Favole del reincanto: Molteplicità, immaginario, rivoluzione
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Info su questo ebook
Perfino il pensiero rivoluzionario si è conformato a questo precetto, abbandonando l’immaginario alla violenza del fascismo: un errore storico enorme, perché ha comportato la smobilitazione di intelligenza e sensibilità dal terreno più cruciale per qualsiasi forma di cambiamento.
Unendo archeologia della modernità, antropologia e yearning, questo libro analizza il nesso che lega disincanto e totalitarismo; osserva gli effetti rovinosi che esso ha prodotto sulla vita di umani e non umani; e tratteggia un modo altro di pensare la rivoluzione, la molteplicità e il rapporto con l’immaginario, il preindividuale e l’invisibile.
Un libro di antropologia, ecologia e filosofia, scritto come una fiaba. Un libro per tornare a meravigliarsi e scrollarsi di dosso la paura, nell’anno della paura globale.
Stefania Consigliere, antropologa, insegna presso il Dipartimento di Scienze Antropologiche dell’Università di Genova. È autrice di diversi saggi, tra volumi e articoli, tra i quali: Strumenti di cattura. Per una critica dell’immaginario tecno-capitalista (insieme a Paolo Bertolini, Jaca Book 2019); Antropo-logiche. Mondi e modi dell’umano (Colibrì, 2014); La costruzione di un umano (Ets, 2014); Sul piacere e sul dolore (DeriveApprodi, 2004).
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Anteprima del libro
Favole del reincanto - Stefania Consigliere
Stefania Consigliere
Favole del reincanto
Molteplicità, immaginario, rivoluzione
habitus environmental humanities 3
# # #
habitus environmental humanities è una collana di ecologie e nuove alleanze per vite tra le rovine
Stefania Consigliere
Favole del reincanto
Molteplicità, immaginario,
rivoluzione
© 2021 DeriveApprodi srl
tutti i diritti riservati
DeriveApprodi srl
piazza Regina Margherita 27, 00198 Roma
info@deriveapprodi.org, www.deriveapprodi.org
Progetto grafico: Andrea Wöhr
In copertina: Nicolò James Fumarola, Collage di foglie di mare, 2020
Impaginazione e realizzazione digitale/Plan.ed
www.plan-ed.it
ISBN 978-88-6548-388-6
a David Graeber (1961-2020),
diplomatico fra mondi reali e possibili
e poeta dell’anarchia,
di nuovo in viaggio
Qui dove ora siamo. Questo testo è arrivato a maturità durante la primavera pandemica. Una cronaca che fin da subito odorava di storia ha messo bruscamente alla prova argomenti e retoriche, logiche e intenzioni. Alla fine mi è sembrato che l’insieme tenesse anche a fronte dell’inedito virale, di cui si troveranno poche tracce dirette, ma che è stata la prima tempesta navigata.
Modo d’uso. La struttura del testo obbedisce a esigenze di montaggio. È ancora il problema marxiano della Darstellung: non c’è linearità espositiva che riesca a descrivere l’acqua in cui il pesce nuota; solo una serie di salti, di piccoli e grandi shock, gli riveleranno che il suo mare è solo uno fra molti mondi. A ciò si aggiunga che logicizzare da capo a fondo un testo che argomenta a favore della molteplicità sarebbe stato – ancorché perversamente desiderabile – piuttosto fuori luogo. A vantaggio di chi si ostina a coltivare i vizi della ragione, l’indice ricostruisce le principali sequenze argomentative, che possono anche essere lette secondo quest’ordine più consueto. L’andamento interno dei paragrafi, dal suo canto, segue esigenze di rotta che, a volte, prevalgono sulla dolcezza della navigazione. Per metterci una pezza, tutti i dati relativi alle tratte, alle correnti e ai porti sono raccolti, in fondo al testo, nel Portolano.
