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Maschere nude
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E-book2.777 pagine37 ore

Maschere nude

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Info su questo ebook

A cura di Sergio Campailla
Edizioni integrali

Maschere nude raccoglie il grande percorso teatrale di Pirandello: dall’esordio del 1910, con i due atti unici La morsa e Lumie di Sicilia fino al teatro «dei miti», attraverso quel momento culminante rappresentato, nel 1921, da Sei personaggi in cerca d’autore, in cui il teatro borghese cede il posto a un dramma che si costruisce paradossalmente nella sua stessa impossibilità di costruzione.
Il volume contiene: Sei personaggi in cerca d’autore; Ciascuno a suo modo; Questa sera si recita a soggetto; Enrico IV; Diana e la Tuda; La vita che ti diedi; L’uomo dal fiore in bocca; Il giuoco delle parti; Il piacere dell’onestà; L’imbecille; L’uomo, la bestia e la virtù; Come prima, meglio di prima; Vestire gli ignudi; Come tu mi vuoi; Così è (se vi pare); Tutto per bene; La ragione degli altri; L’innesto; Sogno (ma forse no); L’amica delle mogli; La morsa; La signora Morli, una e due; Pensaci, Giacomino!; Lumie di Sicilia; Il berretto a sonagli; La giara; Cecè; Il dovere del medico; Sagra del Signore della Nave; Ma non è una cosa seria; Bellavita; La patente; L’altro figlio; Liolà; O di uno o di nessuno; Non si sa come; Trovarsi; Quando si è qualcuno; All’uscita; La nuova colonia; Lazzaro; La favola del figlio cambiato; I giganti della montagna.
Luigi Pirandello
nato ad Agrigento nel 1867, si laureò in filologia a Bonn nel 1891. Iniziò la sua carriera letteraria e teatrale quando Capuana lo introdusse nel mondo culturale romano. Dal 1897 al 1922 si dedicò all’insegnamento. Nel 1934 gli fu assegnato il premio Nobel per la letteratura. Morì a Roma nel 1936. La Newton Compton ha pubblicato, oltre a molte opere in volumi singoli, anche le raccolte Novelle per un anno, Tutti i romanzi e I romanzi, le novelle e il teatro.
LinguaItaliano
Data di uscita28 gen 2016
ISBN9788854191914
Maschere nude
Autore

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello (1867-1936) was an Italian playwright, novelist, and poet. Born to a wealthy Sicilian family in the village of Cobh, Pirandello was raised in a household dedicated to the Garibaldian cause of Risorgimento. Educated at home as a child, he wrote his first tragedy at twelve before entering high school in Palermo, where he excelled in his studies and read the poets of nineteenth century Italy. After a tumultuous period at the University of Rome, Pirandello transferred to Bonn, where he immersed himself in the works of the German romantics. He began publishing his poems, plays, novels, and stories in earnest, appearing in some of Italy’s leading literary magazines and having his works staged in Rome. Six Characters in Search of an Author (1921), an experimental absurdist drama, was viciously opposed by an outraged audience on its opening night, but has since been recognized as an essential text of Italian modernist literature. During this time, Pirandello was struggling to care for his wife Antonietta, whose deteriorating mental health forced him to place her in an asylum by 1919. In 1924, Pirandello joined the National Fascist Party, and was soon aided by Mussolini in becoming the owner and director of the Teatro d’Arte di Roma. Although his identity as a Fascist was always tenuous, he never outright abandoned the party. Despite this, he maintained the admiration of readers and critics worldwide, and was awarded the 1934 Nobel Prize for Literature.

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    Anteprima del libro

    Maschere nude - Luigi Pirandello

    555

    Prima edizione ebook: gennaio 2016

    © 1993, 2009, 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9191-4

    www.newtoncompton.com

    Luigi Pirandello

    Maschere nude

    Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo, Questa sera si recita a soggetto, Enrico iv, Diana e la Tuda, La vita che ti diedi, L’uomo dal fiore in bocca, Il giuoco delle parti, Il piacere dell’onestà, L’imbecille, L’uomo, la besta e la virtù, Come prima, meglio di prima, Vestire gli ignudi, Come tu mi vuoi, Così è (se vi pare), Tutto per bene, La ragione degli altri, L’innesto, Sogno (ma forse no), L’amica delle mogli, La morsa, La signora Morli, una e due, Pensaci, Giacomino!, Lumie di Sicilia, Il berretto a sonagli, La giara, Cecè, Il dovere del medico, Sagra del Signore della Nave, Ma non è una cosa seria, Bellavita, La patente, L’altro figlio, Liolà, O di uno o di nessuno, Non si sa come, Trovarsi, Quando si è qualcuno, All’uscita, La nuova colonia, Lazzaro, La favola del figlio cambiato, I giganti della montagna

    A cura di Sergio Campailla

    Edizioni integrali

    Il figlio del Caos

    Nascita:

    «... Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos...».

    Così Pirandello costruisce la sua leggenda personale, il suo mito di scrittore che risponde a un destino. Doveva nascere a Girgenti, ma in quel periodo, anno 1867, mese di giugno, il colera mieteva vittime con una larga falce. La madre, per trovare ricovero agli assalti della malattia, si rifugiò in un casale di proprietà della famiglia, non remoto dalla città, collocato su un altopiano di argille, affacciato sul mare africano, di un aspro azzurro, in prossimità ormai di Porto Empedocle. Il nome: Càvusu, cioè, in dialetto locale, Caos. Anche il bosco appartiene a una geografia reale e insieme simbolica. Il bosco è sacro, luogo di iniziazione, labirinto originale. Luigi Pirandello, dunque, come figlio del Caos, una specie di Neverland metafisico, una carta anagrafica di indefinibile prestigio, che esercita una profonda suggestione nella ricerca di un’identità, impossibile. In altra occasione l’autore rammenta il tempo fatale della nascita: dice di essere caduto come una lucciola nella notte, sotto un gran pino solitario, nella campagna popolata da antichi ulivi saraceni. Racconta di esser nato prematuro, dato che la madre aveva sofferto di uno spavento, prodotto dalla grave epidemia. Prematuro e senza aiuto, perché lo zio, recatosi a cercare il soccorso di una contadina, era tornato troppo tardi. Quell’anno erano morti in tanti a causa del colera, e uno con immunità, a riparazione, invece nasceva. Implicito ma profondo il sentimento della morte in agguato, la precarietà di un risarcimento.

    Il colera, in Italia e in particolare nel Meridione e in Sicilia, era di casa, come la peste. E il suo apparire costeggia la letteratura, e talvolta sembra che la generi. Si intende che i tempi sono malvagi e che quella nascita in controtendenza è, se non un oscuro peccato, almeno un pesante fardello.

    Morte:

    «Mie ultime volontà da rispettare.

    I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiere, non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni.

    II. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso.

    III. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta.

    IV. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui».

