Finitezza e Immortalità: Un racconto sulla Morte e l'Amore
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della figlia, psicologa di professione, si dipana tra eventi e riflessioni, domande e risposte. Aiutata da una fitta rete di relazioni interpersonali – fra cui quella con l’amico teologo Alberto Maggi – e dall’approfondimento degli studi sul fine vita, l’autrice sperimenta
un cammino di crescita interiore grazie alla pratica della consapevolezza del “qui ed ora”. L’autoascolto attento e profondo, ad un certo punto, evolve verso un cambio di prospettiva. L’esperienza dolorosa diviene un percorso iniziatico: “Tenevo la mano di mio padre morente, credevo fossi io ad accompagnarlo, invece era lui che, come quando ero bambina, mi stava guidando verso la conoscenza del nuovo”. Neanche una scena è frutto di fantasia, tutto quanto narrato è realmente accaduto.
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Anteprima del libro
Finitezza e Immortalità - Annarita Corradini
Capitolo 1
Riconoscenza e gratitudine
Solo allontanandomi dalla casa paterna per gli studi universitari ho potuto veramente apprezzare la famiglia dalla quale provenivo. Capita sempre così, non si apprezza mai abbastanza quanto si ha, fino a quando non ci si allontana o non lo si perde. Così è stato. Era un continuo stupore ogni volta tornare a casa sulle dolci colline marchigiane ed apprezzare la vista del monte Conero che cade a picco sul mare. Seguire poi con lo sguardo la striscia d’acqua che confina con il cielo, fino a quando non incontra il colle di lauri, dove la leggenda vuole che la Santa Casa di Nazareth sia stata deposta, e meravigliarsi di come la cupola e la torre, bianche sfavillanti, della basilica di Loreto si vedano così bene ad occhio nudo, nonostante la lontananza. Continuare con lo sguardo verso sud, ritrovare di nuovo il mare e le abitazioni di Porto Recanati ed oltre. Un incanto.
Eppure, sin da quando sono nata, affacciandomi dalla mia camera da letto, questa visione è sempre stata sotto i miei occhi e mai ne ho goduto fino a quei momenti di pausa dagli studi. Così è stato per i miei genitori e le mie due sorelle, una ricchezza immensa, che ho apprezzato solo dopo essermi confrontata con tante altre storie, attraverso le quali ho scoperto che non è poi scontato crescere in una famiglia unita. Due genitori che ancora stanno insieme nonostante i bisticci di una vita, che sono riusciti a mantenere fedeltà all’amore che custodisce la vita, sempre e comunque. La coesione di mio padre con i suoi fratelli minori, sempre pronti gli uni per gli altri qualsiasi bisogno sorgesse; l’aiuto spontaneo al vicino di casa o al parrocchiano di turno, sono stati gli atteggiamenti di vita che ho dato per scontati perché ci sono cresciuta dentro.
Come tutti i bambini, ho sofferto di incomprensione, solitudine ed esclusione. Crescendo in campagna, mi sono sentita un pesce fuor d’acqua. Odiavo il luogo in cui vivevo. Mi sembrava che tutta la vita si svolgesse altrove ed io ne fossi esclusa. La televisione degli anni Ottanta mi aveva riempito la testa di immagini americane stile on the road, sognavo storie avventurose in futuri possibili. Gli anni dell’adolescenza passarono, dunque, in questo stato ansioso e frustrante, l’irraggiungibilità di quei sogni mi rendeva scontenta, insoddisfatta e rabbiosa. Il mio malumore mi rendeva antipatica ed intrattabile, sia con i miei genitori che con le mie sorelle.
Andarsene di casa con la scusa dell’università fuori sede fu una benedizione che, nel momento, sembrò guarirmi da tutti i mali. Di sicuro, fu una tregua, per quanto instabile. Vivevo momenti di grande quiete e liberazione alternati ad altri di euforia ed inevitabile confusione. Mi sentivo in una zona di mezzo, lontana dai condizionamenti del passato e proiettata nei mille futuri possibili. Oggi riconosco che avevo bisogno di disubbidire come tutti i figli, di allontanarmi e di errare, per misurarmi nella mia soggettività ma, soprattutto, per proteggere e mantenere intatta una certa purezza che avvertivo nel mio cuore e che non volevo in nessun modo assoggettare a nessuno.
Scoprii solo in seguito che, per quanto tentassi di fuggire da quello che credevo fosse il mio male, ovunque andavo me lo portavo dietro. Continuava a disturbarmi da dentro, mantenendomi in quello stato di irrequietezza e frustrazione. La mia anima era ancora lontana da quello che anelava.
