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Tutti i soldi del mondo
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E-book409 pagine6 ore

Tutti i soldi del mondo

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Info su questo ebook

Fortune e sfortune della famiglia Getty, nota per un triste fatto di cronaca – il rapimento di Paul Getty – che ha ispirato il film diretto da Ridley Scott e interpretato da Michelle Williams, Christopher Plummer e Mark Wahlberg.

Quando il sedicenne Paul Getty viene rapito, la notizia fa il giro del mondo in un lampo. Ma il nonno del ragazzo, J. Paul Getty, pur essendo l'uomo più ricco degli Stati Uniti, rifiuta di pagare il riscatto, scegliendo di ignorare le sue sofferenze. E così, nei dolorosi giorni successivi, è Gail, la madre, a dover negoziare con i sequestratori. E lo fa con grande determinazione nonostante sia distrutta dal dolore...

In questa particolareggiata biografia famigliare, John Pearson racconta le origini di una ricchezza straordinaria che nell'arco di alcune generazioni ha influenzato e talvolta corrotto la vita dei Getty. E tratteggiando i personaggi con vivido realismo, descrivendo gli aspri contrasti e gli inaspettati colpi di scena, delinea un avvincente ritratto della vita dei super-ricchi.
LinguaItaliano
Data di uscita18 dic 2017
ISBN9788858980095
Tutti i soldi del mondo
Autore

John Pearson

Pluripremiato scrittore e biografo inglese, ha lavorato per importanti quotidiani come l'Economist, il Times e il Sunday Times. Vive nel Sussex.

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    Anteprima del libro

    Tutti i soldi del mondo - John Pearson

    d’America.

    PARTE PRIMA

    1

    PADRE E FIGLIO

    Per Jean Paul Getty disporre di un ampio patrimonio e avere a che fare con tutti i problemi inerenti a una tale ricchezza non era certo una novità. Alla nascita era già milionario di seconda generazione: il padre, George Franklin Getty, aveva cominciato a costruire la fortuna di famiglia con i profitti del boom petrolifero in Oklahoma nel 1903. Ma, come di un albero imponente è difficile immaginare le origini di semplice arbusto, il patrimonio di Jean Paul Getty oscura quasi totalmente quello da cui si è sviluppato. Inoltre, oscura il fatto che senza il padre e la sua fortuna i miliardi di Getty forse non sarebbero mai esistiti.

    Quando Jean Paul aveva circa sessant’anni, era ricco come Creso, era molto orgoglioso di essere andato a letto con una duchessa, la sorella di un duca e una lontana cugina dello zar di Russia, e una delle sue più curiose abitudini era recitare parte del discorso di Lincoln a Gettysburg, che conosceva a memoria, a beneficio di coloro su cui voleva fare colpo. Alla fine, quasi con indifferenza, si lasciava scappare che Gettysburg stessa prendeva il nome da un suo antenato, tale James Getty, che aveva acquistato i terreni su cui sorge la storica cittadina da William Penn in persona e che poi aveva battezzato con il proprio nome.

    Può sembrare strano che l’uomo più ricco d’America si sentisse in dovere di sottolineare questa specie di legittimazione ancestrale. Ancora più strano è che la storia era del tutto falsa. Gettysburg deve il nome a una famiglia chiamata Gettys, e nessuno degli antenati di Jean Paul era associato in alcun modo alla città.

    Soprattutto, la storia di suo padre, che non richiedeva alcun tipo di esagerazione per titillare il palato dell’elegante aristocrazia inglese, era una di quelle storie di successo personale di cui qualsiasi figlio, in particolare americano, sarebbe stato di per sé fiero. Ma Jean Paul aveva le sue ragioni per giustificare i sentimenti contrastanti nei confronti del padre e del ruolo che la loro curiosa relazione aveva svolto nella bizzarra creazione della sua fortuna.

    Jean Paul nacque a Minneapolis nel 1892. Il padre George, un uomo potente e devoto, all’epoca aveva trentasette anni. La madre Sarah Risher – occhi scuri, capelli raccolti con cura e la bocca sempre piegata in un’espressione insoddisfatta – aveva tre anni in più e lontane origini olandesi e scozzesi.

    I Getty erano originari dell’Irlanda del Nord: sbarcati in America alla fine del XVIII secolo, avevano compiuto ogni tappa del melting pot dell’esperienza degli immigrati nel Nuovo Mondo, e così George aveva iniziato la sua vita come il figlio di una povera famiglia di contadini nel Maryland. Il padre morì quando aveva sei anni, lasciando il bambino a faticare nei campi con la madre finché lo zio Joseph Getty, un predicatore famoso per la fervente disciplina morale, lo mandò a scuola nell’Ohio.

