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Uno Psicoanalista sul Cammino di Santiago
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E-book302 pagine4 ore

Uno Psicoanalista sul Cammino di Santiago

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Info su questo ebook

Il protagonista è uomo volitivo, determinato sino alla testardaggine. Cade e sa rialzarsi: nelle vicende personali, nella professione, lungo il Cammino di Santiago. È psicoanalista, responsabile di una comunità per giovani donne scossa da un fatto tragico, che ne mette in dubbio la stessa capacità di cura. Come testimonianza parte per il lungo faticoso Cammino. Scoprirà un paesaggio affollato di presenze confortanti, cittadini come lui, in uscita dal mondo, alla ricerca della giusta ispirazione per tornarci più vivi e più forti. Ogni passo spinge un pensiero per ricapitolare gli incontri, i ricordi, le sensazioni, le tracce di vita lasciate come orme lungo gli anni, le stagioni, gli attimi. Pur messo a dura prova, il suo desiderio tornerà a pulsare, a farsi cura, di sé e dell’altro.

Carlo Arrigone, nato nel 1959, laureato in Filosofia e iscritto all’ordine degli psicologi dal 1993, dopo l’analisi didattica con Giacomo Contri a Milano, lavora come psicoanalista ad orientamento freudiano. È cofondatore dei Centri Artemisia per donne e madri in disagio e vittime di violenza e dei Centri Snodi, per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità. Ha pubblicato alcuni volumi nel campo dell’educazione, della psicoanalisi e delle nuove dipendenze.
LinguaItaliano
EditoreOdòn
Data di uscita7 apr 2021
ISBN9791220289313
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    Anteprima del libro

    Uno Psicoanalista sul Cammino di Santiago - Carlo Arrigone

    La comunità. Stelle difficili.

    La caduta

    – 1 –

    Diciotto mesi prima,

    quel giorno d’agosto

    Fu un’estate bollente per tutti, e ancor di più per le comunità.

    Almeno per le due comunità per ragazze di cui ero il responsabile.

    Ma se apri delle comunità dove ospiti ragazze così difficili, te lo devi aspettare di non fare una vita tranquilla. Che fossero da prevedere anche momenti delicati, fino al limite della sopportazione, era nell’ordine delle cose. Ero ben consapevole di aver fatto una scelta ad alto rischio, cosa che facevano in pochi. Eravamo una sperimentazione, volevo, volevamo, accettare il rischio di provare a ospitare e curare ragazze con disturbo di personalità borderline, che sembravano all’ultima spiaggia, dare loro un’altra possibilità. La nostra scommessa consisteva nel proporre un trattamento psicologico che già aveva dato ottimi risultati verificati, ma applicarlo in comunità era difficile, perché non c’erano altre esperienze con cui confrontarci. Non si poteva prevedere cosa sarebbe successo proponendo una convivenza così ravvicinata come quella della comunità, con una patologia così esplosiva. In un certo senso eravamo dei pionieri, degli esploratori di nuovi mondi, nel trattamento di situazioni così delicate. Come tutti i pionieri incontri dei pericoli e puoi trovarti ad affrontare momenti critici. Eravamo attrezzati, ma non sapevamo se questo sarebbe bastato.

    Ero immerso nella prima riunione dopo la ripresa, alla fine di un mese di agosto che di vacanziero aveva solo il nome.

    Stavamo attraversando un momento veramente critico.

    L’estate è sempre un periodo difficile, ma questa volta ci stava mettendo a dura prova, e le operatrici erano visibilmente logorate dalle continue sollecitazioni cui erano sottoposte. Molti episodi avevano prodotto tensioni allarmanti: erano spariti dei soldi, c’erano stati litigi sfociati in vere e proprie risse, un paio ragazze, in circostanze diverse, erano fuggite. La situazione era diventata preoccupate quando erano stati ritrovati droghe e alcol all’interno delle camere da letto di due ragazze, ma ogni limite mi sembrò superato quando alcune ragazze avevano addirittura tentato il furto di un’automobile.

    Invece durante la riunione ci si presentò una situazione ancor peggiore di quanto paventassimo.