Intrapresi, così, una psicoterapia. Fu il secondo passo, dopo quello del distacco dalla famiglia. Acquisii la capacità di riconoscere e nominare i condizionamenti che la mia mente aveva subito dalle modalità relazionali familiari. Fu un percorso a tappe, importante e salvifico, che durò diversi anni. Compresi che già a quattro anni il mio corpo aveva appreso il linguaggio autodistruttivo di rifiutare il cibo, linguaggio di cui non riuscivo a liberarmi del tutto neanche a vent’anni. Manifestavo già allora la mia offesa, la mia protesta, il mio rifiuto di una modalità che percepivo non abbastanza rispettosa ed amorevole per la mia anima ipersensibile. Sin da subito, la psicoterapia ebbe un effetto addolcente. Evitò che la mente si accanisse troppo contro di me e molto gradualmente convertì la modalità autodistruttiva in una relazione di rispetto e cura amorevole verso me stessa.
Vivendo a lungo lontano dalla famiglia e confrontandomi con altre sorti, scoprii che tutto sommato mi era andata bene, anzi benissimo! Sentii, quindi, la necessità di ridefinire il motivo della mia insoddisfazione cronica che continuava a manifestarsi, nonostante tutto. Tutto ciò mi introdusse ad un terzo passo, quello di riconoscere il condizionamento implacabile a cui siamo sottoposti tutti, volenti o nolenti. Dovevo fare i conti con il contesto sociale, con una società apparentemente accattivante, ma in sostanza malata nei suoi messaggi imperativi impliciti.
Ricordo ancora il momento esatto in cui presi coscienza del mio disincanto: scandalizzata, rimasi ammutolita a fissare il vuoto, puntando lo sguardo fuori dalla finestra, verso le colline di una Romagna scaldata dal sole di luglio. Avevo ventiquattro anni, stavo partecipando ad una summer school sul tema del fondamentalismo organizzata dall’Università di Bologna. Era il 1995, da poco era stato assassinato il presidente israeliano Rabin. Vissi un’intensa settimana a stretto contatto con i massimi esponenti della psicoterapia internazionale, simulando incontri di psicoterapia di gruppo.
Scoprii che il mondo degli adulti, al quale davo la massima fiducia, quel mondo che ci aspettava là fuori, una volta laureati, non è così benevolo verso la nuova generazione. La generazione dei padri tiene in piedi un mondo globale con regole finanziarie ed economiche che raramente coincidono con il bene della generazione dei figli. La realtà contempla un genere di padri, non sempre conforme agli intenti dei nostri amorevoli padri costituenti italiani. I giovani sono trattati come merce di consumo per i bisogni economici e geopolitici del sistema. Com’è possibile che i padri mandino i propri figli al macello della guerra? Com’è possibile una società così violenta ed autodistruttiva che non ha come priorità la tutela dei diritti all’educazione e alla salute psicofisica della nuova generazione? Ricordo ancora la tenerezza di un’anziana psicoterapeuta israeliana, di origine polacca, sfuggita al nazismo. Alla fine di una seduta, accorgendosi dello sgomento della mia presa di coscienza, mi consolò con uno sguardo compassionevole e silenzioso che non dimenticherò per tutta la vita.
La percezione dell’abuso di potere sulle giovani generazioni fu per me il primo assaggio di una realtà che i ragazzi di oggi, probabilmente, avvertono in maniera molto chiara. Allora ebbi la fortuna dell’incontro intimo e profondo con persone autorevoli nel loro cammino di coscienza interiore che mi hanno amorevolmente incoraggiato a vivere il mio tempo: la civiltà umana non è compiuta, procede a salti. È inserita in un lungo percorso evolutivo. Ci siamo dentro e tutti ne stiamo partecipando. A posteriori riconosco la fine della mia adolescenza nel momento in cui smisi di proiettare le responsabilità fuori di me e cominciai a farmi carico della mia quota di partecipazione. Compresi che non si può salvare il mondo, ma ciascuno può fare la sua parte, a partire dalla scelta consapevole di ogni azione.
Scoprire che la mia inquietudine non nasceva da un problema personale, ma segnalava un disagio collettivo, mi aiutò a salvaguardare la mia autostima. In quel tempo conobbi Giorgio Gaber al teatro. Attratta dal titolo di una sua canzone, Mi fa male il mondo,[1] andai alla ricerca dei suoi monologhi. Ne rimasi estasiata. Il desiderio di incontrarlo a fine spettacolo superò la mia timidezza. Ricordo benissimo il suo garbo, mentre lo osservavo autografare il mio biglietto. Gli dissi che era il mio primo autografo: Onorato!
mi rispose illuminandomi col suo grande sorriso.
