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Le donne dell'orchestra rossa
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E-book771 pagine13 ore

Le donne dell'orchestra rossa

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Info su questo ebook

Jennifer Chiaverini ci regala la storia, documentata e coinvolgente, di un gruppo di donne che non volle abbassare la testa, in un’esplorazione intima e allo stesso tempo storicamente solida degli anni che hanno preceduto e attraversato la Seconda guerra mondiale. Publishers WeeklyUna storia di coraggio e libertà. Affascinante e indimenticabile.KirkusI molti fan di Jennifer Chiaverini, e ogni lettore di narrativa storica che ami personaggi femminili forti e determinati, apprezzeranno moltissimo questo romanzo illuminante ambientato a ridosso della Seconda guerra mondiale. Booklist1929.
Mildred Fish, una ragazza del Wisconsin, ha appena sposato Arvid Harnack, un brillante economista tedesco, e si è trasferita in Germania lasciandosi tutto alle spalle, inseguendo il sogno di un roseo futuro. Nella scintillante Berlino degli anni Trenta la coppia ha una vita felice, piena di amore e nuove amicizie, ed entrambi si immergono in appaganti esperienze di lavoro. Ma l’ombra del violento partito capitanato da Hitler, che di anno in anno raccoglie sempre più consensi, si estende minacciosa e irrefrenabile.
Mildred decide di non sottomettersi alla dittatura del Führer. Così crea un gruppo di resistenza con Martha Dodd, la vivace e anticonvenzionale figlia dell’ambasciatore americano, Greta Kuckhoff, un’aspirante sceneggiatrice tedesca, e Sara Weitz, una studentessa di letteratura.
Insieme, le quattro donne accettano di rischiare la loro vita per raccogliere informazioni sensibili da giornalisti, ufficiali militari e funzionari del Partito nazista. Per anni combattono una silenziosa guerriglia clandestina con lo scopo di sabotare il Terzo Reich, cercando di rimanere nell’anonimato e proteggersi a vicenda. Ma quando un segnale radio viene intercettato dai nazisti, il loro gruppo si trova all’improvviso in grande pericolo…
Ispirato a un evento storico realmente avvenuto, Le donne dell’Orchestra Rossa racconta la vita di una donna coraggiosa, determinata a combattere per la libertà e la giustizia.

Dopo L’incantatrice dei numeri e La sarta di Mary Lincoln, Jennifer Chiaverini racconta con il suo stile elegante e coinvolgente un’indimenticabile storia di resistenza e sorellanza.
LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2021
ISBN9788830525979
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    Anteprima del libro

    Le donne dell'orchestra rossa - Jennifer Chiaverini

    oggi

    PROLOGO

    Novembre 1942

    Mildred

    Le pesanti porte di ferro si aprono e per un istante Mildred rimane immobile, battendo le palpebre contro la luce del sole, con il fiato mozzato dall’improvvisa folata d’aria fresca e pulita che le accarezza il viso e le solleva i capelli. La guardia la spinge verso il cortile della prigione, con una stretta forte e dolorosa intorno al braccio. Altre donne con identici vestiti spenti e informi camminano lentamente a coppie lungo il perimetro del quadrato di ghiaia. Le loro celle nell’Hausgefängnis del quartier generale della Gestapo in Prinz-Albrecht-Strasse sono così affollate che muoversi è praticamente impossibile, e ora le prigioniere allargano le braccia e alzano il volto verso il cielo, come ballerine, come foglie secche sparpagliate da una raffica di vento in autunno.

    Quante di loro non conosceranno mai più altra libertà oltre questa?

    «Non si parla» le ricorda la guardia, spingendola verso lo spazio aperto. Incespicando, Mildred ritrova l’equilibrio e inizia a percorrere la diagonale tra due angoli degli alti muri di recinzione, rispettando il divieto di passeggiare con le altre. Lo fa ogni giorno per dieci preziosi minuti da quando è stata arrestata due mesi prima, e le membra rigide e indolenzite cominciano a muoversi senza che se ne accorga.

    Tiene la testa alta e fa lunghi passi regolari, in una finta dimostrazione di forza che le costa cara. È dimagrita, e dalle ciocche che trova nel letto ogni mattina sa che i suoi capelli biondi, un tempo folti, sono diventati bianchi e fragili. La tosse non le dà quasi tregua. Qualche ora prima, allontanando la mano dalla bocca e dal naso, ha trovato il palmo sporco di sangue. Non si sprecano farmaci per persone come lei, per i traditori del Terzo Reich. Anche se… è corretto definirla traditrice, dato che è americana?

    Non importa, né ai suoi carcerieri né alla legge, per i quali è comunque doppia cittadina per matrimonio. A Adolf Hitler importa eccome che sia americana, o almeno così le hanno detto. Eppure la Germania è la sua patria d’adozione, il paese natale del suo amato marito. È stato perché non sopportava l’idea di separarsi da lui che è rimasta a Berlino anche dopo che il governo degli Stati Uniti ha esortato i suoi cittadini ad andarsene.

    Arvid. Ha una stretta al cuore quando lo immagina languire in una cella fredda, angusta e mal illuminata come la sua, da qualche parte lì vicino, ma assolutamente irraggiungibile. Sono entrambi in attesa di processo. Forse si rivedranno in tribunale, loro e tutti i coraggiosi e sventurati amici della cellula della resistenza che i nazisti chiamano Rote Kapelle, Orchestra Rossa, per la musica illegale che trasmettevano ai nemici del Reich. Curioso che la Gestapo li abbia considerati un avversario tanto formidabile da attribuirgli un nome sinistro che pare uscito da un romanzo di spionaggio, malgrado nella loro ampia rete di scrittori, insegnanti, economisti, burocrati, impiegati e operai non ci sia nemmeno una spia professionista.

    Sono persone comuni, di ogni estrazione sociale. La sua cara amica Greta Kuckhoff è cresciuta povera, si è pagata un’istruzione ed è determinata a offrire a suo figlio una vita migliore. Sara Weitz era ricca e privilegiata finché i nazisti non hanno dichiarato gli ebrei indesiderabili, privandoli di ogni diritto civile e umano. Mildred prova una dolorosa fitta al cuore quando pensa a Sara e agli altri studenti del loro gruppo: audaci, decisi, idealisti, con tutta la vita davanti, pronti a rischiare più di quanto siano davvero consapevoli. Dove sono ora? Dispersi, imprigionati altrove, nascosti o fuggiti in terre lontane. Se solo Mildred potesse chiedere aiuto per l’ultima volta a Martha Dodd! Ma la sua amica, una giovane schietta e impulsiva, è tornata negli Stati Uniti dopo che il padre è stato sollevato dalla carica di ambasciatore. Anche se Mildred riuscisse in qualche modo a contattarla, cosa potrebbe fare Martha?

    Colta da violenti colpi di tosse, si piega in due, stringendosi le spalle in un abbraccio per resistere fino alla fine dell’attacco. Quando può, si raddrizza, inspira a fondo e, ignorando l’inquietante rantolo dei polmoni, riprende a camminare in diagonale nel cortile...

    E quasi si blocca per lo stupore. Un’altra detenuta la guarda procedendo lungo il bordo del quadrilatero, con una compassione affranta scritta a chiare lettere sul viso. La donna è troppo pallida e magra per essere appena arrivata nella prigione; sicuramente è consapevole delle gravi conseguenze cui andrà incontro se le guardie la vedono osservare Mildred con tanto interesse, dopo che quest’ultima è stata messa in isolamento come monito per le altre. La prigioniera lo sa di certo, perché si affretta a distogliere lo sguardo. Mildred resta delusa, ma poi torna a sperare quando l’altra la guarda ancora e le rivolge un vaghissimo sorriso incoraggiante.

    Mildred si sente pervadere da una nuova forza. È appena un’occhiata, che però nutre la sua anima affamata. Il cuore le martella nel petto mentre calcola i tempi dei propri passi e del lento incedere della donna intorno al cortile. Accelera, non così tanto da attirare l’attenzione delle guardie, ma quanto basta perché alla fine il suo percorso intersechi quello dell’altra prigioniera nell’angolo opposto. Intanto si scambiano occhiate furtive, messaggi silenziosi per dirsi che non sono sole, che c’è sempre una speranza, che quando meno te lo aspetti un raggio di sole può squarciare anche il cielo più buio.

