Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I grandi romanzi e i racconti
I grandi romanzi e i racconti
I grandi romanzi e i racconti
E-book1.909 pagine27 ore

I grandi romanzi e i racconti

Valutazione: 2 su 5 stelle

2/5

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

• Al di qua del Paradiso
• Belli e dannati
• Il grande Gatsby
• Tenera è la notte
• Racconti dell’età del jazz

Introduzione di Walter Mauro
Premesse di Massimo Bacigalupo, Giancarlo Buzzi e Walter Mauro
Edizioni integrali

Nessuno come Scott Fitzgerald è riuscito a rendere l’atmosfera, i personaggi e lo stile di vita di quella particolare epoca della storia americana nota come “l’età del jazz” e a raccontare le vicende dei suoi giovani protagonisti. È la generazione degli “anni ruggenti”, vissuta con e tra due guerre, viziati rampolli di famiglie ricche persuasi che ormai tutti gli dèi siano caduti, che ogni morale e codice comportamentale siano ipocriti e desueti. Vogliono trovare altri valori, nuovi modelli. Ma è una ricerca disordinata, che spesso si perde nel caos della «giostra dell’illusorio», nell’autolesionismo dell’alcool e della droga, nella follia. Alla fine della loro corsa sfrenata troveranno amarissime delusioni, così come l’America del benessere e dell’euforico inseguimento del “sogno americano” precipiterà nell’abisso della grande crisi del 1929. Allora niente più lustrini e stravaganze, amori folli, atteggiamenti provocatori e disinibiti, solo la ricerca di un po’ di sicurezza nella bufera. La meravigliosa villa bianca di Gatsby, dove tutto è perfetto, dove è perfino possibile trovare e ritrovare l’amore vero (la felicità?), è solo una facciata. È un inganno? Può darsi che lo sia, come sono un inganno le favole. O forse sono bellissimi sogni, in cui si dimenticano dolori, miserie, solitudini, malattie, volgarità. Tutto è sospeso, fino al risveglio.


Francis Scott Fitzgerald

nacque a St. Paul, Minnesota, nel 1896. Iniziò a scrivere giovanissimo, fin dai tempi della scuola. Pubblicò il suo primo romanzo nel 1920. Seguirono alcune raccolte di racconti e infine Il grande Gatsby (1925), che basterebbe da solo ad assicurare allo scrittore un posto di rilievo nella narrativa americana. Dopo avere goduto di uno straordinario successo, morì quasi dimenticato a Hollywood nel 1940. Di Fitzgerald la Newton Compton ha pubblicato anche Belli e dannati, Racconti dell’età del jazz, Tenera è la notte e il volume unico I grandi romanzi e i racconti.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854146808
I grandi romanzi e i racconti
Autore

Francis Scott Fitzgerald

Francis Scott Fitzgerald (Saint Paul, 1896-Hollywood, 1940) es considerado uno de los más importantes escritores estadounidenses del siglo XX y el portavoz de la generación perdida. El gran Gatsby se publicó por primera vez en 1925 y fue inmediatamente celebrada como una obra maestra por autores como T. S. Eliot, Gertrude Stein o Edith Wharton.

Correlato a I grandi romanzi e i racconti

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Articoli correlati

Recensioni su I grandi romanzi e i racconti

Valutazione: 2 su 5 stelle
2/5

1 valutazione0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I grandi romanzi e i racconti - Francis Scott Fitzgerald

    390

    Titoli originali: The Beautiful and Damned, Traduzioni di

    Pierfaranceso Paolini; The Great Gatsby — Tender is the Night — Tales

    of the Jazz Age, traduzioni di Bruno Armando

    Prima edizione ebook: agosto 2012

    © 2009 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 9788854146808

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Francis Scott Fitzgerald

    I grandi romanzi e i racconti

    Al di qua del Paradiso - Belli e dannati - Il grande Gatsby

    Tenera è la notte - Racconti dell’età del jazz

    Introduzione di Walter Mauro

    Premesse di Massimo Bacigalupo, Giancarlo Buzzi e Walter Mauro

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Introduzione

    Dopo quella morte, nel 1940, fra lo stupore di un pubblico che lo credeva scomparso già da alcuni anni, Francis Scott Key Fitzgerald iniziò a guadagnarsi, presso lettori e critici, una fama di grande autore dell’immaginario poetico che, tutto sommato, non gli venne molto riconosciuta in vita: malgrado il successo - sotto forma soprattutto di autocelebrazione più che legittimata dalle opere e dalla grande potenzialità di fantastica ispirazione - gli abbia consentito di proiettarsi entro un leggendario nirvana nel quale amava rifugiarsi, malgrado non poche vicende drammatiche che ne segnarono l’esistenza. Sicuramente gli fu di grande aiuto, fra disagi e malessere, la convinzione vincente di una sorta di sacralità che lo sospinse verso spazi talvolta fuori della sfera del reale, tipico processo interiore di un prete mancato. Era nato da genitori della piccola borghesia irlandese e cattolica, che ne segnarono il temperamento e le azioni, malgrado ogni tentativo compisse di assumere atteggiamenti liberatori. Di certo, qualche travaglio psichico dovette segnare la sua adolescenza, che tuttavia cercò di vivere come un comune ragazzo del Middlewest, in bilico fra spiritualità, sentimentalismi e crisi di coerenza interiore che verranno poi alla luce, dispersi qua e là, nel percorso di una travagliata esistenza. Non casualmente, i connotati del grande Gatsby, uno degli eroi dei suoi romanzi, coincidono con la percezione di avere «la roccia del mondo solidamente poggiata sulle ali d’una fata». Quindi, una pervicace convinzione di innocenza che lo difese in tante circostanze dall’aggressività violenta di dure esperienze, che gli permisero di attraversare - e vivere nella letteraria redenzione - matrimonio, malattia, dolore, morte. Certo, l’ispirazione all’eroismo, accanto ad un’autobiografica idea di santità, di gloria, di dura difesa da ogni inganno, furono tali meccanismi di difesa, da farlo crescere, e da permettergli di servirsi della pagina scritta, insomma del fatto letterario, fino a conseguenze estreme di scrittura sorretta dal supporto tenace e continuo di un forte arsenale fabulatorio. Non mancò un determinato potenziale di ironia in questa configurazione di romanziere di alto livello, poiché proprio da queste enormi capacità percettive, nacque poi quel grande fabulatore che oggi abbiamo la buona sorte di leggere e seguire: nell’immaginario come in quello spazio insondabile del reale che sorregge tutta l’impalcatura di romanzi irripetibili.

    L’universo aristocratico del Sud degli States lo attrasse inesorabile fin dagli anni dell’adolescenza, accanto alla purezza incontaminata degli ideali che il padre aveva saputo riversargli, onore e cortesia ariostescamente intesi e individuati come patrimoni inalienabili di una vita, pur fra disagi economici che il genitore gli procurò, suo malgrado. Furono tuttavia benefici e fortunati gli anni di Princeton, perché lì conobbe e strinse amicizia con numerosi intellettuali di un’America felice e come lontana da rabbie e da dolori, immersa in una sana custodia che la crisi di tredici anni dopo si occuperà di infrangere. Una delusione d’amore con una giovane ragazza della nobiltà di Chicago significò per lui il primo contatto con le asperità di un vero e di un reale che non lo risparmieranno negli anni a venire. Fu l’intervento degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale ad accentuare il sobbalzo: era il 6 di aprile del 1917 quando iniziò l’avventura americana nei gorghi del conflitto, ma Scott aveva la testa altrove: al suo romanzo The Side of Paradise, che tanta felicità gli darà al momento della pubblicazione, il 26 marzo del 1920. Stava nascendo il leader di una nuova generazione carica di un infrenabile inno alla vita, che si definì età del jazz. Con lui una simile avventura fu vissuta da Zelda, che accettò di sposarlo e gli fu vicina nella gioia e nei numerosi traumi dell’io profondo. Nel 1921 nasce Frances, affettuosamente chiamata Scottie, una sorta di faro luminoso che accompagnerà l’esistenza di Francis soprattutto al tempo dolente della malattia di Zelda. Ma era New York, la Grande Mela, la meta da raggiungere, una sorta di inevitabile spleen concentrato a Long Island, a Great Neck, la culla ideale per comporre Il grande Gatsby: e in realtà, accanto a momenti di grande azione creativa, furono anni di sperpero e di energie perdute, sì che il successivo soggiorno francese apparve quasi un recupero, e il secondo romanzo, the Beautiful and Damned, Belli e Dannati,  parve quasi liberatorio, come una premonitoria anticipazione di quei racconti dell’età del jazz che segnarono un’epoca, anche perché il ritorno a Long Island volle dire il recupero di un alveo cui i due non sapevano rinunciare. Parigi, Nizza, ancora Parigi, in un vagabondare inquieto e nevrotico: nel 1925 apparve in libreria Il grande Gatsby, e l’anno dopo Zelda iniziò a dare i primi segni di uno squilibrio mentale che non l’abbandonerà più, e cambierà la vita di Francis, inesorabilmente. Fu certo pura occasione, ma la crisi della coppia coincise con quel 1929 che gli americani ricordano come l’anno più nero e traumatico. Non basta un romanzo come tender is the Night, tenera è la notte, a consolarlo, anche perché il successo di quel libro nel 1934 non fu davvero entusiasmante. Avanzava dura la depressione, quel crack-up, il crollo, che lui stesso descrisse lucidamente in tre articoli apparsi su «Esquire», postumi.