    George era un ragazzo forte e un lavoratore indefesso, le avversità conseguenti alla morte del padre gli diedero una determinazione ferrea per innalzarsi al di sopra della povertà. Dallo zio Joe, nel frattempo, apprese i severi precetti del fondamentalismo cristiano, oltre a un odio per il demone dell’alcol che durò per tutta la sua vita e alla fede indissolubile in Dio che, attraverso la Sua grazia, avrebbe liberato l’umanità dalla miseria e dal peccato.

    Fu mentre frequentava la Ohio University per diventare insegnante che George posò per la prima volta lo sguardo su Sarah Risher. Lei non aveva alcuna intenzione di trascorrere la sua vita con un maestro di scuola, così fece promettere a George che sarebbe diventato avvocato e pagò le spese della facoltà di Legge con il denaro della sua dote.

    È appropriato che il cospicuo fondo che avrebbe dominato la fortuna della sua famiglia sia intitolato ancora a Sarah Getty, visto che per tutta la durata del matrimonio la lungimirante Sarah fu l’artefice e la principale sostenitrice del giovane, diligente e solerte marito, che spronò affinché avesse successo e diventasse ricco.

    Dopo un anno dalle nozze, nel 1879 George si laureò in legge alla University of Michigan e Sarah spingeva per trasferirsi nella prospera Minneapolis, dove il marito rivolse le sue competenze legali al ramo assicurativo e cominciò ad arricchirsi. Poco più che trentenni, George e Sarah comprarono una casa nel quartiere più elegante della città, viaggiavano su una carrozza tirata da due cavalli, erano una coppia benestante e di belle speranze nella capitale in rapida espansione del Minnesota.

    Invece che indebolire i loro valori, il successo rinsaldò la fede dei Getty. Attraverso il puritano zio Joe, George era pervaso da una concezione calvinista del bene e del male, perciò considerava la ricchezza terrena come una prova del favore divino. In pratica, credeva che Dio ricompensasse chi seguiva il suo Verbo e sorridesse a coloro che rinunciavano al diavolo e alle sue tentazioni.

    Da zelanti metodisti quali erano, George e Sarah erano persone serie e molto parsimoniose. Attenendosi alla promessa fatta a vent’anni, George rimase per sempre un astemio convinto. Fino a trentacinque anni la sua vita sembrò l’esempio perfetto dei benefici che derivano da una buona condotta cristiana. Aveva seguito la parola di Dio. Aveva lavorato alla sua vigna. Ora, come era accaduto a Giobbe, era arrivato il momento per George di affrontare i suoi patimenti.

    Quando era celebrato come l’uomo più ricco del pae se, uno dei pochi tesori che Jean Paul Getty custodiva in modo davvero speciale era una vecchia fotografia a tinte seppia, che ritraeva una bambina che non aveva mai conosciuto. Aveva i boccoli, un cerchietto tra i capelli e uno sguardo intenso.

    Era sua sorella, Gertrude Lois Getty, nata nel 1880, poco dopo il matrimonio tra George e Sarah, e morta per l’epidemia di tifo che spazzò il Minnesota nell’inverno del 1890. Anche Sarah aveva contratto quella febbre terribile e, nonostante fosse guarita, aveva sviluppato una sordità che peggiorò con gli anni, rendendola quasi non udente a cinquanta.

    Per George e Sarah la morte del loro raggio di sole fu una sofferenza che mise a dura prova la fede di cristiani. George era il più afflitto dei due, e per un certo periodo si rivolse allo spiritismo nel tentativo di contattare la figlia, in preda a una profonda crisi religiosa.

    Quando infine ne riemerse la sua fede era più ferrea che mai, e anzi abbandonò la chiesa metodista per il cristianesimo scientista, ai cui valori aderì per il resto della sua vita.

    Come a dimostrazione che Dio approvava quel cambio di dottrina, poco dopo George ricevette un segno. A quarant’anni Sarah, che aveva messo al mondo un solo figlio, scoprì di essere incinta. Il 15 dicembre 1892 l’arrivo di un neonato fu un regalo di Natale anticipato per sostituire la primogenita.

