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Architetture del dopo: Costruire con salice, canna, bambù, paglia
Architetture del dopo: Costruire con salice, canna, bambù, paglia
Architetture del dopo: Costruire con salice, canna, bambù, paglia
E-book291 pagine3 ore

Architetture del dopo: Costruire con salice, canna, bambù, paglia

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Info su questo ebook

Anche nelle metropoli occidentali si diffondono costruzioni realizzate utilizzando piante: salice, canna, bambù, paglia. Tecnologie naturali che sono rielaborazioni di tecniche legate alle prime costruzioni dell’uomo: architetture «del prima», ma soprattutto «del dopo», di come dovremmo costruire per rendere sostenibile la nostra presenza su questo pianeta. Riprendere la cultura del saper fare con le mani ci riporta al tempo profondo del Paleolitico. Gli allarmi della comunità scienti ca ci spingono infatti a guardare a un tempo lontano come a un bacino di conoscenze da approfondire. Da circa vent’anni le «architetture del dopo» attraggono un numero sempre maggiore di estimatori per le loro caratteristiche di sostenibilità, di eco-compatibilità e di rimando a pratiche di coesione sociale. Usare questi materiali è una scelta ecologica e insieme politica, mentre torna centrale la dimensione del gesto e del saper fare, in alternativa ai metodi di produzione industriale.

Maurizio Corrado architetto e saggista, vive a Bologna. Si occupa di ecologia del progetto dagli anni Novanta, svolgendo attività didattica e organizzando eventi. Ha curato trasmissioni di design per Canale 5 e SKY. Ha pubblicato con diversi editori oltre 20 libri di saggistica su design e architettura ecologica, di cui alcuni tradotti in Francia e Spagna. È docente all’Università di Camerino, alla Naba di Milano e all’Accademia di Belle Arti di Bologna e di Verona. Cura un blog su Repubblica: «L’Architetto nella foresta». È considerato uno dei maggiori esperti italiani del rapporto fra piante e architettura.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2021
ISBN9788865483831
Architetture del dopo: Costruire con salice, canna, bambù, paglia

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    Anteprima del libro

    Architetture del dopo - Maurizio Corrado

    Facchi

    1. Introduzione all’architettura del dopo

    Antropocene

    Il dopo è iniziato, l’apocalisse è dietro di noi, già avvenuta, silenziosa come un serpente, invasiva come l’acqua, irrimediabile come un incendio, terrorizzante come un contagio, inizia a salire alla coscienza comune come salgono i sogni, con segnali inequivocabili e ambigui, camuffata da eventi già noti, solo un poco più esagerati, eventi che abbiamo già affrontato e sconfitto in passato, così da allarmarci ma non troppo. Il problema è che il passato che ricordiamo è finito, tutto intorno a noi è inesorabilmente diverso da prima, il presente è cambiato e anche il futuro non è più quello di prima. Dalla comunità scientifica è germinato un termine utilizzato per indicare qualcosa che ancora non aveva un nome, utile a indicare il cambiamento che coinvolge tutto l’ambiente in cui noi Sapiens ci siamo sviluppati e che abbiamo modificato e che ora sembra si stia sgretolando, una parola-valigia che ci contiene come specie e si è rivelata estremamente efficace per dare voce a verità, paure, dubbi, speranze, prese di coscienza, una parola imprescindibile in questi tempi: Antropocene. Nell’accezione comune indica l’impatto dell’uomo sul pianeta e funziona non solo perché salva l’antica presunzione umana di essere al centro dell’universo, ma anche perché contiene il senso di un’altra parola ormai molto inquinata, ecologia, che originariamente indicava il fatto che ogni organismo influenza ed è influenzato dall’ambiente in cui vive.

