Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Esistenza, conoscenza e morte
Esistenza, conoscenza e morte
Esistenza, conoscenza e morte
E-book373 pagine5 ore

Esistenza, conoscenza e morte

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

L’autore muore e rinasce svariate volte e, partendo proprio da queste esperienze di premorte, in seguito a svariati attacchi di cuore, l’autore analizza questo stato così “insolito” scavando nella sua intimità al fine di conoscere.
“Sono stato rianimato tante volte, ho avuto tanti incontri con la morte e certamente si tratta di un’esperienza molto particolare. Così mi si sono aperte possibilità per la comparazione e la comprensione, e con ciò ho scoperto una cosa che mi induce a tacere su questo intervallo di tempo.”
Questo voler sapere veramente, al di là dei dubbi e dei dogmi, lo conduce nelle braccia della scienza, della filosofia e della psicologia, lo induce anche a costruire una barca a vela per girare il mondo, lo fa meditare sulle cime solitarie e nella giungla più profonda dell’India, visitare ashram e templi, coltivare la terra in un’azienda agricola, vivere in diverse comunità, praticare riti segreti di iniziazione e lo Yoga, per tornare, infine, dove aveva incominciato: da sé stesso.
Un viaggio affascinante nell’Io più intimo, nei sentimenti più profondi dell’essere umano. Un percorso introspettivo che l’autore augura al lettore affinché possa conoscersi profondamente esplorando ogni possibilità.
“Never born never died”.

Satya Uwe Amadeus Ott nasce il 19 luglio 1946 a Düsseldorf, Germania. Si laurea in psicologia, ottiene un Master in medicina e un Diploma in filosofia. Successivamente lavora come psicanalista in Germania e USA, e costruisce una barca a vela con la quale fa il giro del mondo in cinque anni. Lavora poi in India per sette anni, ed è lì che studia profondamente la spiritualità indiana, rendendo questo, forse, il periodo più importante della sua vita. Nel 1987 compra una casa nel comune di Assisi, in Italia, dove svolge la sua professione e crea inoltre una comunità spirituale.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2023
ISBN9788830683310
Esistenza, conoscenza e morte

Correlato a Esistenza, conoscenza e morte

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Esistenza, conoscenza e morte

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Esistenza, conoscenza e morte - Satya Uwe Ott Amadeus

    Nuove Voci – Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    In questo impressionante resoconto autobiografico il mio amico, scrittore e insegnante Satya (Uwe Ott), racconta l’audace sfida tra vita e morte come inarrestabile avventuriero borderline.

    Un viaggio in barca a vela e cinque anni intorno al mondo, esperienze sull’Himalaya e nella giungla più profonda, da solo in Afghanistan con i grandi Buddha,… eppure tutte queste esperienze sembrano solo una blanda preparazione ai viaggi tra la vita e la morte che dovrà affrontare, clinicamente morto per nove volte e ritornato a vivere per nove volte.

    Ieri sera ho incontrato Sapienza. Le ho chiesto:

    Come si può vivere sulla Terra?

    Non si può vivere sulla Terra, rispose Sapienza

    la Terra è un lago di lacrime.

    E se io attraversassi il lago?

    Non è possibile vivere sulla Terra, disse Sapienza

    la Terra è un mare di sofferenza.

    E se io mettessi la mia vela ed alzassi il mare della sofferenza?

    Non si può vivere sulla Terra, disse Sapienza

    una volta attraversato l’oceano della sofferenza, giungeresti alla riva del deserto della disperazione.

    E se brandissi il mio coraggio e attraversassi il deserto della disperazione?

    Allora, mi disse Sapienza

    non avresti più bisogno di me, e mi lasciò.

    Premessa

    Ho fatto la straordinaria esperienza di essere stato rianimato non una, ma più volte e di aver sperimentato spesso quello stato chiamato morte, e di essere poi ritornato nella vita.

    Dal punto di vista medico significa che ho subito numerosi episodi di tachicardia ventricolare sostenuta (con pulsazioni che andavano oltre i 200 battiti) e spesso la tachicardia è evoluta in fibrillazione ventricolare, vale a dire una situazione non sostenibile dal cuore in quanto emodinamicamente intollerabile per gli organi del corpo, in particolare per il cervello che può sopravvivere senza apporto di sangue solo per pochi minuti senza subire danni permanenti.