    Per mostrare gratitudine a Dio, come avrebbero potuto i Getty non avere le massime attenzioni per il loro bambino? George era grato non solo per la nascita di Jean Paul Getty, ma anche perché era un erede che avrebbe tramandato il nome di famiglia, a cui avrebbe destinato la ricchezza che stava accumulando grazie ai vantaggiosi affari nel ramo assicurativo che proliferavano nelle floride città del Midwest.

    Sarah chiamò il figlio come il cugino di George, John, ma, com’era nel suo stile, aggiunse un tocco di sofisticatezza europea cambiandolo in Jean. Con il tempo si sarebbe contratto nella sola iniziale J, anche se in famiglia di solito lo chiamavano Paul. Ma Sarah era stata più profetica di quanto forse avesse immaginato attribuendo al figlio quel legame con l’Europa, che, in futuro, avrebbe attirato come un magnete lui e molti altri membri della sua famiglia.

    Nonostante l’agio della vita benestante dei Getty, la compagnia di due genitori rigidi e anziani, ancora tormentati dal lutto per la figlia, non offriva molte possibilità di divertirsi o socializzare e Paul, sebbene protetto e tutelato, visse un’infanzia solitaria e arida di affetto. Sua madre lo incoraggiava a non frequentare altri bambini per paura che si ammalasse: se da un lato era fin troppo protettiva con il figlio, dall’altro faceva attenzione a non mostrarsi troppo affettuosa, in caso lo avesse perduto come era capitato con la primogenita.

    Anni dopo Paul raccontò alla moglie che da bambino non aveva mai ricevuto un abbraccio, mai festeggiato il compleanno o trovato i regali sotto l’albero a Natale. Il suo unico grande interesse era la raccolta di francobolli e il suo migliore amico un bastardino chiamato Jip.

    Senza dubbio l’infanzia claustrofobica lasciò un segno su di lui: sarebbe sempre rimasto un solitario, diffidente del prossimo, che serbava per sé i propri pensieri e sentimenti.

    È da molto ormai che padroneggio il controllo delle mie emozioni, scrisse con orgoglio a ottant’anni suonati.

    Ma l’infanzia noiosa e improntata sul rigore dei genitori lo influenzò in altri modi. Invece di accettare il grigio orizzonte dell’America puritana del XIX secolo si ribellava dentro di sé e, per il resto dei suoi giorni, una parte di lui avrebbe lottato per sfuggire al tedio e alla monotonia della vita domestica. Non si sarebbe mai sentito a suo agio in famiglia; così si spostava di continuo, e finché non diventò vecchio non si fermò mai troppo a lungo da qualche parte. Abbandonato a se stesso, Paul Getty sarebbe diventato un girovago.

    Con il lavoro che andava a gonfie vele, il beneplacito divino e la casa di Minneapolis in ordine, George Franklin Getty aveva tutte le ragioni di essere felice, e lo fu ancora di più quando ricevette un secondo segno di approvazione dall’Onnipotente.

    Nel 1903, quando Paul aveva dieci anni, il Signore gli indicò di andare a Bartlesville, una cittadina insignificante nell’Oklahoma che legalmente rientrava nei Territori indiani, per occuparsi di una richiesta d’indennizzo assicurativo. Bartlesville fremeva per gli albori della corsa al petrolio nello Stato: sotto quella terra arida e brulla giaceva una delle più vaste riserve petrolifere degli Stati Uniti. E George arrivò giusto in tempo per approfittarne.

    Suo figlio scrisse: Alcuni uomini sembrano possedere un’affinità sbalorditiva con il petrolio nel suo stato naturale. Sono dell’opinione che mio padre fosse in parte dotato di questo talento.

    Forse era così, ma all’inizio fu solo per speculazione passeggera che George investì 500 dollari nel Lot 50, con il permesso di trivellare 1.100 acri di prateria vergine nei dintorni di Bartlesville.

    Ma il Signore aveva consigliato bene George. Quando cominciarono le operazioni di trivellazione in ottobre il petrolio schizzò fuori quasi subito e, nel giro di un anno, George aveva costruito sei pozzi. A quei tempi il prezzo del greggio era 52 centesimi al barile e il Lot 50 ne produceva circa centomila al mese.

    Al di là del consiglio divino, altri fattori spiegavano la rapida creazione della ricchezza di George: grazie all’attività nel ramo assicurativo aveva già accumulato quantità considerevoli di capitale, inoltre conosceva la legge e conduceva gli affari con onestà e senza avidità.