    I toni erano concitati nel tentativo di ricostruire i fatti: tre ragazze, in piena notte, senza che l’operatrice in turno potesse accorgersene, avevano forzato la porta della cucina e pare avessero poi scavalcato il cancello. Non riuscivo a capire chiaramente come fossero andate le cose. Confusamente avevo dedotto che le ragazze si erano allontanate nei campi alla periferia di Mornate (un paesino agricolo della bassa padana, al confine tra le province di Lodi e Cremona) dove ha sede la comunità. Lì si erano incontrate con dei giovani coetanei con cui avevano bevuto fino a ubriacarsi. Mentre rientravano sul finire della notte, una di loro, Esther, aveva vomitato anche l’anima e poi aveva perso i sensi. Nel frattempo pare che un’altra si fosse appartata con un ragazzo, che aveva approfittato di lei. Se fosse risultato vero, il fatto era molto grave, e si imponeva una denuncia immediata ai carabinieri. Ma era vero? La ragazza aveva già raccontato un episodio simile, che alla prova dei fatti era risultato falso, quindi non tutte le operatrici erano convinte sulla denuncia e si erano messe a discutere tra loro. Ricostruito per sommi capi cosa fosse accaduto, ero intervenuto con decisione: Noi non siamo investigatori e la legge non ci chiede di appurare la verità dei fatti. Gisella ha detto che ha subito un abuso e noi dobbiamo denunciarlo. Sarà un giudice a stabilire se bisogna aprire un’inchiesta.

    Ero preoccupato anch’io, non solo le operatrici. Sapevo che per prima cosa ci avrebbero interrogati per capire se il racconto fosse perlomeno verosimile, e l’imbarazzo era palpabile. L’operatrice di turno quella notte si sentiva in colpa perché non si era accorta di niente fino al mattino, quando aveva trovato una bottiglia di rum vuota, la porta d’ingresso spalancata, due ragazze riverse nei letti che dormivano vestite, una chiazza di vomito sul pavimento. E che purtroppo una di loro mancava all’appello. Era una storia sgradevole, oltretutto aggravata dal tentato furto. Qualche sera prima due ragazze, durante l’uscita serale, avevano tentato di rubare una macchina proprio sotto casa del proprietario, che vedendole trafficare con la portiera aveva chiamato quegli stessi carabinieri da cui sarei dovuto andare a sporgere denuncia. Avevo ancora nelle orecchie il tono scocciato del maresciallo Battaglia quando mi aveva convocato, visibilmente arrabbiato perché il giorno prima una sua pattuglia era già dovuta intervenire per sedare una rissa in comunità, e lui aveva dovuto occuparsi personalmente di aprire le ricerche per una ragazza che era scappata. Inutilmente, perché dopo qualche ora era tornata.

    Ma lei si rende conto di quanto lavoro bisogna fare tutte le volte che una ragazza scompare? Carte su carte, diramare comunicati, avvisare la questura e la polizia ferroviaria, sentire il tribunale… Ma voi siete degli incompetenti. Queste ragazze non dovrebbero stare in questa comunità, se non siete capaci di tenercele e di governarle. Ma come le scegliete? E queste sue ‘operatrici’… ma dove va a trovarle se non sono capaci di fare il loro lavoro?

    Impossibile abbozzare una risposta, perché mi aveva subito incalzato: Questa settimana i miei uomini hanno lavorato praticamente solo per voi: una volta perché si è scatenata una rissa e siamo dovuti intervenire noi per calmare quelle iene inferocite che urlavano come pazze. Poi perché ci avete chiamato perché NOI dovevamo cercare la droga che LORO avrebbero nascosto nella VOSTRA comunità. Un’altra volta si sono ubriacate nella piazza del paese, e se non intervenivano i miei uomini veniva fuori un macello. Poi un’altra fuga, e per finire in bellezza il tentato furto di un’auto. Lo sa che mi ha chiamato anche il sindaco per lamentarsi? Dottore, glielo dico chiaro e tondo: non ne posso PIÙ!

    Eppure la denuncia andava fatta, perché l’abuso sessuale su una minore è un reato molto grave. Mentre mi dirigevo verso la caserma cercavo di dipingermi in volto un’espressione un po’ contrita. Il maresciallo mi aveva ricevuto subito, gli avevo raccontato tutto, lui aveva solo sbuffato, quel giorno era molto più tranquillo e l’aveva presa abbastanza bene: mi aveva fatto il solito predicozzo in cui raccomandava maggior attenzione, cacciare alcune teste calde e pugno di ferro con queste delinquenti.