    Dalla fibrillazione ventricolare l’evoluzione verso l’arresto cardiaco, ovvero la perdita di funzionalità del cuore, è praticamente un passo obbligato. È in questo momento che sopraggiunge la morte sia oggettivamente che soggettivamente. Io mi sono soffermato in tale stadio intermedio per nove volte e ogni volta ne ho avuto un’esperienza diversa.

    Per rianimarmi è sempre stato necessario defibrillarmi (tramite un apparecchio chiamato defibrillatore vengono appoggiate delle piastre caricate elettricamente sul petto del malato con diversi voltaggi via via crescenti e scaricate vicino al cuore per cercare di farlo ripartire).

    Ciò può riuscire o no, e il medico può tentare solo qualche volta. Per questo la situazione nell’unità di terapia intensiva è estremamente febbrile, è la battaglia molto concreta con la morte. Finora per me ciascuna di queste rianimazioni ha avuto successo, ovviamente, altrimenti non avrei potuto scrivere questo libro, ma nelle varie unità di terapia intensiva ho anche dovuto spesso assistere al momento in cui per i miei compagni di malattia non ha funzionato e sono morti. Oggi porto nel mio corpo una meraviglia della tecnica. È stato impiantato un defibrillatore collegato al cuore attraverso degli elettrodi.

    Questo piccolo defibrillatore ha la capacità di riconoscere una fibrillazione e di intervenire prontamente con una scarica elettrica, così come farebbero i medici rianimandomi con un defibrillatore esterno, e di bloccarla per far ripartire il cuore con un giusto ritmo. Questa è la mia realtà esterna e la metto in mostra subito perché siamo abituati ad usare i fatti come quadro di riferimento per la nostra comprensione, benché qualche volta offuschino la nostra vista sull’essenziale, su ciò che è veramente significativo. Tutto il libro tratta di questa essenza significativa e spero che possiamo condividerla attraverso la mia storia che sto per raccontarti ora.

    La mia è una storia vera, questo è bene che tu lo sappia; ho solo cambiato o taciuto i nomi delle persone ancora vive perché potrebbero essere riconosciute.

    Ringraziamenti

    È stato possibile scrivere questo libro grazie all’aiuto di tante persone. Soprattutto vorrei ringraziare i medici e le infermiere dei vari ospedali, che mi hanno salvato la vita, che hanno fatto nei momenti decisivi ciò che era giusto e che hanno avuto per questo pochi ringraziamenti, poiché non sembra più possibile una relazione personale con il paziente.

    Vorrei ringraziare, oltre ai partecipanti del seminario tenuto nell’estate ‘93 che erano presenti quando morii e quando fui rianimato, anche coloro che hanno tenuto delle veglie notturne accanto al mio letto nei periodi critici e, infine, tutti quelli che hanno reso possibile questa versione italiana del mio testo.

    Introduzione

    Avevo 14 anni quando vidi Gesù Cristo scendere dalla croce e venire verso di me. Avvenne nella chiesa parrocchiale di una piccola città tedesca; mi ero appena confessato ed ero inginocchiato nella prima panca davanti all’altare maggiore, guardavo la grande croce che pendeva alta sopra l’altare quando, improvvisamente, Gesù si staccò dalla croce e venne lentamente verso di me. Rimase a pochi metri di distanza da me, vi restò a lungo, chiaramente visibile, e poi, senza dire una parola o dare alcun segno, si sollevò da terra e lentamente, senza mai voltarmi le spalle, si allontanò da me finché fu di nuovo sulla croce.

    Ne fui così toccato, emozionato, che dovetti alzarmi e muovermi. Corsi per ore lungo il fiume e rientrai talmente tardi nel convento, dove andavo a scuola, che fui punito severamente.

    Mi fu impossibile trovare le parole adatte per esprimere ciò che era successo, ma senza dubbio tale episodio rappresentò il culmine della mia esperienza religiosa, mistica, da bambino e ragazzo, e nello stesso tempo il punto finale e la svolta.