    Poi si incrociano, anche se non hanno neppure il tempo di sfiorarsi i polpastrelli.

    «Abbi cura di te» mormora Mildred mentre procedono l’una verso l’altra per poi allontanarsi. «Sono nella cella 25. Non dimenticarti di me quando esci. Mi chiamo Mildred Harnack.»

    Sono Mildred Harnack, ripete mentalmente mentre si gira per attraversare di nuovo il cortile. Mildred Fish Harnack. Moglie, sorella, zia. Scrittrice, studiosa, insegnante. Combattente della resistenza. Spia.

    Non dimenticarmi.

    PARTE PRIMA

    1

    Giugno-ottobre 1929

    Mildred

    Il vento gelido che soffiava dall’acqua dove il Mare del Nord incontrava il fiume Weser agitava i ciuffi di capelli sfuggiti dalla treccia di Mildred e le faceva lacrimare gli occhi, ma nulla l’avrebbe indotta a staccarsi dal parapetto del ponte superiore del piroscafo Berlin che si avvicinava a Bremerhaven. Dieci giorni prima, la nave era salpata da Manhattan per la Germania – dieci giorni interminabili dopo nove mesi solitari lontana dal suo adorato marito –, ma le ultime ore erano passate con straziante lentezza. Quando il piroscafo entrò in porto, Mildred scrutò la folla riunita sul molo in cerca dell’uomo che amava, certa che fosse lì ad aspettare di accoglierla nella sua patria.

    La sirena della nave suonò, due lunghi squilli; marinai e portuali gettarono le cime e le annodarono abilmente. I viaggiatori attesero con impazienza che le passerelle fossero pronte per lo sbarco. Nel punto in cui il molo intersecava la riva, una banda di ottoni attaccò un allegro motivetto di benvenuto; uomini con gilè ricamati, berretti con le piume e i tradizionali Lederhosen; donne con Dirndl verdi e rosa, camicette bianche e ghirlande di nastri e fiori tra i capelli.

    Udendo il proprio nome nelle raffiche sopra la musica, Mildred osservò la folla, stringendo ancora di più le dita intorno al parapetto, e poi lo vide, il suo adorato Arvid, con i capelli biondi accuratamente pettinati all’indietro sopra la fronte larga e gli occhi azzurri gentili e intelligenti dietro le lenti dalla montatura metallica. Agitava il cappello in lenti archi sopra la testa, urlando il suo nome, raggiante di gioia.

    «Arvid» gridò Mildred. Lui rispose al suo saluto e di lì a poco lei era sbarcata e si slanciava tra la calca verso le sue braccia. Lacrime di felicità le rigarono le guance mentre lo baciava, senza badare alle occhiatacce dei passeggeri più riservati e delle loro famiglie.

    «Mia cara moglie» mormorò Arvid solleticandole l’orecchio con le labbra. «È magnifico riabbracciarti. Sei ancora più incantevole di quanto ricordassi.»

    Mildred sorrise e lo strinse a sé, sopraffatta da una gioia inesprimibile. Se la lontananza l’aveva resa più incantevole agli occhi di Arvid, lui era diventato ancora più bello ai suoi.

    Lo amava immensamente fin dal giorno in cui si erano conosciuti tre anni prima. Nel marzo del 1926, poco dopo essere arrivato all’Università del Wisconsin con una prestigiosa Rockefeller Fellowship, Arvid era entrato in un’aula del Bascom Hall per assistere a una lezione dell’illustre economista John R. Commons, invece aveva trovato Mildred che conduceva un dibattito su Walt Whitman. Affascinato, si era seduto in ultima fila, poi si era trattenuto per scusarsi dell’interruzione, spiegando, in un inglese costellato di tenere imprecisioni, che voleva andare a Sterling Hall ma, a quanto pareva, aveva sbagliato strada. Incantata, Mildred si era offerta di accompagnarlo nell’edificio giusto. Lungo il tragitto avevano chiacchierato e, prima di salutarsi, avevano deciso di rivedersi per studiare insieme. Lei l’avrebbe aiutato con l’inglese, e lui le avrebbe dato una mano con il tedesco, che Mildred aveva dimenticato dopo aver imparato i rudimenti da bambina a Milwaukee, la più tedesca delle città americane.

    Arvid era arrivato all’appuntamento con un magnifico mazzo di profumate gardenie bianche. La lezione di lingue davanti a un caffè, in una tavola calda all’angolo tra State e Lake Street, si era trasformata in una bella passeggiata lungo il sentiero boscoso sulla sponda del lago Mendota. Mentre conversavano alternando inglese e tedesco, Mildred aveva scoperto che Arvid aveva conseguito il dottorato in giurisprudenza nel 1924 e voleva ottenerne un secondo in economia. Era negli Stati Uniti per studiare il movimento operaio americano e, come lei, era molto interessato ai diritti dei lavoratori, delle donne, dei bambini e dei poveri. Accomunati dalla passione per l’insegnamento, entrambi aspiravano a diventare docenti universitari, benché Mildred desiderasse anche scrivere, non solo saggi accademici e critiche letterarie, ma romanzi e poesia.

    Un appuntamento aveva tirato l’altro, e ben presto Mildred si era accorta di essersi perdutamente innamorata. In cambio aveva scoperto di essere amata, ammirata e rispettata dall’uomo più raffinato che avesse mai conosciuto.

    Sabato 7 agosto 1926, due giorni dopo aver superato gli esami di dottorato, aveva sposato Arvid con una cerimonia all’aperto nella fattoria di suo fratello Bob, una proprietà di settanta ettari una trentina di chilometri a sud dell’università. Per due anni gli sposini avevano lavorato, studiato e vissuto felici a Madison, ma quando nella primavera del 1928 la Rockefeller Fellowship era finita si erano resi conto di non potersi permettere che Mildred accompagnasse Arvid in Germania.

    «Rifacciamo i conti» aveva detto lei, studiando le ordinate colonne di numeri e calcoli tracciati nella precisa grafia di Arvid su un bloc-notes giallo, somme delle entrate e stime delle uscite, adeguate alla vertiginosa inflazione tedesca. Appena suo marito le aveva porto la matita con un sorriso sardonico, Mildred aveva aggiunto ridendo: «Anche se immagino che un dottorando in economia sia capace di far quadrare un semplice bilancio familiare».

    Arvid si era tolto gli occhiali, strofinandosi gli occhi stanchi. «I fatti angosciano anche me, Liebling, ma rimangono fatti. Non potrò mantenerti finché non finirò gli studi e, date le condizioni dell’economia tedesca, non possiamo dare per scontato che troverai lavoro laggiù.»

    Allungando il braccio sul tavolo, Mildred gli aveva stretto la mano. «Vorrà dire che troverò un impiego come insegnante qui negli Stati Uniti e risparmieremo finché non potremo permetterci di stare insieme.»

    Fino ad allora avrebbero dovuto vivere separati.

    Quando Arvid era tornato in Germania per proseguire gli studi all’Università di Jena, Mildred si era trasferita a Baltimora per insegnare al Goucher College. I mesi erano passati lentamente tra solitudine e nostalgia, ma in primavera aveva vinto una borsa di studio postlaurea in un’università tedesca di sua scelta. Con quella somma e i loro risparmi aveva potuto raggiungere suo marito a Jena.

    Dopo il lungo viaggio transoceanico, finalmente erano di nuovo insieme e, fosse dipeso da lei, non si sarebbero più divisi.

    Recuperarono i bagagli e presero il treno per Brema, dove Arvid suggerì una passeggiata per consentirle di sgranchirsi le gambe. Mildred non riusciva a staccare gli occhi dal caro viso sognato con nostalgia nei molti mesi di lontananza, anche se l’incantevole città a tratti catturava il suo sguardo. Ammirò gli alti edifici appuntiti a graticcio che fiancheggiavano le vie acciottolate e le piazze linde inondate di sole, con le fioriere traboccanti di gerani rossi, peonie bianche e edera verde rampicante. Le biciclette erano ovunque, con i campanelli che suonavano senza sosta, ma di tanto in tanto passavano lentamente anche qualche rara automobile o un carro trainato da cavalli.

    «È davvero pittoresca» esclamò Mildred, appoggiando per un momento la testa sulla spalla di Arvid mentre camminavano a braccetto. «E pensare che Greta ha cercato di ridimensionare le mie aspettative.»

