruso, e il suo respiro affannoso le dice che è ora di fermarsi. Si accorge che scappa da come si guarda alle spalle. Il cuore batte così forte che per un attimo Élise pensa che si fermerà presto, che non reggerà la paura, la fatica. Perché, sì, è paura oltre che fatica. Il rantolo del suo respiro le altera i sensi. Lo sente nelle orecchie sempre più forte, sempre più minaccioso. Uno scalino, due, tre. Il respiro sembra soffocarla con la sua pena ed Élise non ne può più. Quattro scalini, cinque. Tacchi dietro di lei. Il loro calpestio diventa una lenta agonia. Ma chi è? Chi vuole fermarmi? Sei scalini, sette. Tacchi.

    Tagliando quel vento che forse non c'è, corre senza sosta. Riapre gli occhi e più si avvicina alla luce, più il riflesso prende una forma reale. Élise rimane a bocca aperta, con le braccia appese al corpo, a osservare quello spettacolo incredibile.

    Lo specchio è sospeso nel vuoto. Dondola. Destra, sinistra, sinistra, destra. È ovale, con una cornice d'argento. Una donna la guarda da lì. Ha i capelli biondi, gli occhi grandi, verdi col contorno castano e qualche lentiggine sul naso. È identica a lei.

    La donna si scopre l'orecchio scostandosi i capelli dal collo. Indossa un orecchino di perle grigie, pendente fino alla spalla. Élise indietreggia. La donna sorride. Senza riflettere Élise raggiunge lo specchio. Quel sorriso la rapisce. Non pensa a quello che fa. Allunga la mano e tocca lo specchio. Ma viene di nuovo, improvvisamente, inghiottita dal buio.

    Élise riapre gli occhi e il ricordo dell'incidente si mischia al sogno e si rimpasta con la vita reale. Riascolta col pensiero le parole di Antoine, il racconto di quello strano incidente, con la solita punta di rimprovero nella voce della sorella. Perché proprio lì, perché proprio con quell'artista, cosa c'è fra voi, cosa diranno a corte.... Una serie di punti di domanda retorici che Élise ormai non può più risolvere. E le domande rimangono senza risposta perché sarebbe troppo facile se ne avessero una.

    Non so perché ero in barca sul Grand Canal, non so perché proprio con Xavier. E no, non c'è niente fra noi, non c'è niente con nessuno perché mio marito non lo vedo da tre anni e sono tre anni che non faccio l'amore, è troppo tempo che il mio corpo è chiuso in questo corsetto e i miei capelli nascosti da una parrucca bianca. È troppo anche parlare di amore per un uomo perché io non so cosa sia l'amore, e forse non so cosa sia un uomo. Eppure questo uomo, Xavier, forse mi ha vista. Ha osservato quello che io non so vedere e l'ha fatto senza disturbare, senza inganni. Ma adesso torno a letto, perché questo incidente in fondo c'è stato, e io stavo annegando. Ho fatto un sogno, sai, Antoine, proprio mentre il mio corpo molle sprofondava nell'acqua, proprio mentre il mondo era fuori dalla bolla sulla quale rimbalzavano i rumori e nella quale io ero imprigionata. C'era uno specchio, questo mio specchio, che rifletteva una donna identica a me. E ora io ho il suo orecchino perché lo specchio me l'ha fatto trovare poco fa. Ma non te lo dirò, Antoine, perché tu non credi a queste cose.

    Le sembra di parlare con Antoine, sua sorella, che fino al giorno prima le teneva la mano con fare materno, pur essendo più giovane di lei. Le sembra di parlarle perché nel frattempo tutto è cambiato. Un solo giorno è bastato, e quella vita così comoda, quella coperta così avvolgente intorno a lei sono diventati puntini traballanti, verità discutibili.

    La coiffeuse è sotto i suoi palmi e lo specchio la riflette con fare benevolo, forse con pietà, mentre Élise trucca il suo viso stanco e prova a nascondersi dietro la cipria. Antoine non verrà. Eppure le sue parole sono lì, come specchiate e riflesse da quella superficie.

    Mi è venuta un'idea. Ho pensato di mandare a chiamare il conte de Bérger, tuo marito, e magari anche nostro padre.

    Per nostro padre non ho nulla in contrario, ma Auguste no. E poi ci metterebbe troppo tempo ad arrivare in Francia, sempre ammesso che sia ancora a Torino e che voglia vedermi. Ma perché è così necessario? Io sto bene, vero?.

    Sì, sì, non hai nulla di grave, non è quello il motivo. Credevo soltanto che ti sentissi sola e che avessi voglia di rivedere tuo marito.

    Antoine, sei davvero comica a volte. Élise sorride. Sarei morta di solitudine in tutto questo tempo se lo stessi aspettando. Auguste preferisce l'Italia. Gli frutta di più, sia in possedimenti sia in donne. Non sarebbe contento di lasciare per mesi una delle sue amanti per correre da sua moglie.

    Antoine invece non sorride. Scusa la franchezza, Élise, ma questa decisione ha qualcosa a che fare con Monsieur Xavier Bernard?.

    Élise ne è stupita. La guarda, cerca i suoi occhi ma lei le parla a testa bassa. Lui è innamorato di te, è così evidente!.

    Mi sembri un po' nervosa. Perché?. Ma che diavolo ti prende? Sei impazzita? Chiamare Auguste...! E poi saranno ben affari miei chi voglio o non voglio vedere. Adesso vai a vedere chi è arrivato. Ho sentito una carrozza. Sarà il dottore. Vai, vai.

    Antoine sbuffa. Una carrozza? Non l'ho sentita. Ma... Senti, facciamo così: mando lo stalliere alla tenuta de Médagonne. Per il resto si vedrà.

    Antoine ha deciso. E le sue decisioni, di solito, non lasciano spazio a repliche.

    Quando è degenerata la conversazione? Quando è degenerato il rapporto? Quanto tempo le tue parole sono rimaste chiuse al buio, Antoine, in quello spicchio di cuore che non conosce ipocrisia, lì ferme, forse crescendo come cresce la puzza ristagnante della rabbia? La coiffeuse ora risplende. La luce arriva dalla finestra e batte sullo specchio provocando un raggio colorato che invade la camera. Élise si siede sul letto a fatica. Si mette a guardare il raggio

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