    Nei frenetici tre anni successivi, George fece decollare la sua compagnia, che aveva battezzato Minnehoma Oil (un nome inventato, non preso da chissà quale romantica fanciulla pellerossa ma risultato dall’unione più che altro pratica di Minnesota e Oklahoma), ottenendo ottimi guadagni. Nel 1906, George Getty era milionario.

    2

    UN’INFANZIA SOLITARIA

    Paul aveva dieci anni quando arrivò a Bartlesville e vide per la prima volta il pozzo petrolifero sul famoso Lot 50 di George. Rimase molto deluso: sapeva che Bartlesville si trovava nei Territori indiani e si era aspettato pellerossa, squaw e wigwam. Invece si ritrovò in una cittadina nata dal niente che puzzava di petrolio ed era popolata da uomini con tute da lavoro unte.

    Ma per un bambino era un’esperienza formativa indimenticabile osservare il padre arricchirsi così all’improvviso e con tanta facilità. Dopo questa intima entrée nel mondo dei petrolieri, per lui non sarebbe stato difficile seguire la stessa strada, se mai fosse stato necessario. Fin dagli albori di Minnehoma Oil, George diede per scontato che il figlio lo avrebbe affiancato al comando e un giorno avrebbe ereditato le redini. Lo incoraggiò persino a investire la paghetta per comprare azioni della compagnia.

    «Così adesso devo lavorare per te» gli disse consegnandogli i certificati azionari. George aveva il vizio di dispensare perle di saggezza popolare, tra cui: «Il successo negli affari dipende dalla qualità delle informazioni», e: «Sono i fatti che contano, non le parole».

    Ma, per tutta l’infanzia e adolescenza, Paul fu impermeabile ai consigli del padre e, dal momento che aveva altri interessi con cui si teneva occupato, anche alla compagnia petrolifera.

    In là con gli anni, avrebbe ricordato con compassione e reverenza il padre George: «Era un grand’uomo, un vero filosofo» dichiarò molto serio, «mi ha insegnato tutto ciò che so».

    A dire la verità Paul fu un autodidatta, e gli scontri tra padre e figlio non accadevano di rado. A detta del cugino, Hal Seymour, «sembrava che Paul e suo padre cercassero di ostacolarsi a vicenda quando erano entrambi a casa».

    Per indole, Paul era più simile alla madre che al rigido George. Aveva ereditato da lei la smorfia insoddisfatta, l’irrequietudine, la natura riservata; poi, crescendo, si era palesata un’altra somiglianza tra loro. La sordità di Sarah la costringeva a isolarsi, e Paul cominciò a imitarne l’attitudine solitaria. Persino la sua voce tradiva un legame tra madre e figlio: la pronuncia misurata che diventò una sorta di segno particolare di Getty era il risultato delle sue conversazioni con la madre non udente. E come sua madre, arrivò a fare sempre più affidamento sulla compagnia di se stesso. Il cugino Hal lo ricordava come «incredibilmente solitario, persino per un figlio unico».

    A differenza dei suoi genitori traeva poca gioia dal cristianesimo, mentre la sua vera passione era leggere, e a dieci anni conosceva già i romanzi di G.A. Henty che avrebbe assaporato di nuovo a ottanta.

    Come autore di racconti d’avventura per ragazzi, Henty aveva ispirato una generazione intera di scolari vittoriani, trasportandoli dalla noia delle aule polverose ai periodi più movimentati della storia, popolati da personaggi elettrizzanti. Under Drake’s Flag, With Clive in India, With Moore at Corunna: i titoli stessi, per un bambino solitario, erano un invito a fuggire dal rigore cristiano della casa di famiglia nel Minnesota verso il mondo esterno, molto più ricco ed eccitante.

    Ora che George si arricchiva velocemente ed era spesso in Oklahoma, Sarah decise che era il momento giusto per traslocare di nuovo: dai campi coltivati e dai gelidi inverni del Minnesota al sole della California. Sosteneva di avere una salute cagionevole e la necessità di un clima mite e un cambio di orizzonte; come sempre, George fu d’accordo con lei.

    Dopo avere visitato San Diego, che bollarono come provinciale, i Getty comprarono un appezzamento di terreno lungo South Kingsley Drive, all’epoca una strada appena tracciata, sull’angolo con il tratto ancora sterrato di Wilshire Boulevard che si estendeva oltre i limiti cittadini di Los Angeles. Era lì che avrebbero costruito la loro casa.