    Arvid inarcò le sopracciglia. «Greta Lorke ha denigrato la sua patria?»

    «Non proprio» disse Mildred, divertita dalla sua inclinazione a pensare male dell’ex rivale universitaria. Naturalmente Mildred era leale ad Arvid, ma si era affezionata molto a Greta dopo averla conosciuta tramite i Friday Niters, il famoso gruppo di specializzandi e docenti del professor Collins che studiava lo stato sociale, l’economia e le politiche del lavoro e collaborava con i legislatori statali del Wisconsin nella stesura di leggi progressiste. Tanto Mildred era alta, snella e bionda, quanto Greta era minuta e formosa, con occhi e capelli castani che portava tagliati in un caschetto ondulato. Aveva zigomi alti e una bocca piena, fatta per sfoderare sorrisi caldi e irresistibili, ma un certo atteggiamento circospetto indicava che era abituata ai conflitti.

    «Temeva, mi ha detto una volta, che la mia visione della Germania derivasse dalla poesia, dai romanzi e dalle fiabe», spiegò Mildred. «Mi ha messa in guardia dall’avere una prospettiva romantica e idealizzata, e per il mio bene secondo lei avrei dovuto leggere i giornali tedeschi per conoscere la vera Germania.»

    «Che parole sinistre.»

    «Eppure era un buon consiglio. Perché non dovrei scoprire il più possibile sul tuo paese?»

    Mildred sapeva che la Germania non era perfetta, che come gli Stati Uniti era alle prese con diversi problemi economici, politici e sociali, tuttavia in quel momento, mentre esplorava Brema con Arvid, provò un immenso sollievo. Greta – la cara, brillante, seria e scettica Greta – aveva dipinto un quadro fin troppo fosco della sua patria.

    Lasciarono Brema quando le campane del duomo di San Pietro rintoccarono mezzogiorno. Il sole splendeva luminoso in un perfetto cielo azzurro mentre salivano a bordo di una scintillante Mercedes decappottabile color crema che Arvid aveva preso in prestito da un cugino, per attraversare foreste e terreni agricoli, colline ondulate e villaggi deliziosi. Mildred fu assorbita per ore dal bellissimo paesaggio, ma dopo che si furono fermati a pranzo a Hannover ed ebbero proseguito in direzione sudest attraverso la Bassa Sassonia sentì ondate di trepidazione assalirla con sempre maggiore frequenza. Benché Arvid non si vantasse mai, Mildred sapeva che la sua illustre famiglia era ammirata e rispettata in tutta la Germania, soprattutto negli ambienti universitari, politici e religiosi. Gli Harnack erano parte, come diceva Greta, dell’aristocrazia intellettuale. Mildred aveva origini molto più umili. Suo padre, un fascinoso scansafatiche infedele e irresponsabile, con l’abitudine di sperperare la paga all’ippodromo, era stato incapace, per indole, di tenersi stretto a lungo qualunque lavoro. Sua madre, un’intelligente e autonoma scientista cristiana, aveva mantenuto la famiglia facendo la domestica e l’affittacamere, ma nonostante i suoi sforzi i Fish avevano traslocato ogni anno appena prima che i padroni di casa pretendessero l’affitto arretrato.

    Mildred si domandò fino a che punto Arvid avesse rivelato quei dettagli alla sua famiglia. Sebbene nelle lettere fossero sempre stati tutti affettuosi e cortesi, Greta l’aveva avvertita che gli Harnack e il loro clan allargato di Bonhoeffer e Dohnányi avrebbero potuto riceverla con freddo disprezzo.

    Era ormai tardo pomeriggio quando la Mercedes attraversò le montagne dell’Harz per scendere verso le colline della Turingia orientale. Arrivati a Jena, Arvid indicò l’università, la piazza e altri luoghi d’interesse lungo la strada che portava alla casa della sua infanzia. Poi si diresse verso un alto edificio bianco a graticcio, con le persiane nere e balconi che, al pianterreno e al primo piano, collegavano le due ali perpendicolari. Frau Harnack si era trasferita lì con i figli quando Arvid aveva quattordici anni, dopo il suicidio del marito. Per calmarsi, Mildred fece un profondo respiro mentre Arvid parcheggiava e spegneva il motore. «Ti adoreranno» disse, prendendole la mano e portandosela alle labbra. Lei riuscì a sorridere.

    Arvid la guidò lungo il vialetto acciottolato verso la porta d’ingresso e il cuore di Mildred cominciò a battere forte quando un gruppo di persone accompagnate da due bambini impazienti uscì ad accoglierli. Il nervosismo svanì appena la abbracciarono, sorridendo e salutandola cordialmente in tedesco e in inglese. Mentre Arvid, orgoglioso, faceva le presentazioni, Mildred provò una curiosa sensazione di familiarità di fronte al bel giovanotto con il sorriso caloroso di suo marito che scoprì essere Falk, il fratello diciassettenne di Arvid. Le due graziose donne dagli occhi azzurri e dal caschetto biondo erano le sue sorelle, Inge e Angela, e i bambini erano gli allegri figli di Inge, Wulf e Claus. Le furono presentati anche diversi cugini, tra cui quello che suo marito aveva menzionato spesso quando gli capitava di lasciarsi andare ai ricordi di casa: Dietrich Bonhoeffer, un occhialuto ministro luterano, dalle guance tonde e il mento volitivo.

    Dopodiché Arvid la condusse dentro a conoscere sua madre. «Mia cara bambina» disse affettuosamente Mutti Clara in un inglese impeccabile, prendendole le mani e baciandola sulle guance. Aveva lineamenti decisi e uno sguardo acuto e intelligente, e portava i capelli castano chiaro striati di grigio raccolti in uno chignon morbido. «Sei ancora più bella di come ti abbia descritta Arvid. Benvenuta in Germania. Benvenuta a casa.»

    Clara riunì tutti intorno al tavolo della cena, dove Dietrich guidò la preghiera. Il pasto, a base di Bratwurst in salsa d’aceto e capperi, gnocchi di patate e involtini di cavolo, con torta ai semi di papavero come dessert, fu squisito e gratificante dopo la lunga giornata di viaggio. Ogni portata fu scandita da sorrisi calorosi e risate mentre i commensali si prendevano in giro e complimentavano l’un l’altro, scherzando in greco e in latino, citando Goethe, interrogando Falk e i bambini sul programma scolastico. Mildred si meravigliò di quanto fosse piacevole e diversa dalle cene di famiglia della sua infanzia, caratterizzate dalla tensione tra i suoi genitori, dalle preoccupazioni economiche e dalle frequenti assenze di suo padre.

    Alla fine di una serata perfetta, finalmente Arvid la portò nella casa in cui avrebbero vissuto insieme: un appartamento in affitto in un palazzo di Landgrafenstieg, piccolo ma organizzato in maniera ottimale per sfruttare al massimo gli ambienti modesti. Le finestre che davano sulla facciata offrivano una magnifica vista delle montagne, e nelle librerie c’era molto spazio per i nuovi volumi che speravano di acquistare negli anni a venire. Dopo alcuni giorni a Jena, Mildred e Arvid partirono per una seconda luna di miele nella Foresta Nera, dove la solitudine della lunga separazione ben presto si trasformò in un lontano ricordo.

    In autunno, Mildred iniziò il dottorato all’Università di Jena. La sua vita era di nuovo piena e appagante, con i giorni dedicati allo studio e le notti al suo amato Arvid. Sentiva la mancanza della famiglia in America, ma grazie alla calda accoglienza degli Harnack non poteva lamentare la nostalgia di casa.

    Poi, un limpido pomeriggio autunnale dai colori vividi, Arvid la trovò a studiare in giardino, sotto il sole di fine ottobre. «Mi dispiace, Liebling» disse cupo, porgendole un giornale. «Brutte notizie dagli Stati Uniti.»

    Dando una scorsa ai titoli, Mildred si sentì mancare. Il mercato azionario era crollato, perdendo oltre tre miliardi di dollari in due giorni.

    Si fece animo. «Arvid?» Con la sua formazione universitaria ed esperienza, lui avrebbe saputo quanto un operatore di Wall Street cosa ciò avrebbe comportato per il suo paese.

    Sostenendo il suo sguardo, Arvid scosse la testa. Mildred capì allora che il peggio doveva ancora arrivare.