    Il mondo dell’architettura e il sistema design dovranno affrontare presto una cosa essenziale: i cambiamenti maturati nell’Antropocene non riguardano solo paesaggi naturali e città, non si limitano agli incendi della foreste, all’innalzamento dei mari, alla desertificazione, a temperature troppo calde ai poli. Letteralmente tutto sta cambiando: l’economia, come pensare e fare cultura, la visione stessa del mondo e del posto dell’uomo nel cosmo. L’Antropocene non è un fenomeno passeggero, è il nuovo ordine delle cose. La domanda è semplice: quali saranno gli strumenti per il dopo? Il progettista deve necessariamente essere un visionario, ha il compito professionale di immaginare il futuro, immaginare è progettare, e progettare è ciò che fanno architetti e designer, immaginare il dopo, pensare strumenti che verranno utilizzati in un tempo a venire, ma c’è una differenza da solo pochi anni fa: è cambiato il futuro. L’immaginario è cambiato perché è cambiato il mondo. L’avvento dell’immaginario dell’Antropocene ha trasformato il tempo e reso di colpo obsolete tutte le regole e gli scenari che abbiamo usato finora e presto o tardi anche i sonnolenti mondi del design e dell’architettura dovranno prenderne atto. Solo dall’inizio del nuovo secolo hanno accettato la necessità di avvicinarsi a una progettazione che tenga conto di quello che viene chiamato impatto sull’ambiente, e naturalmente lo interpretano a modo loro, cambiando le parole, i colori dei prodotti e soprattutto la comunicazione, come è normale che sia in sottoinsiemi del sistema industriale quali sono. Molti analisti indicano proprio nei metodi neoliberisti dell’industria i principali artefici dei cambiamenti che stanno disintegrando la possibilità di continuare a esistere di noi umani ed è nell’ordine delle cose che un sistema non voglia compiere azioni che ne minaccino la stessa esistenza. D’altra parte, potrebbe essere visto come ipocrita addossare colpe a un generico «sistema industriale» tirandosene di fatto fuori, quando tutti noi ne siamo costantemente complici ogni volta che andiamo a fare la spesa al supermercato o usiamo computer, cellulari e qualsiasi altra cosa fornitaci da quello stesso sistema. Ma il punto ormai non è più nemmeno questo. Di chiunque sia la colpa, il limite di non ritorno è stato superato. Dai primi allarmi della comunità scientifica sono passati più di sessant’anni. Fino agli anni Ottanta saremmo stati ancora in grado di fare qualcosa, ma i dati ci dicono che da allora la situazione, lungi dall’essere migliorata, è andata sempre più peggiorando. A questo punto, che fare? Cosa deve fare il progetto ai tempi dell’Antropocene?

    Cominciamo con definire meglio lo scenario in cui ci stiamo muovendo e che, volenti o nolenti, ha un nome. Antropocene è un termine antipatico, per certi versi ormai desueto, c’è chi dice che è ormai passato di moda, «ma sarebbe bello fosse solo una moda. Il termine Antropocene ha preso una dimensione che rende inutile considerare di abbandonarlo o sostituirlo proprio come avrebbe poco senso chiederci se possiamo dimenticare parole come inconscio o Dio perché forse l’inconscio e Dio non esistono. Nel momento in cui una parola/idea viene usata in più di un contesto socio-culturale, si iscrive nell’ordine dei fenomeni culturali e come tale va trattata»¹ così ne parla l’antropologo Matteo Meschiari ai cui lavori rimandiamo chi voglia approfondire, in particolare ne La grande estinzione fa una analisi molto lucida parlando dell’Antropocene come di una nuova cosmologia a base scientifica, emotiva, spirituale, che in modo rapido, trasversale, globale, ha modificato per sempre il nostro modo di percepire e rappresentare la terra. «L’Antropocene ha cominciato a modificare come un agente patogeno le strutture tradizionali dell’immaginario terrestre, operando una sostituzione che di colpo ha relegato ammennicoli della nonna come il locus amoenus, il genius loci, il terzo paesaggio e la stessa wilderness nel baule delle cose inutili. Ora l’immaginario è deragliato verso posizioni più o meno apocalittiche, e una serie di parole-chiave come collasso, estinzione, sopravvivenza hanno innescato centinaia se non migliaia di narrazioni pop. […] Così anche un albero fiorito, un pezzo di campo, un prato verde sono ormai abitati dal fantasma della perdita imminente, dal dubbio di ritrovarsi o meno dalla parte giusta del muro. L’acqua non è più il bene di tutti ma l’oro liquido che presto finirà e sarà gestito da multinazionali o da oligarchi senza scrupoli. Il mare non è più la via che unisce le terre ma il teatro di una guerra di migrazione. I rifiuti non sono più il problema macroscopico di alcune metropoli ma sono lo scenario totalizzante del nostro futuro. In altre parole, anche i paesaggi più ameni che possiamo inventarci in un romanzo, che diamo come sfondo a una pubblicità di automobili, che inglobiamo in una rete turistica ormai museale, sono infestati dalle ombre striscianti dell’Antropocene»².

