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Dieci sfumature di giallo
Dieci sfumature di giallo
Dieci sfumature di giallo
E-book2.373 pagine29 ore

Dieci sfumature di giallo

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Info su questo ebook

• L’enigma della candela ritorta
• La valle degli spiriti
• Il Cerchio Scarlatto
• L’enigma dello spillo
• Il mistero delle Tre Querce
• La porta dalle sette chiavi
• Lo smeraldo maledetto
• La porta del traditore
• L’orma gigante
• Il laccio rosso

Introduzione di Renato Olivieri
Edizioni integrali

L’intreccio del racconto, la trama avvincente, i colpi di scena che si susseguono, la suspense che avvince il lettore fino all’ultima pagina: sono questi gli ingredienti di un buon giallo, e ben pochi scrittori hanno saputo padroneggiarli con la stessa abilità e sapienza di Wallace. Questo volume raccoglie la produzione migliore del grande autore inglese: dieci casi appassionanti, dieci crimini intricati, dieci matasse da sbrogliare in cui Wallace, con inventiva sempre nuova, costruisce altrettante situazioni criminose diversissime. Una sfida continua per il lettore, che potrà affinare e misurare il proprio acume investigativo, potrà nutrire e saziare il desiderio di brivido nelle pagine dello scrittore che più di ogni altro ha fatto del poliziesco un genere ormai classico.


Edgar Wallace
nacque nel 1875 a Greenwich (Londra). Cominciò a lavorare giovanissimo; a diciott’anni si arruolò nell’esercito ma nel 1899 riuscì a farsi congedare. Fu corrispondente di guerra per diversi giornali. Ottenne il suo primo successo come scrittore con I quattro giusti, nel 1905. Da allora scrisse, in ventisette anni, circa 150 opere narrative e teatrali di successo, nonché la sceneggiatura del celeberrimo King Kong. Definito “il re del giallo”, è morto nel 1932
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854158139
Dieci sfumature di giallo
Autore

Edgar Wallace

Edgar Wallace (1875–1932) was one of the most popular and prolific authors of his era. His hundred-odd books, including the groundbreaking Four Just Men series and the African adventures of Commissioner Sanders and Lieutenant Bones, have sold over fifty million copies around the world. He is best remembered today for his thrillers and for the original version of King Kong, which was revised and filmed after his death. 

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    Anteprima del libro

    Dieci sfumature di giallo - Edgar Wallace

    480

    Titoli originali: The Clue of the Twisted Candle, The Crimson Circle, The Clue of the New Pin,

    traduzioni di Roberta Formenti; The Valley of Ghosts, The Three Oak Mystery, traduzioni di

    Luciano Rocchetti; The Door with Seven Locks, traduzione di Marika Boni Grandi; The Square

    Emerald, traduzione di Alda Carrer; The Traitor’s Gate, traduzione di Maria Grazia Bonfanti;

    Big Foot, traduzione di P. E. Ribotta; The Frightened Lady, traduzione di Valeria Leotta.

    Tutti i romanzi, tranne L’orma gigante, sono pubblicati su licenza della Garden Editoriale S.r.l.

    Prima edizione ebook: luglio 2013

    © 1995 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5813-9

    www.newtoncompton.com

    Edgar Wallace

    Dieci sfumature di giallo

    L’enigma della candela ritorta

    La valle degli spiriti

    Il Cerchio Scarlatto

    L’enigma dello spillo

    Il mistero delle Tre Querce

    La porta delle sette chiavi

    Lo smeraldo maledetto

    La porta del traditore

    L’orma gigante

    Il laccio rosso

    Introduzione di Renato Olivieri

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Dieci sfumature di giallo

    Introduzione

    Edgar Wallace si chiamava anche Horatio perché sua madre, un’attricetta inglese di nome Polly, aveva una venerazione per l’Amleto di Shakespeare, e anche perché l’uomo che l’aveva sedotta – un attore – si chiamava Horatio. I genitori di Wallace non si erano mai sposati. Polly era bruttina, ma simpatica. Fu lei a inventarsi il cognome da attribuire al figlioletto.

    Il piccolo Edgar, dopo la nascita a Greenwich, nella primavera del 1875, era stato battezzato e dato a balia alla moglie di un pescatore che aveva già dieci figli.

    Era un bambino diverso dagli altri. Aveva ereditato da sua madre l’abilità nel raccontare storie, e anche frottole. E poi la voglia di andare a teatro, anzi, «aveva il teatro nel sangue». Pochi studi, per lui la scuola era un peso. Tuttavia gli piaceva annotare su un quaderno quel che gli passava per la mente, soprattutto ricordi, ai quali (diceva) aggiungeva sempre «un po’ di colore drammatico».

    Alla scuola domenicale, che frequentava a dodici anni, scoprì il romanzo, cominciò a comprarne di seconda mano pagandoli uno o due pence.

    Il suo destino era segnato. Anche se dovette cominciare a guadagnarsi qualche scellino davanti a una macchina litografica che stampava su sacchetti di carta nomi e indirizzi di droghieri e fornai. Otto ore e mezza di lavoro al giorno, che lui giudicava una perdita di tempo, quasi quanto la scuola. La paga era esigua. Cambiò un mucchio di stamperie finché decise di dedicarsi all’attività di fattorino con bicicletta e poi allo strillonaggio di giornali. Quest’ultimo incarico gli piaceva di più, ma lo trovava scomodo d’inverno per via del freddo.

    Così optò per un negozio di calzature economiche a Peckham. Però la vita di commesso era noiosa – scrive la sua biografa Margaret Lane – «ed Edgar si sentiva depresso e insoddisfatto. Non era spiacevole indossare un camiciotto bianco e guadagnare uno scellino in più il sabato sera, quando la chiusura veniva protratta, ma non era possibile convincersi che in quel lavoro potesse esservi un avvenire. Il salario era troppo magro...».

    Insomma si licenziò e andò a lavorare in una fabbrica di oggetti di gomma. C’era il problema dell’odore della gomma, che si liquefaceva nei recipienti di nafta. Non lo sopportò a lungo. Meglio imbarcarsi su un battello da pesca come cuoco di bordo e servitore del capitano.

    Aveva quindici anni e, per di più, soffriva il mal di mare. Il Mare del Nord, come si sa, è del tutto sconsigliabile a chi, debole di stomaco, è costretto a mangiare stufato di montone. Quando il peschereccio attraccò al porto di Grimsby, scese a terra con i compagni, trovò una scusa per allontanarsi da loro e stabilì di tornare a Londra a piedi. Ma Londra era lontana. Le scarpe lo tormentavano, aveva fame e possedeva un solo scellino, rubato al capitano.

    Giunse a Londra tre settimane dopo. Era riuscito persino a sottrarre da una finestra al pianterreno, dove erano state appoggiate ad asciugare, un paio di scarpe più comode. Mangiava pane e beveva acqua.

    Tutte queste vicende gli serviranno più avanti, e come! Era pigro, fantasioso, non era robusto. Mangiava prosciutto, patate, aringhe, e si sentiva terribilmente infelice. Aveva intuito che, se non avesse dato in fretta una svolta alla sua vita, sarebbe rimasto, come diceva lui, «dentro un pozzo profondo». Per uscirne gli occorreva un’idea Scrisse ai genitori adottivi: «Lascio il mio attuale padrone (imprenditore di lavori stradali) perché è l’opposto di quello che sono io. Detesta i libri, romanzi e simili, e gli piace parlare di muratura, gesso, cemento, nello stesso modo in cui io adoro la letteratura... E ordinato e fastidioso».

    L’idea qual era, a questo punto?

    Arruolarsi per sette anni come soldato nel reggimento Royal West Kent. Ecco i connotati della nuova recluta di Sua Maestà:

    Età: 18 anni e 8 mesi

    Statura: m. 1,56

    Peso: kg. 52,250

    Torace: cm. 92

    Commenta la biografa: «Era denutrito e non aveva ancora finito di crescere. Fu mandato per ferrovia alla Caserma Maidstone. Nel dormitorio una malinconica fila di brande e avanzi di modeste decorazioni natalizie. Sul bordo di una branda era seduto un vecchio soldato intento a lucidare i bottoni metallici della sua uniforme».

    Certo, l’esercito non poteva incoraggiare le sue attitudini letterarie e nella biblioteca della caserma, invece di libri, c’erano un paio di scacchiere per giocare a dama. Altra delusione. Inoltre le esercitazioni erano di una monotonia esasperante. Unico vantaggio il cibo sostanzioso. Si irrobustì e cominciarono a crescergli i peli sul labbro superiore.