    Finita la paternale e firmata la denuncia, ero uscito per tornare velocemente in comunità, dove le operatrici erano ancora riunite e stavano cercando di ricapitolare la situazione. Delle ragazze ospiti una, Chloe, era in fuga chissà dove. Per lei era stata fatta segnalazione di scomparsa (di questo il maresciallo Battaglia era certo perché mi aveva fatto un discreto paiolo, visto che non era la prima volta che una ragazza fuggiva). Due, Esther e Santina, stavano smaltendo la sbornia della notte brava, Gisella era stata abusata, e Stella aveva firmato le dimissioni il giorno precedente e se n’era andata, rifiutandosi di sentire ragioni. D’altronde, essendo ormai maggiorenne, era un suo diritto dimettersi e non potevamo trattenerla a forza.

    Per di più nel gruppo aleggiava un clima di omertà pericoloso, nessuna voleva raccontare cos’era successo realmente quando Esther, Santina e Gisella avevano passato la notte a bere con i ragazzi del paese. Non sapevamo chi avesse procurato il rum, se avessero fatto uso di sostanze e chi avesse introdotto la droga in comunità. La roba non si trovava, la colpevole nemmeno, il fornitore neanche. E poi, chi aveva rubato i soldi dall’ufficio e come aveva fatto a entrare?

    Bisogna chiamare subito un fabbro per far cambiare la serratura dell’ufficio, e le uscite sono vietate fino a nuovo ordine per tutte.

    Ma dottore, così è ingiustizia! Le altre ragazze non hanno fatto niente, non è giusto.

    No, tutte loro sanno chi ha rubato i soldi in ufficio, tutte sanno chi ha le chiavi e sanno anche chi ha portato la roba in comunità. Se tacciono sono conniventi, colpevoli come le altre perché non dicono quello che sanno. Questo muro di silenzio è reticenza colpevole. Questa comunità è anche la loro casa, devono contribuire a far sì che diventi un luogo sicuro. La loro tolleranza è favoreggiamento. Non uscirà nessuno finché non inizieranno a estirpare questa mala usanza.

    Avevo appositamente usato dei termini giuridici per sottolineare che quella condotta omertosa era inammissibile, ma intorno a me più di un’operatrice era perplessa.

    Ero risalito in macchina insoddisfatto perché sapevo che le operatrici per prime non capivano e preoccupato perché sentivo che la situazione era sfuggita di mano. Pochi minuti dopo ero in coda sulla tangenziale, nel traffico dei vacanzieri di ritorno dalle spiagge che avevano affollato in quell’agosto caldissimo, a cui si sommava quello della sera di chi aveva già ripreso il lavoro. Ma così non possiamo lavorare, queste ragazze ci stanno logorando con le loro continue trasgressioni. Non siamo carcerieri e nemmeno poliziotti. Dove ci stanno portando? Cosa sta succedendo? Che cosa non capiamo? Perché stanno così male?

    E poi quell’improvvisa dimissione di Stella: un altro sintomo del malessere che circolava in comunità, sia tra le ragazze che tra le operatrici.

    Ero preso dai miei pensieri delusi quando arrivò quella telefonata:

    Pronto, parla il dottor…? È lei il responsabile della comunità?

    Sono io, chi parla?

    Qui è la polizia di Stato di Milano, dovrebbe venire subito in questura.

    Come?

    Stella è una ragazza della sua comunità?

    Sì, cioè no, lo era, ma si è dimessa ieri pomeriggio… Ma è successo qualcosa?

    Si è buttata sotto un treno della metropolitana. Deve venire subito!

    – 2 –

    Il dolore, la crisi

    Dopo siamo stati tutti molto male. Quando hanno saputo la notizia, le ragazze della comunità di Mornate erano disperate. Le operatrici anche.

    Ed io pure stavo molto peggio di quanto dessi a vedere. Il pensiero che dopo quelle improvvise dimissioni Stella, ormai sola, fosse tanto disperata da togliersi la vita era estremamente angosciante. Ma non era un pensiero di cui avessimo consapevolezza, perché nessuno voleva pensarci, rimaneva solo in tutti un profondo senso di disperazione. Ogni tentativo di parlarne era caduto nel vuoto, tutti si rifiutavano di affrontare l’argomento. Ogni volta che provavo ad accennare a Stella mi trovavo contro un muro sordo. Le ragazze si chiudevano dietro un Non ne voglio parlare. E si isolavano.