    Da due anni desideravo diventare sacerdote ed ero riuscito a frequentare il Seminario. Mi ero perso nella preghiera e nella contemplazione soffermandomi, con un senso di benessere, in un mondo che amavo dalla prima adolescenza e che era più intimo, per me, della cosiddetta realtà della vita quotidiana.

    Questo mio mondo era puro e sincero, raggiante di luce, vero, pulito, bello, ed ero convinto che l’avrei potuto trovare in quella che è stata la prima religione che avevo conosciuto e nella quale ero nato: il cristianesimo.

    Che caduta degli ideali, che disillusione! Dopo due anni in Seminario, in contatto permanente con i mediatori professionali tra Dio e l’uomo, con i sacerdoti nominati dalla Santa Chiesa, la mia fede nel bene e nella purezza era distrutta, polverizzata in nulla, la mia fiducia in Dio persa e sostituita dalla paura, dal senso di colpa e di indegnità.

    Gli ideali della mia infanzia fecero una danza beffarda di morte su piedi d’argilla, quando seguii un sacerdote che brandiva il turibolo e lo ascoltai esclamare ciò che non era capace di vivere.

    Lessi di nuovo la storia della Chiesa, questa volta con occhi critici; m’accorsi delle omissioni e delle deformazioni, vidi tutte le guerre, tutte le miserie, tutta la sofferenza, sentii gridare le vittime della Sacra Inquisizione, sentii le giustificazioni dei sacerdoti, gli insegnamenti dei Padri, vidi la loro vita e, piano piano, persi quel Dio di cui erano i manager e persi la mia fede; divenne sempre più improbabile, per me, l’esistenza di un Dio.

    Fu proprio in quel momento -in quello stato d’anima- dopo una confessione formale, più o meno volontaria, che ebbi la visione di Gesù che veniva verso di me. Credo che qualcosa dentro di me avesse deciso che era giunto il momento di sapere, di conoscere la verità. Essere libero dalla menzogna e dall’illusione, dai pregiudizi e dall’autoinganno. Volevo sapere se Gesù fosse veramente sceso dalla croce o se invece mi fossi immaginato tutto. E, in tal caso, come avevo fatto a vedere tutto questo come realtà normale.

    Questo voler sapere veramente, al di là dei dubbi e dei dogmi, mi condusse nelle braccia della scienza, della filosofia e della psicologia, mi indusse anche a costruire una barca a vela per girare il mondo, mi fece meditare sulle cime solitarie e nella giungla più profonda dell’India, visitare ashram e templi, coltivare la terra in un’azienda agricola, vivere in diverse comunità, praticare riti segreti di iniziazione e lo Yoga per arrivare infine dove avevo incominciato: da me stesso.

    Su questa strada ho raccolto delle conoscenze, ho raccolto il sapere zelantemente come le api il loro miele, ho raccolto sapere universitario, sapere alternativo, sottoponendo gli uomini alla terapia, ho sofferto con loro, mi sono disperato con loro, li ho accompagnati nel loro cammino, nella guarigione o nella rovina.

    La filosofia sembrò capace di dare risposte definitive, per generazioni i cervelli più abili avevano scavato con pazienza in profondità. Mi persi in voli pindarici, ma alla fine atterrai sempre bruscamente sul suolo della realtà, che continuava immutata con tutte le sue sofferenze e tutte le sue gioie. Niente era cambiato, perché non ero cambiato io.

    Nel sapere mistico e intuitivo delle scuole di saggezza dell’umanità trovai le risposte cercate, sistemi profondi e ben motivati, scritti dall’esperienza, pervasi dallo spirito di verità e sincerità. Avidamente bevvi questo nettare e per tanti giorni, tante settimane e tanti mesi nuotai nel mare di questa saggezza. Ma anche da qui ritornai a una riva, un luogo arido, brullo, freddo come prima; niente era cambiato perché, malgrado ogni saggezza, non ero cambiato io.

    Cercando sempre, mi era sfuggito che era stata la vita stessa a guidarmi, a sostenermi, ad ammonirmi, ad istruirmi. Ma ero un cattivo alunno, non concentrato, non ero attento, ero sempre altrove con i pensieri, alla ricerca di una nuova esperienza, una nuova avventura, una nuova illuminazione.