    Una cosa lo colpì, in quei mesi. Doveva curarsi un dente, e lo mandarono all’Ospedale militare: qui ebbe la certezza che sarebbe stato meglio, anziché passare il tempo in fanteria, dedicarsi alla sanità. Divisa turchina, alloggio migliore, paga più attraente. Siccome sapeva fare una fasciatura perché era stato anche all’Ambulanza San Giovanni, fu trasferito senza troppi indugi al Deposito di Aldershot.

    Qualche mese dopo, promosso infermiere, ebbe l’ordine di presentarsi a un reparto destinato in Sudafrica.

    Qui, finalmente, il giovanotto scrisse un poema che gli fu pubblicato da un giornale locale, il Cape Times, lo lesse persino Kipling e non gli dispiacque. Edgar, entusiasta del suo primo successo, riceveva lettere da ammiratori e ammiratrici e già immaginava guadagni strepitosi, che tuttavia tardavano a venire. Continuava il suo lavoro all’ospedale con tale abilità che l’ammiraglio Radwson aveva mandato un encomio al comando generale per la sua dedizione.

    Tra fasciature e anestetici scriveva versi e raccontini. Aveva anche conosciuto Ivy, una fanciulla bionda, timida, riservata, figlia di un missionario, che si era subito innamorata di lui, così diverso da tutti i giovanotti che le giravano intorno. Lo credeva un genio. Si sposarono – nonostante il padre di lei avesse seri dubbi sulla sua affidabilità – qualche anno dopo, nel 1901, ed ebbero quattro figli.

    Comunque, invece di dedicarsi alla guerra anglo-boera, Edgar riuscì a diventare corrispondente dell’Agenzia Reuter, ottenendo in dotazione un cavallo, un carretto a due ruote trainate da un mulo, un servo indigeno e una macchina fotografica. In più cento sterline. Tutto quel danaro, quando lo vide, fu una gioia per il giovane sognatore. Che, come al solito, si trovò di fronte alla realtà: il pony, per esempio, gli costò venti sterline. Gliene rimasero ottanta. E poi non sapeva cavalcare.

    Trovò la soluzione comprandosi una bicicletta. Commento della biografa: «Edgar pedalò attraverso la savana, mentre il cavallo se ne stava tranquillamente a pascolare a Orange River».

    Come giornalista era bravo. E anche vanitoso. Quando il Daily News pubblicò il suo primo articolo (senza concedergli l’onore della firma) comprò ugualmente una quantità di copie e le spedì a Londra a tutti i suoi amici e conoscenti.

    Finita la guerra fu nominato direttore di un giornale di Johannesburg, con duemila sterline l’anno di stipendio. Aveva un bungalow e uno stuolo di servitori indigeni. Qualunque personaggio arrivasse in città era inevitabilmente invitato a pranzo o a cena a casa sua. L’agiatezza trasformò Edgar in un signore robusto, con i baffi folti, cappello chiaro a larghe tese, bastone con pomo d’oro, l’anello al mignolo.

    Le duemila sterline gli scivolavano tra le dita come sabbia. Di questa propensione alla prodigalità non guarirà mai. Prodigalità e ostinazione. Non conosceva il valore dei compromessi. Non ne era capace. Finì per mettersi in conflitto con il suo editore, un finanziere autorevole. Le urla della disputa furono udite sin sulla strada. Addio posto assicurato, addio stipendio. Aveva debiti con tutti, compresi il macellaio e il panettiere.

    Tornò con la famiglia in Inghilterra. Durante la traversata riuscì a perdere le sole ottanta sterline che gli erano rimaste giocandosele al poker. Impegnò l’orologio d’oro con relativa catena.

    Aveva questo di buono: non si perdeva d’animo. Riuscì a ottenere una sistemazione al Daily Mail a 750 sterline l’anno. Non solo, ma il giornale lo mandò in Canada e lui si fece onore con articoli che, al solito, piacquero al pubblico, ma soprattutto al suo direttore. Girava il mondo e scriveva. Scriveva e scriveva. E cercava quattrini. Che perdeva al gioco, o in imprese insensate. Come quella di lanciare un suo libro, I quattro giusti, con migliaia di manifesti e manifestini per tutta Londra e con un concorso che avrebbe premiato i lettori che avessero scoperto la conclusione del romanzo. Alcuni la indovinarono. Perdette una quantità di soldi.

    In quegli anni gli accadde di incontrare su un autobus una certa signora Thome, proprietaria di alcune piccole riviste popolari, che aveva conosciuto qualche tempo prima. Durante la conversazione le raccontò quel che aveva visto nei suoi viaggi in Africa e alla signora non parve vero di dargli qualche buon consiglio. Alla fine gli chiese: «Perché non mi scrive qualche novella d’ambiente africano?».

    Edgar non se lo fece ripetere e cominciò a dettare (era un precursore nato: usava un dittafono) le sue avventure in Congo, incontri con tribù selvagge, pericoli a ogni passo, fiumi immensi, cascate, pantere e coccodrilli. Inventò un personaggio: il commissario Sanders, un eroe di corporatura adeguata, di poche parole, che applicava senza esitazione la legge...

    Queste novelle ebbero naturalmente un notevole successo. Guadagnò molte sterline. E molte ne perse, al solito, in spese irragionevoli, al gioco e alle corse dei cavalli. Fumava come un turco sigarette con il bocchino. Lunghi bocchini che acquistava a dozzine. Gli era venuta anche un’altra buona idea: perché non inserire nei racconti la pubblicità di qualche prodotto meritevole di essere conosciuto meglio? Per esempio un insetticida? Detto fatto, nominò l’Insectox in una sua storia poliziesca. Si fece pagare, naturalmente, l’inserzione.

    La sua vita con la moglie e i figli procedeva tra alti e bassi, a seconda delle vicende professionali, dei posti che perdeva, degli editori che non lo capivano (diceva lui), della sua smania di arricchire e, nello stesso tempo, della sua impossibilità di amministrare i soldi che guadagnava scrivendo.

    Nell’estate del 1913 Edgar decise di condurre Ivy e i bambini a trascorrere le vacanze in Belgio. Anche il loro rapporto, che si era deteriorato, migliorò. Forse le cose sarebbero andate meglio se... se non ci fosse stata di mezzo una donna di cui lui si era disgraziatamente invaghito. Gli faceva da segretaria e da confidente e quando, nel 1914, scoppiò la guerra, lui aveva un appartamento «privato» perché ormai la sua attività di narratore popolare aveva assunto dimensioni tali da obbligarlo a stipendiare alcune dattilografe e un segretario, che però fu richiamato alle armi.

    È così che appare nella vita di Edgar Violetta King, una ragazza di 18 anni, capelli corvini, occhi grigi, lentiggini, buone referenze. L’assunse come segretaria. Non immaginava, allora, che sarebbe diventata la sua seconda moglie. Che avrebbe sostituito la fragile Ivy. Violetta, detta Vivetta, era assai ambiziosa e sapeva piacere, soprattutto agli uomini. E poi era un’ottima dattilografa.

    Nel 1921, Edgar e Violetta si sposarono. Lei gli sopravvisse un solo anno. Morì nel 1933.

    Durante la guerra, Edgar fece parte di un reparto speciale che doveva far la guardia, di notte, ai giardini di Buckingham Palace. I turni duravano cinque ore. Aveva una bella divisa. Si era fatto fotografare di profilo, con il berretto inclinato. Si recava a Palazzo Reale in taxi.

    Nei dodici anni del suo secondo matrimonio prese a lavorare di gran lena: si alzava verso le cinque del mattino. Ignorava che cosa fosse l’insonnia. Gli bastavano poche ore di riposo. Lavorava in veste da camera, beveva litri di tè, fumava di continuo. Scriveva anche per il teatro, sua grande passione. Fu in quel periodo che vide la luce Il mistero delle Tre Querce, che, come gli altri romanzi di questa raccolta, ebbe un gran successo. Era piaciuto il protagonista della storia, l’investigatore Socrates Smith, detto Soc, che era solito dire: «L’omicidio non è un’arte, né una scienza, è solo un incidente di percorso».

    Secondo i calcoli degli specialisti, Edgar Wallace scrisse ben 173 opere, di cui più della metà di genere poliziesco. A parte 17 lavori teatrali. Era riuscito persino a buttar giù un intero romanzo durante un fine settimana. Veniva chiamato il «re del thriller» e nell’ultimo periodo della sua vita guadagnò 250.000 dollari l’anno. Ma amava talmente il lusso ed era talmente prodigo che quando morì, a conti fatti, gli eredi si erano trovati con 140.000 sterline di debiti.