    Gli ultimi anni di Francis Scott Fitzgerald furono segnati da una terribile percezione del proprio fallimento, di uomo e di scrittore, e l’ultimo romanzo, The Last Tycoon, Gli ultimi fuochi, fu tragica testimonianza di un totale disincanto, che tuttavia non incise sulla memoria di quelle pagine, dettate da un cuore e da una coscienza segnate da una delusione profonda. Si susseguono spettrali gli attacchi di cuore, da metà novembre a quel fatale 21 dicembre 1940 in cui Francis lasciò il proscenio del mondo: il giorno prima, testardamente, con tutta letteraria caparbietà, aveva concluso il primo episodio del sesto capitolo, ma la mano si fermò in una resa senza condizione. Il romanzo verrà pubblicato incompiuto dall’amico Edmund Wilson nel 1941, e fu il disvelamento, finalmente la scoperta di uno dei più grandi romanzieri di ogni tempo. Il funerale fu semplice, l’inumazione avvenne nel minuscolo cimitero di Rockville, nel Maryland, davanti a poca gente, ma c’era Dorothy Parker che ebbe la forza di esclamare, fra il pianto: «Povero vecchio bastardo!». Zelda sopravvisse otto anni e nel 1948 morì bruciata in un incendio scoppiato nella clinica Highland a Asheville, nel North Carolina, dove da lungo tempo era internata. Se ne andava una creatura che aveva dato vita e fiato ad un inestimabile lavoro letterario, come donna e come ispiratrice di uno scrittore esemplare, sempre in bilico fra una consapevolezza sottesa di realtà e un immaginario scatenante, senza tregua né fine. Per lui valgono quelle parole di Tenera è la notte: «A volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere».

    Ben oltre la tragedia della morte, il patrimonio che Francis Scott Fitzgerald ha lasciato alla cultura e alla letteratura americana e universale rimane di uno spessore in cui va a confluire tutta una rilevante serie di motivazioni. Il verdetto globale su di lui non giunse che negli anni Quaranta, prima dei quali ogni sentenza critica si velava di una copertura sociale: giovani eleganti del mondo newyorkese, macchine fuori serie, ville in Costa Azzurra, cronache di quella stagione indimenticabile degli anni Venti che si definì, forse un po’ a sproposito, età del jazz. In realtà Francis finì invece per sottolineare specialmente la dimensione traumatica della ricchezza, oltre che i suoi vacui aspetti positivi e gratificanti: poté superare gli argini e i confini di una parzialità di giudizio, servendosi di quel fondo prezioso, e in lui sempre attivo e presente, di idealismo romantico che, ben lungi dal proiettarlo all’indietro verso stagioni remote e non più compatibili, gli consentì invece di calarsi al vivo di un mondo all’apparenza popolato di cartoni animati, in realtà di personaggi drammatici che scontano fino in fondo il mestiere del vivere. Un simile itinerario, parventemente duplice, gli consentì di intuire il tracciato medio fra ideale di bellezza, mito americano del successo, e al contempo una dura, inesorabile operazione di scavo al vivo della creatura umana, più che sottesa di fragilità dietro il velame di un’arroganza dovuta soltanto alla ricchezza. Era necessaria una religio-nell’accezione di legame profondo - con la vita e la letteratura, per conseguire risultanze di così grande rilievo: visse certamente «in una stanza piena di orologi e calendari», ma seppe usare la clessidra del tempo con la convinzione di essere uomo fra gli uomini.

    WALTER MAURO

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

    1890. Edward Fitzgerald, modesto imprenditore nato da un’antica famiglia cattolica di Rockville, Maryland, sposa a St. Paul, Minnesota (la Boston del Middle West), Mary McQuillan, figlia di un emigrante irlandese che aveva accumulato una cospicua fortuna. Viaggio di nozze sulla Riviera francese.

    1896. Francis Scott Key Fitzgerald nasce il 24 settembre a St. Paul, pochi mesi dopo la morte di due sorelline. Gli viene dato il nome di un antenato illustre, Francis Scott Key (1779-1843), autore dell’inno The Star-Spangled Banner.

    1898. I Fitzgerald si trasferiscono a Buffalo, New York, dove il padre lavora come rappresentante per la Procter and Gamble.

    1900. Zelda Sayre nasce il 24 luglio a Montgomery, Alabama.

    1901. I Fitzgerald passano a Syracuse, New York. Nasce la sorella Annabel.

    1903. Rientro della famiglia a Buffalo. Scott frequenta le elementari al Holy Angels Convent.

    1908. Edward è licenziato. La famiglia toma a St. Paul, dove è mantenuta dalla nonna vedova McQuillan. Scott entra nella St. Paul Academy.

    1911. Scott è accolto nella Newman Academy, buon collegio cattolico di Hackensack, New Jersey. Incontra padre Fay, dedicatario di This Side of Paradise.

    1913. Frequenta la Princeton University, New Jersey. Fa amicizia con Edmund Wilson e John Peale Bishop. Si dedica poco agli studi, molto alle attività sociali e alla preparazione dello spettacolo annuale del Triangle Club, Fiel Fie! Fi-Fi! (dicembre 1914).

    1914-15. Scrive per giornali universitari. Conosce Ginevra King. Prende un congedo di un anno per motivi di salute.

    1916. Ritorna a Princeton, con scarso successo; continua a scrivere per le riviste. Afferma di voler fare il prete.

    1917. A ottobre viene arruolato come sottotenente di fanteria. È stanziato nel Kansas.

    1918. Passa in Georgia, poi a giugno a Montgomery, Alabama. A luglio a un ballo incontra Zelda Sayre. Sottopone a Scribner un romanzo, The Romantic Egotist, che viene apprezzato ma rifiutato. A novembre si trasferisce in una base di Long Island per l’imbarco, ma la fine della guerra lo riporta a Montgomery.

    1919. Congedato a febbraio, lavora a New York per un’agenzia pubblicitaria. A giugno Zelda rompe il fidanzamento informale. Scott ritorna a St. Paul e dà forma definitiva a This Side of Paradise, che a settembre è accettato da Maxwell Perkins, redattore di Scribner.

    1920. This Side of Paradise esce il 26 marzo ed è ben accolto. Il 3 aprile sposa Zelda nella canonica della Cattedrale di San Patrizio, New York. Per l’estate affittano una casa a Westport, Connecticut. Il 10 settembre esce la raccolta di racconti Flappers and Philosophers. A ottobre affittano un appartamento di New York, a 38 West 59th Street.

    1921. Viaggio in Inghilterra, Francia e Italia, maggio-luglio. Al ritorno vivono a St. Paul. Il 26 ottobre nasce la figlia, Frances Scott (1921-1986).

    1922. Pubblica il secondo romanzo, The Beautiful and Damned (4 marzo), uscito a puntate sul «Metropolitan Magazine», e Tales of the Jazz Age (racconti, 22 settembre). Affitta casa a Great Neck, Long Island.

    1923. Pubblica una commedia, The Vegetable, che fa fiasco ad Atlantic City a novembre.

    1924. Si trasferisce in Europa. Passa l’estate alla Ville Marie di St. Raphael, lavorando a The Great Gatsby. Nell’autunno è a Roma.

    1925. The Great Gatsby esce il 10 aprile, con buon successo. Primavera a Parigi, dove conosce Ernest Hemingway. Agosto a Villefranche, ospiti di Gerald e Sara Murphy.

    1926. Ricovero di Zelda. A febbraio esce All the Sad Young Men, racconti. Da marzo a Juan-les-Pins. A dicembre rientrano negli Stati Uniti sul Conte Biancamano.

    1927. Gennaio, primo viaggio a Hollywood, dove lavora per la United Artists. Affitta casa a Wilmington, Delaware. Zelda studia danza.

    1928. Aprile-settembre a Parigi, dove abitano a 58, rue Vaugirard. Rientrano negli Stati Uniti per l’inverno.

    1929. A Genova a marzo col Conte Biancamano, poi a Parigi e a Cannes.

    1930. Il 23 aprile Zelda è ricoverata per schizofrenia alla Malmaison di Parigi, poi a Montreux in Svizzera. Scott vive a Ginevra e Losanna.

    1931. Morte del padre a gennaio. Scott va negli Stati Uniti (episodio ripreso in Tender Is the Night). In estate è ad Annecy, a settembre Zelda è dimessa, e i due si stabiliscono a Montgomery, Alabama. Scott a Hollywood da solo.

    1932. In seguito alla morte di suo padre, Zelda ha una ricaduta ed è ricoverata da febbraio a giugno a Baltimora; termina un romanzo, Save Me the Waltz, che esce a ottobre. La famiglia vive a Baltimora.

    1934. Esce il quarto romanzo, Tender Is the Night, che ha per tema la vita degli espatriati, il cinema, e la malattia mentale. Il libro è accolto con freddezza. Terza crisi e ricovero di Zelda, che a marzo espone i suoi quadri a New York. A maggio nuovo ricovero.