    In questo lavoro prendiamo in considerazione un particolare aspetto dell’architettura del dopo, quelle costruzioni che vengono realizzate utilizzando piante, in particolare il salice, la canna comune, il bambù, la paglia e la terra cruda. Sono tecnologie naturali che risultano quasi sempre rielaborazioni contemporanee di tecnologie molto antiche che hanno a che fare con le prime costruzioni dell’uomo, architetture del prima, ma soprattutto del dopo, di come possiamo costruire per rendere sostenibile la nostra presenza su questo pianeta. Dal primo decennio del nuovo secolo hanno cominciato ad attrarre un numero sempre maggiore di estimatori per le loro caratteristiche ineguagliabili di sostenibilità, di eco compatibilità e di rimando a pratiche di coesione sociale e di autocostruzione su cui si basano quasi tutti i metodi di realizzazione. Usare questi materiali non è solo una scelta ecologica, ma anche e soprattutto una scelta politica che va nella direzione dell’autodeterminazione della propria esistenza. Torna centrale la dimensione del gesto, del sapere delle mani, del saper fare, in una visione alternativa ai metodi di produzione industriale che guarda a un presente sempre più vicino al collasso della civiltà contemporanea, nata dalle pratiche agricole del Neolitico. Riprendere la cultura del saper fare con le mani ci ricollega al tempo profondo del Paleolitico, dove il sapere dell’individuo e del suo gruppo era determinante per la stessa sopravvivenza. Oggi i cambiamenti imposti dalle trasformazioni dell’Antropocene hanno reso obsolete regole e abitudini che ci hanno accompagnato finora, gli allarmi della comunità scientifica ci fanno guardare all’immaginario del tempo profondo e alle culture primarie come a un bacino di conoscenze da approfondire, è il tempo di riprendere letteralmente fra le mani la capacità di agire. Il dopo è iniziato e negli scenari che ci aspettano queste architetture smettono di essere curiosità per pochi per rivelarsi strade privilegiate per l’abitare del dopo.