    Lo aveva sconvolto, tra l’altro, la morte della sua prima moglie Ivy. Era pieno di rimorsi nei suoi riguardi. Lei lo aveva amato e lui l’aveva fatta soffrire. Nella cappella di Rosebank, dove si erano sposati 24 anni prima, aveva fatto mettere una lapide di marmo che diceva: Alla memoria di Ivy Maud moglie diletta di Edgar Wallace.

    Era dotato di una fantasia eccezionale, aveva una grande abilità nel saper coinvolgere il lettore nelle sue storie ricche di colpi di scena. Alcuni letterati gli imputavano uno stile frettoloso e denso di luoghi comuni. In effetti il bisogno costante di produrre novità per far fronte ai debiti, e anche la sua natura inadatta all’introspezione, non gli permettevano di approfondire la psicologia dei personaggi, sempre descritti a tinte forti, senza troppe sfumature.

    Abile nei dialoghi, spesso divertenti poiché possedeva un notevole senso dell’humor, era seguito con passione da milioni di lettori in tutto il mondo. Non per niente il titolo della sua storia, uscita in Italia nel 1940, era questo: Edgar Wallace, biografia di un fenomeno.

    I personaggi li inventava lì per lì e sparivano nel romanzo successivo. Li fabbricava in serie. Una macchina umana che sapeva mettere su una catena di montaggio di storie criminali. Eppure Wallace è anche un maestro della letteratura popolare. Non ci sono dubbi al riguardo.

    Era ammalato di diabete. Nella sua vita aveva bevuto una quantità di tè zuccherato. Quando scriveva non faceva che ingurgitare tè e fumare sigarette una dietro l’altra. Sempre eccessivo.

    Due anni dopo la morte, avvenuta nel febbraio del 1932, tutti i debiti che aveva lasciato vennero pagati dai suoi eredi con i diritti d’autore dei libri che continuavano ad avere ammiratori in tutto il mondo. Come oggi, del resto, a 63 anni dalla scomparsa.

    RENATO OLIVIERI

    1995

    Opere di narrativa di Edgar Wallace

    Il luogo della prima edizione, salvo indicazione contraria, è Londra.

    Il titolo italiano si riferisce all’edizione Mondadori; ove compare un secondo titolo, questo si riferisce all’edizione Newton Compton (nella collana II Giallo Economico Classico).

    The Four Just Men, 1906 (I quattro giusti).

    The Council of Justice, 1908 (Il consiglio dei quattro).

    Angel Esquire, Bristol, 1908 (Angel Esquire).

    The Duke in the Suburbs, 1909 (Il duca nei sobborghi).

    The Nine Bears, 1910 (I nove).

    Sanders of the River, 1911 (Sanders del fiume).

    The People of the River, 1912 (Il popolo del fiume).

    The River of Stars, 1913 (Il terrore sul fiume).

    The Fourth Plague, 1913 (Il quarto flagello).

    Grey Timothy, 1913 (Il cavallo grigio).

    The Admirable Carfew, 1914 (L’ammirabile Carfew).

    Bosambo of the River, (1914) (Bosambo del fiume).

    The Man Who Bought London, 1915 (Lo strano miliardario; L’uomo che comprò Londra).

    The Melody of Death, Bristol, 1915 (La donna senza amore).

    Bones, 1915, (L’uomo che non dormiva).

    The Tomb of Ts’in, 1916, (La tomba di Ts’in; La tomba dell’imperatore Ts’in).

    A Debt Discharged, 1916, (Il «circolo del delitto»).

    The Keepers of the King’s Peace, 1917 (I guardiani della pace del Re).

    The Just Men of Cordova, 1917 (I giusti di Cordova).

    The Secret House, 1917 (La casa segreta).

    The Clue of the Twisted Candle, 1918 (Il mistero della candela ritorta; L’enigma della candela ritorta).

    Kate, Plus Ten, 1917 (La regina dei ladri).

    Those Folk of Bulhoro, 1918 (Gli strani casi di Bulhoro).

    Down Under Donovan, 1918 (Il segno sulla caviglia).

    Private Selby, 1919 (La dama bruna).

    The Man Who Knew, 1919 (Il vecchio che sapeva).

    The Adventures of Heine, 1919 (Servizio segreto).

    The Green Rust, 1919 (La ruggine verde).

    The Daffodil Mystery, 1920 (Il mistero del narciso).

    Jack O’ Judgment, 1920 (Il fante di fiori).

    The Law of the Four Just Men, 1921 (La legge dei quattro).

    Bones in London, 1921 (Caccia ai milioni).

    The Book of All-Power, 1921 (Il libro della potenza).

    The Angel of Terror, 1922 (Un dramma in riviera).

    Sandi the King-Maker, 1922 (Il re di Boginda).

    The Valley of Ghosts, 1922 (La valle degli spiriti).

    Mr Justice Maxwell, 1922 (La miniera di Don Alfonso).

    The Crimson Circle, 1922 (Il cerchio rosso; Il cerchio scarlatto).

    The Missing Million, 1923 (Cercasi un milione).

    The Books of Bart, 1923 (I quattro libri di Bart).

    The Green Archer, 1923 (L’arciere fantasma; L’arciere verde).

    Captains of Souls, 1923 (L’uomo dai due corpi).

    The Clue of the New Pin, 1923 (L’enigma dello spillo).

    Double Dan, 1924 (Il camaleonte).

    The Sinister Man, 1924 (Contrabbando).

    The Dark Eyes of London, 1924 (Il testamento di Gordon Stuart).

    The Three Oak Mystery, 1924 (Il mistero delle tre querce).

    Room 13, 1924 (Il signor Reeder, investigatore).

    The Face in the Night, 1924 (Il volto nell’ombra; Il volto nella notte).

    A King by Night, 1925 (Il pugnale di vetro; Il pugnale di cristallo).

    The Fellowship of the Frog, 1925 (La compagnia dei ranocchi; La confraternita dei ranocchi).

    The Mind of Mr J.G. Reeder, 1925 (L’astuzia del signor Reeder).

    The Strange Countess, 1925 (Condanna a vita).

    The Daughters of the Night, 1925 (Le figlie dell’abisso).

    Barbara on her own, 1926 (Il grande giorno).

    The Avenger, 1926 (Il giustiziere).

    Eve’s Island, 1926 (La crociera del Pealo).

    The Door with Seven Locks, 1926 (La porta delle sette chiavi; La porta dalle sette chiavi).

    The Square Emerald, 1926 (La collana di smeraldi; Lo smeraldo maledetto).

    The Day of Unity, 1926 (Un segreto di Stato).

    The Black Abbot, 1926 (L’abate nero).

    The Three Just Men, 1926 (I tre giusti).

    The Northing Tramp, 1926 (Il vagabondo).

    The Million-Dollar Story, 1926 (N. 222).

    The Man from Morocco, 1926 (Il reduce dal Marocco; L’uomo venuto dal Marocco).

    The Joker, 1926 (Il grande Stefano).

    The Yellow Snake, 1926 (Il mercante di Siangtan).

    Penelope of the «Polyantha», 1926 (La nave dei misteri).

    The Ringer, New York, 1926 (Il mago), anche in versione teatrale.

    The Terrible People, 1926 (Occhio per occhio; Mercanti di morte).

    Big Foot, 1927 (L’orma del gigante; L’orma gigante).

    The Traitor’s Gate, 1927 (La porta del traditore).

    Fiat 2, New York, 1927 (Il levantino; Louba il levantino).

    The Forger, 1927 (Moneta falsa; Il falsario).

    The Mixer, 1927 (La ripresa del brigante).

    The Man Who Was Nobody, 1927 (L’uomo che non era nessuno).

    The Hand of Power, 1927 (La grande idea; Il segno del potere).

    Terror Keep, 1927 (Il covo sul mare; Il castello del terrore).

    The Feathered Sergent, 1927 (L’inafferrabile).

    The Brigand, 1927 (Il brigante senza macchia).

    The Double, New York, 1928; The Clever One (Una o due?).

    The Gunner, 1928; Gunman’s Bluff, New York, 1929 (Il signore della notte).

    The Twister, 1928 (Il briccone galantuomo).

    Again the Three Just Men, 1928 (Il ritorno dei tre).

    The Flying Squad, 1928 (La squadra volante).

    The Squeaker, 1928 (Il castigo della spia).

    The Thief in the Night, 1928 (II diamante rubato).

    The India Rubber Man, 1929 (La taverna sul Tamigi; La taverna sul fiume).

    The Lone House Mystery, 1929 (La casa solitaria).