    Queste le disposizioni testamentarie per un evento che si verificò nel 1936, due anni dopo il conferimento del premio Nobel, che ne aveva consacrato ufficialmente la statura mondiale. Colpiscono in queste righe l’ascetismo, il rifiuto delle convenzioni, l’accettazione di un ciclo, che si è aperto e che si chiude. Si è aperto e si chiuderà nella campagna siciliana, a Girgenti: con la dispersione delle ceneri, contro la norma cristiana e cattolica dell’inumazione della salma, quindi con un tributo di restituzione integrale al Caos; oppure, se necessario, raccolte in un’urna murata dentro una rozza pietra, alla maniera greca.

    Impressiona l’insistenza sulla nudità, il platonismo dell’anima ormai in versione nichilistica. A ben guardare, all’interno di questa mitologia tra nascita e morte si consuma la parabola di Pirandello, uno scrittore che ha dedicato migliaia e migliaia di pagine per dar voce a una missione di cui si sentiva portatore, una parabola che realizza una sua circolarità pur nella divaricazione dei termini estremi. Altrove, nella Berlino negli anni Trenta, conversando con un perplesso Ejzenštejn, in questa rigenerazione da leggenda dell’artista ha tentato persino la scorciatoia di una filologia fantastica sul suo cognome: Pirandello, ossia, secondo un’etimologia greca di palese forzatura, che però rimane un sintomo interessante, Angelo di fuoco, con riferimento a un’energia purificatrice e distruttrice e, di nuovo, ritorno al Caos.

    Non siamo fuori dell’opera. Siamo invece nella placenta. Si tenga conto che gli altri scrittori siciliani, Capuana, Verga, De Roberto, i predecessori assurti a fama, non dispongono delle risorse di questa leggenda dell’artista, che Pirandello alimenta, pur mantenendosi alieno da ogni spettacolarità alla D’Annunzio, il coetaneo e concorrente diretto. Pirandello non si trova in posizione di capostipite, ma vanta una differenza radicale. Palermo, luogo storico del potere, è stata capitale europea con la Corte di Federico II e con la poesia trobadorica siciliana. Catania diventa miracolosamente capitale letteraria nel secondo Ottocento grazie al drappello verista. Girgenti è lontana da entrambe queste realtà, è isolata da tutto, vive del fasto greco dei suoi straordinari templi dorici e di un carico negativo della contemporaneità, una morsa che la attanaglia.

    Un’indagine psicanalitica, che per difetto ed elusione delle testimonianze sarebbe spericolata, ci fornirebbe informazioni non estrinseche e non retoriche sul rapporto di tutti questi scrittori con la famiglia, e in particolare sulle difficoltà incontrate da ciascuno di essi col padre, nella dipendenza gerarchica. Nel caso di Pirandello possediamo qualche dato più esplicito. Secondo il biografo Gaspare Giudice, il padre di Luigi, Stefano, fu di princìpi antiborbonici e risorgimentali, come del resto il ramo della moglie Ricci Gramitto, un garibaldino sì, ma un garibaldino alla Bixio, quel Bixio che a Bronte entra in chiesa a cavallo e non esita ad abbattere la giumenta che gli nitrisce sotto gli sproni. Più o meno, è quello stesso personaggio che osa sparare contro la campana molesta, in polemica contro la propaganda dei preti nella novella La Madonnina. Sempre secondo Giudice, per il suo lavoro nella gestione della zolfara Stefano si scontrò con un mafioso di turno, che lo voleva taglieggiare: un tale Cola Camizzi. Si noti per inciso che nella novella L’altro figlio il bestiale capo brigante che terrorizza le campagne in Sicilia, dopo che Garibaldi ha svuotato le carceri, e che uccide il marito della protagonista, si chiama appunto, per memoria e forse per vendetta, Cola Camizzi. Ma, in questo intrico, rimane il sospetto che l’oscuro dell’altro figlio sia intimamente collegato al dramma, alla favola del Figlio cambiato. Quella dello scrittore, Pirandello e non solo, è una storia ideale da figlio cambiato.

    Ecco la Sicilia di Pirandello: Girgenti bianca e allucinata sulla collina, i templi in fila sul crinale, la voragine della zolfara. Un altro mondo, rispetto a quello dei catanesi. Il mare sullo sfondo è quello azzurro degli dèi, ma la zolfara chiama alla Sicilia dell’interno, al dramma della condizione dei minatori, all’inferno di una nuova fase storica, quella industriale, e sia pure di un’industria quanto mai povera, e delle prime rivendicazioni operaie. Verga si è affacciato sul burrone della cava una volta soltanto e ne è scaturito il capolavoro di Rosso Malpelo. Ma per Pirandello la zolfara è una culla, una scuola di vita, la sorgente del sostentamento economico. Se non coltivasse il suo mito alternativo, Pirandello finirebbe come il genitore, dominato dalla tutela ferrea dei personali interessi economici. Luigi ricava il suo profitto, lo sviluppo concreto del suo futuro, dai proventi della zolfara, ma è abbastanza sensibile per capire che non può che schierarsi dall’altra parte. Se no, non sarebbe lo scrittore che è e che diventa. Ovviamente, è uno scrittore dissociato, in rotta col padre padrone e con se stesso. Si vedano novelle come Il «fumo», Ciàula scopre la luna e naturalmente la rappresentazione di questa problematica storica nel romanzo I vecchi e i giovani. La zolfara da questo momento acquista nobiltà letteraria, è l’Università in cui, su quella scia, si formano numerosi scrittori siciliani del Novecento.

    Proprio l’Università introduce un’altra differenza nel caso Pirandello. All’inizio, l’evasione si rende praticabile attraverso lo studio. Il giovane si iscrive prima all’Università di Palermo, poi decide di lasciare l’isola, passa a quella di Roma; quindi, dopo un contrasto con l’autorità accademica, va a studiare a Bonn, dove si laureerà con una tesi di filologia romanza, in lingua tedesca, ma dedicata significativamente ai suoni e agli sviluppi di suoni del dialetto materno di Girgenti.

    L’incontro con il mondo tedesco è decisivo. È una tappa fondamentale del processo di conoscenza di se stesso. Una fuga, primo tempo di un viaggio che ha, sull’altra corsia, il ritorno. Pirandello fuggirà continuamente, ma tornerà sempre, con il corpo e soprattutto nello spirito. Il mondo tedesco è l’altro da sé, il Nord, il mito del Nord. Una pattuglia di scrittori siciliani si è mostrata sensibile a questo fascino. De Roberto lo ha teorizzato nel dramma della sua controfigura nell’Ermanno Raeli, anticipando il dualismo tra linea paterna e linea materna del principe di Salina nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Ma si pensi almeno a un autore come Rosso di San Secondo, cresciuto sotto l’ala di Pirandello, e a Borgese.