    Neoecologia

    Lo scenario dell’Antropocene è quello in cui ci stiamo muovendo, è una prospettiva che modifica tutti i campi del sapere, compreso quello dell’ecologia, zona in cui è inevitabile cercare e trovare altri parametri di valutazione, altri modi di vedere il mondo e i rapporti fra i viventi. Il senso del termine ecologia è inquinato e usarlo rimanda a significati distorti e ambigui. Osservando l’evoluzione della cultura ecologica e del suo immaginario nell’arco degli ultimi trent’anni è interessante affiancarla, con le dovute cautele e proporzioni, a quella del cristianesimo. Entrambi i movimenti partono in sordina, le prime riunioni sono quasi segrete, fra pochi adepti, il sistema sociale esterno è assolutamente indifferente, quando non palesemente contrario, entrambi vengo inizialmente trattati come una delle tante sette bizzarre che nascono come funghi in ogni epoca. Nell’uno e nell’altro caso interpretazioni, soluzioni, proposte di vita e di comportamento sono molteplici, variegate e a volte in palese contraddizione fra loro. In entrambi i casi la situazione cambia completamente col cambio di scala, nel cristianesimo quando da setta minoritaria diventa religione di stato, nell’ecologia quando viene assorbita dal sistema industriale. In altre parole, quando il potere costituito si appropria dell’ideologia, questa viene ripulita dalle frange considerate estremiste e si rinforzano le tendenze che gli risultano utili. In entrambi i casi molti dei principi iniziali vengono abbandonati e l’attenzione si concentra sul mantenimento del potere politico ed economico. Per il cristianesimo è il IV secolo il momento del passaggio, con l’editto di Milano di Costantino del 313 e il consiglio di Nicea del 325, dove si decide che Gesù di Nazareth è il figlio di Dio e vengono prese decisioni che tagliano fuori per esempio tutte le varianti gnostiche e si dà una direzione precisa alla futura teologia. Per l’ecologia è il primo decennio degli anni Duemila, il sistema industriale, alla ricerca di nuovi mercati, comincia a guardare agli argomenti della cultura ecologica che nel frattempo è cresciuta d’importanza e promette di essere un’ottima fonte di nuovi guadagni. Anche qui tutti i devianti vengono eliminati e ci si concentra sui principi in grado di non scalfire il dogma che sta alla base del sistema: la circolazione del denaro, che ha nel comprare il suo rito fondamentale, e nei consumatori i suoi fedeli. Quando l’ecologia passa nelle mani del potere economico, è solo di denaro che si inizia a parlare. Le parole d’ordine diventano quelle che usa: consumo e risparmio. È così che la portata potenzialmente rivoluzionaria della prima cultura ecologica viene assorbita, neutralizzata e reindirizzata.

    Qui sta un nodo importante. La cultura ecologica indica esattamente nel sistema industriale e della sua ideologia neoliberista il principale responsabile dei maggiori problemi di cui si occupa, dall’inquinamento al deterioramento dell’ambiente e della salute degli individui. Non è possibile negarlo, ma è possibile distrarre l’attenzione puntandola su alcune soluzioni proposte dalla stessa ecologia, mettendo in secondo piano tutte le altre fino a farle scomparire. Sono quelle che possono rientrare perfettamente nelle logiche industriali. I nuovi principi sono: primo, mai smettere di produrre, ma farlo con altri materiali, recuperare i prodotti morti, riciclarli e rimetterli in produzione; secondo: affiancare ai metodi tradizionali di produzione di energia altri modi, quindi costruire nuovi macchinari, reti distributive e sistemi per farla funzionare. La base non viene sfiorata, il pilastro su cui si regge il sistema è l’azione del comprare, quindi si cambia il cosa, l’offerta si diversifica e si introducono i prodotti virtuosi, quelli che servono a salvare il pianeta.

    Mentre il potere economico si organizza per trarre beneficio dai danni causati da se stesso, l’immaginario ecologico continua ad attingere a uno dei modelli più sperimentati e sicuri che abbiamo in occidente, quello fornito dagli sviluppi del cristianesimo. Da qui sono mutuati linguaggi, comportamenti, visioni, finalità e l’immaginario di base, quello della rinuncia e del sacrificio. Il modello è talmente palese che diventa difficile non vederlo, in primo luogo nella trasparente identità del linguaggio usato. Ci sono santi, martiri, fedeli, integralisti e ortodossi, si parla di comportamenti virtuosi, ci sono comunità che si riuniscono, magari sui social, e gareggiano a chi è più virtuoso, facendo a gara nell’esibire sacrifici, nel darsi regole ferree e quanto più restrittive sono, tanto più grande sarà la virtù conquistata. Ci sono le discussioni sul sesso degli angeli con chi ci tiene a differenziare ecologia da sostenibilità e da tutte le possibili sfumature. Come nel modello originale, si tende a qualcosa di alto e irraggiungibile, anzi, più virtuoso ancora, non più la salvezza della propria anima, ma quella dell’intero pianeta. Ci si sente investiti di una responsabilità sovrumana, partecipi di un’impresa epica, memorabile e con quel retrogusto donchisciottesco che rende più saporita ogni azione. Ci fossero ancora dubbi, basterebbe notare che il fine ultimo, per entrambi i sistemi di pensiero, è il medesimo, espresso con le stesse parole: la salvezza dell’umanità.