    1935. Scott è a Tryon, North Carolina, per curarsi una presunta tubercolosi, poi ad Asheville e Baltimora. Esce Taps at Reveille, una raccolta di racconti.

    1936. «Esquire» pubblica tre articoli autobiografici, fra cui The Crack-Up. Muore la madre. In aprile Zelda è ammessa al Highland Hospital di Asheville, N.C.

    1937. Nuovo soggiorno a Hollywood, sotto contratto con la MGM. Vive al Garden of Allah Hotel. Si lega a Sheilah Graham.

    1938. A Pasqua è con moglie e figlia in Virginia. Vive a Malìbu Beach ed Encino. A settembre la figlia Scottie entra al Vassar College. A dicembre la MGM non gli rinnova il contratto.

    1939. A febbraio, viaggio a Dartmouth per lavorare a una sceneggiatura con Budd Schulberg. Licenziato per ubriachezza. Ad aprile va a Cuba con Zelda. Comincia il romanzo The Last Tycoon. Lavora come free-lance per diverse produzioni.

    1940. Pubblica su «Esquire» i racconti di Pat Hobby, ambientati a Hollywood. Zelda va a vivere con la madre a Montgomery. Il pomeriggio del 21 dicembre Scott muore di infarto a Hollywood in casa dell’amica Sheilah Graham. È sepolto nell’Union Cemetery di Rockville (presso Washington), poi nel vicino cimitero cattolico di St. Mary, descritto in Tender Is the Night. In un testamento del 1939 aveva chiesto «il funerale meno caro, senza ostentazione e spese superflue». Lascia il romanzo incompiuto The Last Tycoon, pubblicato nel 1941.

    1948. Zelda muore il 10 marzo con altre nove donne in un incendio al Highland Hospital di Asheville.

    BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

    Edizioni originali

    This Side of Paradise, New York, Scribner, 1920.

    Flappers and Philosophers, ivi 1920.

    The Beautiful and Damned, ivi 1922.

    Tales of the Jazz Age, ivi 1922.

    The Vegetable, or From President to Postman, ivi 1923.

    The Great Catsby, ivi 1925.

    All the Sad Young Men, ivi 1926.

    Tender Is the Night, ivi 1934.

    Taps at Reveille, ivi 1935.

    The Last Tycoon, ivi 1941.

    The Crack-Up, With Other Uncollected Pieces, a cura di E. WILSON, New York, New Directions, 1945.

    The Stories of F. Scott Fitzgerald, New York, Scribner, 1951.

    The Pat Hobby Stories, ivi 1962.

    The Letters of F. Scott Fitzgerald, a cura di A. TURNBULL, ivi 1963.

    The Apprentice Fiction of F. Scott Fitzgerald, 1909-1917, a cura di J. KUEHL, New Brunswick, Rutgers University Press, 1965.

    Thought book of Francis Scott Key Fitzgerald, Princeton University Library, 1965.

    Dear Scott/Dear Max: The Fitzgerald-Perkins Correspondence, a cura di J. KUEHL e JR. BRYER, New York, Scribner, 1971.

    F. Scott Fitzgerald in His Own Time: A Miscellany, a cura di M.J. BRUCCOLI e JR. BRYER, Kent State University Press, 1971.

    As Ever, Scott Fitz-: Letters Between F. Scott Fitzgerald and his Literary Agent, Harold Ober. 1919-1940, a cura di M.J. BRUCCOLI, New York, Lippincott, 1972.

    Bits of Paradise: 21 Uncollected Stories by F. Scott Fitzgerald and Zelda Fitzgerald, a cura di M.J.BRUCCOLI, New York, Scribner, 1973.

    The Notebooks of F. Scott Fitzgerald, a cura di M.J. BRUCCOLI, New York, HBJ, 1978.

    The Price Was High: The Last Uncollected Stories, a cura di M.J. BRUCCOLI, ivi 1979.

    The Short Stories of F. Scott Fitzgerald, a cura di M.J. BRUCCOLI, New York, Scribner 1989.

    Correspondence of F. Scott Fitzgerald, a cura di M.J. BRUCCOLI et al., New York, Random House, 1989.

    The F. Scott Fitzgerald Manuscripts, a cura di M.J. BRUCCOLI et al., New York, Garland, 1990.

    (Due volumi relativi a The Beautiful and Damned, a cura di A. MARGOLIES, sono usciti nel 1990).

    The Love of the Last Tycoon: A Western, a cura di M.J. BRUCCOLI, New York, Scribner, 1993.

    F. Scott Fitzgerald: A Life in Letters, a cura di M.J. BRUCCOLI e J.S. BAUGHMAN, New York, Simon & Schuster, 1994.

    Thmalchio: An Early Version of «The Great Gatsby», a cura di J.L.W. WEST in, Cambridge, Cambridge University Press, 2000.

    Novels and Stories 1920-1922, a cura di JR. BRYER, New York, Library of America, 2000.

    Dear Scott, Dearest Zelda: The Love Letters of F. Scott and Zelda Fitzgerald, a cura di JR.

    BRYER e C.W. BARKS, New York, St. Martins’s Press, 2002.

    Principali traduzioni italiane

    Gatsby il magnifico, tra di E. GIARDINI, Milano, Mondadori, 1936.

    Tenera è la notte, trad, di F PIVANO, Torino, Einaudi, 1949.

    Il grande Gatsby, trad, di F. PIVANO, Milano, Mondadori, 1950.

    Di qua dal Paradiso, introd. e trad, di F. PIVANO, ivi 1952.

    Belli e dannati, trad, di F. PIVANO, ivi 1954.

    Gli ultimi fuochi, introd. e trad, di F. PIVANO, B. ODDERA, ivi 1959.

    Ventotto racconti, trad, di B. ODDERA, ivi 1960.

    Basii e Cleopatra. Due racconti, trad, di D. TARIZZO e E. SALMAGGI, Milano, Il Saggiatore, 1960.

    L’età del jazz e altri scritti, pref. di E. ZOLLA, trad di D. TARIZZO, ivi 1962.

    Postino o presidente, trad, di D TARIZZO, ivi 1962.

    Crepuscolo di uno scrittore, trad, di G. MONICELLI, Milano, Mondadori, 1967 (rist. Milano, Studio Editoriale, 1990).

    Racconti dell’età del jazz, trad, di G. MONICELLI e B. ODDERA, ivi 1968.

    Romanzi, a cura di F. PIVANO, trad, di F. PIVANO e D. TARIZZO, ivi 1972.

    Il diamante grosso come l’Hotel Ritz, trad di B. ODDERA, Milano, Emme, 1974.

    Lembi di paradiso. Racconti di F.S. e Zelda Fitzgerald, trad di V. MANTOVANI e B. ODDERA, Milano, Mondadori, 1975.

    I racconti di Basii e Josephine, trad, di G. FRETTA, G. MONICELLI. B. ODDERA, Milano, Il Saggiatore, 1976.

    Taccuini, trad, di A. PAJALICH e D. TARIZZO, Torino, Einaudi, 1980.

    Il prezzo era alto, trad, di B. ODDERA, Milano, Mondadori, 1981-82, 2 voll.

    La crociera del rottame vagante, a cura di R. CAGLIERO, Palermo, Sellerio, 1985.

    Festa da ballo, trad, di S. PETRIGNANI, Roma, Theoria, 1987.

    Il grande Gatsby, a cura di T. PISANTI, Roma, Newton & Compton, 1989.

    I racconti di Pat Hobby, trad, di O. FATICA, Roma, Theoria, 1990.

    Troppo carina per dirlo a parole e altri racconti, trad, di B. ODDERA, Milano, Mondadori, 1994.

    Al di qua del Paradiso, introd. di G. BUZZI, trad, di P. F. PAOLINI, Roma, Newton & Compton, 1996.

    Maschiette e filosofi, cura e trad, di P. MENEGHELLI, ivi 1996.

    Racconti dispersi, a cura di M.J. BRUCCOLI, trad, di B. ODDERA, 4 voll., Milano, Mondadori, 1999-2001.

    Caro Scott, carissima Zelda. Le lettere d’amore di F. Scott e Zelda Fitzgerald, a cura di JR.BRYER e C.W. BARKS, trad, di M. PREMOLI, Milano, La Tartaruga, 2003.

    Lettere a Scottie, con lettere inedite di Scottie Fitzgerald, a cura di M. BACIGALUPO, Milano, Archinto, 2003.

    Studi

    Biografie e testimonianze

    M.J. BRUCCOLI, Scott and Ernest: the Authority of Failure and the Authority of Success, New York, Random House, 1978.

    ID., Some Sort of Epic Grandeur: The Life of F. Scott Fitzgerald, New York, HBJ, 1981.

    M. CALLAGHAN, That Summer in Paris, Harmondsworth, Penguin, 1979.

    M. e R. COWLEY (a cura di), Fitzgerald and the Jazz Age, New York, Scribner, 1966.

    S. GRAHAM, The Real F. Scott Fitzgerald: Thirty-Five Years Later, New York, Grasset and Dunlap, 1976.

    S. GRAHAM – G. FRANK, Beloved Infidel: The Education of a Woman, New York, Holt, 1958 (trad. it. Adorabile infedele, 1954).