    Perciò la vita fu costretta ad essere più chiara con me: mi mandò una malattia, un’altra ancora, poi ancora una e alla fine la malattia veramente grave, la grande malattia. Essa mi portò alla morte, fui salvato, ma non capii neppure allora.

    Così la vita andò avanti, mi condusse alla morte, morii, fui rianimato e non simbolicamente, ma in modo reale, pratico e dolorosamente concreto. Ero solo, assolutamente solo, e tutto il mio sapere, il sapere psicologico, il sapere filosofico ed il sapere spirituale era inutile, cianfrusaglie superflue. Esisteva solo la morte ed un piccolo essere umano debole, che non voleva morire. Non sono stato io a cambiarmi: sono stato cambiato.

    Tanto è stato doloroso, in parte terribile, inesprimibile con parole e descrizioni. Molte cose erano allegre e leggere ma, oltre ogni cosa, incontrai la grande gioia, la gioia indescrivibile.

    Capitolo Primo – Il primo attacco cardiaco nell’India del Sud

    La mia storia tratta di malattia, malattia grave e morte, ma soprattutto di vita e di essere, di felicità e salute, di gioia e di realizzazione; tratta di sofferenza e dolore, di benessere e di una gioia che va al di là di ogni descrizione. Tratta di sapere, di un sapere grande, ma anche molto preciso e pratico, e di conoscenza, di verità spirituale e di libertà; ma tratta anche di sbagli, di indolenza, di stupidità, di sconfitte e di disperazione.

    Tutto in essa è intessuto fittamente, si sovrappone, si copre, si compenetra; bisogna porsi al di sopra di essa per vederlo nella sua totalità, dalle vette più alte. Tuttavia devo smembrarla, questa totalità, devo frantumarla e lacerarla. Devo formulare in parole l’Altro, per offrirlo all’intelletto affinché costruisca un ponte verso lo spirito o, quanto meno, permetta che sia costruito.

    La tua vita, la mia vita, la vita è un’indivisibile unità e totalità; invece tendiamo a comunicare l’uno con l’altro estraendo fuori solo delle sezioni ed accentuandole, omettendone altre e focalizzando l’attenzione su qualche dettaglio ai margini. Ma la parola non è l’esperienza, l’accenno non è la realtà, il descritto non è ciò che è.

    Abbiamo creato bei depositi di sapere, biblioteche colme di un’infinità di fatti, ma non ci siamo avvicinati a noi stessi di un solo passo. Siamo ancora infelici, violenti, malati, sentimentali, ignobili, generosi, limitati, idealisti, eroici, mortali afferrando l’immortalità, come prima.

    Facciamo un viaggio insieme, un viaggio nel paese della coscienza, della vita, della realizzazione per scoprire spazi nuovi, in cui libertà e salute, pace, armonia e gioia sono stati naturali dell’essere. Suppongo che tu abbia un dialogo con me, un dialogo che ci riguardi entrambi.

    Non conduciamo una conversazione tiepida e ti sfido a partecipare. Parto dalla convinzione che vuoi sapere veramente, che vuoi trovare ciò che è totalmente vero, al di là di tutte le affermazioni (incluse le mie), dei dogmi, delle tradizioni. Parto dal fatto che vuoi scoprire se esiste una vita completamente diversa, un essere realizzato, libero e felice.

    La descrizione delle esperienze che ho fatto viaggiando forse ti ispirerà, almeno lo spero, a trovare le tue risposte. Forse sorriderai dei miei sbagli, o scuoterai il capo, o vedrai rispecchiati i tuoi stessi sbagli. Troverai nella mia gioia la tua, parteciperai alle mie sconfitte e alle mie vittorie, prenderai la mia mano, la lascerai di nuovo e camminerai verso la tua destinazione che è, con infiniti travestimenti, la destinazione di tutti noi.

    Parlo di una possibilità, di una forza dentro di me, dentro di te, dentro tutti gli uomini, di una possibilità di guarire, di vivere, di arrivare. Se fosse in superficie, facilmente accessibile a ciascuno, sarebbe già stata commercializzata da molto tempo e sarebbe acquistabile in ogni supermercato. Ma lì non c’è, e la ricerca diviene quindi la tua avventura della coscienza completamente personale, perché questa forza o possibilità può essere definita anche uno stato diverso della coscienza. Vorrei chiedere la tua attenzione alle mie parole; esse ti vogliono esortare a guardare una volta in questa direzione per poi recarti là e scoprire che cosa c’è.