    Four Square Jane, 1929 (I quattro quadrati).

    The Golden Hades, 1929 (Il marchio di Pluto).

    The Ghost of Down Hill, 1929 (Il fantasma di Down Hill).

    Again the Ringer, 1929 (Il ritorno del mago).

    Red Aces, 1929 (Il diario del signor Reeder).

    The Clue of the Silver Key, 1930 (Il giorno 17).

    White Face, 1930 (Maschera bianca).

    The Lady of Ascot, 1930 (La contessa di Ascot).

    On the Spot, 1931 (La legge della foresta).

    The Man of the Carlton, 1931 (Il bandito invisibile).

    The Coat of Arms, 1931 (L’avventuriero).

    The Frightened Lady, 1932 (Il laccio rosso), anche in versione teatrale con il titolo: The Case of the Frightened Lady.

    When the Gangs Came to London, 1932 (Spavento sulla metropoli).

    The Guv’nor and Other Stories, 1932 (Il tesoro e altri racconti).

    Whe Shall Free, 1935 (L’incognita di Monte Carlo).

    Di Edgar Wallace la Newton Compton ha pubblicato, nella collana Il Giallo Economico Classico:

    L’abate nero, 1993; La porta dalle sette chiavi, 1993; L’orma gigante, 1993; Il segno del potere, 1993; Lo smeraldo maledetto, 1993; Il mistero delle tre querce, 1993; L’enigma della candela ritorta, 1993; L’arciere verde, 1993; il Ciclo dei Giusti (sei volumi disponibili anche in cofanetto: I quattro Giusti, Il consiglio dei quattro, I Giusti di Cordova, La legge dei quattro, I tre Giusti, Il ritorno dei tre), 1993; La valle degli spiriti, 1994; Il pugnale di cristallo, 1994; L’enigma dello spillo, 1994; La porta del traditore, 1994; Il laccio rosso, 1994; La confraternita dei ranocchi, 1994; Il cerchio scarlatto, 1995; Mercanti di morte, 1995; Il volto nella notte, 1995; Il falsario, 1995; Louba il levantino, 1995; L’uomo venuto dal Marocco, 1995; La taverna sul fiume, 1995; Il castello del terrore, 1995.

    L’enigma della candela ritorta

    1.

    Il treno delle 4.15 dalla stazione Victoria a Lewes era stato fatto passare da Three Bridges a causa di un deragliamento e, nonostante John Lexman fosse stato tanto fortunato da riuscire a prendere la coincidenza per Beston Tracey, la piccola corriera che era l’unica comunicazione tra il villaggio e il mondo esterno era già partita.

    – Se potete aspettare una trentina di minuti, signor Lexman – disse il capostazione – telefonerò al villaggio e farò venire Briggs a prendervi.

    John Lexman osservò il panorama che gli si stagliava davanti e scrollò le spalle. – Vado a piedi – ribatté conciso e, dopo aver lasciato la valigia in stazione, si allacciò l’impermeabile fino al mento e uscì con decisione sotto la pioggia per percorrere i quattro chilometri che separavano la piccola stazione ferroviaria da Little Beston.

    La pioggia era incessante e dava l’impressione di voler continuare a scrosciare per tutta la notte. Le alte siepi che costeggiavano entrambi i lati della stretta stradina avevano le foglie cadenti e la strada era piena di pozzanghere fangose. Si fermò sotto le fronde protettive di un grosso albero per riempire e accendersi la pipa e, voltandola verso il basso, continuò la sua camminata. Tralasciando la pioggia violenta e incessante che penetrava nelle fessure del suo impermeabile, John Lexman passeggiava volentieri.

    La strada che portava da Beston Tracey a Little Beston era associata nella sua mente ad alcune delle situazioni più geniali dei suoi romanzi. Lì infatti aveva concepito Il Mistero Tilbury. Tra la stazione e la sua casa aveva inventato la trama che aveva reso Gregory Standish il romanzo giallo più popolare dell’anno. Infatti John Lexman era uno scrittore molto ingegnoso.

    Sebbene, parlando in termini letterari, alcuni critici lo considerassero uno scrittore popolare, aveva un pubblico incredibilmente numeroso che restava affascinato dalle storie mozzafiato che tenevano i lettori sulla corda fino alle ultime pagine, alla risoluzione del mistero.

    Ma mentre camminava per la strada deserta che portava a Little Beston, non pensava né ai libri, né alle trame né ai suoi personaggi. Aveva avuto due colloqui a Londra uno dei quali, in circostanze normali, lo avrebbe riempito di gioia. Aveva parlato con T.X. e T.X. era T.X. Meredith, che un giorno sarebbe diventato il capo del dipartimento investigazioni criminali e che ora era vicecommissario di polizia, impegnato nei lavori più delicati.

    Con il suo solito modo di fare scontroso e tempestoso, T.X. gli aveva suggerito un’idea geniale per un romanzo, una delle migliori che uno scrittore potrebbe escogitare. Ma non era a T.X. che John stava pensando mentre saliva sulla collina sulla quale sorgeva la sua piccola casa, chiamata con una certa, eccessiva solennità, Beston Priory.

    Stava pensando all’intervista che aveva avuto con quel greco il giorno prima. John Lexman aggrottò la fronte ripensandoci. Aprì il cancelletto della sua casa ed entrò cercando di scrollarsi di dosso il più possibile il ricordo e la spiacevole sensazione che la discussione con l’usuraio gli avevano lasciato.

    Beston Priory era più grande di un cottage e una delle pareti era senza dubbio un residuato dell’antica casa che il pio Howard aveva costruito nel tredicesimo secolo. Era una casa piccola e senza pretese, di stile elisabettiano con strani tetti e alti comignoli, con le finestre con le grate e i giardini più bassi rispetto alla casa, con i roseti e il prato ordinato che le conferivano un certo aspetto signorile, fonte di grande orgoglio per il padrone di casa.

    John Lexman passò sotto il portico e si soffermò per un momento nell’ampio ingresso per togliersi l’impermeabile fradicio di pioggia.

    L’ingresso era buio. Grace si stava senza dubbio cambiando per la cena e John decise di non disturbarla, visto anche il suo attuale stato d’animo. Attraversò il lungo passaggio che lo condusse sul retro della casa, dove aveva lo studio. Nell’antico camino era acceso un bel fuoco e il calore della stanza gli diede un senso di pace e di sollievo. Si tolse le scarpe e accese la luce sul tavolo.

    La sua stanza si poteva definire come la «tana» di un uomo. Le sedie coperte di cuoio, la grande e affollatissima libreria che occupava la sezione di un’intera parete, la solida scrivania di legno di quercia coperta di libri e di manoscritti incompleti tradivano, senza possibilità di dubbio, la professione del padrone.

    Dopo essersi tolto le scarpe, riaccese la pipa e si diresse al camino, restando a fissare il fuoco scoppiettante.

    Era un uomo poco più alto della media, magro, con le spalle larghe, simili a quelle di un atleta. Infatti aveva praticato il canottaggio e aveva combattuto come pugile dilettante arrivando in semifinale del campionato inglese. Aveva un viso duro, magro e tuttavia bello. I suoi occhi erano grigi e profondi e le sopracciglia erano dritte e autoritarie. La bocca, grossa e generosa, e il volto colorito gli conferivano l’aspetto sano di chi vive molto all’aria aperta.

    Non aveva l’aria di uno studioso recluso o di un intellettuale. In effetti era un tipico inglese dall’aspetto sano, simile a quanti militavano nell’esercito o in marina o nei lontani avamposti dell’impero, assegnati ai lavori di amministrazione di questo enorme apparato.

    Sentì un leggero tocco alla porta e, prima di poter invitare a entrare, la porta si aprì e Grace Lexman apparve. Per fare economia di parole nella descrizione, si possono citare solo due aggettivi: coraggiosa e dolce. Lui attraversò la stanza per andarle incontro e la baciò con molta tenerezza.

    – Non mi ero accorta che fossi tornato fino a quando… – disse lei prendendolo a braccetto.

    – Fino a quando non hai visto la terribile confusione che il mio impermeabile ha creato nell’ingresso – sorrise lui. – Conosco i tuoi metodi, Watson!

    Lei rise ma subito tornò seria.

    – Sono molto contenta che tu sia tornato. Abbiamo un visitatore – affermò.

    Lui inarcò le sopracciglia.

    – Un visitatore? Chi può arrivare fino a qui in un giorno come questo?

    Lei lo fissò con uno sguardo strano. – Il signor Kara – disse.

    – Kara? Da quanto tempo è qui?

    – È arrivato alle quattro.