    2

    Ottobre 1929-luglio 1930

    Greta

    Nella sua ultima lettera dal Wisconsin, Greta aveva chiesto alla famiglia di non andare a prenderla al porto di Amburgo, tuttavia quando sbarcò e iniziò ad avanzare incerta lungo il molo sentì una fitta di profonda solitudine e desiderò che avessero ignorato la sua richiesta. Intorno a lei, le coppie si abbracciavano e le famiglie salutavano i propri cari dopo una lunga separazione, mentre Greta camminava da sola, con una valigia in ciascuna mano.

    Dall’ufficio della stazione telegrafò ai suoi genitori per comunicare quando sarebbe arrivata e si affrettò a prendere il treno per Francoforte sull’Oder.

    Sul convoglio che la portava per quasi quattrocento chilometri verso sudest, osservò il paesaggio filare oltre il finestrino della carrozza di seconda classe, stranamente commossa. Si meravigliò di quanto poco, a differenza di lei, il suo paese natale fosse cambiato durante i due anni in cui aveva studiato all’estero.

    Ore dopo, il treno si fermò con uno scossone in una stazione vicino al confine tedesco. «Francoforte sull’Oder» annunciò il controllore, procurandole un brivido di impazienza lungo la schiena. Greta recuperò le sue cose e scese sulla banchina, dove fu immediatamente inghiottita da un forte abbraccio. Stupita, mollò le valigie. «Hans» esclamò. Senza fiato, baciò suo fratello sulle guance. Quanto era bello, alto e robusto, con gli occhi allegri di un azzurro luminoso e i capelli più scuri e più ricci di quanto ricordasse.

    «Bentornata a casa, sorellina.» Afferrando i manici delle valigie, Hans si diresse verso l’uscita. «Sei dimagrita. Non c’era il buon cibo tedesco nel Wisconsin? Mutti ti metterà all’ingrasso.»

    Greta sentì gorgogliare lo stomaco. «Nulla in contrario.»

    «Sta organizzando una cena per domani sera.» Hans la guidò tra la folla verso la strada. «Solo la famiglia e qualche vicino, e tutti i tuoi piatti preferiti.»

    «Spero che non spenda troppo.»

    «La conosci. Contratterà con il macellaio e baratterà qualche rammendo con il fornaio in cambio del pane, e papà si vanterà della sua astuzia fino a farla arrossire.»

    Greta annuì ridendo, mentre lacrime di felicità le pizzicavano gli occhi. Le era mancato scherzare con suo fratello sui teneri vezzi delle persone a loro care, tra cui la frugalità della Mutti, che aveva la capacità di preparare deliziose pietanze nutrienti con gli ingredienti più poveri: una dote che la sua famiglia lodava come una virtù morale, sorvolando con delicatezza sul fatto che era dettata dalla necessità.

    Per tutti gli infelici e tumultuosi anni della Grande Guerra, i suoi genitori avevano tenuto a bada la povertà con sforzi incessanti e la pura forza di volontà. Suo padre lavorava come metalmeccanico in una fabbrica di strumenti musicali e Greta aveva ancora un ricordo vivido di quando, da bambina, lo guardava srotolare scintillanti fogli di ottone, posarvi sopra i modelli e meticolosamente ritagliare elaborati pezzi da cui ricavare cornette, flicorni e tube. Sua madre faceva la sarta a cottimo, cucendo soprattutto vestiti e coperte per un grande magazzino esclusivo della capitale.

    Non appena Greta era diventata abbastanza grande, si era guadagnata da vivere lucidando scarpe, ma i suoi genitori erano convinti che l’istruzione venisse prima di qualunque cosa, a parte la chiesa. Avevano fatto economia e sacrifici per mandare i figli all’Oberschule, ed erano quasi scoppiati d’orgoglio quando, anni dopo, lei era stata ammessa all’Università di Berlino. Decisa a pagarsi gli studi, aveva accettato di accudire una ventina di bambini in un orfanotrofio di Neukölln, un malfamato quartiere industriale popolato da comunisti, operai e indigenti. Quel periodo le aveva insegnato che, nonostante le difficoltà della sua famiglia, c’era chi versava in ristrettezze ben peggiori. Aveva imparato a essere grata per ciò che aveva e a provare compassione per le tante persone meno fortunate. Indignata per le sofferenze degli innocenti, aveva deciso di migliorare il loro destino, comunque e ovunque potesse.

    Malgrado tutto, i suoi genitori l’avevano incoraggiata ed erano stati molto fieri dei suoi risultati. Cosa avrebbero pensato ora che era tornata dalla sua splendida e gloriosa avventura in America con molti magnifici ricordi, ma senza un dottorato a coronamento del suo duro lavoro e dei loro sacrifici?

    L’ansia aumentò alla vista della casa della sua infanzia, tre angusti piani di pietra e intonaco, modesti ma curati, che trasmettevano una sensazione di rassicurante solidità dopo Madison, dove persino gli edifici più antichi parevano sorprendentemente nuovi. Quando varcò la soglia, tuttavia, i suoi genitori la accolsero con abbracci calorosi e lacrime di gioia. Soffocò i singhiozzi mentre li stringeva il più forte possibile, notando le nuove rughe, l’argento tra i capelli, la leggera curvatura della schiena di suo padre, ma lo stesso amore e lo stesso orgoglio nei loro occhi.

    Alla cena della sera successiva, amici e familiari dichiararono allegramente di essere certi che avesse rappresentato Francoforte sull’Oder con onore e distinzione. Erano tutti così gentili e fieri che per un attimo Greta temette di aver dimenticato di dire loro che non aveva conseguito il dottorato.

    L’indomani mattina, mentre aiutava sua madre a riordinare la cucina dopo colazione, fece appello a tutto il suo coraggio e, con un respiro profondo, disse: «Mutti, mi dispiace di aver deluso te e papà».

    Sul dolce viso tondo della mamma comparve un’espressione perplessa. «Che sciocchezza è mai questa?»

    «Sono andata così lontano e così a lungo, quando sarei potuta restare qui ad aiutare la famiglia, e solo per tornare a mani vuote…»

    «Mia cara bambina.» La donna la fece sedere al tavolo e prese posto accanto a lei. «Non hai ancora raggiunto il tuo obiettivo, ma non significa che non ci riuscirai.»

    «Ma non ho un dottorato né un lavoro…»

    «Prenderai il primo e troverai il secondo.» Guardò la figlia con amorevole compassione. «Dalla tua ultima lettera ho capito che sei esausta e scoraggiata. Fa’ una pausa prima di tornare a studiare.»

    «Mutti…» Greta scelse con cura le parole. «Temo che una vacanza non risolverà i miei problemi.»

    «Un po’ di tempo libero ti farà comunque bene. In ogni caso non potresti riprendere a metà semestre.»

    Sua madre pareva così orgogliosa e ottimista che Greta non ebbe il coraggio di confidarle i suoi dubbi. «Nel frattempo dovrò trovare qualcosa da fare» disse invece. «Ho pensato che potrei cercare lavoro a Berlino. Odio dovervi già lasciare dopo essere appena tornata a casa…»

    «Non preoccuparti per noi. Certo che devi andare, a meno che tu non voglia restare qui e aiutarmi a cucire.»

    Greta pensava che avrebbe avuto più successo a Berlino. Dopo alcuni riposanti giorni in famiglia, prese il treno del mattino per la capitale e all’imbrunire aveva già affittato una camera ammobiliata in una pensione, più piccola e più spartana di quella che avrebbe potuto avere per lo stesso prezzo a Madison, ma pulita e abbastanza silenziosa. Il tappeto consumato e le tende scolorite conferivano all’ambiente un’aria di stanca fatuità che, ne era certa, avrebbe contagiato anche il suo occupante. Sperava di potersi presto permettere un alloggio migliore.

    Si era appena sistemata quando il devastante crollo del mercato azionario in America scosse l’Europa. Grazie alla sua formazione in campo economico, Greta intuì le allarmanti implicazioni per la Germania prima ancora che le banche statunitensi, sull’orlo del fallimento, chiedessero disperatamente la restituzione dei prestiti esteri. La fragile economia tedesca, già in sofferenza per l’inflazione e la disoccupazione alle stelle, non resse all’urto. Senza investimenti stranieri, le fabbriche chiusero, i cantieri edili si fermarono e migliaia di persone persero il lavoro.