    La famiglia Getty frequentava un gruppo ristretto di amici intimi, e il trasferimento li allontanò da quei pochi che avevano. Non bevevano – e non commettevano peccato – e la sordità crescente di Sarah acuì il senso di isolamento della famiglia. A quei tempi, prima della comparsa di apparecchi acustici efficaci, essere a proprio agio con gli altri era dura per qualsiasi famiglia con una madre che soffriva della più asociale tra le condizioni fisiche. Perciò ora più che mai i Getty dovettero ricorrere alle proprie risorse. Erano persone autosufficienti e solitarie, tratti che Paul imparò presto ed esercitò per tutta la vita, tramandandoli ai suoi figli.

    George tentò di essere severo con Paul quanto era con se stesso, ma più si mostrava esigente e più il figlio si irrigidiva. Era testardo come tutti i bambini solitari; e George, come spesso fanno i genitori, immaginava che la cura fosse la disciplina. Così, poco dopo essersi trasferiti a Los Angeles, lo spedirono come alunno esterno all’accademia militare del posto, che lui inevitabilmente detestò. Marce, uniformi e disciplina non erano per lui. Vi restò per quasi quattro anni, strinse nuove amicizie, non dimostrò alcuna affinità con la vita militare e quando ne uscì fu grato per la pace e l’intimità della sua stanza nella casa di South Kingsley Drive.

    Un tempo le teorie didattiche ritenevano che gli adolescenti appassionati di lettura e lasciati a se stessi fossero particolarmente a rischio di tentazioni sessuali. Questo era di certo il caso di Paul, e la vigorosa disciplina dell’accademia militare non era riuscita a curarlo. Una specie di topo da biblioteca – i suoi compagni di studi l’avevano soprannominato Dizionario Getty – si era opposto stoicamente a salutari attività di gruppo come marce, esercitazioni e ogni genere di competizione a squadre. Il risultato era prevedibile. Al pari con la passione per i libri sviluppò un’ossessione per le donne che non lo abbandonò mai. Aveva finalmente scoperto qualcosa per cui era portato: il sesso.

    Forse fu per via dei suoi modi, visto che era sempre cortese e affascinante con le donne (qualcuno commentò: «Paul non diceva mai no a una donna… o a un uomo»), o forse perché sapeva cosa voleva (una caratteristica che nelle questioni di sesso, come in quelle di affari, di solito porta a un risultato), ma sta di fatto che Paul a quattordici anni festeggiò la perdita della verginità.

    Per un ragazzino di una facoltosa famiglia cristiana cresciuto in California, quel successo (sempre che fosse vero) era molto più significativo di quanto lo sarebbe oggi. Per gli standard dei Getty era anche un peccato grave, che collocava Paul in rotta di collisione con la rigida dottrina puritana a cui erano solennemente devoti George e Sarah.

    Paul e suo padre cominciavano davvero a non sopportarsi più. A un periodo in cui si votò apparentemente allo studio dell’economia alla University of Southern California di Los Angeles, ne seguì un altro con lo stesso proposito alla facoltà di Legge a Berkeley. Ma a quanto pareva Paul non era tagliato per il college e a diciassette anni tornò a South Kingsley Drive in preda allo sconforto.

    A questo punto era diventato il pupillo adorato di sua madre, il dono di Dio e una consolazione per la sordità e la vecchiaia. Per non perderlo totalmente imparò a trascurare i suoi difetti, con la tendenza a difenderlo negli scontri con il padre.

    Sarah approntò una specie di esca – nonché un sistema escogitato per trattenerlo a casa – facendo in modo che Paul avesse un ingresso separato per la propria stanza, con il suo chiavistello. Come c’era da aspettarsi, poco dopo aver preso questa decisione Sarah iniziò a lamentarsi degli amici che Paul invitava a casa, anche se non poteva farci quasi niente… non più di quanto, insieme a George, potesse interferire con l’interesse sempre più acceso del figlio per la vita notturna di Los Angeles.

    Senza avvisare i genitori Paul cominciò a prendere in prestito l’auto del padre, una vistosa Chadwick a quattro porte da turismo, che tirava fuori dal garage in silenzio quando loro dormivano per fare il giro dei locali notturni in città con i suoi amici e rimorchiare ragazze.

    Una volta, dopo essere stato in una bettola con amici che Sarah non avrebbe approvato – e ragazze che le sarebbero piaciute ancora meno – accadde il disastro. Una di loro aveva rovesciato del vino rosso sulla tappezzeria dell’auto, e nonostante i loro sforzi per pulirla erano rimaste le macchie.