    E. HEMINGWAY, A Moveable Feast, New York, Scribner, 1964.

    J.J. KOBLAS, F. Scott Fitzgerald in Minnesota: His Homes and Haunts, St. Paul, Minnesota Historical Society Press, 1978.

    F. KROLL RING, Against the Current: As I Remember F. Scott Fitzgerald, Berkeley, Creative Arts, 1985.

    A. LATHAM, Crazy Sunday: F. Scott Fitzgerald in Hollywood, New York, Viking, 1970.

    A. LEVOT, F. Scott Fitzgerald, Harmondsworth, Penguin, 1985.

    S. MAYFIELD, Exiles from Paradise, New York, Delacorte, 1971.

    J. MEYERS, Scott Fitzgerald: A Biography, Basingstoke, Macmillan, 1994.

    N. MILFORD, Zelda, New York, Harper, 1970.

    L.P. MILLER (a cura di), Letters from the Lost Generation: Gerald and Sara Murphy and Friends, Rutgers University Press, 1991.

    A. MIZENER, The Far Side of Paradise: A Biography of F. Scott Fitzgerald, Boston, Houghton, 1951.

    ID., Fitzgerald, London, Thames & Hudson, 1972 (trad. it. di L. ANGELINI, Milano, Leonardo, 1990).

    H. PIPER, Scott Fitzgerald: A Candid Portrait, New York, Holt, 1963.

    S.F. SMITH, M.J. BRUCCOLI e J.P. KERR (a cura di), The Romantic Egoists: A Pictorial Autobiography from the Scrapbooks and Albums of F. Scott and Zelda Fitzgerald, New York, Scribner, 1974.

    A. TURNBULL, Scott Fitzgerald, ivi 1962.

    E. WILSON, The Twenties, a cura di L. EDEL, New York, Farrar, 1975.

    Contributi critici

    M. BACIGALUPO, Grotta Byron. Luoghi e libri, Udine, Campanotto, 2001.

    W.F BEVILACQUA, introd. a The Great Gatsby, Rapallo, Cideb, 1994.

    M.J. BRUCCOLI, F. Scott Fitzgerald: A Descriptive Bibliography, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 1987.

    P. CABIBBO e D. IZZO, Dinamiche testuali in «The Great Gatsby», Roma, Bulzoni, 1984.

    J.F. CALLAHAN, The Illusions of a Nation: Myth and History in the Novels of F. Scott Fitzgerald, Urbana, University of Illinois Press, 1972.

    A. CASCELLA, I colori di Gatsby. Lettura di Fitzgerald, Roma, Lithos, 1995.

    E. CECCHI, Scrittori inglesi e americani, Milano, Il Saggiatore, 1964, 2 voll.

    J.B. CHAMBERS, The Novels of F. Scott Fitzgerald, New York, St. Martin’s Press, 1989.

    P. CITATI e M. DE STROBEL, F. Scott Fitzgerald, in I contemporanei. Novecento americano, a cura di E. ZOLLA, vol. I, Roma, Lucarini, 1982.

    K.G.W. CROSS, F. Scott Fitzgerald, Edinburgh, Oliver and Boyd, 1964.

    K.E. EBLE, F. Scott Fitzgerald, New York, Twayne, 1963 (trad. it. Firenze, La Nuova Italia, 1972).

    R.L. GALE, An F. Scott Fitzgerald Encyclopedia, Westport, Ct., Greenwood Press, 1998.

    M. HINDUS, F. Scott Fitzgerald: An Introduction and Interpretation, New York, Holt, 1968.

    A.F. KAZIN (a cura di), F. Scott Fitzgerald: The Man and His Work, Cleveland, World, 1952.

    R.D. LEHAN, F. Scott Fitzgerald, Carbondale, Southern Illinois University Press, 1966.

    ID., F. Scott Fitzgerald and the Craft of Fiction, ivi 1972.

    J.E. MILLER, F. Scott Fitzgerald: His Art and Technique, New York University Press, 1964.

    A. MIZENER (a cura di), F. Scott Fitzgerald: A Collection of Critical Essays, Englewood Cliffs (N.J.), Prentice-Hall, 1963.

    B. NUGNES, Invito alla lettura di Fitzgerald, Milano, Mursia, 1977.

    S. PEROSA, L’arte di F. Scott Fitzgerald, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1961.

    ID., The Art of F. Scott Fitzgerald, University of Michigan Press, 1965.

    P. PIGNATA, Francis Scott Fitzgerald, Torino, Boria, 1967.

    H. D. PIPER, F. Scott Fitzgerald: A Critical Portrait, New York, Holt, 1965.

    T. PISANTI, Novecento letterario americano, Salerno, Edisud, 1988.

    F. PIVANO, La balena bianca e altri miti, Milano, Mondadori, 1961.

    R. PRIGOZY (a cura di), Cambridge Companion to F. Scott Fitzgerald, Cambridge, Cambridge University Press, 2002.

    E. RICCIARDI (a cura di), The Lost Generation, Napoli, Liguori, 1977.

    N. SANTILLI, L’amore come salvezza: «The Last Tycoon» di F. Scott Fitzgerald, Roma, Arnica, 1976.

    C.E.F. SHAIN, F. Scott Fitzgerald, University of Minnesota Press, 1961.

    M.J. TATE, F. Scott Fitzgerald A to Z: The Essential Reference to His Life and Work, New York, Facts on File, 1998.

    B. WAY, F. Scott Fitzgerald and the Art of Social Fiction, London, Arnold, 1980.

    E. WILSON, The Shores of Light, New York, Vintage Books, 1961.

    Al di qua del Paradiso

    A Sigourney Fay

    ...Ben al di qua del Paradiso!

    Per il saggio c ’è poco da fare buon viso.

    Rupert Brooke

    Esperienza è il nome che tanti

    danno ai loro errori.

    Oscar Wilde

    Premessa

    Nella sua prima redazione Al di qua del Paradiso (This Side of Paradise) si intitolava L’egotista romantico (The Romantic Egotist). L’editore Scribner lo rimandò garbatamente all autore con una serie di dettagliati suggerimenti e con l’invito a ripresentarlo. Fitzgerald gli dette retta, ma anche la versione modificata del testo fu rifiutata. Ulteriore riscrittura, nella vecchia casa di famiglia a Saint Paul, e finalmente Scribner, pienamente convinto, accettò di pubblicare il romanzo con il nuovo titolo. La gioia di Fitzgerald, che aveva lasciato un assurdo e interlocutorio lavoro procuratogli da un amico presso la Northern Pacific, fu immensa. Se dobbiamo credere a ciò ch’egli raccontò in un suo testo autobiografico, Early Success, si mise a percorrere freneticamente la Summit Avenue fermando amici e conoscenti per metterli al corrente della fortuna occorsagli. Non lo sfiorò il sospetto di un insuccesso o di una tiepida accoglienza (non improbabile trattandosi di un’opera prima), e anzi disse all’editore che si sarebbe accontentato di una vendita di ventimila copie nel primo anno. La vendita superò queste rosee previsioni - quasi quarantamila copie in poco più di sette mesi - e fruttò a Fitzgerald una cifra di tutto rispetto, anche se non lo arricchì come aveva sperato. Ma l’esito commerciale,pur considerevole, non dà la misura del successo del libro, dell’interesse che suscitò.

    Gli Stati Uniti, usciti dalla crudele esperienza della guerra, attraversavano un momento di tensioni sociali, che lo sviluppo galoppante della produzione e l’affermarsi del modello consumistico acutizzavano. Tuttavia la grande paura dei «rossi» - etichetta che copriva socialismo, anarchismo, sindacalismo e in genere le ideologie e i movimenti di sinistra -, che aveva provocato dure repressioni, persecuzioni ed esplosioni di isolazionismo, xenofobia e razzismo, poteva dirsi, quando uscì il volume di Fitzgerald, superata. L’obiettivo non era apparentemente mutato: una società di diffuso benessere ed egualitaria. Ma i valori a cui il paese si era riferito fino a quel momento erano in crisi. Soprattutto le giovani generazioni li contestavano e rifiutavano, anche se non ne avevano elaborato di nuovi in grado di sostituirli. Di sicuro non credevano più alla sobrietà e al risparmio, attribuivano un significato e un peso diversi al denaro, al potere, al successo, incrinavano con i comportamenti il codice morale della tradizione.

    Aspetto importante e di forti implicazioni sul costume, sulla cultura, sull’economia, si stava verificando una radicale «sdifferenziazione» dei ruoli maschili e femminili: le donne, che avevano conquistato il voto e, sia pure in condizioni di non parità con l’altro sesso, lavoravano fuori casa, rompevano gli schemi fino a quel momento operanti nel rapporto con l’universo maschile. Era il parziale avveramento delle istanze paritarie del suffragettismo, che la diffusa possibilità di controllare la maternità avrebbe di lì a qualche decennio ampliato. Ma un numero non piccolo di donne si spingeva oltre, apriva più larghe crepe nel contesto valoriale adottando comportamenti provocatori e scandalosi - nell’abbigliamento, nel linguaggio, nei rapporti sociali e sentimentali. Flappers, ragazze emancipate o «maschiette», furono chiamate queste giovani che consideravano antiquate le loro madri, rinnegavano i tradizionali attributi dell’attraenza femminile, puntavano alla snellezza, appiattivano i seni, si accorciavano i capelli, frequentavano disinvoltamente i locali pubblici, si truccavano vistosamente, portavano gonne corte e calze di seta, si liberavano dai busti, fumavano, bevevano (magari negli speakeasies, i locali dove si servivano - clandestinamente perché si era in epoca di proibizionismo - alcolici), praticavano sport, sceglievano i partner anziché esserne scelte, passavano senza troppi problemi da un flirt all’altro ( ed erano flirt che sempre più contemplavano il petting, ovvero il «pomiciare», pratica che appariva sconvolgente alla luce di un costume di matrice ottocentesca, inibente alle ragazze perbene, nonché pieni rapporti sessuali, persino il bacio prima del matrimonio).