    Man mano che il disastro finanziario faceva sentire i suoi effetti, Greta faticò ad assicurarsi un’inafferabile borsa di studio universitaria, a convincere un professore a prenderla sotto la sua ala, a trovare lavoro come docente a contratto, ricercatrice o anche solo umile assistente. Non c’erano posti vacanti da nessuna parte, di nessun tipo. I docenti si tenevano strette le cattedre, rinviando il pensionamento per paura che i fondi a loro destinati svanissero da un giorno all’altro. Gli studenti restavano iscritti, sperando che una specializzazione in più desse loro un vantaggio sui coetanei quando alla fine fossero stati costretti a laurearsi e a unirsi agli sfortunati milioni di disoccupati.

    Greta accettò volentieri gli unici lavori che riuscì a trovare: lezioni private, correzione di bozze, un po’ di copywriting. Le rammentava l’attività a cottimo di sua madre, ma con penna, inchiostro e parole anziché ago e filo. Con quasi nulla da spendere per i divertimenti, riscoprì il suo eterno amore per la letteratura e il teatro, immergendosi nelle pagine di romanzi e drammi e racimolando abbastanza marchi per un posto economico allo Staatstheater o al Deutsches Theater. Nelle lunghe serate invernali si rannicchiava sotto le coperte nell’unica poltrona della sua camera e si perdeva in drammi e commedie, i più grandi capolavori mai scritti in tedesco, francese e inglese.

    Quando l’inverno cedette il passo alla primavera, accarezzò l’idea di lavorare in teatro. Magari avrebbe potuto tradurre le opere inglesi e francesi per i palcoscenici tedeschi. Sarebbe potuta diventare una commediografa o una drammaturga.

    «Dovresti andare all’Internationaler Theaterkongress» le suggerì Ursula, la sua amica attrice. «Nove splendidi giorni di giugno ad Amburgo, dedicati al mondo del teatro: rappresentazioni, seminari, conferenze.»

    «Sembra magnifico» disse Greta. «Magnifico, e molto costoso.»

    «Sì, ma partecipano compagnie teatrali e professionisti da tutto il mondo. Quale migliore occasione per stabilire contatti che potrebbero sfociare in un lavoro?»

    Non potendo contraddirla, Greta racimolò rapidamente i fondi necessari, saltando i pasti e trascurando di dormire per finire due lunghe correzioni di bozze prima della scadenza concordata. Accettò tre nuovi studenti di lingua inglese e chiese un mese di stipendio anticipato. Fece appena in tempo a risparmiare abbastanza per la quota di iscrizione, il biglietto ferroviario e l’alloggio, ma mentre faceva la valigia avvertì una fitta di preoccupazione. Stava per sperperare il suo denaro in nove giorni di baldoria che in definitiva l’avrebbero lasciata molto più povera, ma non più sicura di trovare lavoro.

    Nella prima giornata ad Amburgo si imbatté in un gioviale gruppo di autori e attori francesi che soggiornavano nel suo stesso hotel. Il francese di Greta era abbastanza fluente da meritare la loro approvazione, e la loro conversazione abbastanza intelligente da meritare la sua, perciò, quando la invitarono a considerarsi un membro del gruppo, fu felice di accettare.

    Il terzo giorno, con i nuovi amici assistette a una speciale conferenza di Leopold Jessner, famoso produttore e regista del teatro espressionista tedesco, presidente onorario del Theaterkongress, direttore del Preussisches Staatstheater in Gendarmenmarkt e figura di spicco del teatro berlinese. Una delegazione di artisti dello Staatstheater lo accompagnò sul palco dell’aula magna. Quando Jessner presentò il dottor Adam Kuckhoff, il suo principale drammaturgo, salì sul podio un quarantenne robusto e massiccio con le labbra piene e un’aria meditabonda.

    Greta si abbandonò contro lo schienale, rassegnata a un’arida conferenza sulle strategie dell’amministrazione teatrale, invece Kuckhoff fece un discorso impetuoso e appassionato sulla natura del teatro e del cinema nell’era moderna. Inchiodata al suo posto, Greta assorbì ogni parola con vivo interesse, senza mai staccargli gli occhi dal viso. Kuckhoff, ricordò d’un tratto, era l’autore di un interessante saggio che aveva letto quell’inverno, Arbeiter und Film, una denuncia delle «menzogne sentimentali del film sociale» e dello «spirito antiquato e dell’entusiasmo patriottico del cinema nazionalista». Affascinata, ascoltò Kuckhoff che trasformava quei concetti in una visione audace e sorprendente del futuro del teatro tedesco.

    La sua fervida attenzione non sfuggì all’oratore, che di tanto in tanto, spostando gli occhi sulla folla, soffermava su di lei uno sguardo incuriosito e indagatore.

    Al termine della conferenza, mentre Greta e i suoi amici decidevano a quale evento recarsi, Kuckhoff si avvicinò. «Mi è sembrata molto interessata alle mie osservazioni» disse in francese. «Era segno di approvazione o di dissenso?»

    Greta lo guardò per un momento, sconcertata, ma era ovvio che lui avesse dato per scontato che fosse francese, dati i suoi compagni. Decise di assecondarlo. «Di approvazione, per quanto possa valere. Sono nuova dell’ambiente teatrale» rispose in francese, tendendo la mano. «Greta Lorke, una semplice aspirante commediografa, o drammaturga, o qualunque altro ruolo vorranno assegnarmi.»

    Kuckhoff sostenne il suo sguardo mentre le stringeva la mano. «Dubito che la parola semplice le si addica, Mademoiselle.» Quando la invitò ad approfondire l’argomento della conferenza durante un giro in barca nel porto di Amburgo, Greta esitò solo un attimo prima di accettare.

    Il Theaterkongress cadde nel dimenticatoio mentre le ore passavano rapide e magnifiche tra visite ai monumenti e conversazioni interessanti. L’escursione si concluse con una cena romantica in uno degli hotel più esclusivi della città, a un tavolo affacciato sull’Elba. Dopo il pasto più squisito che Greta avesse mai consumato e un’ottima bottiglia di vino, la chiacchierata cedette piacevolmente il passo a sguardi prolungati e contatti impercettibili, con la mano di Kuckhoff posata su quella di Greta e la gamba di Greta premuta contro quella di Kuckhoff.

    Quando, con cortesia quasi formale, lui la invitò in camera sua al piano di sopra, lei annuì e gli diede la mano.

    Il giorno dopo si svegliò tra le braccia di Adam e, dai raggi di sole che filtravano dalle finestre, intuì che le conferenze mattutine dovevano essere già iniziate. Non aveva avuto intenzione di fermarsi tutta la notte né di fare l’amore con lui, ma le mani e le parole di Adam avevano suscitato desideri che non sapeva di avere. All’ultimo momento, quando la prudenza l’aveva avvertita a gran voce che doveva staccarsi dalle sue braccia se non voleva rischiare di perdere ogni cosa – il futuro, la reputazione – per un momento di passione, Adam aveva tirato fuori una bustina, e Greta aveva impiegato un istante a capire che era un profilattico. Naturalmente, a differenza di lei, non era la sua prima volta. Naturalmente, un uomo di mondo sarebbe arrivato preparato. E Greta ne era stata molto contenta.

    Quando Adam si mosse, lei si rannicchiò al suo fianco, posandogli la testa sulla spalla. Assonnato, lui le baciò la fronte, inalò a fondo e sospirò. «Ah, ma chère mademoiselle» si rammaricò sorridendo. «Sei troppo giovane e graziosa per un vecchio come me.»

    «Quanti anni hai?»

    «Confesso di averne quarantatré.»

    «Decrepito» lo prese in giro, ma poi esitò. «Anch’io ho una confessione da farti. Non sono francese. Sono nata a Francoforte sull’Oder e vivo a Berlino.»

    Per un momento Adam si limitò a guardarla sbalordito, poi rise. «Perché non me l’hai detto?» chiese in tedesco, puntellandosi sul gomito. «Ho dato per scontato…»

    «Sì, hai dato per scontato.» Greta gli rivolse un sorriso malizioso. «Mi sono divertita ad assecondarti.»

    Adam le fece scivolare la mano dalla spalla ai fianchi e le diede una leggera pacca sul sedere. «Che ragazzaccia, a ingannarmi in questo modo.»

    «Sono sicura che anche tu hai molti segreti.»