    Appena George le vide dovette rendersi conto della verità: Paul non soltanto si appropriava dell’ammiraglia di casa per folleggiare, ma addirittura cedeva al suo lato oscuro, il demone della bottiglia. La sua reazione, tuttavia, segnò un precedente importante per le future relazioni nella famiglia Getty. Nessun urlo belluino di rabbia paterna disturbò la quiete di South Kingsley Drive. Come sempre, visto che si trattava di Paul, sua madre Sarah era intervenuta di certo per placarlo e nessuno parlò più dell’incidente.

    George, però, affrontava lo scorno paterno a modo suo: la volta successiva in cui Paul tentò di sottrarre l’auto mentre dormivano, trovò le ruote posteriori ancorate a un pesante anello cementato nel pavimento del garage.

    Quando Sarah decise di emigrare con la famiglia a più di tremila chilometri a sud-ovest dal gelido Minnesota nella luminosa Los Angeles, quel tratto della California meridionale non era ancora il paradiso sovrappopolato alla fine dell’arcobaleno americano che è diventato oggi. Il panorama dorato era libero e sgombro, l’oceano pulito, il clima perfetto tutto l’anno non era inquinato dai prodotti dell’industria petrolifera grazie a cui George ammassava la sua fortuna.

    I Getty furono tra i primi emigrati dalla East Coast in cerca della felicità, ma non la trovarono nemmeno lì. I piaceri degli spazi aperti della California non erano adatti a George e Sarah. Per quanto riguardava lui, petroliere affaccendato, la vita era incentrata sui pozzi di trivellazione a milleseicento chilometri di treno più a est; lei, invece, trovava Los Angeles povera di cultura e comodità. La casa che costruirono era più un’ode ai ricordi della vecchia vita che una celebrazione di quella nuova, e ciò era sintomatico della loro personalità.

    A sessant’anni suonati Paul avrebbe finalmente ceduto e si sarebbe comprato una casa definitiva, ovvero la magione in stile Tudor a Sutton Place. La residenza di famiglia in California, in mezzo agli aranceti nelle campagne intorno a Wilshire Boulevard, ne fu certamente una sorta di precursore: anch’essa in stile Tudor con le finestre all’inglese, timpani sovraccarichi di orpelli e travi di legno appena laccato. Era il tipo di casa che sarebbe potuta appartenere a un altro antenato immaginario di Getty. Il sentimento di base intorno a cui ruotava era la nostalgia e pochi anni dopo, quando George si sentì abbastanza ricco da intraprendere con Sarah e Paul la prima, lunga vacanza insieme, li portò in Europa.

    Erano gli anni in cui gli eroi e le eroine dei romanzi di Henry James e Edith Wharton davano per scontato che soltanto in Europa esistesse la vera società civilizzata. Il Vecchio continente, in quell’epoca ormai lontana, era ancora la sorgente della storia e dell’arte, la fonte della vera eleganza per l’élite americana.

    L’ossessione per l’Europa, in realtà, era più frequente tra i milionari della East Coast che tra i nouveaux riches californiani come George e Sarah. Ed è interessante notare che, nel periodo in cui i cineasti che avevano lasciato New York per trasferirsi sulle colline di Hollywood cominciavano a produrre la controcultura che avrebbe conquistato l’Europa con una visione propria dell’America, i Getty intrapresero il complicato viaggio con tappa a New York per imbarcarsi verso l’Europa, con un programma studiato meticolosamente per visitare in auto le grandi capitali del continente nell’arco di tre mesi. Da quel momento in poi fu il vecchio mondo, più di quello nuovo, a catturare l’immaginazione di Paul Getty.

    Come spesso accadeva in famiglia, l’impulso a intraprendere il viaggio arrivò da Sarah. Fosse stato per George, sarebbe rimasto a occuparsi della compagnia petrolifera in Oklahoma. Ma lei insistette e così partirono: imbarcarono la Chadwick da turismo sul piroscafo e a Liverpool reclutarono un autista che parlava con un accento quasi incomprensibile, con cui salparono alla volta della Francia, con l’intenzione di vedere il più possibile.

    I Getty erano viaggiatori più vivaci che indulgenti, un’altra caratteristica che lasciò un’impronta sul figlio. A Parigi alloggiarono per due settimane all’Hôtel Continentale – frequentato da uomini d’affari e turisti borghesi – invece che al Ritz, che George avrebbe comunque potuto permettersi. Da lì imboccarono la strada per Monte Carlo, Roma, Ginevra e Amsterdam prima di riattraversare la Manica e visitare Londra, e infine imbarcarsi sul transatlantico Aquitania diretto a New York.