    La Germania e la sua cultura accreditano un bisogno d’ordine nel magma del furore isolano, nello stesso tempo contribuiscono a un allargamento degli orizzonti, mettono a contatto con la filosofia tedesca ma anche con le correnti dell’irrazionalismo e dell’avanguardia sullo scorcio del secolo: mentre in Italia vige il classicismo umanistico a egemonia cattolica. Prima di partire alla volta di Bonn esplora a Girgenti, su incarico del suo professore dell’Università romana, il filologo Ernesto Monaci, la biblioteca Lucchesi-Palli, alla ricerca di antichi manoscritti. Il resoconto che di quel tentativo fa, in una lettera al Monaci del 1899, ha punte esilaranti: i manoscritti per la verità ci sono, di qualche interesse, ma conservati in una maniera pietosa. Al suo primo ingresso in biblioteca incontra, seduti a un tavolo polveroso, cinque preti della vicina cattedrale e tre carabinieri dell’attigua caserma, tutti intenti non a compulsare volumi ma a «divorare un’insalata di cocomeri e pomidori». Il bibliotecario è uno di questa compagnia, per il quale il giovane studioso è «una bestia rara e insieme molesta». Infatti quei libri nel loro lungo sonno non conoscono di solito altri visitatori che i topi e gli scarafaggi... Si ricordi che la morte e resurrezione di Mattia Pascal avvengono analogamente in biblioteca, tra libri e topi.

    È in gioco il rapporto con la propria cultura, gloriosa ma decaduta. Un passaggio su cui non si rifletterà mai abbastanza. Verga è arrivato sino a Milano, Capuana e De Roberto hanno preferito stazionare a Roma, Pirandello si spinge da battistrada sino a Bonn. Studente e innamorato, percepisce il suo disagio esistenziale. Per un certo periodo un modello di identificazione diventa il coltissimo Goethe, con le sue tempeste giovanili e con la visione universalistica della maturità. Goethe è sceso al Sud, si è esaltato della Sicilia e l’ha giudicata «la chiave di tutto»; ha concepito nel suo lungo viaggio italiano le Elegie romane. Pirandello prontamente le traduce in tedesco e, per perfezionare il parallelismo, concepisce a sua volta le Elegie renane. Un confronto audace, che ai suoi predecessori non sarebbe mai venuto in testa.

    La frequentazione e la laurea a Bonn con una tesi scritta in lingua tedesca attestano già da sole la dimensione intellettuale e colta, superiore allo standard, conseguita da Pirandello. Non si dimentichi che, rientrato in Italia, dopo la tragedia dell’allagamento della zolfara, troverà i mezzi di sopravvivenza nell’insegnamento universitario; sicuramente un vestito che gli sta stretto, ma senza questa piattaforma e questo bagaglio sarebbe impensabile la stesura del trattato sull’Umorismo e la sperimentazione della sua opera, in specie degli ultimi romanzi e del suo teatro.

    Quale opera debba nascere, all’inizio e per molto tempo, nemmeno l’interessato avrebbe potuto pronosticarlo. Parte da lontano, dal retroterra della versificazione poetica, quella più nobilitata dalla tradizione del canone letterario italiano e quella più vicina all’urgenza sentimentale dell’autobiografia. Ed esordisce con due raccolte di versi, Mal giocondo e Pasqua di Gea, che rivelano non un talento poetico, che anzi è francamente scarso, ma una miscela di sentimenti e di idee, una situazione di conflitto, un bisogno tormentoso di venir fuori da un bozzolo. Che è ancora una condizione generica da piccolo intellettuale di provincia.

    Invece lo scrittore prende davvero il volo, sviluppa il culto della ricerca nel laboratorio alchimistico, ritrova il percorso a lui congeniale, per concorso sfavorevole ma scatenante dei fatti biografici e storici, per quello che alla fine, pur analizzabile nelle componenti genetiche, rimane pur sempre un miracolo. Pirandello, superata l’impasse, dà vita a una produzione letteraria sterminata, un labirinto dell’invenzione creativa, senza limitazione dei generi istituzionali: nel romanzo, nella novellistica, nel teatro.

    Un fiume in piena scorre tra argini cedevoli, un demone detta le parole per un’ispirazione che non dà tregua, ai limiti della coazione. La vita diventa una rincorsa della scrittura, che la rappresenta, la decifra, la sostituisce. Il dramma pirandelliano è in prima istanza questa oscura ossessione, per cui o si viveo si racconta la vita, in un racconto tendenzialmente infinitesimale, che lascia tuttavia teso e depresso. Si aggiunga all’opera letteraria, di proporzioni quanto mai ampie, il complemento del ricchissimo epistolario, che ha un compito più immediato di rispecchiamento della cronaca e quasi provvede alla saldatura dei vuoti residui.

    È chiaro che i modelli e la concorrenza hanno importanza. Ma in questo senso i maestri veristi, ormai fuori stagione, sono un riferimento orgoglioso, da cui prendere distanza per rivendicare una genealogia ma anche un’originalità. Si veda in questo senso il discorso tenuto nel 1920 al Teatro Bellini di Catania in occasione dell’ottantesimo compleanno di Verga, poi replicato con varianti alla Reale Accademia d’Italia nel 1931. È qui che Pirandello, nella circostanza ufficiale, cerca una collocazione storico-letteraria e disegna il tracciato di due linee fondamentali, due famiglie spirituali: da una parte gli scrittori che puntano a uno stile di cose, dall’altra quelli che aderiscono invece a uno stile di parole. La distinzione è approssimativa, e non senza equivoci, ma funzionale. Nel primo campo ci sono gli autori sodali e corregionali che ormai conosciamo, nell’altro, al di là dei falsi schermi, uno soprattutto, nella contemporaneità: Gabriele D’Annunzio, il letterato della competizione in atto, lo scrittore di successo irresistibile, nell’arte e nella società. È lui il bersaglio diretto della polemica pirandelliana, il vincente rispetto a cui è difficilissimo acquisire e conservare una postazione. Diverso il caso di Benedetto Croce, non meno prestigioso e ingombrante con il suo idealismo classicistico, teorico di un sistema che cade a pezzi ma che non lascia spazi, architetto di un canone con inclusioni ed esclusioni che vorrebbero essere definitive.

    Pirandello tiene in fastidio le scuole, tutte quante, e affronta la sua avventura da irriducibile solitario, con l’esperienza di chi si è formato nella sperduta Girgenti ma si è guadagnato la strada per Bonn. Ha la sua vocazione artistica, che è l’ultima eredità religiosa di una fede altrimenti perduta. Ha desiderio di novità e un paese alle spalle, da cui è fuggito, ma che letterariamente scopre essere una risorsa preziosa, una miniera con vene inesauribili.

    Nel romanzo, incoraggiato dal generoso Capuana, esordisce con L’esclusa, che stenta a pubblicare, ma che gli trasmette la certezza di un salto di qualità rispetto al velleitarismo delle adolescenziali e giovanili prove poetiche, che lo mette in corsa in un territorio aperto e avvincente. In fin dei conti, mentre la lirica è illustre e laureata, permane la nebulosa del grande romanzo che, con l’eccezione unica dei Promessi Sposi, ancora manca alla prosa della nuova Italia. Dopo l’intermezzo del Turno, nel progetto romanzesco, ormai nella dimensione e nella temperatura fredda e calda dell’umorismo, è con Il fu Mattia Pascal che l’autore realizza l’opera in grado di fare la differenza. Il personaggio Pascal, marito infelice e suicida virtuale, parte dalla domestica Miragno e arriva all’altro mondo, con un viaggio di andata e ritorno. C’è un prima e un dopo, ma niente sarà più come prima. È una trovata geniale, che solleverà un ampio dibattito pubblico e darà una proporzionata notorietà al suo autore.