    «No. La mia vita è un libro aperto.» Si sdraiò sulla schiena, tenendola stretta con un braccio e infilandosi l’altro sotto la testa. «Fa’ pure. Chiedimi ciò che vuoi.»

    «Suppongo che la domanda più importante sia…» Greta fece una pausa, scartando le prime curiosità che le vennero in mente, e chiese invece: «Come passiamo la giornata?».

    «Anzitutto, colazione. Poi dovresti trascorrere il tempo come meglio credi. Potrei consigliarti alcuni eventi, io però sarò impegnato tra incontri e conferenze per ore e non riuscirò a tenerti compagnia.»

    «Certo che no» si affrettò a dire lei, imbarazzata. «Non intendevo…»

    «Ma spero che sarai a cena con me questa sera.»

    «A cena?»

    «E anche dopo, se ti va.»

    Lo disse con nonchalance, ma la sua voce aveva la sfumatura di un’elettrizzante promessa. «Può darsi.» Greta gli afferrò il mento, girandogli il viso verso di sé per baciarlo.

    Per il resto del Theaterkongress trascorse le sue giornate con la delegazione francese e le nottate con Adam. Capitò che alcuni colleghi di Adam li raggiungessero per cena, e lei si meravigliò della propria buona sorte quando le diedero i loro biglietti da visita e la incoraggiarono a contattarli per lavori in vari teatri di Berlino; incarichi noiosi e malpagati che tuttavia le avrebbero permesso di entrare nell’ambiente e che sarebbero potuti sfociare in qualcosa di meglio. Tuttavia, in qualche modo la sua cruciale ricerca di lavoro era sbiadita all’ombra dell’appagante storia d’amore con Adam. Non si era mai innamorata così, ed era insieme spaventoso e inebriante.

    L’ultimo giorno, fece i bagagli con il cuore gonfio. Avrebbe voluto prendere il treno per Berlino insieme, ma lui si sarebbe fermato ancora un giorno per tenere una lezione all’Università di Amburgo.

    Adam la accompagnò alla stazione. Si erano già scambiati i biglietti da visita ma, dopo un ultimo bacio, Greta indugiò sul predellino. «Ci rivedremo?» chiese, vergognandosi del suo tono disperato.

    «Certo, cara» rispose lui, corrugando la fronte con espressione perplessa. «Perché non dovremmo? Ti chiamo non appena avrò sbrigato tutto il lavoro che si è accumulato allo Staatstheater in mia assenza.»

    «Promettimelo.»

    Lui si mise la mano sul cuore. «Te lo prometto.»

    Greta gli rivolse un sorriso fugace e si voltò per salire sul treno prima che Adam leggesse il dubbio nei suoi occhi e lo scambiasse per rammarico.

    Una volta a casa, spalancò le finestre per far entrare la mite brezza estiva e si tuffò nel lavoro, dando lezioni private, correggendo bozze e sfruttando i contatti che aveva stabilito al Theaterkongress per cercare un’occupazione più remunerativa e appagante. Il ricordo delle carezze di Adam, della sua voce e del suo sguardo penetrante e ammirato fisso su di lei mentre parlavano di teatro e di politica la ossessionava giorno e notte.

    Non lo sentì per tre giorni, ma resistette alla tentazione di passare davanti allo Staatstheater con la speranza di un incontro casuale. Poi, il quarto giorno, di ritorno a casa dopo aver consegnato le bozze corrette all’editore, la padrona di casa le andò incontro nell’ingresso con un foglietto in mano. «Un certo dottor Kuckhoff ha telefonato due volte questa mattina.» Le porse il messaggio. «Vuole che lo richiami il prima possibile. È malata?»

    «No, sto benissimo, grazie» rispose Greta mentre correva a ricontattarlo.

    Adam aveva una voce calma e seducente, e quando la invitò a cena quella sera lei accettò senza pensarci due volte. Consapevole dell’occhio vigile di Frau Kellerman e riluttante ad alimentare i pettegolezzi degli altri inquilini con la propria vita privata, non chiese a Adam di salire in camera sua quando la accompagnò a casa ben oltre la mezzanotte, anche se erano entrambi un po’ brilli e colmi di desiderio. All’appuntamento successivo, due sere dopo, abbandonarono ogni cautela e strisciarono al piano di sopra, soffocando le risate e cadendo l’uno nelle braccia dell’altra non appena Greta chiuse la porta. Lui se ne andò molto prima dell’alba, mentre gli altri dormivano, sgattaiolando lungo le scale con le scarpe in mano.

    Per lei, luglio trascorse all’insegna dell’intenso piacere sensuale e delle speranze più vivide. Passarono così tante serate insieme che, per evitare di offendere il senso del decoro di Frau Kellerman, di tanto in tanto Greta suggeriva di andare a casa di Adam, ma lui trovava sempre un pretesto per sottrarsi. La pensione era più vicina, diceva, oppure la donna delle pulizie non era andata e il disordine lo imbarazzava. Lei si sarebbe insospettita se non fosse stato per il fatto che Adam la presentava senza esitazione agli amici quando capitava di incontrarli al ristorante o al Tiergarten, l’ex riserva di caccia reale trasformata in uno stupendo parco pubblico: duecentocinquanta ettari di sentieri pedonali e piste di equitazione che serpeggiavano tra statue, fontane, boschetti e giardini fioriti. Uno dei suoi colleghi la assunse addirittura per riordinare la caotica biblioteca di copioni del suo teatro, un lavoro che le avrebbe garantito una paga discreta fino alla fine del progetto. I conoscenti di Adam erano sempre cortesi e amichevoli, senza la minima traccia di disapprovazione dietro i sorrisi sinceri. Così Greta si impose di non rovinare le cose con preoccupazioni inutili.

    Poi un giorno, ai primi di agosto, avevano appena preso un tavolo in un caffè frequentato da gente di teatro, quando Adam vide un regista con cui doveva parlare urgentemente. «Torno subito, cara.» Si chinò a baciarla sulla guancia. «Ordina qualcosa di buono per entrambi.»

    Greta obbedì, ma appena il cameriere si fu allontanato Ursula si accomodò al posto di Adam. «Dunque» esordì in tono stupito, sollevando le sopracciglia. «Tu e Kuckhoff?»

    Greta scrollò le spalle in un gesto vago, senza riuscire a trattenere un sorriso.

    «Capisco.» Ursula si appoggiò allo schienale, studiandola con attenzione. «Se vai a letto con lui per fare carriera, sarò l’ultima persona a giudicarti, ma spero per te che non ti innamori.»

    «Perché?»

    «Perché non credo che sua moglie sarebbe contenta.»

    Greta la fissò per un momento. «Sua moglie?»

    «Non lo sapevi?»

    Greta scosse la testa.

    «Immagino non ti abbia detto nemmeno di aver avuto un figlio con la sua prima moglie.»

    Prima moglie? Quindi ce n’erano due? E un figlio? Sentendosi mancare, Greta scrollò di nuovo il capo.

    «Avrebbe proprio dovuto dirtelo. Qualche anno fa, la prima moglie l’ha lasciato per Hans Otto – sì, quell’Hans Otto, l’attore – e un paio di anni dopo Kuckhoff ha sposato sua cognata. In qualche modo sono riusciti a restare amici.»

    All’improvviso Greta capì che stava per sentirsi molto male. «Vuoi scusarmi?» mormorò alzandosi, con il sangue che le pulsava nelle orecchie. Ursula la chiamò mentre fuggiva dal caffè, ma lei non si voltò. Sulla strada verso casa, poté soltanto chiedersi se Adam l’avesse vista andare via.

    Il mattino dopo, lo scorse ad aspettarla all’angolo in fondo all’isolato dove, pensò con amarezza, aveva trovato un impiego grazie a lui. Il suo datore di lavoro, amico di Adam, doveva essere all’oscuro della natura della loro relazione oppure, si rese conto con orrore, lui e tutti gli altri conoscenti a cui Adam l’aveva presentata avevano dato per scontato che sapesse di essere l’altra donna.

    Avvicinandosi, arricciò le labbra e tirò dritto, ma lui si mosse rapido per intercettarla. «Greta…»

    «Non rivolgermi la parola.»

    La afferrò per il gomito. «Ti avevo detto che potevi chiedermi qualunque cosa. Non mi hai mai chiesto se fossi sposato.»

    Lei si divincolò. «È il tipo di informazione che di solito le persone oneste danno spontaneamente.»

