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Natale A Saint Oyen
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E-book219 pagine3 ore

Natale A Saint Oyen

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Info su questo ebook

I dipendenti di un’azienda organizzano una gita a Parigi. Al termine di quel viaggio, una serie di circostanze spingono l’Autore ad approfondire la conoscenza di Ferruccio, Ciccino e Fabienne (tre dei cinquanta partecipanti alla gita) e a farci conoscere le loro storie personali. Nel passaggio dall’uno all’altro degli stessi racconti scopriamo anche la grande forza evolutiva che è in lui e che lo sta portando a cambiare in maniera profonda il suo rapporto con Dio e il proprio modo di muoversi nel mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita8 set 2011
ISBN9788866182290
Natale A Saint Oyen

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    Anteprima del libro

    Natale A Saint Oyen - Giuseppe Lascala

    Montovert

    IL PARERE DEGLI ESPERTI

    Giuseppe Lascala, con questo suo nuovo lavoro, si conferma uno spontaneo narratore che sa toccare per istinto molti generi e registri della narrativa, dalla posizione civile e sociale, d’ispirazione cristiana, alle narrazioni picaresche di Antonino, al romanzo umanitario e sociale alla maniera di Victor Hugo, all’esemplare storia di Ciccino, che metaforicamente può rappresentare una generazione di meridionali i quali, dopo avere avuto un’infanzia selvaggia e amara, attraverso una lunga e faticosa presa di coscienza, si sono inseriti nella società industriale del nord dell’Italia e sono ascesi ai compiti e alla dignità di moderni cittadini.

    In questo senso alcuni racconti sono la memoria di quella civiltà contadina che l’industrializzazione ha spazzato via.

    Il lettore non mancherà di trovare anche un ampio talento descrittivo dell’Autore nelle pagine di questo insolito e inaspettato libro, dove il destino amaro di Ferruccio e di altri personaggi contribuisce a cambiare la vita del protagonista, anzi non a cambiarla ma a risvegliarla alla vera vocazione cristiana.

    Per esprimere questa vocazione l’Autore ha espresso anche quella di multiforme narratore e di poeta.

    Il romanzo è composto di una serie di storie picaresche, le prime raccontate da Antonino e poi quelle edificanti dei vari personaggi che l’Autore porta ad esempio e a esaltazione dei propri valori morali e delle pratiche religiose: valori sicuramente e marcatamente cattolici.

    I personaggi sono tutti ben raffigurati e balzano vivi e presenti come conoscenze profonde nella coscienza del lettore.

    Il più fine e memorabile di questi personaggi è l’Io narrante, che appare discretamente e pudicamente per tutto il libro, pronto ad ascoltare, ad aiutare e a scrivere le storie singolari degli altri protagonisti, e che arriva al traguardo comprendendo profondamente chi siamo.

    Ciò lo porterà a dedicarsi al prossimo e a saper affrontare con serietà la morte che lo porterà in un campo fiorito.

    Belle in particolare e coinvolgenti sono la storia di Ferruccio, quella edificante di Giovanni, personaggio gigantesco, quella avvincente di Antonino, quella conturbante di Ciccino e quella molto delicata di Pierre e di Fabienne.

    Il testo va esaminato sotto l’ottica di un cattolicesimo dove preghiera e valore della vita, anche per i più gravi disabili, sono la salvezza.

    La personalità dell’Io narratore è quella di uno spontaneo cristiano che crede naturale e istintivo occuparsi del prossimo bisognoso, senza per questo proporsi di propagandare una religione o di acquisire meriti di fronte a Dio.

    Infatti, con Dio non si possono istituire partite di dare e avere, poiché i suoi calcoli a noi sono sconosciuti.

    Ci resta soltanto l’istinto, più antico dei dieci comandamenti, di sentire la solidarietà per il nostro prossimo, di cui dobbiamo comprendere ogni forma di dolore e di miseria.

    L’origine autobiografica del romanzo è molto interessante perché gli elementi di cui è composta sono sofferti non nella loro accidentalità cronachistica o aneddotica, ma come condizione spirituale dotata di un’infinita apertura: la tensione dell’Autore è volta a cercare un chiarimento non nella rappresentazione di dati in qualche modo obiettivi, ma in un’inserzione nella realtà del proprio sentimento, quindi a confrontarsi con altri. Perciò nel libro si sente una presenza viva, di una persona non fittizia, esistente e riconoscibile, che affida alla scrittura l’amarezza di un tempo vissuto e la felicità della memoria.