    Non c’era entusiasmo nel tono di lei.

    – Non capisco perché non ti piace il vecchio Kara! – la schernì suo marito.

    – Ci sono molte ragioni – rispose lei, insolitamente concisa.

    – Comunque – ribatté John Lexman dopo un momento di riflessione – il suo arrivo è opportuno. Dov’è?

    – In salotto.

    Il salotto di Priory era un’ampia sala con il soffitto basso, decorata molto artisticamente, come diceva Lexman. Delle comode poltrone, un grande pianoforte, una grata medievale, un tappeto molto sfruttato ma ancora bello e due grossi candelabri d’argento erano le principali caratteristiche della sala.

    Nella stanza c’erano un’armonia, una tranquilla compostezza e un’atmosfera rilassante ideali per uno scrittore con i nervi tesi. Due grandi vasi di bronzo pieni di violette e un altro, colmo di primule gialle come il sole radioso e di altri fiori primaverili, riempivano la stanza di una leggera fragranza.

    Un uomo si alzò in piedi quando John Lexman entrò e attraversò la sala con passo deciso. Era singolarmente bello sia di viso che di portamento. Era più alto dello scrittore e aveva un atteggiamento armonioso.

    – Non vi ho trovato in città – commentò – e così ho pensato di fare una corsa fin qui per vedervi.

    Parlava con la voce ben modulata di chi ha frequentato a lungo le scuole private e le università inglesi. Non c’era nessuna traccia di accento straniero, tuttavia Remington Kara era greco, ma nato ed educato in parte nella turbolenta regione dell’Albania.

    I due si strinsero le mani con calore.

    – Volete restare a cena?

    Kara si guardò intorno e fissò con un sorriso Grace Lexman. Lei si alzò in piedi imbarazzata, con le mani unite e una espressione non molto incoraggiante.

    – Se alla signora Lexman non dispiace – ribatté il greco.

    – Sarei lieta se vi fermaste – rispose lei con voce meccanica. – È una notte terribile e non credo che trovereste qualcosa da mangiare in questa zona di Londra, anche se dubito – aggiunse con un leggero sorriso – che la cena che vi offrirò sarà degna di questo nome.

    – Ciò che mi offrirete sarà più che sufficiente – dichiarò l’uomo che, con un leggero inchino, si voltò verso il marito.

    Pochi minuti dopo erano assorti in una fitta conversazione a proposito di libri e di località. Grace approfittò dell’occasione per uscire di scena. Poi la conversazione tra i due uomini passò dai libri in generale ai romanzi di Lexman.

    – Ho letto tutti i vostri romanzi, sapete – disse Kara.

    John fece una smorfia.

    – Poveretto! – commentò con ironia.

    – Al contrario – ribatté Kara. – Io non mi compatisco affatto. C’è un grande criminale nascosto in voi, Lexman.

    – Grazie – rispose John.

    – Non vi ho offeso, vero? – sorrise il greco. – Mi stavo solo riferendo alla genialità delle vostre trame. A volte i vostri libri mi irritano. Se non riesco a capire la soluzione del mistero prima della metà del romanzo, mi arrabbio. Naturalmente, nella maggior parte dei casi, io conosco la soluzione prima di aver raggiunto il quinto capitolo.

    John lo guardò sorpreso e si sentì un po’ irritato.

    – E io che mi vanto a dire che nelle mie storie è impossibile scoprire la soluzione fino all’ultimo capitolo! – esclamò.

    Kara annuì.

    – Ed è così per tutti i lettori comuni, ma non dovete dimenticare che io sono uno studioso. Io seguo ogni piccola traccia e indizio che voi lasciate intravedere.

    – Dovreste conoscere T.X. – commentò John ridendo e alzandosi dalla scrivania per ravvivare il fuoco.

    – T.X.?

    – T.X. Meredith. È il tizio più ingegnoso che si possa incontrare. Siamo stati a Caius insieme e, a proposito, è un mio grande amico. Appartiene al dipartimento di investigazioni criminali.

    Kara annuì. C’era una luce di interesse nei suoi occhi e avrebbe di certo continuato il discorso se in quel momento non fosse stata annunciata la cena.

    Non fu una cena particolarmente divertente perché Grace, come al solito, non partecipò alla conversazione e il signor Kara e suo marito dovettero colmare questa lacuna. La donna stava avvertendo una curiosa sensazione di depressione, la premonizione di qualche disgrazia che non sapeva definire. Più volte, durante il corso della cena, ripensò agli eventi della giornata per scoprire la ragione del proprio disagio.

    Di solito, quando adottava questo sistema, trovava sempre le cause banali del proprio stato d’animo, ma ora rimase sconcertata nel rendersi conto che la soluzione le veniva negata. Le lettere che aveva ricevuto quella mattina erano tutte serene e non c’erano stati problemi in casa o con la servitù. Si sentiva bene e nonostante sapesse che John aveva dei problemi finanziari dopo quella sfortunata speculazione con l’oro rumeno e sospettasse che il marito avesse dovuto fare dei debiti per coprire queste perdite, tuttavia le prospettive erano così favorevoli e il successo del prossimo romanzo così promettente che lei, probabilmente giudicando con saggezza la scarsa importanza del denaro perso, era meno preoccupata di lui.

    – Prendete il caffè nello studio, vero? – chiese Grace. – So che mi scuserete. Devo parlare con la signora Chandler a proposito dell’interessante argomento della biancheria.

    Fece a Kara un leggero cenno del capo uscendo dalla sala e sfiorò la spalla di John.

    Gli occhi di Kara seguirono l’elegante figura di lei fino a quando non scomparve dalla sua vista. Poi: – Vorrei parlarvi, Kara – disse John Lexman. – È questione di cinque minuti.

    – Posso dedicarvi anche delle ore, se volete – ribatté l’altro.

    Andarono insieme nello studio: la cameriera portò i liquori e il caffè che posò sul tavolo prima di scomparire.

    All’inizio la conversazione rimase sulle generali e Kara, che era un sincero ammiratore del comfort di quella stanza e che si lamentava per la propria incapacità di assicurarsi con il denaro la tranquillità che John aveva ottenuto con scarse opportunità, fece alcune domande al suo ospite.

    – Immagino che sia impossibile per voi fare arrivare qui la corrente elettrica – disse Kara.

    – Sì – rispose l’altro.

    – Perché?

    – Mi piace la luce di questa lampada.

    – Non è la lampada – borbottò il greco con una piccola smorfia. – Odio queste candele.

    Indicò con un gesto della mano la mensola sulla quale erano posate sei candele di cera bianca.

    – Perché diavolo odiate le candele? – chiese l’altro sorpreso.

    Kara non rispose subito, limitandosi a scrollare le spalle. Poi disse: – Se voi foste rimasto legato a una sedia con un sacchetto di polvere da sparo accanto e una candela che si consuma inesorabilmente… mio Dio!

    John rimase sbalordito dalla passione che vide trasparire sul viso dell’altro.

    – Sembra emozionante – commentò.

    Il greco si asciugò la fronte sudata con un fazzoletto di seta e la mano gli tremava un poco.

    – È molto più che emozionante – ribatté.

    – E quando è successo? – chiese lo scrittore con curiosità.

    – In Albania – rispose l’altro. – È successo molti anni fa ma i demoni mi mandano sempre degli impulsi per ricordarmi quel fatto.

    Non spiegò chi fossero i demoni o in quali circostanze avesse vissuto una simile esperienza, e cambiò subito argomento.

    Vagabondando per la stanza si soffermò davanti agli scaffali, fermandosi ogni tanto a leggere i titoli dei volumi. Alla fine prese un voluminoso tomo.

    Brasile Selvaggio – lesse. – Di George Gathercole; conoscete Gathercole?

    John, che stava riempiendo la pipa con il tabacco che teneva nella scrivania, annuì.

    – L’ho incontrato una volta; un tipo molto taciturno. È davvero poco loquace e, come coloro che hanno fatto e visto molte cose, è meno incline di altri a parlare di se stesso.

    Kara guardò il libro con un’espressione pensierosa sul volto, voltando le pagine con gesti pigri.

    – Io non l’ho mai visto – fece rimettendo il libro al suo posto – e tuttavia deve a me il suo nuovo viaggio.

    L’altro sollevò lo sguardo.

    – A voi?

    – Sì; dovete sapere che è andato in Patagonia per me. Crede che ci sia dell’oro laggiù. Dal suo libro scoprirete molti particolari sul sistema montagnoso del Sudamerica. Io ero interessato alle sue teorie e così gli ho scritto. Abbiamo iniziato una corrispondenza e, come risultato, lui ha deciso di intraprendere una spedizione geologica per conto mio. Io gli ho mandato i soldi per le spese e lui è partito.