    Negli ultimi anni molti analisti che si stanno occupando delle questioni sollevate dalla cultura ecologica, in particolare dell’impatto negativo dell’azione umana sulla Terra, indicano nel sistema industriale e nell’ideologia che lo sostiene una delle principali cause. Ma questo sistema è una delle conseguenze dirette della cultura nata dal passaggio dalla cultura paleolitica a quella neolitica, è nel Neolitico che vanno cercate le radici dell’atteggiamento che ci porta a considerare la terra come una nostra proprietà. Nella mitologia ebraico-cristiana della Bibbia c’è un passaggio illuminante in questo senso, che spiega con esattezza da dove deriva l’atteggiamento occidentale nei confronti del mondo. «Dio li benedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la Terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Genesi, 1,28). È avvenuto il passaggio. L’uomo non è più parte della natura, ne è al di sopra, Dio stesso gli ha dato il permesso di soggiogare la terra e ogni essere vivente.

    Parlando di ecologia, è necessario prendere in esame l’idea di natura. I nostri concetti di naturale e innaturale sono solo apparentemente legati a verità di tipo biologico, in realtà sono molto più influenzati dalla teologia cristiana. Il significato teologico di naturale è di essere consonante con gli intenti di Dio, che ha creato la natura. Nel corso del tempo i teologi cristiani hanno modellato un sistema in cui c’è un Dio che ha creato il corpo umano in modo che ogni organo serva a un particolare scopo. Se usiamo i nostri organi e membra per gli scopi previsti da Dio, svolgiamo un’attività naturale, altrimenti è innaturale. In questo sistema la natura è una creazione di Dio, quindi buona, l’uomo invece, avendo disobbedito dall’inizio dei tempi, è peccatore e quindi responsabile del male. Come risultato, abbiamo da una parte la natura buona e dall’altra l’uomo cattivo. Questo è il desolante e insidioso substrato su cui proliferano molte ideologie ecologiste, naturiste, vegane e della decrescita. È una specie di virus invisibile e confortante che ha infettato profondamente ogni idea che riguarda la natura in Occidente, soprattutto quei sistemi che non si professano cattolici. Possiamo riconoscerlo molto facilmente, è ovunque si presenti la dicotomia natura buona/uomo cattivo. La parola natura è ormai inutilizzabile, talmente è infettata nel profondo.

    Uno dei mantra consolatori più ricorrenti di questi anni è: Salviamo il pianeta. Tutto viene fatto per salvare il pianeta, dalla scelta del balsamo per capelli a non stirare i vestiti per non contribuire al riscaldamento globale, un’idea degna del miglior Woody Allen prima maniera. C’è un effetto gratificante notevole nell’idea di salvare un pianeta. Nell’immaginario comune, fino a pochi anni fa, solo i supereroi potevano riuscirci. Ora è in atto una massificazione del supereroe, chiunque, con piccoli gesti quotidiani, può salvare il pianeta e quindi essere supereroe. Basta chiedere un cappuccino alla soia e il gioco è fatto. Chiunque voglia salvare il pianeta non ha che da andare in rete e avrà in una manciata di secondi intere serie di missioni alla portata di tutti: volare di meno, mangiare meno carne rossa, fare la raccolta differenziata, riciclare, andare in bicicletta, smettere di stirare i vestiti, chiudere il rubinetto mentre ti lavi i denti o ti insaponi sotto la doccia, fare meno la doccia e mai il bagno, bere l’acqua di rubinetto anziché quella in bottiglia, lasciare l’auto a casa due giorni a settimana, al supermercato scegliere il prodotto con il packaging più sostenibile, fare il compost in casa, cambiare le vecchie lampadine, acquistare elettrodomestici a risparmio energetico, fare una spesa intelligente, ridurre i rifiuti, ridurre la plastica, usare borse di tela, usare detersivi alla spina e prodotti sfusi, usare la carta riciclata, non stampare mail o altri documenti, tirare lo sciacquone il meno possibile, acquistare mobili

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