    Viaggeremo insieme attraverso un ampio campo della coscienza, più precisamente di campo in campo in campo, ed improvvisamente, prima o poi, sarai là, senza neanche sapere come ci sei arrivato, forse attraverso una storia, un’associazione, un’idea. Non preoccuparti di questo, approfitta della possibilità!

    Vorrei cominciare con un attacco di cuore, uno tra i tanti attacchi di cuore che mi colpì nell’India del Sud, in un ambiente estremamente primitivo. Sdraiato in quella piccola infermeria nell’India del Sud, mi preparai a morire. Anzi, non mi preparai, fu esso a prepararmi, quel grande Esso che ora mi viene incontro sotto forma di morte. Sono in confidenza con la morte, o forse è più giusto dire che essa è in confidenza con me. Non sono il suo partner, ma la vittima con la quale gioca a suo piacimento. Quando mi stringe forte, solo per esaminare se sono già maturo, la paura mi consuma, e mi aggrappo con tutte le forze a questa vita che non deve spegnersi.

    Le infermiere sono meravigliose in questo piccolo vecchio ospedale, dove l’intonaco cade dal soffitto, le porte e le finestre non chiudono più, e il vecchio stucco parla della passata magnificenza coloniale. C’è un’atmosfera di gentilezza, di risanamento e di aiuto intorno a me, quale non vivrò più in nessuno degli ospedali europei. Certo, manca l’unità di terapia intensiva, le lucide apparecchiature cromate, i monitor e, abbastanza spesso, manca anche la corrente, così resto sdraiato al buio. Ma che importa rispetto alla compassione, all’amore delle infermiere, che vengono sempre da me, mi tengono la mano, mi consolano, provano a facilitare la transizione. Morire con dignità umana: sì, qui sarebbe possibile, non sentirsi scaduto come appendice inutile di un qualsiasi strumento, mentre le infermiere accendono incensi ai piedi del mio letto. Però saranno proprio queste macchine che mi riporteranno alla vita, in un futuro di cui non so niente ora, che mi renderanno possibile continuare a vivere.

    Fa un caldo terribile, anche di notte la temperatura non scende al di sotto di quella corporea, sudo incessantemente, riesco appena a respirare e a sopportare i dolori. L’angoscia e la disperazione mi stringono strettamente, mi lamento della mia sorte. Perché devo crepare qui con un’assistenza medica insufficiente, perché mai sono venuto qui? La paura della morte fiammeggia dentro di me, brucia tutte le strutture mentali e spirituali, ogni fede, ogni speranza e lascia solo un piccolo, misero io disperato, che non vuole morire.

    Ad un tratto tutto sembra di nuovo desiderabile, ogni momento è un avvenimento, ogni movimento un regalo: udire, vedere, toccare, sentire, odorare sono straordinariamente colmi di felicità. Mi sembra che in ogni luogo di questo mondo la meraviglia e la bellezza aspettino di essere scoperte, solo che io non posso parteciparvi più. Oh mondo, come sei profondo e bello, superficiale e brutto, tenero e crudele: tienimi con te! La morte invece mi mostra il mio non-essere, la mia rottura da tutto, la mia trasgressione, la mia perdita di tutto quello che aveva importanza per me. Che gioco terribile e stupido: finché tutto è normale e a posto non apprezzo nulla, ma se la fine mi minaccia ecco che mi aggrappo a quello che mai ho apprezzato.

    Ogni situazione è un regalo, una gioia, una lode, solo che ho pasticciato tutto con la mia serietà, con il mio furbo calcolo egoistico. Che razza di deboli omuncoli siamo nella nostra vita quotidiana, che problemi assurdi e irrilevanti creiamo a noi stessi e come sarà smascherato tutto ciò nel momento della morte. Quanto diversamente vivremmo se ascoltassimo in ogni momento, in ogni azione, la consigliera Morte. Quanto diversa sarebbe stata la mia vita se avessi compiuto ogni atto come se fosse l’ultimo. Quale coscienza potremmo raggiungere, vivere, essere se imparassimo a vivere con la morte. Come ho pasticciato la mia vita! Sempre chiamato dal presagio, dalla speranza, dalla bellezza, dal buono, dall’Uno; ho sempre messo da parte i miei ideali, li ho ripresi, li ho ridotti al silenzio, li ho sacrificati: sacrificati per che cosa? Il mio spirito doveva trovarsi in un sonno profondo, perché non si era accorto di questa fregatura. Perché mi sveglio solo alla fine, perché solo ora, quando è troppo tardi?