    Il problema di fondo è il rapporto con il passato, con la Sicilia, con se stessi. Pirandello se la prende con la sua eredità di pregiudizi e credenze decrepite. Una galleria interminabile di novelle, da coprire il calendario di un anno e la vita stessa, secondo la tradizione orientale delle Mille e una notte, mette a fuoco lo spettacolo di un’esistenza irragionevole, sotto un cielo di carta, disabitato dai numi. La novella La sagra del Signore della Nave è una requisitoria contro la superstizione della religione, contro la violenza di un sacro dissacrato. Il romanzo I vecchi e i giovani, in un recupero delle strutture narrative ottocentesche, fa un bilancio ambizioso delle attese e dei risultati di un Risorgimento tradito, di una Sicilia arcaica e feudale, di una Roma inetta e corrotta.

    Custode di una famiglia che, secondo la definizione di Giovanni Macchia, è una stanza della tortura, Pirandello diventa un esploratore degli abissi della personalità, raccogliendo ed esaltando una sua attitudine segreta. Senza gli strumenti di Freud, in anni che pur lo avrebbero permesso, realizza con i mezzi della letteratura e della lingua un’inchiesta prodigiosa sul tema dell’identità.

    Con Il fu Mattia Pascal ha visitato l’altro mondo, alla frontiera ha consultato gli spiriti, guarda a questo «mondaccio» con scetticismo e con un cannocchiale rovesciato che lo rimpicciolisce. Nella novella Lontano ha sperimentato non la condizione dell’isolano che va al Nord, ma dell’uomo del Nord, in questo caso un norvegese, che approda e prova a trattenersi in Sicilia, ma non vi resiste, perché la sente estranea. È una controprova utile per una prospettiva del distacco, del lontano da dove. Nel 1932 il critico Emilio Cecchi medita l’idea di ricavare un film dalla trama di questa novella e commette l’imprudenza di desumere dall’argomento una valutazione negativa della cultura meridionale e siciliana. Pirandello replica risentito: «Tutt’altro! Non era, né poteva essere nelle mie intenzioni, di rappresentar barbara o di civiltà inferiore la Sicilia. Altra vita, altro sangue, altra natura, altri costumi, altri bisogni, altra sensibilità, altri sentimenti. È tutto qui».

    Avevate capito male. Come dirà più tardi il principe di Salina al funzionario piemontese Chevalley, i siciliani sono in sonno, per colpa del sole e per ragioni storiche, ma rappresentano il sale della terra. Comunque, solo lui ha il diritto di criticarli, con una critica che è una forma rovesciata di adesione viscerale.

    Ma Pirandello ci mette una nota impossibile all’aristocratico Tomasi di Lampedusa: come viene fuori anche dal brano citato, la passione per l’altro, per l’identità e dunque per l’alterità. Per l’altro, per l’alienato, per l’alienato sino a divenire alieno, per lo straniero a questa terra; di cui il prototipo è Mattia Pascal, il filosofo matto di filosofia, il morto redivivo.

    Il diverso e il suo segreto, attraverso il meccanismo del rovesciamento, una delle leve predilette. Le ragioni degli altri, così difficili da ascoltare, murati come siamo nella cella delle nostre fragili convinzioni. Una galleria di personaggi diversi è illustrata dalla lente pirandelliana: Ciàula il mentecatto nella novella che ne porta il nome, Chiarchiaro lo iettatore nella Patente, l’ebreo in Un Goj, il pazzo: il pazzo vero, il pazzo a intermittenza, il pazzo creduto o anche simulato.

    Girgenti e dintorni, dintorni che si dilatano senza confini, è una vasta clinica, dove i personaggi, protagonisti o comparse, sceneggiano una rappresentazione assurda dell’esistenza. Lo scrittore si accorge che la sua sfortuna maggiore è la sua fortuna inquietante, che la moglie, Maria Antonietta Portulano, un’altra lucciola caduta nella campagna girgentana, è la sua Musa angosciosa, la statua vivente, la Medusa inguardabile, che lo opprime e da cui pur impara cose proibite. Non è un infortunio e basta. Pirandello non è Scott Fitzgerald davanti alla schizofrenica moglie Zelda. Qui non ci sono trasgressioni, sprechi, mondanità. Tutto invece è cupo e disperato.

    Per sua natura riservato, si accanisce a pubblicizzare questa malattia, che è una vergogna. Con Ugo Ojetti nel 1914 si confessa: «La pazzia di mia moglie sono io». È lecito affermare che buona parte della sua opera, da un certo momento in avanti, è la conclamazione di un’ingiustizia, e forse di una nemesi, che lo ha toccato, di una sorta di morbo che minaccia la sua salute individuale ma anche quella collettiva, che spalanca la verità sulla debolezza delle fondamenta dell’edificio sociale.

    Il teatro, sbocco naturale dell’ispirazione drammatica pirandelliana, nella matrice dialettale e nella rielaborazione colta e sofisticata, è questa piazza pubblica, un palcoscenico reale ma soprattutto simbolico, in cui l’autore esasperato porta il suo problema alla discussione, con una richiesta ossessiva, per un confronto inesausto delle parti, per una resa dei conti.

    La rivoluzione dei Sei personaggi in cerca d’autore nel 1921 e del successivo teatro nel teatro, canalizza quest’energia entro un nuovo alveo, identificando a livello internazionale un marchio d’autore, e quasi un brevetto. Cambia, nell’Italia e nell’Europa uscite dal disastro di una guerra mondiale, la relazione consensuale tra l’autore, i personaggi e il pubblico; lo scrittore rilancia, a partire dalla memoria degli archetipi della tragedia greca e dalla fonte calda del coro di Sofocle e di Euripide, di cui si sente erede, la sua scommessa costruttiva e distruttiva. Ormai anziano, lui che si è sentito sempre vecchio, come se quella nascita in tempo di colera lo avesse intaccato, riprova tutti i percorsi del labirinto, in una nuova stagione creativa.

    Trova il coraggio anche di sostituire la sua Musa: alla moglie l’attrice Marta Abba, l’allieva che si anima sulla scena, che incarna le sue aspirazioni di Pigmalione, che rinfocola le istanze del desiderio e del rimorso. La sua opera diventa un’infinita logomachia, la palestra dove un ragionatore lucidissimo, dotato di maschere e in tenzone con sosia e cloni, demistifica ogni base razionale, sino al delirio, al crollo degli specchi, alla scissione della personalità. Lo smascheramento della forma si riproduce in nuove forme. Nuovo Gorgia, Pirandello si prolunga nel pirandellismo, il rischio e il vizio annidati nella sua struttura mentale.

    Dopo Il fu Mattia Pascal, dopo i Sei personaggi in cerca d’autore, nelle tappe dell’inchiesta di un grande inquisitore, dopo il reality show dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, è il romanzo antiromanzo di Uno, nessuno e centomila il libro che chiude una tormentatissima vicenda, in un esemplare epilogo negativo. Che lascia sbalordito lo stesso autore, come dimostra il sussulto surreale del teatro del mito nella Nuova colonia, in Lazzaro e nei Giganti della montagna.