    Sotto questo profilo è significativo il personaggio di Rosalind (in cui riconosciamo in parte la futura moglie dell’autore, Zelda), «una di quelle ragazze che non hanno bisogno di compiere il minimo sforzo per far innamorare di sé gli uomini», talché quelli che non se ne innamorano sono gli sciocchi diffidenti della sua intelligenza, gli intellettuali spaventati dalla sua bellezza, «tutti gli altri le appartengono per prerogativa naturale». Rosalind non è viziata: possiede un «fresco entusiasmo», ha desiderio di crescere e di apprendere, coraggio, fede nell’amore romantico, è fondamentalmente onesta. Certo non ha un carattere facile, «vuole quello che vuole quando lo vuole e son dolori per quanti la circondano se non l’ottiene». Non ha princìpi morali, la sua filosofia è carpe diem per sé, laissez faire per gli altri, le piacciono le storielle audaci. Quanto agli uomini, l’hanno delusa, ma «nell’uomo come genere» continua ad avere fede. Ogni critica che le sia mossa si spunta comunque contro il suo incanto, contro la sua «gloriosa chioma bionda», «il desiderio di imitare la quale sostiene l’industria delle tinture». Tale aurea capigliatura si accompagna a una bocca «eternamente baciabile, piccola, leggermente sensuale, estremamente turbatrice», a occhi grigi, a una pelle «vellutata impeccabile». Va da sé, è atletica e snella. Dirla «personaggio» o «personalità»? Difficile decidere, ma è «forse quell indefinibile, delizioso miscuglio che si ottiene una volta ogni secolo».

    Non si può dire che Fitzgerald si risparmi, che non vada con la mano pesante. Il che ci propone un elemento non trascurabile del suo libro: una tensione all’esemplarità che sfocia a momenti in ansia dimostrativa e didascalica - che solo ne Il grande Gatsby si scioglierà e risolverà in una tutta naturale magia. Dei personaggi nessun tratto è lasciato nel vago, tutto vuol essere precisato, il lettore non deve potere equivocare sulla maschera, deve conoscerne perfettamente il posto e il ruolo nella favola. Il ventitreenne Fitzgerald ha ancora paura dell’allusività e dell’ambiguità, ed è naturale. Ma non si può non osservare che questa Rosalind è, appunto, un potroppo esemplare, fissata nelle sue fattezze, rese significative all’estremo e convenzionalizzate come quelle delle donne trobadoriche e stilnovistiche (magari di un trobadorismo e di uno stilnovismo non di «primafase»).

    Penseremo lecitamente a questo filone e a una corrente di femminismo assertivo di cui Rosalind è più che antesignana presaga e prefiguratrice. Ascoltiamola dire a una coetanea: «...perché dovrebbe andar sprecato, tutto questo, per un unico uomo» e ancora: «Io non sono femminile, veramente - nell’animo».

    Sicuro: Rosalind non è né vuol essere ambigua. Per intenderci, non ha nulla della Clorinda del Tasso, del suo meraviglioso strazio, della sua molto terrena e molto stellare, e finalmente celestiale angoscia. Non è nemmeno maliarda, circesca o armidiana. Tanto meno tiene della pulzella Giovanna, o di una mistica, di una somministratrice di veleni, di un’intrigante, di un’asseveratrice del carattere totalitario e magari imperialistico della propria sensualità e del proprio erotismo. Potremmo continuare su questa falsariga, citando connotati di donne del passato e del presente, e di varie modalità (proclamate e sottaciute, blande e intense, consce e inconsce) di usare i propri femminei attributi mentali e fisici. Ma è il caso di fermarsi per dire che il modo d’essere di Rosalind è davvero peculiare, al di là dei possibili riferimenti storici e letterari che suggerisce.

    Rosalind non è consapevole, anche se talvolta sembra proporsi come tale, di una propria forza anche e primariamente biologica che, venendo meno certi condizionamenti (fra i principali la dipendenza economica, l’incontrollabile e spesso sopraffattoria o paralizzante, quindi minacciosissima maternità), ribalterà i termini del rapporto maschio-femmina e consentirà alla donna un discorso di parità e addirittura di supremazia. Non ne è consapevole, però la avverte e in modo un po’ grezzo, semplicistico ne parla: «Ho baciato dozzine di uomini. Ne bacerò, suppongo, altre dozzine». Attraverso il bacio - acme e simbolo privilegiato di questo discorso libertario ed eversivo nei confronti del costume postvittoriano, passa la strada dell’annientamento della supremazia maschile: «Io ho da essere conquistata», dice a un innamorato, ingenuamente convinto che una ragazza appartenga all’uomo che l’ha baciata, «da capo, ogni volta che mi vedi [...] Una volta i baci erano di due tipi. Il primo, era quando le ragazze venivano baciate e abbandonate. Il secondo, quando si fidanzavano. Oggi ce n’è un terzo tipo: quando è l’uomo a esser baciato e abbandonato. Se un uomo, alla fine dell’Ottocento, si vantava di aver baciato una donna, tutti arguivano che era stufo di lei. Se un uomo nel 1919 mena lo stesso vanto è chiaro a tutti ch’è perché lei non si lascia più baciare da lui. Se poco poco ottiene un minimo vantaggio, qualsiasi donna riesce a battere un uomo, oggigiorno».

    Il brano è interessante, anche perché ci aiuta a capire una delle debolezze di Al di qua del Paradiso: un certo radicalismo e schematismo predicatorio, funzionale alla dimostrazione di una tesi, che minaccia di impoverire i personaggi fitzgeraldiani e di creare disagio nel lettore (aparte l’inverosimiglianza di una sentenziosità così piena di saputaggine, come quella che nel caso citato sgorga dalle labbra di una poco più che adolescente incolta). Contro l’intenzione di Fitzgerald, che come sopra dicevo cerca di esasperarne gli elementi distintivi, essi si somigliano infatti un po’ troppo, sono tutti incarnazioni e megafoni dell’autore, pensano e dicono le stesse cose (le sue cose). Fitzgerald, come già ho osservato, non ci porta a una conclusione - la conclusione che gli sta a cuore - attraverso contrasti, contraddizioni, sfaccettature, ambiguità: ci propone il segmento fortemente omologato di un universo i cui altri aspetti evoca solo indirettamente e fiaccamente.

    Vero è che questa stessa insistenza e parzialità fa la forza del libro e la sua memorabilità. Come dire che non è affatto la naturalezza, ma l’artificialità, o se vogliamo l’artificiosità, del dramma e la scarsa singolarità delle dramatis personae a dare vigore e a creare l’impatto di questo giovanile documento della narrativa fitzgeraldiana. Fitzgerald è decisamente scrittore utopista e astratto: ed è abbastanza curioso che proprio un uomo come lui scarsamente dotato per l’astrazione e culturalmente abbastanza sprovveduto (questi connotati sono stati ampiamente sottolineati dalla critica), stimolato il più delle volte, per non dire sempre, e comunque prevalentemente, dalla propria esperienza (ambientale, familiare, fisica, mentale, sentimentale), abbia ottenuto in questo libro un indubbio risultato di esemplarità persuasiva e impositiva con un procedimento di riduzione, appianamento, amalgamazione, omologazione, astrazione. Per cui riusciamo a dimenticare l’assenza di fattezze caratterizzanti, per esempio, le protagoniste - Isabelle, Rosalind, Eleanor - e ci rimane, con valore di irrecusabile testimonianza, l’immagine di una giovane credibilissima come rappresentante di un ambiente e di una serie di istanze destinate a concretarsi in mutamenti ricchi di implicazioni in quell’ambiente e nel resto della società. Sarà, come è stato detto, perché Fitzgerald non solo accetta ma fa suo il modo di vedere dei suoi (sia pure ripetitivi e monocordi)personaggi? Forse è il contrario: forse è l’energia e persino il fanatismo con cui egli li costruisce tutti sostanzialmente a immagine di sé - anche se ne differenzia le caratteristiche fisiche - assegnando loro il compito di predicare il suo verbo. Isabelle, Rosalind, Eleanor sono specchi dell ’eroe Amory, e questi è specchio di Fitzgerald, sicché solo lui campeggia nel libro sotto diversi nomi maschili e femminili, e sotto diversi (e nemmeno molto) camuffamenti. Se si potesse parlare di un realismo astratto, sarebbe il caso di Fitzgerald. C’è un minimo di concretezza e un massimo di astrattezza nelle sue figure, e in lui che nei panni del protagonista sussume tutti gli altri eroi: il realismo è nella resa di sé, nel modo d’essere, nel reagire all’ambiente (a sua volta astratto dal più vasto contesto ), ed è realismo dopo un ’astrazione e da questa indistricabile.