    Ho imparato a lottare, a difendermi, a impormi, a essere efficiente, entrando nell’insensatezza sempre più in profondità. A che cosa mi servono, alla fine, adesso, educazione, professione e titoli? Tutte sciocchezze superflue, stupide e puerili, con le quali ho sprecato la mia vita. Ho sofferto, ho sperimentato la vita come volgare, dura, crudele, brutta e, incapace di dominarla, sono fuggito sempre di più, cercando altri svaghi. Il mio intero essere è diventato nervosismo, tensione ed angoscia, ed eccone le conseguenze: il mio corpo è danneggiato, violentato. Ho rovinato la mia casa. Oh Signore, dove posso vivere?

    Nessun Dio, nessun angelo viene verso di me che muoio; in questo incontro con la morte non c’è niente di eroico, sento che la vita esce dal corpo, sono impotente, abbandonato, disperato, ossessionato dal pensiero che tutto stia per finire. Mai, mai più potrò vedere il mio bambino, che amo più di tutto; mai, mai più.

    Spazio e tempo hanno perso la loro validità, non so per quanto tempo rimango là, nel punto più profondo dell’esistenza; ma all’improvviso succede: il completamente altro, il completamente inaspettato. Sono rimasto privo di sensi? Ho avuto un’esperienza della morte? Non lo so, so soltanto che il cuore ha ripreso a battere regolarmente: bum... Bum... BUM...; so che sono vivo e... in uno stato totalmente diverso, ma senza dubbio in questo corpo, in questo luogo, in questa camera del vecchio ospedaletto nell’India del Sud, in questo caldo pomeriggio.

    In seguito leggerò molto sulle esperienze di morte di altre persone e le mie ne saranno influenzate per qualche tempo, ma in quel momento non ne sapevo ancora niente: l’esperienza è priva delle speculazioni mentali.

    Il mio cammino mi porterà in Europa, in diversi ospedali, in diverse unità di terapia intensiva. Parteciperò alla mia morte vedendola come una linea sul monitor, sarò rianimato, resterò per ore in uno stato intermedio per poi continuare a vivere malgrado ciò non sia possibile secondo il generale parere dei medici. Tutto sarà documentato e registrato in dettaglio, e tuttavia rimarrà solo il risultato, il consiglio dato con buona intenzione: che non dovrei allontanarmi più di 10 minuti da una unità di terapia intensiva. Capirò che l’esperienza della morte è creativamente libera in senso assoluto, è nell’essere e priva di qualsiasi espressione, così che posso anche usare ogni forma, ogni immagine, la luce, una galleria o un angelo. Questa immagine diviene, in un senso molto sottile, la verità dell’esperienza seppure ciò rappresenti già una restrizione dell’evento, messa per farsi capire, per potere comunicare. Ma tutto questo non lo intuisco ancora minimamente. Sono vivo, questo lo so e mi trovo sulla cresta dell’onda di una gioia traboccante, tutto è gioia, tutto ride e brilla. Dove era buio e morte, ora è luce, vita e gioia. Sulla terrazza l’acqua gorgoglia giù: è gioia, pura gioia il suo cadere, il suo correre in tutte le direzioni, i suoi balzi e i suoi spruzzi. Un alito leggero di vento arriva al mio letto, mi riveste e mi annuncia la gioia di esistere.

    L’immenso oceano ondeggia soavemente, oggi quasi immobile; il verde rigoglioso degli alberi, il giallo delle banane, le noci di cocco, tutto, tutto viene dentro la mia camera di malato e mi annuncia la gioia del mondo. Tutto questo vedo nell’apertura limitata tra le due ali della porta che dà sulla terrazza. Da lì vedo arrivare e ripartire gli uccelli, grandi cornacchie nere, colorati uccelli esotici verdi e rossi, che hanno nomi che non conosco e che non voglio conoscere.