    Pirandello ottiene gli allori del premio Nobel quando ormai è un viaggiatore senza valigia e senza illusioni. Li ottiene in pieno fascismo, un regime a cui ha dato la sua plateale adesione, addirittura dopo il delitto Matteotti, lui che ha una produzione artistica che più antifascista non si potrebbe immaginare. E non c’è bisogno della novella C’è qualcuno che ride per trovare il segno scoperto di questa contestazione.

    Nella cultura italiana assurge a un ruolo di icona, parallelo a Svevo, nel superamento di una soglia. E certo non sarà l’Alfieri a contendergli lo spazio del teatro, che peraltro va restringendosi per tutti. Ma l’avanguardia di questo autore acquista una valenza europea e internazionale, accanto ad autori come Proust, Joyce, Kafka, Musil, Pessoa, gli interpreti dello statuto della crisi nella modernità. Chi da noi con la sua intensità si è interrogato, in maniera sostanziale e formale, sui nodi e sui fantasmi della contemporaneità quali il suicidio, la follia, le finzioni della rappresentazione sociale, la dissoluzione della personalità? La parabola di questo figlio del Caos, di questo angelo e demone col suo messaggio nichilistico, nel confluire di elementi originari e ultra-intellettuali, nell’assunzione continua di maschere, mi pare che possa sostenerne un’ultima, che appartiene alla civiltà postmoderna.

    SERGIO CAMPAILLA

    Luigi Pirandello, la vita e l’opera

    Luigi Pirandello nasce il 28 giugno 1867, nei pressi di Girgenti (Agrigento), nella tenuta paterna denominata Caos. Il padre Stefano appartiene a una ricca famiglia di commercianti di zolfo, la madre Caterina Ricci-Gramitto a una famiglia della borghesia girgentana. In entrambi i rami, intensa è la memoria antiborbonica e risorgimentale.

    Riceve l’istruzione elementare in casa e qui ascolta affascinato le favole e le leggende che gli racconta la vecchia serva Maria Stella. A soli dodici anni scrive la prima tragedia, andata perduta. Il padre vuole che si iscriva alle scuole tecniche ma poi Luigi, attratto dagli studi umanistici, ottiene di frequentare il ginnasio.

    Nel 1880 la famiglia si trasferisce a Palermo; qui Luigi compie gli studi liceali, compone le prime poesie e s’innamora della cugina Lina. Mentre il rapporto con il padre va logorandosi, la famiglia di Lina per avallare le nozze pretende che Luigi lasci gli studi e si dedichi al commercio dello zolfo. Per questo motivo nel 1886, durante le vacanze, Luigi segue il padre nelle zolfare. Il matrimonio tuttavia viene rimandato e Pirandello può iscriversi all’università di Palermo, alle Facoltà di Legge e di Lettere. L’ateneo palermitano vede in quegli anni il sorgere del movimento che sfocerà nei Fasci siciliani; Pirandello non vi partecipa attivamente ma è in rapporti di amicizia con alcuni dei futuri dirigenti.

    Nel 1887 sceglie definitivamente la Facoltà di Lettere e per continuare gli studi si trasferisce a Roma. La decadenza degli ideali risorgimentali che sperimenta in questa città gli detta i versi amari della prima raccolta di poesie, Mal giocondo (1889). Per un contrasto con un professore di latino, è costretto a lasciare l’università di Roma e si reca a Bonn, dove rimarrà due anni (1889-1891), di fervida vita culturale. Nel marzo del 1891 si laurea in Filologia romanza con una tesi sul dialetto di Girgenti: Suoni e sviluppi di suono della parlata di Girgenti.

    Nella primavera del 1891 torna in Italia e a Milano pubblica il poemetto Pasqua di Gea, dedicato a Jenny Schulz-Lander, una ragazza tedesca con la quale a Bonn ha intrecciato una relazione.

    Dopo un breve soggiorno in Sicilia, durante il quale il matrimonio con la cugina già seriamente compromesso va a monte, ritorna a Roma, dove stringe amicizia con un folto gruppo di scrittori e giornalisti. Fondamentale l’incontro con Luigi Capuana, che lo spinge a dedicarsi alla narrativa. Scrive nel 1893 Marta Ajala, che pubblicherà nel 1901 con il titolo L’esclusa. Nello stesso anno detta all’amico Pio Spezi un Frammento d’autobiografia che sarà poi pubblicato nel 1933. Nel 1894 pubblica la prima raccolta di novelle, Amori senza amore. Il 1894 è anche l’anno del matrimonio: sposa una ragazza timida e chiusa, di buona famiglia girgentana, Maria Antonietta Portulano. Sin dall’inizio la donna mostra di non comprendere la vocazione artistica del marito, ma i primi anni di convivenza sono comunque abbastanza sereni: nel 1895 nasce Stefano, nel 1897 Lietta, nel 1899 Fausto. Pirandello intensifica intanto la collaborazione a giornali e a riviste, come «La Critica» e la « Tavola rotonda» su cui pubblica nel 1895 la prima parte dei Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me. Nel 1897 accetta l’incarico di insegnante di lingua italiana all’Istituto Superiore di Magistero di Roma, e sul «Marzocco», con cui ha iniziato a collaborare nel 1896, pubblica qualche altra pagina dei Dialoghi. Nel 1898 con Italo Carlo Falbo e Ugo Fleres fonda il settimanale «Ariel» su cui pubblica l’atto unico L’epilogo (poi intitolato La morsa) e alcune novelle (La scelta, Se...). Nel 1900 pubblica sul «Marzocco» alcune delle novelle più celebri (Lumie di Sicilia, La paura del sonno), nel 1901 la raccolta di poesie Zampogna e a puntate sulla «Tribuna», il romanzo L’esclusa. Nel 1902 raccoglie in volume alcune novelle già apparse in riviste e giornali: esce la prima serie di Beffe della morte e della vita (la seconda serie uscirà nel 1903) e Quando ero matto... Sempre nel 1902 è pubblicato il secondo romanzo, Il turno.

    Nel 1903, alla notizia dell’allagamento della miniera di Aragona, nella quale il padre Stefano ha investito anche la dote di Maria Antonietta, questa rimane semiparalizzata e il suo equilibrio ne rimarrà profondamente e irrimediabilmente alterato. Pirandello, per quanto scosso, si preoccupa di porre riparo alla difficile situazione: impartisce lezioni d’italiano e di tedesco e chiede alle riviste alle quali prima ha ceduto gratuitamente i suoi scritti il compenso per la propria collaborazione. Sulla «Nuova Antologia» diretta da G. Cena appare nel 1904 a puntate il romanzo che Pirandello va scrivendo nottetempo, mentre veglia la moglie malata, dopo una giornata di lavoro: Il fu Mattia Pascal. Da subito un grande successo, è tradotto nel 1905 in tedesco, e apre a Pirandello la strada della notorietà, consentendogli di cambiare casa editrice. Presso Treves nel 1906 escono le novelle della raccolta Erma bifronte. Nel 1908 pubblica un volume di saggi intitolato Arte e scienza e l’importante saggio L’umorismo. Nel 1909 viene pubblicata a puntate la prima parte del romanzo I vecchi e i giovani che ripercorre la storia del fallimento e della repressione dei Fasci siciliani. Sempre nel 1909, inizia la collaborazione con un giornale prestigioso come il «Corriere della Sera» (vi scriverà fino all’8 dicembre 1936), su cui pubblica le novelle Mondo di carta, La giara e, nel 1910, Non è una cosa seria e Pensaci, Giacomino!. Lo scrittore è ormai famoso, ma la sua vita privata è avvelenata dai sospetti di Antonietta che, guarita dalla paresi, lo ossessiona con la sua gelosia.