    – E non l’avete mai visto? – chiese Lexman sorpreso.

    Kara scosse la testa.

    – Ma questo non è da… – cominciò il suo ospite.

    – Non è da me, stavate per dire. È vero, non è nel mio stile, ma mi sono reso conto che si tratta di un uomo insolito. L’ho invitato a cena da me prima che partisse da Londra e, in tutta risposta, ho ricevuto un messaggio da Southampton con il quale mi diceva che era già sulla strada.

    Lexman annuì.

    – Deve essere una vita maledettamente interessante – osservò. – Immagino che starà via molto tempo?

    – Tre anni – rispose il signor Kara continuando a ispezionare lo scaffale della libreria.

    – Invidio chi passa la vita in giro per il mondo a scrivere libri – commentò John aspirando dalla pipa. – È la vita migliore.

    Kara si voltò. Era proprio dietro allo scrittore che quindi non poteva vederlo in faccia. Ma nella sua voce c’erano una veemenza insolita e una passione strana.

    – Cosa avete da lamentarvi? – chiese con la sua pronuncia un po’ blesa. – Avete un lavoro creativo, la migliore professione che un uomo possa avere. Lui, poveretto, è legato alla realtà. Voi spaziate in tutti i mondi della vostra immaginazione. Potete creare personaggi e distruggerli. Potete creare dilemmi affascinanti, ingannare migliaia di persone e alla fine svelare il mistero!

    John rise.

    – Avete ragione, in un certo senso – convenne.

    – E inoltre – continuò Kara con voce più bassa – credo che voi possediate l’unica cosa che rende la vita degna di essere vissuta: una moglie incomparabile.

    Lexman si voltò, fissando Kara. C’era una nota particolare nell’immobile e affascinante viso dell’altro, tanto che John si sentì mancare il respiro.

    – Non capisco… – cominciò.

    Kara sorrise.

    – Sono stato impertinente, vero? – chiese in tono scherzoso. – Ma non dimenticate, mio caro amico, che io ero molto ansioso di sposare vostra moglie. Non credo che sia un segreto. E quando l’ho persa ho avuto nei vostri confronti dei pensieri che non mi fa piacere ricordare.

    Aveva recuperato tutto il proprio autocontrollo, riprendendo la sua passeggiata lungo la stanza.

    – Dovete ricordare che io sono greco e un greco moderno non è un filosofo. E dovete anche tenere presente che sono un favorito dalla fortuna e ho sempre ottenuto ciò che volevo, fin da quando ero bambino.

    – Siete fortunato – commentò l’altro voltandosi verso la scrivania e prendendo la penna.

    Per un momento Kara non disse nulla e poi si controllò, come se stesse per dire qualcosa di sbagliato. Alla fine ridacchiò.

    – Mi chiedo se sia proprio così – disse.

    Poi chiese con improvvisa energia: – Che cosa succede tra voi e Vassalaro?

    John alzandosi dalla sedia, si avvicinò al camino e rimase a fissare il fuoco con le gambe divaricate e le mani dietro la schiena. Kara interpretò questo atteggiamento come la risposta alla sua domanda.

    – Vi avevo messo in guardia contro Vassalaro – dichiarò avvicinandosi all’altro e prendendo dal camino un pezzo di carta per accendere il sigaro. – Mio caro Lexman, i miei compaesani non sono gente con la quale trattare certi argomenti.

    – Sembrava così disponibile all’inizio – disse John parlando tra sé e sé.

    – E ora non lo è più – borbottò Kara. – Gli usurai sono sempre così, mio caro. Siete stato pazzo a fidarvi di lui. Avrei potuto prestarvi io i soldi.

    – Ci sono molte ragioni per le quali non mi farei mai prestare dei soldi da voi – ribatté John con calma – e credo che voi abbiate citato la ragione principale quando avete detto, poco fa, che volevate sposare Grace, come io già sapevo.

    – A quanto ammonta il debito? – chiese Kara fissando le sue curatissime unghie.

    – Duemilacinquecento sterline – rispose John con una leggera risata – e in questo momento io non ho nemmeno duemilacinquecento centesimi.

    – Aspetterà?

    John Lexman scrollò le spalle.

    – Ascoltate, Kara – fece all’improvviso – non prendetelo come un rimprovero, ma ho conosciuto Vassalaro tramite voi e quindi sapete bene che tipo è.

    Kara annuì.

    – Bene, posso assicurarvi che è stato davvero sgradevole – continuò John con una smorfia. – L’ho visto ieri a Londra ed è chiaro che ha intenzione di fare una grande confusione. Contavo molto sul mio ultimo lavoro per ripagarlo e sono stato uno stupido a fare delle promesse che poi non sono riuscito a mantenere.

    – Capisco – commentò il signor Kara. – La signora Lexman è al corrente di questa faccenda?

    – Un po’ – rispose l’altro.

    Continuò a passeggiare senza sosta per la stanza, con le mani dietro la schiena e il mento sul petto.

    – Naturalmente non le ho detto la parte peggiore e quale bestia sia quello.

    Si fermò, voltandosi. – Sapete che ha minacciato di uccidermi? – chiese.

    Kara sorrise.

    – Non c’è niente da ridere! – esclamò l’altro furibondo. – Mi ha quasi colpito e sono riuscito a dargli un calcio.

    Kara posò le mani sul braccio dell’altro.

    – Non sto ridendo di voi – ribatté. – Rido al pensiero di Vassalaro che minaccia di uccidere qualcuno! È il più grosso codardo del mondo! Cosa diavolo l’ha spinto a fare questo passo drastico?

    – Ha detto di avere grande bisogno di soldi – rispose l’altro con voce lugubre – e credo che sia vero. Era fuori di sé per la rabbia e la preoccupazione, altrimenti gli avrei dato ciò che si meritava.

    Kara, che aveva ripreso a camminare per la stanza, si fermò di fronte al camino, guardando il giovane scrittore con un sorriso paterno.

    – Voi non capite Vassalaro – disse. – Vi ripeto che è il più grande codardo del mondo. Scoprirete che è pieno di frasi minacciose e terribili, ma basta schioccargli le dita per fargli venire un infarto. Avete un revolver, a proposito?

    – Oh, che sciocchezza! – ribatté l’altro con durezza. – Non posso certo invischiarmi in un melodramma simile!

    – Non sono sciocchezze – insistette l’altro. – Quando siete a Roma e avete a che fare con un greco dei bassifondi, dovete usare un metodo che faccia sensazione. Se lo battete probabilmente non vi perdonerà mai e pugnalerà voi o vostra moglie. Se invece rispondete al suo dramma con un altro melodramma, estraendo al momento giusto il revolver, otterrete l’effetto che cercate. Avete un revolver?

    John andò alla scrivania e, aprendo un cassetto, prese una piccola Browning.

    – Questa è tutta la mia artiglieria – commentò. – Questa pistola non ha mai sparato, me l’ha mandata uno sconosciuto ammiratore come regalo di Natale.

    – Un curioso regalo natalizio – commentò l’altro esaminando la pistola.

    – Immagino che il misterioso donatore pensasse, visto i romanzi che scrivo, che vivessi in un arsenale di revolver, pugnali e spade – dichiarò Lexman recuperando un po’ del suo buon umore. Era accompagnato da un biglietto.

    – Sapete come funziona? – chiese l’altro.

    – Non me ne sono mai preoccupato – rispose Lexman. – So che si carica facendo scorrere il retro ma, visto che il mio ammiratore non mi ha mandato le munizioni, non ho mai provato.

    In quel momento si sentì bussare alla porta.

    – La posta – spiegò Lexman.

    La cameriera entrò con una lettera sul vassoio e lo scrittore la prese con la fronte crucciata.

    – È di Vassalaro – disse quando la ragazza se ne andò.

    Il greco prese la lettera per esaminarla.

    – Che brutta calligrafia! – commentò prima di ripassare la busta a John.

    Lo scrittore aprì la busta ed estrasse una mezza dozzina di fogli gialli, ma solo uno portava un messaggio. Era molto breve. Devo vedervi senz’altro questa notte. Incontriamoci all’incrocio tra Beston Tracey e la Eastourne Road. Io sarò lì alle undici in punto e se volete avere salva la vita dovrete portarmi un sostanziale acconto. Era firmata Vassalaro.

    John la lesse ad alta voce. – Dev’essere impazzito per scrivere una lettera simile – commentò. – Incontrerò quel demonio e gli darò una lezione che non dimenticherà mai.