La forza della sua arte, insieme alla grande capacità di Sandro Luporini di scegliere le parole giuste, mi apriva a nuovi scenari. L’introspezione psicoanalitica era ben coniugata all’attualità e mi rivelava la possibilità di applicare l’indagine dell’anima anche fuori dai contesti clinici. Mi dissi che occorreva restituire dignità alla depressione, la maggior parte delle depressioni sono una risposta sana ad una società malata. Chi è depresso è una persona sensibile che più di un’altra sente il disagio del sistema. L’essere umano soffre in un sistema disfunzionante. La psicologia, a forza di definire categorie diagnostiche, si astrae dalla realtà.
La formazione accademica che ho ricevuto, sebbene eccellente, non ha dato risposte a quello che cercavo. Anch’essa è inserita in un sistema che avevo bisogno di osservare criticamente dall’esterno. Oltre alle parole di Gaber, furono, così, anche quelle di Gino Strada, Alex Zanotelli, Giovanni Vannucci, Arturo Paoli, Raimon Panikkar, a toccarmi profondamente. E furono decisive nella scelta di come impostare la vita che mi si stava schiudendo dinnanzi.
Ci ho messo anni. Col tempo ho imparato ad usare la mia inquietudine fino a farla diventare carburante per la mia espressione, per la mia creatività. È lo stare scomoda e l’essere insoddisfatta che mi spinge a compiere quanto vedo di incompiuto intorno a me. Ora non è più uno stato sgradevole. È divenuta una forza motrice e motivante che ogni giorno mi indirizza nella ricerca.
Sembra un percorso pianificato a tappe ma, mentre lo vivevo, non ero affatto consapevole della direzione in cui stavo andando. Ero spesso dubbiosa. La mia mente razionale mi buttava giù, mi opprimeva con l’idea di perdere tempo, di cercare a vuoto. Tuttavia, ringrazio me stessa per essermi fidata del mio intuito. Come un segugio annusavo la strada, certa di trovare qualcosa: Deve esserci dell’altro
mi dicevo. La vita di sicuro nasconde qualcosa che neanche la maggioranza sa.
Per compiere la mia ricerca ho avuto bisogno del supporto di mio padre. Egli è stato capace di essermi accanto senza troppe parole, lasciandomi fare. Lo ringrazio per aver rispettato il mio sentire. Lo ringrazio per avermi dato credito, per aver rischiato con me. Per aver rinunciato allo stipendio che portavo alla famiglia dopo la maturità. Fino ad allora ce n’era uno solo nella nostra famiglia di cinque persone, il suo. Scegliendo di fare l’università fuori sede, oltre a togliere quell’introito, ho dovuto chiedere di essere mantenuta. Lo ringrazio ancora di più per il fatto che lasciare andare una figlia senza una meta chiara e definita non apparteneva alla sua mentalità. Per tutta la vita si è dato da fare per procurare cibo ed un tetto ai suoi genitori e ai suoi fratelli. Nato primogenito nel ’39, già ad otto anni andava a lavorare dai pescatori, poi in campagna. Fino alla fine, si è preso cura del padre, tornato traumatizzato e malato di tubercolosi dal fronte d’Istria della seconda guerra mondiale. Altrettanto ha fatto con la famiglia che ha messo in piedi con mia madre. Il suo consenso, il suo supporto è stato il dono d’amore più grande che potessi ricevere da un padre.
In lui riconosco la differenza sostanziale dalla generazione dei padri
che comandano questo mondo. Riconosco l’attitudine del padre che ama veramente i suoi figli, che rinuncia alle aspettative su di loro, che non li percepisce come un prolungamento egoico di se stesso, ma che rispetta il segreto che i figli portano. Questa parola: il segreto, scelta da Massimo Recalcati nel suo libro Il segreto del figlio,[2] definisce quanto di più rivoluzionario possa esistere nel rapporto di vero amore tra genitore e figlio.