    Nel 1910 Pirandello, che a causa di dilazioni e promesse non mantenute di attori e capocomici circa la rappresentazione dell’atto unico L’epilogo (scritto nel 1892 e pubblicato nel 1898) ha allentato i suoi rapporti con il mondo del teatro, si lascia convincere da Nino Martoglio, attore e regista suo conterraneo, a trarre un atto unico dalla novella Lumie di Sicilia che lo stesso Martoglio recita per il Teatro minimo insieme con il «disgraziato» L’epilogo, diventato ora La morsa.

    Nel 1911, mentre continua la pubblicazione di novelle (La patente, La tragedia di un personaggio), esce il quarto romanzo, Suo marito, ripubblicato postumo nel 1941, completamente rivisto nei primi quattro capitoli, con il titolo Giustino Roncella nato Boggiòlo. L’autore durante la sua vita non ripubblicherà questo romanzo per motivi di riservatezza: nell’opera, infatti, c’è un implicito riferimento alla scrittrice Grazia Deledda. Nel 1912 stampa il suo ultimo volume di versi Fuori di chiave. Il lavoro che in questi anni lo assorbe maggiormente è quello di prosatore: tra il ’13 e il ’14 sono pubblicate, tra le altre, le novelle La vendetta del cane, Quando s’è capito il giuoco, Il treno ha fischiato, Filo d’aria, Berecche e la guerra.

    Nel 1915 escono le raccolte di novelle La trappola e Erba del nostro orto. Sempre nel ’15 sulla «Nuova Antologia» è pubblicato a puntate il romanzo Si gira..., poi ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore.

    Nel 1916 l’attore Angelo Musco recita con successo la commedia in tre atti che lo scrittore ha ricavato dalla novella Pensaci, Giacomino! (nel testo siciliano) e la commedia «campestre» Liolà («l’opera mia più fresca e viva») pure in siciliano. Nel 1917 esce la raccolta di novelle E domani lunedì, ma l’anno è contrassegnato soprattutto da importanti rappresentazioni teatrali: Così è (se vi pare), ’A birritta cu’ i ciancianeddi e Il piacere dell’onestà. Il lavoro teatrale, pur non soffocando del tutto la produzione di novelle (nel 1918 è pubblicata la raccolta Un cavallo nella luna), assorbe sempre di più lo scrittore: sono messe in scena nel ’18 le commedie Ma non è una cosa seria e Il giuoco delle parti.

    Nel 1919 Maria Antonietta viene fatta internare in una clinica sulla via Nomentana: non ne uscirà più.

    Il 1920 è l’anno di commedie come Tutto per bene; Come prima, meglio di prima; La signora Morli, una e due. Sempre in questo anno l’autore abbandona la casa Treves e affida all’editore Bemporad la pubblicazione delle sue opere. Nel 1921 la Compagnia di Dario Niccodemi mette in scena al Valle di Roma Sei personaggi in cerca d’autore. È un insuccesso clamoroso: l’autore che è presente alla rappresentazione deve imboccare un’uscita laterale per fuggire le grida e l’ira della folla ostile. Lo stesso dramma, però, a Milano ottiene un grandissimo consenso. Nel ’22 sempre a Milano viene rappresentato l’Enrico IV interpretato da Ruggero Ruggeri: è un trionfale successo. Ormai la fama dello scrittore varca i confini dell’Italia: i Sei personaggi sono rappresentati in lingua inglese a Londra e a New York. Ma le rappresentazioni continuano anche in Italia: a Roma si mette in scena Vestire gli ignudi. Sempre nel ’22 Pirandello lascia l’insegnamento. Nel ’23 trae dalla novella La morte addosso l’atto unico L’uomo dal fiore in bocca, che è messo in scena da Anton Giulio Bragaglia. Dopo una strepitosa prima a Parigi, il «dramma da fare» è rappresentato nelle maggiori città d’Europa.

    Nel 1924 viene rappresentato il secondo dei «drammi da fare», Ciascuno a suo modo, che ripropone la storia della donna fatale, presente nel romanzo Si gira... Nel ’25 Pirandello ha l’occasione di compiere un’esperienza diretta del mondo teatrale, assumendo la direzione artistica del Teatro d’Arte di Roma, fondato dal Gruppo degli Undici, tra cui figurano O. Vergani, M. Bontempelli e il figlio dello scrittore Stefano. La prima attrice della compagnia è la giovane Marta Abba, che sarà amata da Pirandello, divenendo la sua ispiratrice. Le tournées toccano le più importanti città d’Europa rendendo sempre più noto il repertorio pirandelliano. Tra il ’25 e il ’26 esce a puntate sulla «Fiera letteraria» l’ultimo romanzo Uno, nessuno e centomila, che è stato a lungo sulla scrivania dello scrittore. Per la musa vivente Marta Abba lo scrittore compone: Diana e la Tuda (1926), L’amica delle mogli (1927), Come tu mi vuoi (1929) e infine Trovarsi (1932).

    La Compagnia del Teatro d’Arte, ritornata in Italia dopo una tournée in Argentina e in Brasile (1927), mette in scena il «mito» in tre atti La nuova colonia (1928), che appariva come dramma scritto da Silvia Roncella nel romanzo Suo marito. Nell’agosto la compagnia si scioglie e Pirandello si reca in «esilio» a Berlino; qui segue con interesse (ma non condivide del tutto) le proposte dei registi espressionisti come Max Reinhardt, Erwin Piscator e Leopold Jessner. Nasce allora, basato sui rapporti tra opera scritta e realtà teatrale, il terzo «dramma da fare» Questa sera si recita a soggetto. Quando la commedia viene rappresentata a Berlino (1930), al terzo atto gli spettatori insorgono trasformando il teatro in una vera e propria bolgia.

    Intanto nel 1929 è nominato Accademico d’Italia (aveva chiesto l’iscrizione al partito fascista nel ’24); sempre nel ’29 è rappresentato il secondo «mito» Lazzaro ed è pubblicato l’atto unico Sogno (ma forse no). In questo anno lo scrittore lascia Bemporad e affida la pubblicazione delle sue opere a Mondadori, suo definitivo editore. Nel 1931 pubblica la novella Soffio e, con il titolo I fantasmi, il primo atto del terzo e ultimo «mito» I giganti della montagna, che rimarrà incompiuto (lo scrittore si fermerà al secondo atto, 1934).