    E arrivato il silenzio, l’intelletto tace, dentro di me è pace. Nessuna battaglia, nessun alterco, nessuna paura più, soltanto silenzio, pace e gioia. L’esistenza delle cose, la causa più profonda del mondo è la gioia. Tutto ciò che esiste gioisce di se stesso, e al di fuori di se stesso; l’acqua scorre, le foglie si cullano, il mare si solleva e si abbassa… per gioia. La gioia è la loro condizione; il loro essere e la loro esistenza. Essi sono un’unità con l’Essere, sono questo Essere.

    Capitolo secondo – Dieci anni prima a Rishikesh

    Un lungo cammino verso un riconoscimento così semplice; da tempo ormai so qual è il segreto: smetti di lottare, arrenditi, acconsenti, eppure mi sono sempre impigliato in battaglie e convulsioni mostruose. Molti anni fa in India, su al Nord, ai piedi dell’Himalaya ho letto qualcosa di Hermann Hesse e lo ricordo così: superare la paura è letizia. Quanto abbiamo sofferto tutta la vita per la paura, paura dei dolori, degli uomini, di noi stessi. Ora, mentre la morte mi strangola, nessuna paura più, solo consenso. In realtà c’è solo un’unica paura: la paura di arrendersi, di lasciarsi andare, di lasciarsi cadere. E chi si è arreso, sia soltanto per una volta totalmente, è liberato e redento. Esiste soltanto un segreto, un’arte, un insegnamento: di lasciarsi andare, di non opporsi alla volontà di Dio, di non attaccarsi a niente, né al bene né al male; così si muore continuamente e continuamente si rinasce.

    Queste erano all’incirca le sue parole: le leggevo, le sentivo eppure non le sentivo, avevo capito eppure non avevo capito. Tutto questo era vero, era completamente vero, ma non ero minimamente capace di viverlo.

    All’epoca volevo finalmente trovare lassù, nelle montagne, la tranquillità e la pace che non ero riuscito a trovare nelle attività quotidiane, nello studio e nel tirocinio ospedaliero. Avevo studiato Freud, ero affascinato da Jung; tutto questo mi sembrava giusto e vero, credevo nella scienza della psicanalisi ed ero tanto presuntuoso da discutere con il saggio yogi sul senso della vita. Ero così impaziente, autoritario, convinto di sapere, completamente coinvolto nel mio intelletto; solo un miracolo poteva liberarmene. Impiegavo le parole giuste, parlavo di verità e profondità, ma la mia vita non aveva sostanza; ero superficiale e presumevo di aver capito tutto.

    Avevo concluso lo studio della filosofia nel modo migliore: durante l’esame il professore mi aveva trattato già come un collega. Il tema che avevo discusso era la tesi dell’immortalità dell’anima di Platone. Ora giungo in India pieno di presunzione, attirato da qualcosa che non capisco. Posso fare carriera all’università, posso sottopormi all’autoanalisi e poi aprire uno studio; o posso condurre seminari per un grande complesso industriale e guadagnare un sacco di soldi. Sono colmo di sapere fino al collo, ho raggiunto ciò che avevo programmato e ora sto qui a discutere con questo asceta semiselvaggio. Perché sono qui, perché parlo tanto? Se so già tutto, perché sono ancora qua?

    La mia attenzione divaga, l’asceta tace, lo sguardo rivolto in lontananza. Mi sento a disagio e imbarazzato. Lui è circondato da un’aura di distacco, di rifiuto del mondo, di austerità, che per me è sinistra e sgradevole. Evidentemente non gli interessa se sono qui o no, e mi alzo frustrato. Come ogni domenica arrivano alcune donne che portano frutta e dolci al Santo e incominciano a imboccarlo. Ne ho abbastanza e mi metto a scendere verso il mio quartiere. Lungo la strada mi viene in mente la storia di uno yogi che visse più o meno in questa zona. La sua caverna era vicina alla cascata; ogni mattina si recava alla cascata e, restando seduto là fino a sera, guardava l’acqua dicendo: "Tutto questo lo hai fatto veramente bello,

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1