    Da questa completezza emerge la Sua capacità (la capacità che giustifica un Autore) di inserire nella prosa l’esperienza soggettiva per giungere meglio a indagare nei tratti le luci, le ombre, le sfumature contrastanti, l’ambiguità delle promesse del vivere quotidiano alla ricerca del vero volto della vita.

    Le dimensioni di questo scritto vanno di là della comune conoscenza, del diario, dell’annotazione veristica per raggiungere i perimetri di una testimonianza.

    Nel libro i fatti - reali o verosimili - e le esperienze emotive vengono montati mediante una buona tecnica narrativa ed esposti in una scrittura facile, piana e di avvincente lettura.

    Così il racconto appare come un momento chiave, un momento simbolo di una data situazione e, pur sorgendo in un contesto di situazioni realistiche e non costituendo che frasi o fatti normali e comuni, acquista valore di emblema morale ed esprime bene quei motivi psicologici che possono essere usati per corroborare un’interpretazione di uno spaccato della nostra società, oggi.

    Un libro insomma molto impegnativo, un manifesto di etica, oggi di moda, vista la solitudine degli esseri umani nell’attuale società: un libro che fa onore al suo Autore e che sicuramente farà del bene a chi avrà occasione di leggerlo.

    CAPITOLO I

    "Attenzione, prego! La Frigerio & C., organizzatrice di questa gita, vi ringrazia della partecipazione e vi dà il più cordiale benvenuto, con l’augurio che i tre giorni che trascorreremo insieme non servano solo ad allargare le nostre conoscenze geografiche, ma anche e soprattutto a rafforzare l’amicizia che lega i dipendenti della nostra società, oltre che a stringere nuove amicizie con coloro i quali dell’azienda non fanno parte, ma che hanno ugualmente accettato di venire a Parigi.

    Proprio a questi ultimi deve essere rivolta la nostra attenzione, affinché essi formino con noi un unico gruppo e, già fin da ora, si sentano a proprio agio.

    A tutti i colleghi e a queste persone in particolare porgiamo il nostro più cordiale saluto.

    Dai doverosi saluti passiamo a una comunicazione: nei giorni che hanno preceduto la partenza, abbiamo cercato di escogitare qualcosa che non ci facesse pesare le lunghe ore di viaggio in autobus; qualcosa cioè che ci aiutasse a trascorrere il tempo, coinvolgendo e facendo divertire tutti.

    Avremmo pensato di organizzare una specie di corrida, un gioco cioè al quale ogni partecipante potesse prendere parte.

    Ecco, in sintesi, di cosa si tratta: ciascuno di noi segnerà il proprio nome sul foglietto bianco che tra poco distribuiremo. Sullo stesso foglio indicherà il genere di esibizione in cui intende cimentarsi: una canzone, una barzelletta, una poesia (tutti abbiamo in mente un motivetto, tutti conosciamo qualche barzelletta, tutti siamo stati a scuola e abbiamo imparato delle poesie).

    Ultimata quest’operazione, si metteranno i foglietti in un cappello e se ne estrarrà uno per volta, determinando così l’ordine secondo cui ci si dovrà portare al microfono.

    Al termine di tutte le esibizioni, in base agli applausi ricevuti da ciascun concorrente, sarà designato il vincitore del gioco, al quale sarà assegnato un ricco premio.

    L’unico ostacolo che potrebbe compromettere la buona riuscita di questa iniziativa, naturalmente, non può che essere un certo imbarazzo a esibirsi in pubblico per chi questa cosa non l’ha mai fatta. Riteniamo tuttavia che, con un po’ di buona volontà, anche quest’ostacolo possa essere superato.

    Per darvi un aiuto in questo senso, una volta che avrete restituito i foglietti compilati, ci esibiremo noi per primi.

    Non siate perciò titubanti, e fate quanto vi è stato richiesto, per divertirci insieme con uno spettacolo di cui tutti noi saremo i protagonisti!".

    Con questo discorso lo speaker ruppe il ghiaccio all’inizio di una gita della quale, nonostante siano trascorsi tanti anni, tutti serbiamo ancora un buon ricordo.

    Fu quella un’esperienza davvero indimenticabile, che ci portò a conoscere lo splendore di Parigi, del Palazzo di Versailles e di altre località della Francia.

    Ma ciò che resterà sempre impresso nella nostra memoria sarà senz’altro la grande festa che ci accompagnò per tutto il viaggio.