    Le fotografie di Stella erano sparite dalla bacheca, i suoi documenti rinchiusi in un faldone in fondo a un armadio, i vestiti che aveva lasciato in comunità abbandonati in uno scatolone in cantina, e nessuno osava più parlare di lei.

    Durante le riunioni le operatrici tacevano, e quando tentavo di toccare l’argomento qualcuna se ne andava con una scusa, le altre non dicevano niente, ma nemmeno mostravano di voler ascoltare.

    Leggevo negli occhi di tutti un’immensa paura, tutto era fermo, congelato, senza tempo. Ognuno aveva chiuso a suo modo qualche porta e se ne stava al buio rannicchiato in un angolo. Ma io sentivo la loro disperazione, percepivo il senso di colpa per quello che non avevano potuto fare, la rabbia per come erano andate le cose, la solitudine di non riuscire a condividere tutto quel dolore. C’era un miscuglio di sentimenti che non trovava parole. Nemmeno in me. Ciascuno si stava isolando in silenzio per soffrire meno.

    Il malessere era ovunque. Quella casa stessa, la nostra comunità, trasudava un terrore muto. Il silenzio aveva un che di ostile contro chiunque non volesse tacere. Sapevo e sentivo che ogni tentativo di dimenticare e non pensare era un’illusione, il trauma di quella perdita e tutti i pensieri di sconfitta che gli si agitavano intorno agivano in ciascuno senza che se ne accorgesse. Come un veleno che agisce lento ma inesorabile.

    Infatti dopo poco tempo un’operatrice, Celeste, mi chiese un colloquio per comunicarmi le sue dimissioni. Le sue poche parole rimangono stampate nel mio ricordo: Dottore, io devo andare. Nei secondi che seguirono nessuno dei due riuscì a dire altro. Io supponevo di sapere cosa la spingesse ad andarsene, e lei non riuscì a parlare di quel che provava nemmeno nel momento dell’addio. Ma ancora dopo mesi mi pentivo di non averglielo chiesto.

    Per le colleghe fu come il segnale del cedimento di un fronte a cui tutte tentavano di resistere, senza molte speranze. Fu come la crepa in una diga ferita da un terremoto. A seguito delle dimissioni di Celeste il gruppo cominciò a vacillare e poi a sgretolarsi. Altre operatrici se ne andarono: Anna mi disse di aver accettato la proposta di lavorare in un centro per tossicodipendenti, Serena qualche settimana dopo mi comunicò che aveva trovato un posto di consulente in una scuola, Diletta tornò al suo vecchio lavoro in un’altra comunità, Alice fece la stessa cosa. Nessuna di loro sapeva bene il perché, ma avevano bisogno di allontanarsi definitivamente dalla comunità. Il veleno della disperazione stava facendo il suo effetto mortifero, inducendo la paralisi prima della parola, poi del pensiero e infine delle emozioni. Per salvarsi sembrava che ci fosse un solo modo: la fuga.

    Le ragazze avevano reagito al dolore della perdita con una fortissima sofferenza che non riusciva a esprimersi, perché noi soffrivamo come e più di loro e per questo non potevamo aiutarle a dar voce a quel dolore. Tutte furono subito contagiate da quel malessere tossico e quando videro le operatrici andarsene si ravvivò in loro un fortissimo senso di abbandono, mai sopito. La speranza di riuscire a venir fuori dai loro problemi attraverso la comunità e il lavoro intenso che facevano, era stata sopraffatta del senso di sconfitta, poi la conferma dell’abbandono le aveva fatte sentire di nuovo indegne di stare al mondo. Inevitabilmente, poiché chi aveva dato loro speranza aveva smesso di crederci. Forse io per primo.

    Le operatrici potevano andarsene a respirare aria nuova, altro lavoro, altro clima. Ma per le ragazze non era la stessa cosa. Certo, potevano fuggire per qualche giorno, ma poi inevitabilmente tornavano in quella che per loro avrebbe dovuto essere una casa. Potevano tentare di estraniarsi con l’alcol o qualche altra sostanza, ma prima o poi l’effetto finiva. Quel senso di disperazione rimaneva incollato loro addosso, e la sofferenza cresceva. Non c’era modo di fuggirla. Anzi no, un modo c’era, lo stesso modo che aveva trovato Stella.