    Certo, i discorsi di Amory, questo prodotto di borghesia proper e well- to-do, e di snobismo intellettualistico princetoniano, sono nel complesso lamentevoli. Non sarebbe davvero giusto nasconderselo (con la scusante, doverosa, da concedere a un Fitzgerald ventitreenne quando stendeva il suo affresco psico-socio-antropologico, nonché politico). Magari, se avesse letto Balzac, Fitzgerald non avrebbe messo in bocca al princetoniano - appunto - intellettuale Amory (colloquiante polemicamente con un capitalista) osservazioni sul ruolo e sui vizi della stampa banali come quelle che citiamo: «Noi abbiamo bisogno di credere [...] studenti negli scrittori, elettori nei deputati, nazioni negli statisti, e nessuno ci riesce. Troppe sono le voci, troppe le critiche illogiche e sconsiderate, malevole, sparse ovunque a piene mani. Peggio nel caso dei giornali. Qualsiasi vecchio, retrivo riccone che possieda quella predace mentalità che va sotto il nome di genio della finanza può esser padrone di un giornale che fungerà da cibo e bevanda per migliaia di uomini stanchi, frettolosi, troppo presi dal moderno mestiere di vivere, per essere in grado di inghiottire altro che del cibo predigerito. Al prezzo di due soldi, l’elettore si compra politica, pregiudizi e filosofia».

    Sì, Fitzgerald è un debole pensatore e teorico, capace di informarci, per bocca di Amory e in tema di socialismo, che se lo Stato «fosse proprietario dei mezzi di produzione, avremmo i migliori economisti e i migliori analisti nell’apparato governativo a lavorare per qualcosa, oltre che per se stessi». Oppure che non è «il denaro il solo stimolo per l’uomo affinché dia il meglio di sé, neppure qui in America». E ancora: «sono stufo di un sistema in cui l’uomo più ricco si prende la donna più bella, se la vuole, laddove l’artista privo di rendite ha da vendere il proprio talento a un fabbricante di bottoni. Se anche fossi privo di talento, mi roderebbe dover lavorare anni e anni, condannato o al celibato o a vizi furtivi, per far sì che un figlio di papà possa avere l’automobile».

    Gli capita per la verità di essere più lucido: «[...] io asserisco semplicemente di essere il prodotto di una mente versatile in una generazione irrequieta... e ho un sacco di motivi per mettere il mio cervello e la mia penna al servizio dei radicali [...] io e quelli come me siampronti a batterci contro la tradizione. Per cercare, almeno, di sostituire nuove fandonie a vecchie fandonie».

    Non era, il mondo messo sottosopra da queste aggressioni comportamentali, conformista e ipocrita più del nostro. Il conformismo e l’ipocrisia sono dati perenni - con modalità diverse - di tutte le società e di tutte le epoche. Era semplicemente un mondo retto da certi valori. Per contestare i quali i contestatori formulavano l’accusa sempre efficace e spesso micidiale di conformismo, appunto, e di ipocrisia, attribuendosi - magari genericamente e retoricamente - spregiudicatezza e schiettezza. Ma tant’è: c’è un momento per la negazione dei valori, e ce n’è uno per la formulazione di valori nuovi. Gli anni durante i quali si scriveva e leggeva Al di qua del Paradiso, erano essenzialmente di negazione. Una delle prove della validità del libro di Fitzgerald è che se ne coglie perfettamente, dopo tanto tempo, il significato di documento e di testimonianza. Fitzgerald ci fa vedere quel mondo, e ce lo fa vedere proprio com’era: un mondo di incertezze e di crisi, con una impalcatura valoriale traballante sotto i colpi di un assalto fatto ancora tutto di no, di gesti «diversi», «altri» e perciò scandalosi, non rispecchiante un corpo di valori novellamente formulati. È altrettanto vero che l ’assenza di questo corpo è uno dei limiti del romanzo (se così lo vogliamo e possiamo chiamare): e non necessariamente, perché nulla impedisce a un libro tutto di no d’essere una grande opera d’arte o un capolavoro. Il fatto è che Fitzgerald si abbandona semplicisticamente ai no, che sono suoi e dei suoi eroi, le cui sembianze sfumano sempre in qualche modo nelle sue. In altre parole, non li governa. L’intelligenza non sarà mai del resto il suo forte: lo sarà la sensibilità, insieme alla capacità di aderire alle cose sentite e osservate, una sorta di virtù mimetica. Bisogna prendere il libro di Fitzgerald per quello che è (ed è molto): come la registrazione o resa fedele di un rifiuto intellettualmente e culturalmente fragile. Non è di Fitzgerald - di questo Fitzgerald - la dimensione tragica.

    Uno dei giudizi più severi sul libro di Fitzgerald è stato espresso da quel grande critico ch ’era Edmund Wilson, suo intimo amico per tutta la vita e sua (lo dice Fitzgerald stesso) coscienza letteraria. Libro immaturamente immaginato, sosteneva Wilson, sempre sulla soglia del ridicolo, pieno di idee fasulle e di false citazioni letterarie. Altri ne hanno notato la debolezza strutturale, linguistica, emotiva (qualcosa di simile a quella che ho definito mancanza di dimensione tragica), l’eterogeneità dei materiali, la natura spuria, la naiveté su tutti i piani (psicologico, sociologico, antropologico, ecc.), gli scarsi supporti culturali. Nessuno ha potuto però negarne il valore di testimonianza unica e fedele, ancorché parziale e limitata a un ambiente, sugli anni postbellici (Arthur Mizener scriveva che Fitzgerald è riuscito a catturare il colore e il tono di un’epoca, e poneva al suo attivo la freschezza, limpidezza e iridescenza della prosa, il senso incantato della vita). Per tutti questi motivi e a onta dei suoi non lievi difetti Al di qua del Paradiso è un libro seducente, il cui fascino è destinato a durare. Un libro la cui lettura si impone - al di là dei pregi artistici - a chiunque sia curioso dei problemi e dei fermenti del secondo quarto del Novecento e, in ultima analisi, delle nostre radici.

    GIANCARLO BUZZI

    Libro primo. L’egotista romantico

    1. Amory, figlio di Beatrice

    Amory Blaine aveva ereditato da sua madre tutti i propri connotati, tranne quei pochi, fortuiti e sfuggenti, che facevano il suo maggior pregio. Il padre, un uomo inetto e ineloquente, appassionato di Byron e solito a sonnecchiare sull'Enciclopedia Britannica, divenuto ricco a trent'anni in seguito alla morte di due fratelli maggiori, affermati sensali di Borsa a chicago, aveva incontrato Beatrice O'Hara a Bar Harbor, dove si era recato d'impulso non appena si era sentito padrone del mondo. Di conseguenza, Stephen Blaine tramandò alla sua progenie una statura ragguardevole - di quasi uno e ottanta e la tendenza a titubare nei momenti cruciali, caratteristiche salienti di suo figlio Amory, queste. Per molti anni, poi, Stephen aleggerà sullo sfondo delle vicende familiari, figura di scarso spicco, dal viso semicelato dietro serici capelli senza vita, in perpetuo propenso a «prendersi cura» della moglie, molestato in perpetuo dal timore di non riuscire a comprenderla.

    Ma Beatrice Blaine! Ecco una donna! Giovanili istantanee, scattate nella tenuta paterna a Lake Geneva, nel Wisconsin, oppure al Collegio del Sacro Cuore, in Roma - che a quei tempi era riservato alle figlie dei ricchissimi, in vena di stravaganze - mostrano la squisita delicatezza dei suoi lineamenti e un'arte consumata nella semplicità degli abiti. Una brillante educazione ebbe, costei: la sua giovinezza trascorse nello splendore rinascimentale, ben addentro ai pettegolezzi della nobiltà romana, nota, come giovane americana favolosamente ricca, al Cardinal Vittori e alla Regina Margherita nonché a personaggi di più elusiva celebrità, ché bisognava avere una certa cultura per averli soltanto sentiti nominare. In Inghilterra apprese a preferire il whisky al vino; e a Vienna, dove trascorse un inverno, raffinò l'arte della conversazione salottiera. Tutto sommato, Beatrice O'Hara assorbì quella sorta di educazione che non sarà mai più possibile; un'istruzione la cui misura era data dal numero delle cose e delle persone per cui ostentare disprezzo e su cui esercitare fascino; una cultura arricchita da tutte le arti e tutte le tradizioni, sterile per mancanza di idee, sullo scorcio di un'epoca in cui il grande giardiniere potava le rose meno belle per produrre un unico bocciolo perfetto.

    A un certo punto, ritornata in America, Beatrice incontrò Stephen Blaine e lo sposò - soprattutto perché era un tantino stanca, un pochino triste. L'unico figlio, dopo una faticosa gestazione, fu dato alla luce un giorno di primavera del 18.