    «Io e mia moglie abbiamo un rapporto aperto.» Il suo sguardo era accorato e supplichevole. «Ho detto a Gertrud di te. Vuole conoscerti.»

    «Non succederà mai. Mi vergognerei troppo per guardarla negli occhi.»

    «Greta, per favore. Ciò che abbiamo è unico, forte, inesorabile. Lo sappiamo entrambi. Pensi che cose come questa succedano ogni giorno?»

    «Abbiamo avuto due mesi» ribatté lei con voce tremante. «Tra altri due mi avrai dimenticata.»

    «Sai che non è così. Ti amo.»

    Le parole che Greta aveva desiderato sentire con tutta se stessa suonarono vuote. «Allora chiamami quando sarai celibe.»

    Con il cuore gonfio di dolore, lo superò e si incamminò verso il teatro, cacciando indietro le lacrime di rabbia e delusione. Adam non la seguì.

    3

    Ottobre 1930

    Sara

    Dopo l’ultima lezione della giornata, Sara Weitz si affrettò a raggiungere per pranzo suo fratello e sua sorella, per festeggiare la promozione di Natan a condirettore del Berliner Tageblatt. Controllando l’orologio, decise di andare a piedi dall’Università di Berlino al Palast-Café anziché prendere la metropolitana. Perché scendere nella soffocante oscurità sotterranea in una così bella giornata autunnale, con la brezza frizzante a spazzare le strade e il sole che splendeva nel cielo di un azzurro terso? L’inverno sarebbe arrivato fin troppo presto.

    Dal campus si diresse verso ovest sull’Unter den Linden, con a tracolla la cartella piena di libri e fogli. Fin dall’inizio del semestre, il corso di letteratura americana era diventato il suo preferito e Frau Harnack la sua docente favorita. Come Sara, era nuova, una dottoranda in letteratura americana trasferitasi di recente all’Università di Berlino. All’inizio Sara e i suoi compagni non avevano saputo cosa pensare di quell’insegnante vivace e affettuosa che trattava gli studenti come suoi pari e talvolta si metteva a cantare per spiegare un particolare argomento letterario, ma ben presto Frau Harnack li aveva conquistati con la sua gentilezza e il suo interessamento sincero al loro benessere. Le sue storie sulla vita in America tingevano di colori così vividi i testi analizzati in aula che di recente Sara aveva cominciato a prendere in considerazione l’idea di un dottorato postlaurea negli Stati Uniti.

    Scosse la testa per scacciare quella fantasticheria. Perdersi in simili illusioni era una tentazione forte in tempi così incerti. Suo padre aveva un lavoro sicuro come direttore della Jacquier and Securius Bank, Natan stava facendo carriera e Amalie era felicemente sposata con un ricco barone, perciò la famiglia non faticava a tirare avanti, a differenza di molte persone più sfortunate. Tuttavia, non potevano far finta di nulla davanti agli sconvolgimenti politici che minacciavano i confini della loro confortevole casa di Grunewald. Cercavano di ignorare l’ondata di antisemitismo in Germania, nascondendo la preoccupazione e conducendo una vita esemplare, per non suscitare il disprezzo e la paura dei vicini cristiani. Quel comportamento irreprensibile era sempre stato sufficiente a proteggerli in una città moderna e cosmopolita come Berlino. Gli anziani della comunità ebraica avevano assicurato loro che sarebbe bastato anche quella volta.

    Sara tagliò attraverso il Tiergarten per evitare il Reichstagsgebäude e la folla che si era radunata per assistere all’inaugurazione del nuovo Reichstag quel pomeriggio. I risultati delle elezioni del 14 settembre avevano stupito tutti; tranne forse il leader della Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, un austriaco di nome Adolf Hitler. Benché i nazionalsocialisti esistessero da anni come partito marginale, in quell’occasione avevano ottenuto sei milioni e mezzo di voti, aumentando la propria rappresentanza da dodici seggi a centosette.

    «Come si può votare per il partito di Adolf Hitler?» si era domandata ad alta voce Frau Weitz, sbigottita, quando erano arrivati i risultati. «Ha scontato nove mesi di carcere per tradimento.»

    «Le persone sono in difficoltà.» Sara aveva pensato ai suoi compagni, alle loro facce stanche, ai vestiti logori, alle prospettive fosche, alla collera e alla disperazione. «Non riescono a trovare lavoro e hanno paura del futuro.»

    «Poi arriva quest’uomo chiassoso e arrabbiato» aveva detto Natan, «che promette di riportarli a una mitica età dell’oro fatta di prosperità, giurando di punire i nemici della Germania per averli offesi. Alcune persone si lasciano abbindolare. In questo caso, moltissime.»

    Mentre Sara si avvicinava al Palast-Café, le venne in mente che forse sarebbe stato più opportuno festeggiare la promozione di Natan con un picnic al Tiergarten, vicino al Reichstagsgebäude. Probabilmente suo fratello avrebbe preferito mangiare un panino osservando le proporzioni e l’umore della moltitudine in attesa dell’arrivo dei nuovi deputati.

    Vedendo Amalie in attesa davanti al caffè, si affrettò ad attraversare la strada. Benché fosse passato appena qualche giorno da quando le due sorelle si erano viste per lo Shabbat a casa dei loro genitori, Amalie la salutò con un abbraccio affettuoso, come se non si incontrassero da settimane.

    Amalie era così bella da togliere il fiato, alta e flessuosa, con scuri occhi espressivi e capelli color ebano che scintillavano come seta quando le ricadevano lungo la schiena o erano raccolti in uno chignon dall’eleganza incurante, come in quel momento. Alcune persone erano così cortesi da dire che Sara le assomigliava, ma lei aveva qualche dubbio in proposito, e non solo perché era più bassa di diversi centimetri e aveva i capelli di un castano più chiaro e gli occhi nocciola. Amalie era la bellezza della famiglia, e tutti lo sapevano.

    Le sue mani erano lisce, con lunghe dita aggraziate che, anche quando posate in grembo, sembravano pronte a muoversi sulle note di una musica che solo lei sentiva. Amalie era una pianista eccellente, ma qualche anno prima aveva rinunciato alla professione di concertista per il matrimonio e la maternità. Ormai suonava raramente in pubblico, limitandosi a qualche concerto di beneficenza nel corso dell’anno e a esibizioni informali durante le numerose feste che dava nella sua lussuosa casa in Tiergartenstrasse o nella tenuta avita di suo marito nel circondario di Minden-Lübbecke. Lui, il barone Wilhelm von Riechmann, era un attraente ufficiale della Reichswehr. Le loro figlie, di tre anni e dieci mesi, avevano ereditato i capelli scuri e i lineamenti graziosi della madre e il carattere allegro ed esuberante del padre.

    Sara non aveva mai visto una coppia più solida o meglio assortita, nonostante la differenza di religione. Certe volte desiderava che Dieter la guardasse come Wilhelm guardava Amalie, ma sapeva di pretendere troppo. Lei e Dieter stavano insieme solo da qualche mese, e sicuramente il vero amore aveva bisogno di più tempo per attecchire e sbocciare.

    Al contrario di Wilhelm, Dieter non era cresciuto circondato dagli agi e dal lusso. Dopo che suo padre era morto in una fangosa trincea francese durante la Grande Guerra, sua madre l’aveva allevato con un salario da domestica. Era andato a lavorare in un negozio di moquette quando aveva appena dodici anni, continuando a studiare da autodidatta con libri presi a prestito. Alla fine un fornitore del negoziante, un importatore di successo, aveva riconosciuto le sue capacità latenti e l’aveva assunto come apprendista. Da allora si era distinto costantemente nell’azienda, deciso, un giorno, a diventarne socio. Pragmatico e assennato, esprimeva il suo affetto portando a Sara i libri americani e inglesi che comprava durante i viaggi di lavoro e incoraggiandola a terminare gli studi, anche se il livello di istruzione della giovane superava già di gran lunga il suo. A differenza di molti altri uomini che Sara conosceva, Dieter non aveva bisogno che lei fosse debole e ignorante per sentirsi forte e saggio.

    «Forse avremmo dovuto scegliere un altro giorno per festeggiare la promozione di Natan» osservò Amalie dopo che ebbero chiacchierato per un po’ senza che il fratello si fosse fatto vivo.

    «Probabilmente in questo momento è al Reichstag, a bloccare i delegati per chiedere loro l’esclusiva.»