    Per Paul, con i capelli ondulati e gli occhi azzurrissimi puntati su tutte le ragazze che incrociava, quegli spostamenti caotici furono un’esperienza formativa. Amava viaggiare e gli piaceva soggiornare negli alberghi, eccitato dalla ricchezza e dalla possibilità di avventure nelle città europee. Ma era probabilmente inibito dalla presenza dei genitori ormai anziani, la madre una metodista severa e quasi sorda, il padre un cristiano scientista rinato, astemio e moralista. A diciotto anni Paul Getty non vedeva l’ora di tornare in Europa per gustare quei luoghi fantastici per conto proprio.

    Tornati a South Kingsley Drive, Sarah era felice che il figlio irrequieto avesse mostrato un interesse particolare per la cultura europea e, nonostante il timore di perderlo, sembrò appoggiare la sua idea di tornare in Europa dopo aver confessato l’intenzione di studiare all’università di Oxford.

    George era meno entusiasta. Le magnifiche guglie di Oxford non facevano per lui, ma Sarah lo convinse a elargire a Paul una rendita adeguata – tramite un assegno al portatore di 200 dollari al mese – e nell’agosto del 1912, dopo un breve soggiorno in Giappone, il figlio ventenne e unico erede di George salpò di nuovo alla volta dell’Europa, questa volta da solo.

    Viaggiò senza rinunciare alle comodità, come si confaceva al rampollo viziato di un milionario americano, evocando vagamente i Grand Tour sul continente che i figli dell’aristocrazia inglese un tempo intraprendevano su incoraggiamento delle famiglie per arricchirsi di cultura e conoscenza del mondo, prima di tornare a casa e all’eredità. Il viaggio europeo segnò profondamente Paul, anche se non come immaginavano i suoi genitori.

    Fin dal principio, per un americano solitario non troppo colto, fu un’impresa impegnativa affrontare da solo un viaggio del genere. Ma, come per le donne, Paul era particolarmente determinato e sicuro di ciò che voleva. Aveva già spinto George a procurargli una lettera di presentazione scritta da uno dei suoi vecchi sodali, l’avvocato repubblicano William Howard Taft, che nel frattempo era diventato presidente degli Stati Uniti. In Europa, poco alla volta acquistò una Mercedes da turismo di seconda mano, ordinò diversi abiti sartoriali a Savile Row e infine partì per la meta improbabile del suo viaggio: l’università di Oxford. Vi arrivò a novembre, quando il semestre era già cominciato.

    Nel periodo precedente la Prima guerra mondiale Oxford era una società chiusa, e questo giovane americano sconosciuto, che non aveva completato gli studi né a Los Angeles né a Berkeley, era poco incline all’apprendimento o all’educazione formale.

    Per sua fortuna non era importante, dal momento che all’epoca il livello medio di istruzione tra le matricole di Oxford era scandalosamente basso, e Paul non aveva deciso di frequentarla per laurearsi. Come Jay Gatsby, il vero motivo era un altro: il diritto di definirsi a pieno titolo uno studente di Oxford, scopo che più o meno riuscì a raggiungere grazie alla sua abituale caparbietà.

    La lettera del presidente degli Stati Uniti gli servì come presentazione per il rettore del prestigioso Magdalen College, l’agiato classicista dottor Herbert Warren, che trascorse un po’ di tempo con il giovane e misurato californiano e finì con il suggerire un tutor nella sua facoltà che lo seguisse negli studi in economia. Inoltre Paul diventò un membro esterno della St Catherine Society, non ancora quotata come facoltà associata di Oxford ma che gli permise di frequentare le lezioni, un’abitudine praticata molto di rado dagli studenti universitari di quei tempi. E non faticò a trovare una sistemazione nel centro della città.

    Sebbene in seguito dichiarò di aver, negli anni di Oxford, «più o meno soggiornato al Magdalen», insistendo di essere «accettato dai compagni come uno di loro», non si iscrisse mai né al Magdalen College né a Oxford. Non per questo smise di insinuare di esserne stato membro e, negli ultimi anni della sua vita, ripeteva spesso che il periodo trascorso nell’esclusivo college lo avesse introdotto agli ambienti dell’alta società inglese.

    «La prima persona con cui strinsi amicizia al Magdalen» ricordava con affetto, «fu il fratello dell’attuale conte di Portarlington, George Dawson-Damer.» Al secondo posto sul podio c’era «Sua altezza reale, il principe di Galles», anch’egli iscritto al Magdalen. Getty aggiungeva distrattamente che «ci chiamavamo per nome, David e Paul, e la nostra amicizia sincera e calorosa durò quasi mezzo secolo».