    Sento ancora nelle orecchie l’eco di Quel mazzolin di fiori, cantata dalla signora Nobile, quello de La villanella, cantata dalla signorina Anna, le canzoni di Mazzoleni e Bellavite (due bravi ragazzi un po’ balbuzienti, ai quali si era improvvisamente sciolta la lingua) e le barzellette di Fraccavento, che per tutti fu una rivelazione.

    Ma il merito maggiore della buona riuscita di quel viaggio deve essere senz’altro attribuito a Ferruccio, per le cento e forse più barzellette raccontate da fine dicitore qual era.

    Fu proprio nel momento in cui egli era proclamato vincitore di quell’insolita gara con un bacio della signorina Fabienne (la bella ragazza bionda in gonna e giacca rossa che, salita ad Aosta dopo circa due ore, ci fece da guida per tutto il viaggio) che mi tornarono in mente i versi di Mameli:

    Dall’Alpi a Sicilia dovunque è Legnano ognun di Ferruccio ha il core, la mano.

    Si era creato un clima di grande euforia e di amicizia. C’eravamo liberati dell’imbarazzo che ci infastidiva, come i Comuni della Lega Lombarda, nel 1176, si erano liberati del giogo sotto il quale li aveva messi Federico Barbarossa.

    Anche noi eravamo orgogliosi di avere il nostro eroico Ferruccio, così come l’aveva avuto, nel 1530, la Repubblica Fiorentina.

    Senza neppure accennare un sorriso, quel birbante aveva fatto tanto ridere gli uomini ed era riuscito a far tenere, con tutte e due le mani, la pancia alle signore.

    L’ultima barzelletta che aveva raccontato, mentre l’autobus correva veloce, era quella di un anziano signore sardo, ricoverato in un ospizio dell’isola, al quale la suora aveva portato un pannolone perché si faceva la pipì addosso, e che si era rifiutato di metterselo tra le gambe perché lui non era in-Continente.

    Ci avevamo fatto sopra una bella risata, senza sapere che quella barzelletta si sarebbe presto rivelata l’ultima recita di un grande artista.

    A soli cinquant’anni, infatti, Ferruccio, che aveva tanto girato per il mondo, fu depositato in una casa di riposo per anziani.

    Il suo fu un crollo tanto improvviso quanto impressionante.

    Lui, che aveva sempre mostrato un carattere da leone, per una controversia con il datore di lavoro trascinatasi per anni, aveva finito per farne una malattia. Il suo stato psichico subì un lento deterioramento fino a quando le sue gambe non lo ressero più e il cortisone che i medici gli somministrarono non lo gonfiò come un pallone.

    I suoi lineamenti erano tanto cambiati quel giorno in cui decisi di andare a trovarlo nella casa in cui abitava che quasi non lo riconobbi.

    Dovetti bussare più volte prima che i cardini della porta cigolassero per aprirmi l’accesso a una sorpresa: erano quasi le undici, ma le finestre della stanza in cui Ferruccio mi fece entrare avevano ancora le persiane abbassate.

    La luce era accesa, il letto disfatto, e c’era nell’aria un acre odore di caffè e di fumo.

    – Scusami se ho tardato ad aprire e se ti ricevo in pigiama, – disse – ma sto attraversando un periodo molto difficile. Per tutta la notte non ho chiuso occhio, e solo da qualche ora il sonno era riuscito a vincere tutti i miei pensieri.

    Era così malridotto che mi venne un forte desiderio di tornare sui miei passi. Ma Ferruccio m’inchiodò alla sedia sulla quale ero seduto con due occhi che resero ancor più minacciose le parole che gli uscirono dalla bocca.

    – Che cosa penseresti di me se uccidessi qualcuno? – gridò, aprendo le braccia, con le palme delle mani rivolte all’insù, e accompagnando quei gesti con una smorfia del viso – Dovrei farlo, sai, per liberarmi del peso che ho qui, nel cuore!

    E, così dicendo, si batté un forte pugno sul petto.

    Io non dissi nulla e pensai che sarebbe stato meglio lasciarlo sfogare.

    Anche lui restò in silenzio e, pian piano, la sua espressione si fece più calma: il pugno sul petto aveva domato l’impeto che galoppava dentro di lui come un cavallo infuriato.

    Allora si sedette vicino a me, mi parlò delle sue pene, mi raccontò dell’incontro avuto con il suo dottore qualche giorno prima, quando, dopo una serie di accertamenti clinici, aveva saputo di essere affetto da una grave malattia infiammatoria cronica che colpisce il sistema nervoso centrale e che rallenta, in modo irreversibile, gli impulsi che vanno dal cervello verso le diverse parti del corpo e viceversa.