    A cinque anni, Amory era già un delizioso compagno per lei. Era un ragazzo dai capelli castano-rossicci, dai grandi bellissimi occhi - cui col tempo si sarebbe adeguato tutto il resto - dalla sbrigliata fantasia e un gusto innato per l’eleganza. Fra i quattro e i dieci anni, girò in lungo e in largo assieme alla madre, sull’automobile del nonno, per tutto il paese, da Coronado in California - dove Beatrice si annoiò tanto da sfiorare il collasso nervoso in un albergo di lusso - giù fino a Città del Messico, dove lei si prese una forma leggera di tisi, quasi epidemica. Questo male le piacque, e in seguito ne farà uso, inserendolo nella propria atmosfera - specie dopo aver buttato giù diversi cicchetti.

    Quindi, laddove più o meno fortunati ragazzini ricchi facevano dannare bambinaie sulla spiaggia di Newport, o venivano sculacciati o affidati a pedagoghi o dovevano sorbirsi letture edificanti, Amory invece bistrattava pazienti fattorini al Waldorf-Astoria, si sorbiva - superando naturali ripugnanze - musica da camera e sinfonica e acquisiva, da sua madre, un’educazione altamente specializzata.

    «Amory».

    «Sì, Beatrice». (Non la chiamava «mamma»; e lei gli dava spago.)

    «Caro, non sognare neppure di alzarti a quest’ora. Sono convinta che alzarsi presto la mattina, da piccoli, rende nervosi. Clotilde ti porterà la colazione a letto».

    «D’accordo».

    «Mi sento molto vecchia, oggi, Amory». E sospirava - il viso, un prezioso cammeo di sofferenza; la voce squisitamente modulata; le mani, articolate come quelle di Sarah Bernhardt. «Ho i nervi a fior di pelle, a fior di pelle. Dobbiamo lasciare questo orribile posto, domani stesso, e andare a goderci il sole».

    I penetranti occhi verdi di Amory fissavano sua madre attraverso i capelli arruffati. Persino a quell’età non si faceva illusioni, su di lei.

    «Amory».

    «Oh, sì».

    «Voglio che tu faccia un bagno caldo bollente - quanto più caldo puoi - per rilassarti i nervi. Puoi leggere, se vuoi, nella vasca».

    Gli propinava stralci dalle Fètes Galantes di Verlaine già prima che compisse dieci anni; a undici, lui parlava disinvolto, sia pure a pappagallo, di Brahms e Mozart e Beethoven. Un pomeriggio, lasciato solo in albergo a Hot Springs, assaggiò un cordiale all’ albicocca di sua madre, e, poiché il gusto gli piacque, se ne sbronzò. Per un po’ fu divertente ma quando, nella sua esaltazione, provò a fumare una sigaretta, dovette soccombere a una volgare reazione plebea. Sebbene Beatrice inorridisse, questo episodio la divertì anche, segretamente, e divenne parte di ciò che, una generazione dopo, si sarebbe chiamato il suo «stile».

    «Questo mio figliolo», la udì dire, un giorno, ad alcune amiche sbigottite e ammiranti, «è sofisticato da morire e très charmant ma delicato. Siamo tutti delicati. Qui». E si indicava, con un gesto languido, il bellissimo petto. Poi, abbassando la voce a un sussurro, raccontò loro del cordiale all’albicocca. Quelle se ne dilettarono, poiché Beatrice era una brava raconteuse, ma molte credenze vennero chiuse a chiave, quella sera, a scanso di eventuali marachelle del piccolo Bobby, della piccola Barbara.

    Quei pellegrinaggi su e giù per gli Stati Uniti avvenivano sempre in pompa magna: in auto con chauffeur, con due cameriere al seguito, con mister Blaine quand’era disponibile, e spesso anche un medico curante. Allorché Amory si prese la tosse convulsa, quattro indignati specialisti si guardavano l’un l’altro in cagnesco, intorno al suo lettino; e quando si ammalò di scarlattina, fra medici e infermieri l’assistevano in quattordici. Tuttavia, dato che il sangue non è brodo, lui guarì.

    I Blaine non erano affezionati ad alcuna città. Erano i Blaine di Lake Geneva; avevano parenti in abbondanza, che potevano supplire agli amici; e una solida reputazione da Pesadena a Capo Cod. Ma Beatrice era sempre più incline a prediligere nuovi conoscenti poiché v’erano certe storie - come quella della sua costituzione e successivi emendamenti, come le rimembranze dei suoi anni all’estero - ch’essa doveva ripetere a regolari intervalli. Al pari dei sogni freudiani, andavano sfogate altrimenti avrebbero intaccato il sistema nervoso, lo avrebbero cinto d’assedio. Però Beatrice era critica nei confronti delle donne americane, specie se oriunde dell’Ovest.

    «Parlano inglese con un certo accento, mio caro», disse al figlio una volta. «Non è mica l’accento del Sud né quello di Boston, no, non è un accento regionale, è un accento e basta». Si fece sognante. «Raccattano un vecchio accento londinese in disuso, tarlato, e lo adottano, così, di seconda mano. Parlano come parlerebbe un maggiordomo inglese che avesse trascorso diversi anni a Chicago, nell’ambiente del teatro dell’opera». Divenne pressoché incoerente. «Ecco... arriva il momento nella vita di qualsiasi donna dell’Ovest... che ritiene il marito tanto ricco da potersi, lei, permettere un accento... insomma, cercano di far impressione su di me, mio caro...».

    Non solo pensava al proprio corpo frale come a un ammasso di disturbi, considerava altresì l’anima altrettanto malata e, quindi, importante nella sua vita. Era stata cattolica, un tempo, ma dopo aver scoperto che i preti le prestavano assai più attenzione quand’era sul punto di perdere o ritrovare la fede nella Santa Madre Chiesa, preferì assumere un atteggiamento incantevolmente titubante. Spesso deplorava l’imborghesimento del clero cattolico americano ed era sicurissima che, fosse vissuta all’ombra delle grandi cattedrali europee, il suo spirito sarebbe ancora stato una fiammella sul possente altare di Roma. Tuttavia, assieme ai medici, i preti erano il suo passatempo prediletto.

    «Ah, Eccellenza, non Le voglio parlare di me stessa», dichiarava al Vescovo Wiston. «Me l’immagino, la sfilza di donne isteriche che vengono da Lei, a implorare la Sua comprensione...». Poi, dopo una lunga pausa: «Ma il mio stato d’animo è... è stranamente diverso».

    Non confidava le sue romantiche pene religiose a sacerdoti di rango inferiore a quello di vescovo. Appena rientrata dall’Europa negli Stati Uniti, aveva conosciuto un giovane pagano di Asheville, uno swinburniano, per i cui baci appassionati e per la cui spassionata conversazione lei aveva preso una cotta; ed avevano discusso i pro e i contro della questione con romantico intellettualismo privo affatto di svenevolezze. A un certo punto lei aveva scelto di sposarsi per decoro e il giovane pagano di Asheville aveva attraversato una crisi spirituale, si era votato alla Chiesa Cattolica ed era - adesso - Monsignor Darcy.

    «Le assicuro, signora Blaine, che è tuttora una persona deliziosa. Praticamente, il braccio destro del cardinale».

    «Amory andrà a trovarlo un giorno, lo so», disse la bella dama, «e Monsignor Darcy lo comprenderà come comprese me a suo tempo». Amory, a tredici anni, era alto e snello e più che mai somigliante alla celtica sua madre. Aveva studiato privatamente, in modo sconclusionato, dati i frequenti cambiamenti di residenza. In teoria, ciascun nuovo pedagogo avrebbe dovuto «portar avanti» l’opera del precedente: ma, siccome nessuno di loro riusciva a capire dove Amory «fosse rimasto», la sua mente era ancora in ottima forma. Se avesse continuato così per alcuni altri anni, non si sa come si sarebbe ridotto. Fatto sta che erano salpati da New York da appena quattro ore, lui e sua madre, quando Amory ebbe un attacco di appendicite - forse per aver consumato troppi pasti a letto - e, dopo una serie di frenetici telegrammi in Europa e in America, il transatlantico virò lentamente di bordo e, con sommo stupore dei passeggeri, tornò a New York per depositare Amory sul molo. Ammetterete che, se non era vita, era però una cosa magnifica.

    Dopo l’operazione, Beatrice ebbe un collasso nervoso che somigliava stranamente al delirium tremens; e Amory fu lasciato a Minneapolis, dove avrebbe trascorso i successivi due anni presso gli zii. Qui la rozzezza e la volgarità della civiltà dell’Ovest statunitense lo investono per la prima volta, cogliendolo alla sprovvista - in mutande, per così dire.

    Un Bacio per Amory

    Arricciò il labbro quando lo lesse. Il biglietto diceva:

    Darò una festa giovedì 17 dicembre, alle cinque, e gradirei molto la tua presenza. Si va in slitta.

    Cordialmente,

    Myra Saint Claire

    R.S.V.P.

    Abitava da due mesi a Minneapolis e sua cura principale era tener nascosto ai compagni di scuola come lui si sentisse superiore a tutti loro. Era peraltro una convinzione fondata su sabbie mobili. Si era messo in mostra un giorno a lezione di francese, facendo vergognare il professor Reardon - la cui pronuncia era schifosa - e mandando in visibilio l’intera scolaresca. Il Reardon che aveva trascorso alcune settimane a Parigi, dieci anni fa - poi si era vendicato, rilevando certi errori di grammatica (quando aveva però sott’occhio il libro di testo). Un’altra volta, Amory si era messo in mostra a lezione di storia, ma il risultato era stato disastroso. I compagni - suoi coetanei - avevano seguitato a canzonarlo per un’intera settimana, scimmiottando il suo accento snob e ripetendo, con esagerato birignao, certe sue frasi, come:

    «Secondo me, la Rivoluzione americana fu in gran parte un’impresa della borghesia», oppure:

    «Washington era di ottima famiglia, sì, molto buona, secondo me».