Mi reputo, quindi, molto fortunata, sono grata verso i miei genitori e i miei antenati. Li perdono per i loro limiti e li onoro per tutto ciò che mi hanno donato. In loro rinvengo le radici solide sulle quali do seguito alla vita attraverso il mio unico ed originale modo di essere. Quando sono arrivate le prove più sfidanti, di fronte a probabili progressi, mi sono sentita come il protagonista del film Amistad[3] di Steven Spielberg, quando supplica così: "Mi rivolgo ai miei antenati, indietro fino all’origine dei tempi, li prego di venire ad aiutarmi. Li farò entrare in me. E loro devono venire perché in questo momento io sono l’unica ragione per cui essi sono esistiti".
Sento che c’è continuità tra le mie azioni e quelle dei miei avi. Un filo di amore ci unisce. Il flusso di esistenza avanza, inesorabile. La loro forza si fa sentire ogni volta che devo affrontare un ostacolo, offrendomi continue possibilità di espressione ed evoluzione. Mi capita di pensare al mio bisnonno materno emigrato in Argentina che si è trovato a fare un lavoro molto duro, il raccoglitore di canna da zucchero. Perché è tutto storto in questa foto?
chiedevo da piccola a mia madre. Perché è tornato con una gamba più corta dall’America, se l’è rotta lavorando
mi rispondeva. Lo immaginavo perso nella Pampa, da solo, tra serpenti ed ossa rotte, senza possibilità di soccorso. Probabilmente quell’uomo, nei lontani anni Trenta, prendeva forza nel pensare alla sua discendenza. Se si trovava in quella situazione era per portare risorse ai suoi figli ed offrire loro un futuro migliore del suo. Le sue fatiche sono state un sacrificio, un sacrum facere, un offrirsi per amore ai posteri. In qualche modo, io ero già presente nella sua mente, in qualche modo io sto ancora ricevendo il suo amore.
Penso anche al mio bisnonno paterno, possidente terriero. Morto di crepacuore, dicono i miei nonni, per il dispiacere di aver perso il suo patrimonio. Aveva messo una firma di garanzia per un prestito ad un amico. Questi non ha restituito il credito e la banca si è rifatta sui suoi beni. Eppure, tutti sono sopravvissuti ed hanno dato discendenza. E il buon cuore è rimasto come eredità ai discendenti.
Sento nelle mie ossa, nelle mie vene, scorrere la linfa vitale dei miei antenati. Tutti, ognuno a loro modo, hanno contribuito a farmi divenire quella che sono. Anche se non li ho conosciuti, una corrente di amore ci unisce al di là della loro presenza fisica. Qui, adesso, su questa terra. Mentre vivo, sento di tenere in mano la fiaccola accesa che mi hanno passato: ora è il mio turno, ora è il mio momento. Mi auguro ogni giorno di viverlo con lucidità e consapevolezza, di essere all’altezza del tesoro che hanno accumulato in esperienza e saggezza nel lungo viaggio della loro vita. Prego affinché questo potenziale possa esprimersi in ogni momento prezioso della mia vita su questa terra.
Nonostante questi pensieri, come tutti cado nella trappola della routine quotidiana. Gli anni si sono succeduti in fretta dopo la laurea e, tornata a vivere nella terra natale, corro sempre. Sfreccio con la mia auto davanti la casa dei miei e non mi fermo, nonostante ci passi davanti quattro volte al giorno. Mi dico spesso: Dovrei fermarmi a salutare, ormai sono anziani e dovrei godermeli adesso
. Ma la fretta prevale, c’è sempre una scusa e apparenti priorità. La sera do sempre un’occhiata verso la casa paterna. È ora di cena, scorgo la luce accesa dalla finestra della cucina. È un conforto. Sono lì, il porto sicuro al quale ritornare in caso di bisogno. Così sono sempre stati. Si sono prodigati per noi figlie, senza mai chiedere niente in cambio. Umili e senza pretese, generosi in maniera silenziosa.
[1] Gaber G., Mi fa male il mondo, dall’album: E pensare che c’era il pensiero, Casa discografica Giom, 1994.
[2] Recalcati M., Il segreto del figlio, Feltrinelli, Milano, 2017.
[3] Spielberg S., Amistad, produzione cinematografica DreamWorks, Usa, 1997.
Capitolo 2
La morte paventata
Tutto sembra scorrere in un eterno presente. Si misura il tempo vedendo i figli crescere e ci si meraviglia increduli tra parenti ed amici del tempo che passa. Fino a che qualcosa rompe l’incanto. Arriva sempre, prima o poi nella vita, un fatto che ci ricolloca nella giusta visione del tempo limitato che abbiamo a disposizione.
Nel mio caso, quel fatto è stato la salute di mio padre, venuta a mancare all’improvviso. Avevamo