    «Ma ormai è direttore. Non dovrebbe assegnare questo incarico a un reporter?»

    Sara rise. «Riesci a immaginare Natan che si accontenta di stare seduto dietro una scrivania a gestire anziché seguire una pista interessante?»

    Aspettarono ancora un po’, scherzando su come punire Natan per il ritardo quando finalmente fosse arrivato, ma alla fine la fame le spinse a entrare nel caffè.

    «Parliamo di politica?» ironizzò Amalie dopo che si furono accomodate a un tavolino rotondo con una tovaglia di damasco bianco.

    «No, ti prego.» Sara tenne la voce bassa e lanciò un’occhiata intorno, trattenendo un sorriso. «Non vorrei scatenare una rissa. Potrebbero proibirci di tornare. Come stanno le mie amate nipoti?»

    Amalie si illuminò mentre descriveva le ultime imprese delle due figlie, dai tentativi della più piccola di camminare alle divertenti osservazioni e modi di esprimersi della più grande. La conversazione spaziò dalle questioni di famiglia agli studi di Sara e di nuovo alle bambine – con qualche digressione mentre il cameriere prendeva le ordinazioni e serviva loro una zuppa saporita e panini delicati –, per poi tornare alle ipotesi ad alta voce su come Natan stesse trascorrendo il pomeriggio.

    Dopo pranzo, le sorelle decisero di fare una passeggiata nel Tiergarten, ma si erano appena messe i cappotti dirette verso la porta quando un forte schianto di vetri infranti le fece trasalire. «Sara» urlò Amalie, strattonandola quando un secondo mattone sfondò ciò che restava della vetrina.

    «Heil Hitler!» gridò un uomo da fuori. Poi si udì un rumore di passi pesanti sul marciapiede e altre voci che ripetevano il saluto nazista.

    A un tratto la porta si spalancò e una coppia corse dentro, ansimante e sconvolta. «Non uscite» disse l’uomo con voce tremante, spingendo la sua compagna nel locale. «C’è una sommossa, dal Reichstagsgebäude a Potsdamer Platz e Dio solo sa dove.»

    Con il cuore che batteva all’impazzata, Sara si avvicinò furtiva alla vetrina rotta, scavalcando con cura i frammenti di vetro e tenendosi vicina alla parete. Sbirciando attraverso il telaio, intravide una moltitudine di uomini – decine, centinaia di uomini – precipitarsi lungo la strada e frantumare le vetrine al grido: «Heil Hitler! Deutschland erwache! Juda verrecke!». Uno di loro si fermò e levò in aria la mano, tra le dita stringeva un oggetto che scintillò al sole. Ci fu uno sbuffo di fumo, e Sara sussultò mentre gli altri clienti del caffè urlavano al risuonare di uno sparo. Altri colpi d’arma da fuoco esplosero in risposta, alcuni lontani, altri spaventosamente vicini.

    «Signora, per favore, si allontani da lì» gridò un uomo. Voltandosi, Sara vide il maître che chiamava i clienti verso il retro del caffè.

    Obbedì, e appena fu di nuovo al fianco di Amalie, sua sorella la afferrò per il braccio. «Devo andare a casa» disse tra le urla e gli schianti che risuonavano appena oltre la vetrina. «Sylvie e Leah…»

    «A casa sono al sicuro.»

    Amalie scosse convulsamente il capo. «A quest’ora la tata le porta sempre a giocare al parco.»

    Sara sentì il cuore che si fermava. «D’accordo.» Lanciando un’occhiata fuori, si convinse che i disordini si stessero inasprendo. «Restiamo unite e teniamo la testa bassa.»

    «Signore, vi prego, non andate!» supplicò un cameriere quando Sara socchiuse la porta e spiò fuori. Lungo la strada, uomini in completo o in tuta da operaio marciavano, gridavano e fracassavano le vetrine, con una strana luce spietata negli occhi. Altri – uomini e donne, alcuni dei quali tenevano per mano dei bambini – fuggivano davanti a loro. Uno scalpitio sostenuto annunciò l’arrivo della polizia prussiana a cavallo, ma i suoi tentativi di disperdere la folla con manganelli di gomma non fecero che acuire il parossismo di violenza.

    Il caos si placò per un attimo. Sara prese Amalie per mano e la condusse fuori, muovendosi d’istinto in perpendicolare rispetto al senso dei rivoltosi, anche se era la direzione opposta a quella di casa. Tirandosi dietro sua sorella, sfrecciò lungo un vicolo tranquillo, svoltò un angolo e spuntò su un largo viale, dove alcuni passanti si affrettavano per sfuggire ai disordini: uomini che stringevano valigette portadocumenti mentre correvano, donne che si premevano le borsette contro il fianco e camminavano a passi rapidi vacillando sulle décolleté dal tacco alto. Altri, perlopiù giovanotti, sorridevano entusiasti mentre si allontanavano per assistere agli scontri, o per parteciparvi.

    Spuntò un taxi. Sara agitò freneticamente la mano, ma il tassista la ignorò pur non avendo alcun passeggero a bordo. «Ormai Frau Gruen avrà portato le bambine a casa» assicurò ad Amalie, scrutando la strada in cerca di un altro taxi. «Sono certa che sono al sicuro…»

    D’un tratto un giovane dal viso arrossato girò l’angolo e per poco non le travolse. «Heil Hitler!» gridò, con la faccia a pochi centimetri da quella di Amalie. Tenendo il palmo piatto, sollevò il braccio così di scatto che Sara sentì l’aria smossa. «Juda verrecke!»

    Amalie trasalì, portandosi la mano alla gola, ma Sara la spostò e l’uomo filò via.

    Un altro taxi si stava avvicinando, Sara mollò la sorella e si infilò due dita in bocca, emettendo un fischio acuto come le aveva insegnato Natan. Spalancò la portiera, spinse dentro Amalie e salì dopo di lei. Diede al tassista l’indirizzo di sua sorella, aggiungendo: «Prenda la strada più lunga, se è più sicura».

    Annuendo, l’uomo ripartì.

    «Cosa sta succedendo?» chiese Amalie con il volto pallido e la voce tremante. «Siamo a Berlino. Qui certe cose non accadono.»

    Sbirciando attraverso il parabrezza, Sara notò che la calca era sempre meno numerosa, quindi si girò sul sedile per studiare la follia alle loro spalle. «Deve avere a che fare con l’inaugurazione del Reichstag.»

    I rivoltosi erano fascisti. Era evidente dalle urla e dai saluti, anche se non indossavano l’uniforme delle camicie brune.

    Il viaggio richiese il doppio del tempo necessario in una giornata normale. Sara e Amalie trovarono le piccole al sicuro con la tata ansiosa e sconvolta, che le aveva distratte con i giocattoli. Mentre Amalie, piangendo, abbracciava le bambine confuse, Sara riferì a bassa voce a Frau Gruen ciò che avevano visto.

    «Bestie fasciste» commentò seccamente l’altra.

    Sara annuì. E dov’era Natan in tutta quella follia? Quando incrociò lo sguardo della sorella, capì che anche lei se lo stava chiedendo.

    A quel punto Wilhelm fece irruzione nella stanza, scosso e indignato, abbracciando la moglie e baciando le amatissime figlie. «Perché ci odiano così tanto?» si lamentò Amalie, aggrappandosi al marito, con gli occhi luminosi pieni di lacrime. «Donne ed ebrei. Che minaccia rappresentiamo per quegli uomini, al punto di indurli a desiderare la nostra morte?»

    «Non lasciarti spaventare da quei codardi» disse Wilhelm. «Non permetterei mai a nessuno di fare del male a te o alle bambine. Mai.»

    Annuendo, Amalie gli posò la testa sul petto ma, quando chiuse gli occhi, due lacrime le scivolarono lungo le guance. Sara tacque. Wilhelm aveva buone intenzioni, ne era certa, ma qualche ora prima il denaro, il rango e persino la fede cristiana non sarebbero riusciti a proteggere sua moglie e le sue figlie, se per errore si fossero ritrovate nella mischia.

    Wilhelm fece qualche telefonata e, accertatosi che non ci fossero rischi, ordinò all’autista di accompagnare Sara nell’elegante dimora di Grunewald dove aveva vissuto per quasi tutta la vita. I genitori la accolsero sulla porta, la madre pallida e tremante, il padre chiuso in un

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