    Non fu mai chiaro quanto tempo trascorse Paul a Oxford o se alla fine si laureò come sosteneva – e nemmeno quanto fosse sincera e calorosa l’amicizia di una vita con il futuro re d’Inghilterra – ma era poco importante. Il fattore cruciale era che Paul, a Oxford, visse in un mondo che aveva sempre ammirato e invidiato. Alcuni degli amici del Magdalen invitavano il giovane rampollo californiano a casa loro per un classico in voga all’epoca edoardiana, il fine settimana fuori porta, al punto che Paul scrisse con nostalgia a proposito delle residenze che aveva visitato: «Spesso erano imponenti manieri di campagna che, negli ultimi fuochi del regno edoardiano, erano ancora all’apice del loro splendore».

    Lì, in netto contrasto con la semplicità dell’assolata California e i tetri pozzi petroliferi dell’Oklahoma, trovò un mondo di aristocratici, magnifiche dimore e arte sfarzosa, oltre a donne squisitamente raffinate. Era un mondo che lo avrebbe segnato per il resto dei suoi giorni.

    Esistono due tipi di snob: chi lo è di nascita e cerca di escludere chi non appartiene al proprio ambiente, e gli estranei tanto ammaliati da convincersi di farne parte. Paul rientrava in modo lampante nella seconda categoria, e da quel momento in poi dedicò una porzione cruciale delle sue ambizioni a rivendicare la propria affinità con quell’illusorio eppure sacro circolo di titoli, deferenza, antica ricchezza e maestà europea che scorse al Magdalen nel periodo dorato prima che calasse il buio su tutta l’Europa.

    Dopo Oxford, Paul non aveva alcuna fretta di tornare in California. Stava diventando un viaggiatore compulsivo, sempre intento a fuggire, e piuttosto che immergersi di nuovo nel tedio di South Kingsley Drive si ritrovò al volante della sua Mercedes, in marcia verso quella che decise era la sua città preferita: Parigi. Passò poi l’estate in Russia, l’autunno a Berlino e sotto Natale visitò Vienna, con l’idea di trascorrere l’inizio del 1914 in Egitto.

    Ma i soldi erano diventati un problema, che inevitabilmente sfociò in nuovi scontri con suo padre. Duecento dollari al mese significavano viaggi alla buona, e la richiesta di altro denaro amareggiava George, sempre più esasperato dalle bighellonate in Europa del figlio ribelle.

    A quel punto Paul era in viaggio da più di un anno e alla vigilia del suo ventunesimo compleanno – festeggiato a bordo di una rugginosa nave costiera in rotta per Alessandria – le sue richieste di fondi esplosero infine in un aspro scontro con il padre.

    Irritato oltre ogni dire da ciò che considerava la costante stravaganza e decadenza del figlio, George lo informò che si sarebbe ripreso quindicimila azioni di Minnehoma Oil intestate a Paul. Il gesto suscitò una reazione velenosa da parte di quest’ultimo, a dimostrazione della rabbia e del risentimento che era capace di scatenare verso il padre quando gli metteva i bastoni tra le ruote.

    Dopo la richiesta diretta di restare in possesso delle quote, Paul lo attaccò per la durezza mostrata nei confronti del suo unico figlio, rammentandogli che William Randolph Hearst, il giorno del suo ventunesimo compleanno, ricevette dal padre il San Francisco Examiner insieme all’edificio che ospitava il giornale, del valore di almeno 3 milioni di dollari. Aggiunse in tono risentito che non aveva alcuna intenzione di «rinunciare ai diritti acquisiti dalla nascita» e concluse che l’atteggiamento del padre non gli lasciava altra possibilità se non quella di «comportarsi come con un avversario».

    A quanto pare fu ancora una volta Sarah a dirimere la vicenda. Poco dopo scrisse con molto affetto a Paul confessando che avrebbe voluto tanto raggiungerlo presto, e all’inizio dell’estate convinse George a compiere una seconda traversata oceanica per incontrare il figlio ribelle a Parigi, assaporare il momento e tornare a casa tutti insieme.

    Nel giugno 1914 i Getty si erano riconciliati e alloggiavano sempre all’Hôtel Continentale, dove Paul rivelò le sue vere ambizioni per il futuro. Dal momento che aveva tutta l’intenzione di continuare a viaggiare

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