    Qualche ragazza tentò il suicidio, e dovemmo ricoverarla.

    Erano arrivate nuove operatrici a rinforzare il gruppo e sostituire quelle che se ne erano andate. Le ragazze ricoverate erano state dimesse.

    Ma il clima non era cambiato.

    I giorni passavano frenetici tra continui cambiamenti di fronte e di umori. Le ragazze giacevano in un profondo stato di apatia, ma c’erano momenti in cui agivano in maniera sconsiderata. In comunità aleggiava la sensazione che potesse accadere qualunque cosa, senza che il gruppo dell’équipe riuscisse a governare la situazione. Fughe, uso di sostanze, risse, periodi di isolamento, fino alla depressione, e ancora tentati suicidi. Era una giostra senza freni, dove ci trovavamo a inseguire emergenze le più diverse. In quel clima nessuno riusciva ad avere un atteggiamento sereno, speranzoso e deciso.

    Non si trattava solo di quello che era successo a Stella. C’era molto altro. In fin dei conti si stava smarrendo il senso di ciò che stavamo facendo, e quindi dell’obiettivo che ci eravamo proposti. Nessuno parlava più di guarigione, ma ormai nemmeno si sperava in un cambiamento nelle ragazze e in noi. Sentivo che ci eravamo rassegnati a far andare avanti le cose, anzi a inseguirle, cercando disperatamente di fare qualcosa per contrastare l’impulsività delle ragazze in un braccio di ferro senza senso. Si era creata una contrapposizione tra ragazze malate e per di più adolescenti che subivano le regole per poterle trasgredire, e operatrici, ed io ero in testa, che si irrigidivano contro di loro. L’alleanza di lavoro, l’unità, la collaborazione e la partecipazione di tutti per andare verso la crescita e il cambiamento erano ormai state abbandonate. Non mi riconoscevo più, non trovavo più il senso e non riconoscevo la comunità che avevo voluto. Avevamo perso il bandolo della matassa, ed eravamo aggrovigliati in una spirale di rabbia e depressione.

    Era chiaro che la ferita sanguinava nel cuore di tutti, ma intorno a me c’era solo un deserto di parole e pensieri, un nulla, falso, vuoto, una negazione inaccettabile. Essa era ancora più terribile della morte di Stella: la stavamo spingendo verso l’oblio, stavamo cancellando ogni traccia della sua esistenza. Questo mi era inaccettabile, non potevo sentirmi complice di quella negazione, ma non sapevo più che fare, e come. Io per primo ero annientato dal clima che si era prodotto e per un lungo tempo non feci più nulla.

    Finché mi resi conto che non potevo più lasciare che le cose andassero avanti così. Ormai erano passati dieci mesi dalla morte di Stella e la stavamo dimenticando, ma con lei avevamo dimenticato la speranza. Dovevo fare qualcosa per liberarci da quel maleficio. Dovevo provare a interromperlo, dovevo guardare in faccia la ferita della scomparsa di Stella, che ancora sanguinava, trovare un gesto capace di donare a tutti un po’ di conforto, e anche di riaccendere speranze e infondere coraggio.

    Guardavo le operatrici che lavoravano con me, i compagni di lavoro, le ragazze… e avevo un solo pensiero: Il dolore deve essere liberato, la tristezza deve trovare le sue lacrime, la paura deve trovare una sicurezza, la solitudine deve trovare un conforto, la colpa deve trovare un perdono e la rabbia deve trovare una riconciliazione.

    Cercavo pace e speranza, per me prima che per ogni altro.

    – 3 –

    Riprendere a camminare

    A Stella piaceva dipingere. Così aveva iniziato un murale in una stanza della comunità: era un abbozzo di un grande disegno dove c’erano stelle, pianeti, meteore, astronavi, nuvole. Io lo immaginavo pieno di colori, come Stella lo aveva progettato: molto colorato, con tante sfumature di arancione, blu, giallo e verde. Poi se n’era andata dalla comunità e lo aveva dimenticato. Da quando lo aveva lasciato incompiuto, nessuno aveva più avuto il coraggio di toccarlo né di parlarne.