    Nel 1934 scrive il dramma Non si sa come; sotto la sua regia, viene messa in scena al Teatro Argentina di Roma La figlia di Iorio di D’Annunzio. Sempre nel ’34 gli viene conferito il premio Nobel.

    In questi ultimi anni della sua vita Pirandello ritorna al silenzioso spazio della narrativa, scrivendo alcune suggestive novelle: Di sera, un geranio (1934), Il chiodo e Una giornata (1936). Pirandello non ha ancora ultimato il mito-testamento I giganti della montagna, quando la morte lo coglie nella sua casa di via Bosio, a Roma, il 10 dicembre 1936.

    Celebri le sue ultime volontà. Nel 1946, primo decennale della morte, le sue ceneri, raccolte dentro un vaso greco, sono trasferite ad Agrigento.

    Bibliografia essenziale

    Per una bibliografia più completa si rinvia ad A. BARBINA, Bibliografia della critica pirandelliana (1889-1961), in «Pubblicazioni dell’Istituto di studi pirandelliani», Firenze, Le Monnier, 1967, e per il successivo decennio (1962-1971) alla rassegna di G. MARCHI, Dieci anni di critica pirandelliana, in «Quaderni dell’Istituto di studi pirandelliani», n. 1, Roma, Carocci, 1973.

    Si rimanda inoltre alla bibliografia di C. DONATI, Bibliografia della critica pirandelliana (1962-1981), Firenze, Editrice la Ginestra, 1986 e alle più recenti: Bibliografia pirandelliana. Atti di Convegni e articoli di riviste sull’opera e la figura di Luigi Pirandello (1937-1995), a cura di L. TARDINO, Agrigento, Biblioteca-Museo Luigi Pirandello, 1996, e Bibliografia pirandelliana, 1936-1996: 60 anni di studi critici in atti di convegni, cataloghi di mostre e raccolte di saggi dedicati al drammaturgo agrigentino, a cura di C. A. IACONO, Palermo, Regione Sicilia, 2000.

    In ultimo si veda la rassegna di C. DI LIETO, Rassegna di studi pirandelliani (2000-2004), in «Riscontri», 2004, n. 4, pp. 74-85.

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    Maschere nude

    Introduzione

    Leggendo le pagine dei romanzi e delle novelle non è difficile intuire la voca­zione drammatica di Pirandello: si percepisce un dinamismo, una concretezza fuori dell’ordinario. Come se i nervi fossero scoperti, il personaggio freme, si esaspera, contrasta. Il dialogo dà subito scintille, la pagina reclama l’oralità, la recitazione. Alla fine dell’Ottocento il teatro celebra il suo passaggio epocale, è lo spazio per eccellenzq della comunicazione e dell’ incontro sociale. Autori co­me Strindberg, Ibsen, Cechov, danno il brivido della novità e della scoperta, di­vengono i portavoce di culture remote. In Italia i veristi corrono l’avventura del palcoscenico: Verga, Capuana, De Roberto tentano la conversione, senza riu­scire a superare una resistenza interiore. Anche nel caso fortunato di Cavalleria rusticana e della Lupa, il testo letterario conserva una priorità e una supremazia artistica. In questo contesto e su quest’onda lunga, Pirandello, pur con partenza da lontano e attraverso un itinerario faticoso, si rivela V uomo giusto al posto giusto al momento giusto, raccogliendo un successo strepitoso, sul piano inter­nazionale, senza precedenti e senza successori.

    La sua vocazione drammatica si riconosce e si potenzia, a un certo punto, co­me vocazione drammaturgica. E il sangue che gli viene dalla sua terra sembra reclamare questo sbocco. È la stagione d’oro del teatro di strada in Sicilia, at­tori come Angelo Musco e Giovanni Grasso riscuotono consenso dal popolo di cui sono figli, Nino Martoglio rinnova nel teatro la spinta propulsiva che in let­teratura era venuta dal carisma di Capuana. Non se ne valuterà mai abba­stanza la suggestione mimetica e solidale. Ma in Sicilia è illustre la tradizione dell’opera dei pupi. E che cos’è Agrigento, e cos’era Girgenti, se non un gran­de teatro all’aperto, dall’acropoli allo stilobate dei templi dorici, relitti ma te­stimoni nobili della tradizione antica e greca?

    Ci sono in tutto questo gli ingredienti di un romanzo familiare e Pirandello li coglie perfettamente con la favola del Caos, la leggenda delle origini, una for­ma, da decifrare, di predestinazione.

    Certo, sulla scena i problemi della lingua sono ancora più forti che nella pa­gina narrativa. Ma se Giovanni Grasso pud portare a Firenze nel 1906 La fi­glia di Iorio in versione siciliana sollevando entusiasmo negli spettatori che lo fraintendono, perché D’Annunzio sì, e i siciliani no, ad esprimere un’identità e un’eredità? L’istinto, l’esempio dei sodali sul campo, il mutare dei tempi e del­la società, premono per sbarazzarsi dei pregiudizi teorici. In realtà Pirandello era attrezzato per il salto, che poi, a ben considerare, presupponeva una con­tinuità sotterranea, una coerenza segreta. L’apprendistato è lungo, ma la base linguistica e filologica è assai più robusta che nei suoi corregionali. Non biso­gna dimenticare che siamo di fronte a un autore che si è laureato a Bonn con una tesi sui suoni e sviluppi di suoni nel dialetto di Girgenti.

    Nel 1917 egli premette un’avvertenza a Liolà, rappresentata al Teatro Argen­tina di Roma dalla Compagnia comica siciliana di Musco, dove rivendica che la parlata girgentana «è incontestabilmente la più pura, la più dolce, la più ricca di suoni, per certe sue particolarità fonetiche, che forse più di ogni altra l’avvicinano alla lingua italiana». Ma siccome gli usi e costumi ritratti non sono come di consueto borghesi, il nodo espressivo e linguistico è più stretto e disagevole da sciogliere. Pirandello dunque si risolve a pubblicare la sua opera con traduzione a fronte, pretto vernacolo da una parte e lingua ita­liana dall’altra, e la seconda è, nel tempo interiore, la traduzione della prima, e non viceversa.

    Liolà, commedia campestre, è un momento felicissimo della produzione piran­delliana: eccezionale per intima sintonia allo spirito di una terra, per la genui­na vena popolare, per la tematica più che implicitamente sessuale e vitalistica, che risente un’eco dalla Mandragola di Machiavelli e contrasta con la tempera­tura depressa e l’ideologia anticorporale cui questo scrittore complessivamente ci ha abituato. Eccezionale infine perché siamo nel 1916-1917, cioè in piena guerra mondiale. Pirandello assaporando la freschezza di questo suo prodotto osservi che il dialetto siciliano ha dignità di lingua, e non solo per l’antichità della sua tradizione letteraria, che risale al Duecento e alla corte di Federico n. La recente pubblicazione di tutto il teatro dialettale pirandelliano in due volumi presso Bompiani, ad opera di Sarah ZappullaMuscarà, chiarisce bene l’impor­tanza di questo sostrato e di questa componente, da valorizzare insieme a ridu­zioni quali ’U Ciclopu dal dramma satiresco di Euripide e Glaucu dalla tragedia di Ercole Luigi Morselli. Con ricaduta promozionale, come si pud apprezzare dalle riprese in napoletano di un Eduardo De Filippo.