    Passò la lettera all’altro che la lesse in silenzio.

    – È meglio che portiate il vostro revolver – commentò Kara restituendo la lettera a John.

    Lexman guardò l’orologio. – Ho ancora un’ora ma ci vorranno quasi venti minuti per arrivare sulla Eastbourne Road.

    – Lo incontrerete? – chiese Kara in tono sorpreso.

    – Certo. Non voglio che venga a casa mia a fare una scenata; quell’animale sarebbe capace di fare una cosa simile.

    – E lo pagherete? – chiese Kara con voce tranquilla.

    John non rispose. In casa dovevano esserci circa dieci sterline più un assegno postdatato, di una trentina di sterline. Riguardò la lettera. Era scritta su una carta strana, ruvida come la carta assorbente e in alcuni punti l’inchiostro, assorbito dalla superficie porosa, era scomparso. I fogli bianchi erano stati evidentemente inseriti dall’uomo che, in preda a una forte agitazione, non si era reso conto di ciò che faceva.

    – Terrò questa lettera – disse John.

    – Credo che sia una buona idea. Vassalaro probabilmente non sa che è contro la legge scrivere lettere intimidatorie e questo foglio di carta potrebbe diventare un’arma micidiale nelle vostre mani, in certe eventualità.

    C’era una piccola cassaforte in un angolo dello studio e John l’aprì con una chiave che aveva in tasca. Aprì uno dei cassetti di acciaio, prese dei documenti e vi inserì la lettera. Poi richiuse il cassetto e girò la chiave.

    Kara rimase a guardarlo intensamente, come se trovasse particolarmente interessante questa procedura.

    Poco dopo se ne andò.

    – Mi piacerebbe venire con voi a questo vostro eccitante incontro – dichiarò – ma si dà il caso che abbia degli affari altrove. Lasciatemi ripetere che io, se fossi in voi, porterei con me il revolver e, alla prima mossa falsa del mio eccellente compatriota, premerei un paio di volte il grilletto; non dovrete fare altro.

    Grace si alzò dal pianoforte, quando Kara entrò in salotto, e mormorò qualche frase convenzionale per esprimere il suo dispiacere per la visita tanto breve. Kara sapeva bene che non c’era sincerità nelle parole di lei. Era un uomo del tutto privo di illusioni.

    Rimasero a parlare per un momento.

    – Vado a vedere se il vostro autista dorme – affermò John uscendo dalla stanza.

    Seguì un breve silenzio tra gli altri due.

    – Non credo che voi siate molto felice di vedermi – disse Kara. La sua franchezza era imbarazzante per la donna, che arrossì.

    – Sono sempre felice di vedervi, signor Kara, come tutti gli altri amici di mio marito – affermò con voce dura.

    Lui chinò la testa. – Essere amico di vostro marito ha un significato per me – commentò e poi, ricordandosi qualcosa all’improvviso, aggiunse: – Volevo portare via un libro; credete che vostro marito se ne risentirà?

    – Lo prenderò io per voi.

    – Non voglio disturbarvi – protestò lui. – Conosco la strada.

    Senza aspettare la risposta della donna, se ne andò, lasciandole la spiacevole sensazione di avergli concesso eccessivo movimento in casa sua. Rimase assente mezzo minuto e quando tornò aveva un libro sotto braccio.

    – Non ho chiesto il permesso di Lexman per prenderlo – dichiarò – ma sono molto interessato all’autore. Oh, eccovi! – Si voltò verso John che tornava in quel momento. – Posso prendere questo libro sul Messico? – chiese. – Ve lo restituirò domani mattina.

    I coniugi Lexman rimasero sulla soglia a guardare le luci dell’auto di Kara che si allontanavano. Poi tornarono in silenzio in salotto.

    – Sembri preoccupato, caro – disse lei posandogli una mano sulle spalle.

    Lui sorrise piano.

    – È per i soldi? – chiese lei con ansia.

    Per un momento John fu tentato di dirle della lettera. Ma controllò l’impulso, rendendosi conto che sua moglie non gli avrebbe mai permesso di uscire se avesse saputo la verità.

    – Non è nulla di grave – si schermì. – Devo andare a Beston Tracey all’ora dell’arrivo dell’ultimo treno. Aspetto dei documenti.

    Odiava la sola idea di mentirle e perfino questa bugia a fin di bene gli ripugnava. – Temo che ti sia annoiata questa sera – affermò. – Kara non è stato di grande compagnia.

    Lei lo guardò pensierosa. – Non è cambiato molto – disse con voce lenta.

    – È un uomo molto bello, vero? – chiese lui con un tono ammirato. – Mi chiedo cosa hai visto in uno come me, quando avevi un uomo non solo ricco ma anche molto bello.

    Lei rabbrividì.

    – Io ho visto un aspetto del signor Kara che non è per niente bello – protestò. – Oh, John, io ho paura di quell’uomo!

    Lui la guardò sbalordito. – Paura? – chiese. – Buon Dio, Grace, ma cosa dici? Ebbene, io credo che farebbe qualsiasi cosa per te!

    – Ma è proprio di questo che ho paura! – ribatté lei a bassa voce.

    E aveva una ragione per dire questo, una ragione che non voleva rivelare. Aveva conosciuto Remington Kara a Salonicco due anni prima. Stava percorrendo i Balcani con suo padre, in uno degli ultimi viaggi che il famoso archeologo aveva compiuto, e aveva incontrato l’uomo destinato ad avere una così forte influenza sulla sua vita, durante una cena al consolato americano.

    Molti erano gli aneddoti su questo greco con il viso da Giove, il portamento elegante e l’illimitata ricchezza. Si diceva che sua madre fosse un’americana catturata da briganti albanesi e in seguito venduta a uno dei capi tribù che, innamoratosi di lei, si era convertito alla religione protestante per amore suo.

    Kara era stato educato a Yale e a Oxford e tutti sapevano che possedeva un’enorme ricchezza e che era virtualmente re di un piccolo distretto collinare a una sessantina di chilometri da Durazzo. Qui regnava supremo, abitando in una casa da favola costruita da un architetto italiano, arredata e rifinita con gli articoli migliori provenienti da tutto il mondo.

    In Albania lo chiamavano Kara Rumo che significa Romano Nero, senza alcuna ragione particolare, perché aveva la carnagione chiara dei Sassoni e i capelli biondi e ricci.

    E si era innamorato di Grace Terrell. All’inizio le sue attenzioni avevano divertito la ragazza. Ma poi si era spaventata perché il fuoco e la passione di quell’uomo erano troppo incontenibili. Lei lo aveva subito ammonito di non aspettarsi di essere ricambiato e, in una scena che lei non avrebbe mai ricordato senza rabbrividire, lui aveva mostrato l’aspetto oscuro e selvaggio del suo carattere. Il giorno seguente non l’aveva visto ma due giorni più tardi, mentre tornava attraverso il Bazaar da un ballo offerto dal governatore generale, la sua carrozza era stata intercettata e fermata. Qualcuno l’aveva trascinata fuori, soffocando le sue urla con un fazzoletto imbevuto di una droga dall’odore particolarmente dolciastro. I suoi assalitori stavano per trascinarla in un’altra carrozza quando un drappello di soldati inglesi era comparso sulla scena e, senza conoscere la nazionalità della ragazza, l’aveva salvata.

    Nel profondo del suo cuore, Grace non dubitava che fosse stato Kara a ordinare quel sequestro, in un tentativo primitivo di conquistarsi una moglie, ma non aveva mai raccontato la sua avventura al marito. Fino al matrimonio continuò a ricevere regali costosi che aveva sempre fatto rispedire all’unico indirizzo che conosceva: la tenuta di Kara a Lemazo. Pochi mesi dopo essersi sposata, aveva letto su un giornale che "il personaggio più in vista della società greca’’ aveva comprato una grande casa a Cadogan Square e poi, con suo grande sbalordimento, si era resa conto che, ancora prima che la luna di miele fosse finita, suo marito aveva stretto un forte rapporto di amicizia con Kara.

    Per fortuna le visite del greco erano state rare, ma la crescente intimità tra John e quello straniero senza alcun freno era sempre stata una fonte di preoccupazione per lei.

    E ora, quella sera, quasi verso le undici, era il caso di raccontare al marito le sue paure e i suoi sospetti? Rimase incerta per qualche tempo. Non si erano mai sentiti tanto vicini come quella sera; lei seduta al piano e lui sprofondato in una comoda poltrona accanto a lei, un po’ meditabondo e assorto nei propri pensieri. Se lo avesse visto meno preoccupato, Grace avrebbe parlato. Ma, visto come stavano le cose, cominciò a parlare del suo ultimo romanzo, del canovaccio misterioso che, se anche non avrebbe fatto la loro fortuna, di certo avrebbe aumentato di molto le loro entrate.