    In comunità avevo creato l’abitudine di radunare una volta alla settimana le ragazze per confrontarci su come stavamo, per ascoltare i problemi che vedevano e cercare con loro delle soluzioni. Era un momento di incontro, a volte di lamentela, ma era anche il luogo dove venivano prese decisioni importanti per la vita della convivenza. Da quelle riunioni erano passate tante ragazze, anche Stella ci era stata per mesi. Ora il suo posto era vuoto. Eppure quel momento rimaneva uno dei pochi in cui tutte partecipavano, anche se a fatica.

    Eravamo alla metà del mese di luglio, di un’altra estate calda. La riunione era iniziata in modo apatico, come succedeva ormai da tempo. Le ragazze annoiate non sbuffavano per rispetto, ma sentivo che non avevano nessuna voglia di parlare. Finché ho deciso di accennare al disegno di Stella. Fu una sorpresa anche per Lucia, la mia fidata collaboratrice: con lei c’era sintonia immediata, era solita affiancarmi in quelle riunioni, insieme concordavamo ogni volta i temi da sottoporre. Appena avevo nominato il murale, Gisella mi aveva subito zittito: Quel disegno non deve essere toccato, deve rimanere interrotto come il suo cammino. Gisella era sempre stata una ragazza di poche parole, ma aveva una certa influenza sulle compagne, a dispetto della sua giovane età. Infatti Esther confermò subito: No dottore! Non si azzardi nemmeno a toccare quel disegno. Stella lo ha lasciato così e così deve rimanere.

    Determinate, lapidarie, si erano espresse con un tono di comando che non lasciava spazio a repliche. Santina si era alzata di scatto e se n’era andata, Lucia subito l’aveva seguita, secondo il copione stabilito: mai lasciare sola una ragazza quando è alterata.

    Nella stanza della riunione era calato un silenzio freddo, interrotto solo dalle urla di Santina di là: Lasciami stare! Non voglio più sentire parlare di questa cosa! Le ragazze, imbarazzate, avevano abbassato la testa in segno di consenso. Chloe aveva iniziato a grattarsi, torturando le cicatrici dei tagli che si procurava ancora sulle braccia.

    Di nuovo quel muro.

    Leggevo rispetto ma anche paura nei loro occhi, sentivo che non volevano toccare qualcosa che si era fermato nel tempo per sempre. Quel muro impediva ogni speranza, tutti avevamo interrotto il cammino.

    Le parole di Gisella mi rimbombarono in testa: interrotto… un cammino interrotto.

    Fu in quel preciso momento che sentii qualcosa ribellarsi in me; fu allora che rifiutai la rassegnazione e mi venne l’idea.

    La riunione poteva finire lì, come altre volte. Era l’attimo dell’alternativa fra l’interruzione e la ripresa. Tirato un sospiro, le guardai negli occhi una per una e poi dissi con determinazione:

    No! Io non accetto che un cammino venga interrotto così. Il disegno non lo toccheremo, questo va bene, ma anche se sarò l’unico a volerlo, anche se dovessi farlo da solo, io andrò avanti.

    Silenzio.

    Se Stella ha interrotto il suo cammino, io camminerò per lei, per ricordarla e perché il suo cammino continui attraverso di me.

    Silenzio.

    Il suo cammino andrà avanti attraverso i miei passi, i suoi occhi vedranno attraverso i miei occhi, le sue domande avranno la mia voce, anche il suo dolore continuerà nel mio cammino. Io sarò la compagnia della sua paura, sarò il sorriso del suo volto spento, sarò la speranza della sua disperazione, sarò il domani del suo finire oggi.

    Silenzio.

    Ragazze, io camminerò che voi lo vogliate o no, camminerò per Stella e per ciascuno di noi. E camminerò per tutte le operatrici, che soffrono come noi. Tutti noi dobbiamo trovare un po’ di pace, un giorno. E riprendere a camminare.

    Mi accorsi che Santina si era avvicinata alla stanza, e appoggiata allo stipite della porta ascoltava in silenzio, con a fianco Lucia, che non la lasciava un attimo.

    Sconcerto.

    "Camminerò perché c’è sempre una speranza,

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