    Mi disse poi del giorno in cui, dopo tanta repressione del desiderio di gridare il suo odio e il suo rancore al dirigente che lo aveva convocato nel suo ufficio per dirgli che di lui l’azienda poteva benissimo fare a meno, se n’era andato via umilmente, piegato su un bastone, forse da quello stesso lavoro in cui aveva trovato orgoglio e soddisfazione e che, ormai da qualche tempo, si era trasformato in pesante giogo.

    Ma quel rancore e quell’odio erano ancora lì, nel suo petto, e non gli davano pace né giorno né notte.

    Una volta lontano, però, aveva cominciato ad avere forti dubbi: era colpa degli altri, era il mondo fatto male, o era lui la mela marcia che doveva essere allontanata da quelle buone?

    Dopo essersi posto per l’ennesima volta il quesito, fece una lunga pausa, come per prendere fiato, durante la quale mi fissò con i suoi occhi rossi e, senza ascoltare le parole di conforto che cercavo di dirgli, scoppiò in lacrime e mi abbracciò.

    Ferruccio operava in un settore diverso da quello in cui ero io. Egli curava l’aspetto turistico dei viaggi e, per buona parte dell’anno, era in giro per il mondo. Per questo motivo non avevo avuto occasione di conoscerlo a fondo. Sapevo, però, di lui, che aveva un fratello, ma viveva solo. Non si era mai sposato e, sul piano sentimentale, era sempre stato molto riservato. Qualcuno asseriva che avesse un amore segreto, ma di quest’argomento io non ebbi mai occasione di parlare con lui.

    Era sempre stato un uomo serio, onesto e laborioso: il suo lavoro consisteva nella costruzione, dopo una serie di sopralluoghi e la stipulazione di convenzioni e contratti con alberghi stranieri, degli itinerari europei che l’azienda avrebbe poi proposto alla sua clientela, accompagnare i primi gruppi di turisti di ogni nuovo itinerario per verificare che tutto si svolgesse secondo i programmi stabiliti e sottoscrivere accordi con aziende e con agenzie italiane ed estere per l’effettuazione di servizi di noleggio autobus con conducente.

    Ferruccio era entusiasta del suo lavoro e, ogni anno, quando l’estate era finita, indossava il suo loden blu, riprendeva la sua borsa e andava a definire i programmi per l’anno successivo.

    Non era però soddisfatto della gratificazione economica, e quando si fece avanti per chiedere che fosse rivisto il suo inquadramento contrattuale gli fu chiusa la porta in faccia.

    Ferruccio promosse allora una vertenza legale nei confronti dell’azienda, ma il giudice cui fu affidato il caso respinse il suo ricorso. Da quel giorno, mentre la considerazione delle alte sfere aziendali nei suoi confronti diminuiva, la sensibilità del suo carattere cominciò a trasformarlo in un’altra persona: i capelli castani, divisi in due da una lunga riga, in poco tempo si fecero bianchi, l’addome si dilatò formando una grande gobba, la schiena si piegò leggermente in avanti, facendolo apparire ancora più basso del metro e sessantacinque che normalmente misurava, e i suoi grandi occhi azzurri cominciarono a fissare con sempre maggiore insistenza la punta delle scarpe.

    Il viaggio a Parigi mi aveva fatto vedere Ferruccio da un’altra prospettiva; l’abbraccio di quel giorno, oltre ad essere una forma di ringraziamento, mi fece capire quanto la sofferenza e il dolore siano capaci di stimolare in noi sentimenti di solidarietà.

    Prima di andarmene, rimisi un po’ di ordine in quella stanza e aprii le finestre per fare uscire quell’atmosfera grigia che, invece, rimase lì, e si fece sempre più soffocante, fino a quando non lo portarono all’ospizio, tra gli incontinenti, il vecchiume, gli scarti: tra gli alberi già secchi alle radici, in quel luogo che aveva sempre suscitato in me un senso di repulsione.

    Non andai a trovare Ferruccio per tanto tempo, perché il male ci cambia, e quel malato ormai costretto a stare su una sedia a rotelle, che riusciva solo a biascicare le parole, quel vecchio bianco e smunto che si disperava e piangeva, di cui mi parlavano i colleghi che andavano a fargli visita, certamente non era più il mio amico Ferruccio.

    Man mano che i giorni passavano, però, sentii nascere in me un senso di vergogna per i miei stessi pensieri, e decisi di fare ciò che avrei dovuto mettere in atto da qualche tempo.

    Era l’ultimo sabato di

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