    Alle undici meno un quarto lui guardò l’orologio e si alzò. Grace lo aiutò a infilarsi la giacca. Sembrava incerto.

    – Hai dimenticato qualcosa? – chiese la moglie.

    John si chiese se dovesse seguire il consiglio di Kara. In ogni caso, non era piacevole incontrare un ometto feroce che lo aveva già minacciato di morte e incontrarlo disarmato era una vera sfida alla Provvidenza.

    L’intera faccenda era ridicola ma lo era anche aver chiesto soldi in prestito, anche se aveva speculato sulle migliori basi e dietro ai più accorti consigli; infatti era stato consigliato da Kara!

    Questa connessione gli venne alla mente all’improvviso anche se Kara non gli aveva mai suggerito apertamente di comprare delle azioni di oro rumeno, limitandosi a parlare del loro brillante futuro. Rimase pensieroso per un momento e poi andò nello studio con passo lento e, afferrata la Browning dall’aspetto sinistro, se la fece scivolare in tasca.

    – Non starò via molto, cara – disse e, baciata la moglie, se ne andò.

    Kara era seduto nella sua lussuosa macchina, canticchiando un motivetto mentre l’autista avanzava con cautela in una strada incerta. Pioveva ancora e Kara dovette asciugare il vapore sul vetro per capire dove si trovava. Ogni tanto guardava fuori, come se si aspettasse di vedere qualcuno e poi, con un sorrisetto, si ricordava di aver cambiato il piano originale e di aver fissato la sala d’attesa della stazione di Lewes come luogo d’incontro.

    In quel punto incontrò un uomo basso con una giacca tirata fino alle orecchie, seduto accanto al fuoco che languiva. Trasalì quando Kara entrò e poi, a un segnale del greco, lo seguì nella stanza.

    Lo sconosciuto non era inglese. Il suo viso era scuro e aguzzo, con le gote incavate e la barba irregolare, mal tenuta.

    Kara fece strada verso la fine del binario buio e poi parlò.

    – Hai seguito le mie istruzioni? – chiese con voce brusca.

    Aveva parlato in arabo e l’altro gli rispose nello stesso linguaggio.

    – Tutto ciò che hai ordinato è stato eseguito, Effendi – rispose l’uomo con umiltà.

    – Hai un revolver?

    L’uomo si toccò la tasca.

    – È carico?

    – Effendi – chiese l’altro sorpreso – a cosa serve un revolver scarico?

    – Cerca di capire bene: non dovrai sparare a quell’uomo – sbottò Kara. – Devi solo fargli vedere la pistola. A scanso di rischio è meglio scaricarla subito.

    L’uomo obbedì meravigliato e scaricò l’arma.

    – Prenderò io i proiettili – disse Kara tendendo la mano.

    Si infilò i bossoli in tasca e, dopo aver esaminato la pistola, la restituì all’uomo.

    – Devi spaventarlo – continuò. – Puntagli il revolver al cuore. Non devi fare altro.

    L’uomo sembrava a disagio.

    – Farò ciò che dici, Effendi – protestò – ma…

    – Non ci sono "ma’’ – tagliò corto l’altro con durezza. – Devi obbedire ai miei ordini senza fare domande. Vedrai dopo cosa succederà. Io sarò lì vicino. E c’è una ragione per tutto questo.

    – Ma supponi che lui spari? – insistette l’altro a disagio.

    – Non sparerà – ribatté Kara tranquillamente. – E poi il suo revolver non è carico. Puoi andare ora. Dovrai camminare a lungo. Conosci la strada?

    L’uomo annuì. – Ci sono già stato – confessò in tono confidenziale.

    Kara tornò nella sua grossa limousine parcheggiata un po’ lontano dalla stazione. Disse qualche parola in greco all’autista e l’uomo si toccò il cappello.

    2.

    Il vicecommissario di polizia T.X. Meredith non aveva un ufficio a Scotland Yard. È una caratteristica degli uffici pubblici essere programmati per sopperire a qualsiasi esigenza e trovarsi poi inadeguati per ospitare tutti i vari dipartimenti che proliferano misteriosamente durante la costruzione degli uffici.

    T.X., conosciuto da tutte le forze di polizia del mondo, occupava un intero piano a Whitehall. Si trovava in un palazzo vetusto, di fronte al Broad of Trade e l’iscrizione sulla porta antica diceva ai passanti che si trattava della Sezione Speciale della Pubblica Accusa.

    I doveri di T.X. erano molteplici. La gente diceva che era il capo del dipartimento "fuorilegge’’ di Scotland Yard ma, come la maggior parte dei pettegolezzi, anche questa storia probabilmente non era vera. Si diceva che, se qualcuno perdeva la chiave della propria cassaforte, T.X. chiamava uno scassinatore che l’apriva nel giro di mezz’ora.

    Se in Inghilterra circolava un individuo famoso, contro il quale la polizia non riusciva a raccogliere delle prove evidenti e che tuttavia doveva sparire, per il bene della comunità, era T.X. che lo arrestava, lo trascinava su un taxi e non lo lasciava prima di averlo depositato sulle sponde sdegnate di un altro Potere.

    Era certo che quando un ministro, che non è necessario citare, venne richiamato dal suo governo e messo sotto processo nel suo paese per aver messo in circolazione denaro falso, fu un membro del dipartimento controllato da T.X a introdursi nella casa di Sua Eccellenza e a scassinare la cassaforte per trovare le prove decisive.

    Ho detto che questa è una cosa certa, ma anche qui riferisco solo un’opinione pubblicamente diffusa da capi di dipartimenti pubblici che parlavano sottovoce, da misteriosi sottosegretari di stato che discutevano bisbigliando nelle remote stanze dei loro club e da corrispondenti americani molto più franchi che non esitavano a raccontare tutto ciò che sapevano per il bene dei loro lettori.

    Sappiamo anche che T.X. aveva un’occupazione legittima: infatti fu lui che, con i suoi oltraggiosi commenti sull’amministrazione del Ministero degli Interni, spedì il segretario degli Interni alla tomba. E fu lui a rintracciare gli assassini di Deptford attraverso un labirinto di cavilli e ancora lui che si occupò di Sir Julius Waglite durante il processo per truffa ai danni di quattro compagnie.

    La notte del 3 marzo, T.X. era seduto nel suo ufficio, a colloquio con uno sconsolato ispettore della polizia metropolitana, un certo Mansus.

    T.X. dava l’impressione di essere molto giovane perché il suo viso era quello di un ragazzo e, solo guardando più da vicino, si notavano le leggere rughe intorno agli occhi e la linea della bocca, si capiva che era vicino ai quarant’anni. Da giovane era stato una sorta di poeta e aveva scritto un volumetto intitolato Liriche dei Boschi e il solo menzionare questo titolo lo rendeva davvero infelice.

    Aveva tatto, ma era molto insistente, e il suo linguaggio a volte era davvero stravagante tanto che una volta, in seguito a una certa corrispondenza resa pubblica, il segretario di stato aveva commentato: "È un peccato che il signor Meredith non prenda la sua posizione con la serietà che ci si aspetterebbe da un pubblico ufficiale.’’

    Il suo linguaggio, se sottoposto a grandi provocazioni, era violento e insolito. Aveva il vizio di usare parole che non esistevano e di dare istruzioni e fare minacce con la fraseologia più bizzarra.

    Ora, sprofondato nella sua sedia girevole, stava rimproverando con durezza il suo sconsolato subordinato, seduto sull’orlo della sedia dall’altra parte della scrivania.

    – Ma, T.X. – protestò l’ispettore – non c’era niente da trovare!

    Il signor Meredith era abituato a farsi chiamare con le sole iniziali anche dai suoi subordinati e questo era un vezzo che i suoi capi disapprovavano apertamente. – Non c’era niente da trovare! – ripeté furioso. – Santo Cielo!

    Si sedette con una violenza che fece sobbalzare l’ufficiale di polizia.

    – Ascoltate – gridò T.X. afferrando il suo tagliacarte e colpendo con furia il blocco degli appunti per sottolineare ogni parola. – Voi siete un incapace!

    – Io sono un poliziotto – lo corresse l’altro con voce paziente.

    – Un poliziotto! – esclamò l’esasperato T.X. – Siete più che incapace; siete un buono a nulla! Temo che non riuscirò mai a tirare fuori un vero

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