    Dell’anno successivo è II berretto a sonagli, anche questo non a caso in doppia gestione, in lingua e in dialetto, una sintesi quanto mai energica del mondo dell’autore a questa data, in cui confluiscono sollecitazioni di ordine diverso. Vi troviamo imperversante il tema della gelosia, nella cornice pae­sana del codice d’onore. Una Beatrice per nulla stilnovistica è disposta a far precipitare in tragedia la sua ossessione amorosa, mentre Ciampa, il marito tradito, assurge a prototipo del personaggio pirandelliano, filosofo senza fi­losofia, ragionatore esasperato e paradossale. Sua è la teoria delle tre cor­de, la seria, la civile, la pazza, che si alternano nel gioco della finzione so­ciale e che costituiscono, dal fondo della provincia, un equivalente approssi­mativo ma efficace della dottrina psicanalitica delle pulsioni. E quella della corda pazza è una metafora centrale per la rappresentazione pirandelliana delle vicende umane. Sua è anche la teoria degli uomini insufflati dallo spi­rito divino e ridotti a pupi, che agiscono dunque per esternazioni meccani­camente. Laddove lo scrittore stesso, come un dio minore, assume il ruolo di puparo e li manovra, quei pupi, nella drammaticità della scena. L’esito è quello esplosivo della follia, vera e simulata. Basta che uno si metta a urla­re in piazza la verità, e il gruppo sociale se ne difende emarginandolo e cri­minalizzandolo come pazzo. Il che significa che il pazzo è colui che si libera, ed è sano; mentre i sani, quelli che reprimono i loro bisogni e accettano l’or­ribile realtà, sono i malati inguaribili. Ribaltamento fondamentale già sof­ferto dal giovane Leopardi negli incunaboli delle Operette in chiave morale, ma che in Pirandello è il presupposto di una visione dell’ alterità, in termini di rivelazione, e come tale suscettibile di sviluppi strutturali. Si intende che lo sfortunata esperienza biografica è un ulteriore accredito a parlare, una scuola fatale, che invoca un risarcimento.

    Su questa strada l’Enrico IV segna lo svolgimento estremo, per sofisticazione della problematica e per identificazione dell’autore. Ciampa infatti offre una recitazione occasionale in un incidente privato, Enrico IV è il tragico definiti­vo, il busto vivente e paralizzato, la maschera eroica del folle-savio. La di­stanza è quella dal giullare col berretto a sonagli all’imperatore. Al di là del costume storico e della ricorrenza del carnevale, i riferimenti espliciti a Bonn e al periodo studentesco nella città tedesca rendono deliberatamente palese, invece che occultare, il filo dell’ autobiografia.

    Numerose tra le opere teatrali di Pirandello sono riduzioni da antecedenti realizzazioni narrative. Lo scrittore utilizza il canovaccio di una novella e ne scopre senza sforzo la natura drammatica. Così succede, per fare solo alcuni esempi, per Lumie di Sicilia, Pensaci, Giacomino!, La patente, L’altro figlio, la Sagra del Signore della Nave. // caso della Giara è particolarmente significa­tivo perché è realizzato un capolavoro, sia nella versione narrativa che in quella teatrale. Nel contempo, si evidenzia un itinerario, dalla poesia dell’e­sordio, al romanzo e alla novella, infine al teatro, come fase culminante ed esi­to di una ricerca incessante, irrorata sempre più da una vena intellettuale.

    La data decisiva è il 1921, l’anno dei Sei personaggi in cerca d’autore che, do­po essere caduti al Teatro Valle di Roma, trionfano al Teatro Manzoni di Milano. Pirandello coglie come mai prima il successo, in quel luogo aggregante che è il palcoscenico, che lo rilancia e lo esporta, in un orizzonte internazionale, tra­sformando un narratore apprezzato, ma anche contestato dall’ establishment del­la critica, in una celebrità mondiale, in un mito della modernità, di cui sarà san­zione ufficiale il premio Nobel, difficilmente ipotizzabile per un grande artista, tuttavia di respiro regionale come Verga, comunque ottocentesco.

    Mentre Pirandello viene riconosciuto come un maestro dell’ avanguardia, nel secolo della caduta delle certezze e della rivoluzione scientifica. I Sei perso­naggi in cerca d’autore cambiano il destino di questo scrittore e ne modificano l’identità. Intanto, viene già nel titolo illuminato il rovesciamento che sta alla base di tutti gli altri: quello che riguarda il rapporto tra lo scrittore e le sue creature. Non è più il primo che va a caccia delle seconde, ma sono queste che vengono a bussare alla sua porta. Ultimo sussulto del copernicanesimo, con finta polemica deprecato da Mattia Pascal. Pirandello, indipendentemente dalla cronologia o da altri criteri tematici, organizzando la sua produzione drammaturgica, pone questopera come prima in assoluto, come chiave d’in­gresso per entrare nella sua personalità e segnale inconfondibile della sua no­vità storica. Tutto il resto, a torto o a ragione, sta dietro o al di là di questa so­glia.

    Nella prefazione indugia a spiegare e a precisare, allo scopo di parare le pro­babili obiezioni. Un’ancella di nome Fantasia si è messa in capo un berretto a sonagli e da molti anni si diverte a portargli uomini e donne e ragazzi coinvolti in strani casi, in sostanza a proporgli una varia materia di ispirazione. Perché di questo si tratta: dell’ispirazione e del mistero della creazione artistica. Pi­randello che appena nel 1920, nel discorso celebrativo per gli ottantanni di Verga aveva distinto all’interno della tradizione letteraria italiana fra uno sti­le di parole e uno stile di cose, dichiara ora che esistono scrittori di natura più propriamente storica e altri di natura più propriamente filosofica. A questo se­condo filone, ovviamente, rivendica la sua appartenenza. Ma si affanna a ri­badire il carattere inconscio, dunque non intenzionale, della sua opera. Insiste invece sulla scoperta e sul miracolo di quanto è scaturito dalla sua men­te e sul fatto che l’apparizione di Madama Pace non è un trucco della regia, ma una necessità interiore e un privilegio dell’opera d’arte la quale, a diffe­renza di tutto ciò che vive sotto il sole, non deperisce e non muore. Il dramma consiste in «un misto di tragico e di comico, di fantastico e di realistico, in una situazione umoristica affatto nuova e quanto mai complessa». È chiaro che queste definizioni possono raggiungere il lettore nel suo silenzio meditativo e non lo spettatore il quale, per forza di cose, ne dovrà fare a meno. Pirandello in sostanza enuncia le linee guida del suo pensiero.

    Protagonista è una famiglia, composta da figure di archetipi, che potrebbero ricordare le astrazioni espressionistiche ma che piuttosto risentono della le­zione, sia pure remota, della

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