    Amory si ingegnò allora di rimediare commettendo degli errori a bella posta. Due anni addietro, aveva cominciato una Storia degli Stati Uniti che, sebbene si fosse arrestata alle Guerre Coloniali, era stata giudicata «incantevole» da sua madre.

    Era svantaggiato soprattutto in atletica. Ma quando si rese conto che lo sport era la chiave di volta del potere e della popolarità, nel mondo studentesco, cominciò a impegnarsi, con tenacia e furore, al fine di eccellere negli sport invernali. Nonostante il dolore alle caviglie e i ruzzoloni, pattinava sul ghiaccio eroicamente intorno alla pista Lorelei, ogni pomeriggio; e si chiedeva fra quanto tempo sarebbe riuscito a maneggiare una mazza da hockey senza che questa gli intralciasse i pattini.

    Il biglietto d’invito alla festa di Myra Saint Claire trascorse l’intera mattina in una tasca della giacca, in compagnia di un avanzo di biscotto. Nel pomeriggio lo estrasse, con un sospiro, e - dopo averci riflettuto su e aver buttato giù una brutta copia su una pagina bianca della Grammatica latina - compose la seguente risposta:

    Mia cara Myra Saint Claire,

    il gentile invito alla serata di giovedì sera mi è giunto veramente gradito, stamattina. Sarò ben lieto e enchanté di venir a presentare i miei omaggi la sera del prossimo giovedì.

    Ossequi,

    Amory Blaine

    Quel giovedì, dunque, si incamminò pensieroso per gli sdrucciolevoli marciapiedi, donde la neve era stata spalata, e giunse in vista della casa di Myra alle cinque e mezza, con un ritardo che sua madre avrebbe senz’altro approvato. Attese davanti al portone con gli occhi vagamente socchiusi, l’aria indifferente, accingendosi a fare un ingresso minuziosamente programmato. Avrebbe attraversato il salone, senza tanta fretta, e si sarebbe presentato davanti alla madre di Myra per dirle, con voce esattamente modulata: «Cara signora Saint Claire, sono terribilmente dispiaciuto per il ritardo, ma la mia cameriera...». Si interruppe e cambiò versione. «...Ma mio zio e io dovevamo vedere un tale. Sì, ho conosciuto la sua incantevole figliola a scuola di ballo».

    Quindi avrebbe stretto la mano, con un leggero inchino mezzo forestiero, a tutte le fanciulle inamidate e inviato un cenno col capo ai ragazzi, raccolti lì d’intorno, paralizzati in rigidi gruppi per darsi reciproca protezione.

    Un maggiordomo (ce n’erano in tutto tre, a Minneapolis) venne ad aprirgli. Amory entrò e si sbarazzò di cappello e cappotto. Restò leggermente sorpreso non udendo alcun brusio dall’attiguo salone quindi pensò che doveva trattarsi di una festa molto compassata. Gli andava bene, questo - come gli andava bene il maggiordomo.

    «Miss Myra», disse.

    Con suo stupore, il maggiordomo sogghignò orribilmente.

    «Oh, sì, è qui», disse. Non si rendeva conto che un atteggiamento così poco londinese gli nuoceva. Amory lo guardò con freddezza.

    «Ma», soggiunse il maggiordomo, alzando la voce laddove non era necessario, «è l’unica lei che c’è. Tutti gli altri se n’è andati».

    Amory sussultò, inorridito.

    «Cosa cosa?»

    Ossequi, Amory Blaine

    «È rimasta p’aspettare Amory Blaine. Siete voi, neh? La madre ha detto che, se voi arrivavate entro le cinque e mezza, tutt’e due gli andaste dietro con la Packard».

    La disperazione di Amory si cristallizzò quand’egli vide comparire Myra in persona, imbacuccata fino alle orecchie in un giaccone sportivo, il viso visibilmente contrariato, il tono a stento affabile.

    «Salve, Amory».

    «Ciao, Myra». La sua vitalità era semispenta.

    «Be’, sei arrivato, finalmente».

    «Ti spiegherò. C’è stato un incidente. Un incidente d’auto», disse, romanzando.

    Myra sgranò tanto d’occhi.

    «Chi c’è andato di mezzo?»

    «Be’», seguitò Amory, disperatamente, «lo zio e la zia e io».

    «Ci sono stati morti?».

    Amory esitò poi annuì.

    «Tuo zio?» - in allarme.

    «Oh, no. Solo un cavallo. Un cavallo grigio».

    A questo punto il maggiordomo dall’accento irlandese sghignazzò. «E il motore così si sarà spento», suggerì.

    Amory l’avrebbe messo alla tortura senza alcun rimorso.

    «Allora, andiamo», disse Myra, fredda fredda. «Vedi, Amory, le slitte eran state ordinate per le cinque, e tutti erano pronti, quindi non si poteva aspettare...».

    «Non ho tardato per colpa mia».

    «Così, la mamma ha detto a me di aspettarti fino alle cinque e mezza. Raggiungeremo la compagnia prima che arrivi al Minnehaha Club».

    Amory aveva ormai perduto ogni rimasuglio di disinvoltura. Si figurava la felice comitiva procedere scampanellando per le strade innevate, eppoi ecco arrivare la limousine con lui e Myra, che ne scendono - orribile scena - di fronte a sessanta occhi carichi di riprovazione, e lui è costretto a chiedere scusa - sul serio, stavolta. Emise un pesante sospiro.

    «Che c’è?», domandò Myra.

    «Niente. Ho solo sbadigliato. Sicuro che li raggiungiamo prima che arrivano là?». In effetti, accarezzava segretamente la speranza che, invece, potessero infilarsi al Minnehaha Club per conto loro per poi incontrare gli altri all’interno. Allora, davanti al caminetto, con aria blasé, egli avrebbe ritrovato il perduto contegno.

    «Oh, sì, senz’altro li raggiungeremo. Sbrighiamoci».

    Amory avvertì una strizza allo stomaco. Saliti in macchina, si affrettò ad ammantare di diplomazia un piano abborracciato là per là. Si basava su uno scambio di complimenti - un giochino chiamato tradelast, svoltosi alla scuola di ballo - da cui era risultato che lui, Amory, era «tremendamente bello» e aveva «l’aria inglese, più o meno».

    «Myra», disse, abbassando la voce e scegliendo con cura le parole, «ti chiedo mille volte perdono. Potrai mai perdonarmi?».

    Myra lo guardò con gravità: guardò quegli intenti occhi verdi, quella bocca, quel viso che per lei tredicenne era la quintessenza del romanticismo. Sì, poteva perdonarlo senza sforzo.

    «Mah... sì... certo».

    Amory la scrutò di nuovo, quindi abbassò lo sguardo. aveva lunghe ciglia.

    «Sono tremendo, io», disse, tristemente. «Sono diverso. So mica perché faccio faux pas. Sarà perché non me n’importa niente». Poi, a vita persa: «Fumo troppo. Ho il cuore intossicato dal tabacco».

    Myra si figurò una comitiva di debosciati, dediti al vizio del fumo, con Amory che, pallido, vacilla perché ha i polmoni intaccati dalla nicotina, a notte fonda. Ebbe un lieve sussulto.

    «Oh, Amory, smetti di fumare. Nuoce al tuo sviluppo».

    «Non me n’importa», persistette lui, cupo. «Non posso. Ci ho il vizio. Ho fatto un sacco di robe che, se i miei lo sapessero...». Esitò, per darle tempo di figurarsi oscuri orrori. «La settimana scorsa sono stato al variété».

    Myra era sconvolta.

    Lui tornò a volgere su di lei quegli occhi verdi. «Tu sei l’unica ragazza di qui che mi piace molto», esclamò in un empito di sentimento. «Sei simpatica», soggiunse, in italiano.

    Myra non credeva di esserlo ma, sebbene vagamente improprio, era un complimento elegante.

    L’aria imbruniva rapidamente. Ad una brusca svolta della limousine, Myra fu scagliata contro di lui. Le loro mani si sfiorarono.

    «Non dovresti fumare, Amory», ella sussurrò. «Non te ne rendi conto?».

    Lui scosse la testa. «Non glien’importa niente a nessuno».

    Myra esitò. Poi: «A me importa».

    Qualcosa si agitò dentro di Amory. «Oh, altroché se te n’importa! Tu hai una scuffia per Froggy Parker. Lo sanno tutti».

    «No, non è affatto vero», disse lei, lentamente.

    Seguì un silenzio. Amory esultava. C’era un nonsoché di affascinante in Myra, chiusi lì, al riparo dall’aria fredda, buia. Myra, un fagotto di indumenti, con ciocche di capelli d’oro che spuntano di sotto al berretto da pattinatrice.

    «Ché anch’io ci ho una scuffia...». Amory si interruppe: aveva udito, in lontananza, un suono di giovani risa, e, sbirciando attraverso il cristallo appannato la via illuminata dai lampioni, intravide la comitiva

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1