Grazie a Alessandro Baccarin per la generosità dei commenti e per le osservazioni sul fascismo; a Paolo Bartolini per la sua ricerca di interezza; a Guido Battisti per i salti quantici alla ricerca del reincanto; a Ilaria Bussoni per aver intessuto un’ecologia frammista che se la ride di ogni purezza; a Arianna Colombo per aver messo alla prova queste pagine durante una tormenta; a Annalisa Metta per il timbro felice del suo sguardo; a Simona Paravagna per l’esprit de Gênes che s’incarna in lei come in nessun altro; e a Cristina Zavaroni per tutti quei circuiti che altrimenti non esisterebbero. La Libera Collina di Castello e le sue spirite hanno accolto la prima favola del reincanto, fra suoni di fisarmonica e storie di accendini.
Questo libro è dedicato a chi ha avuto una volta sentore di un altro mondo fuori dalle mura, di un diverso stato del tempo, dei passati e dei futuri costeggiati e persi, di un con-divenire gentile e, da allora, non ha smesso di averne nostalgia.
Sommario
la via del disincanto
Constatazione, e alcuni rischi
# 1-3: la nostra paralisi davanti al fallimento del progetto moderno, il rombo del treno, le luci dei fari e vecchie leggende sulle terre oscure fuori dai binari
La metafisica dei moderni
# 4-8: la modernità non è tanto diversa da altri sistemi di asservimento; nondimeno, è quello che imprigiona noi: servirebbe una mappa affidabile dei suoi corridoi e delle sue segrete
Il grande silenziamento
# 9-12: il disincanto come strategia di dominio sugli umani, sui viventi, sui morti, sulle terre, sui venti, sul fuoco, sul cosmo
Piccoli sovrani tossici
# 13-16: al mondo disanimato corrisponde un soggetto pieno di sé: genealogia e caratteristiche dell’individuo, con qualche nota sulla tristezza che l’attanaglia
Uniformazione totale
# 17-21: fascismo e totalitarismo come modi del dominio e come estreme conseguenze della logica moderna, con la più scomoda fra tutte le domande
Second chance
# 22-25: sul buon uso della debole (e, in noi, debolissima) forza messianica che ciascuna generazione riceve in dote
vita fra le rovine
Mysteria
# 1-5: unire i puntini fino a percepire, per pareidolia, una costellazione che connette Eleusi e l’Amazzonia
Marcellinara-Marrakesh Express
# 6-10: storia di uno smarrimento della presenza, di una fuga all’ombra dell’uno e di una rispettosa ripresa del cammino
Balkan dance
# 11-16: un posto felice, un’altra guerra catastrofica, un transito appena fuori porta: la fedeltà alla felicità come direzione generale di viaggio
Dis-astro
# 17-20: città-chiave del capitalismo delle origini (Colombo era dei nostri e la finanza è stata inventata qui), Genova è anche città-simbolo del suo declino
Iter in silvis
# 21-25: in dieta nella selva peruviana: piante, fiume, sogni e una farfalla
teoria del molteplice
Dopo strada
# 1-3: quel che si racconta dei viaggi dopo averli fatti, quando nel ricordo balena la felicità di certi momenti laterali o sospesi
Lo splendore dei mondi
# 4-9: tutto, intorno a noi, dice che la reductio ad unum perpetrata dalla modernità è alle corde; grande confusione, occasione magnifica
Corrimano per timorati
# 10-13: alcuni di noi, fra cui chi scrive, continuano ad aver bisogno di capire le cose a modo nostro; sant’Ernesto, protettore dei pavidi, viene in aiuto con un concetto pieno di grazia mondana: quello di presenza
You can do magic!
# 14-17: in un cosmo fatto di relazioni e intenzioni, l’efficacia non è solo quella meccanica: le questioni imbarazzanti di una critica che disincanta solo per reincantare
Revolution
# 18-21: ripensare la rivoluzione in assenza del partito, del progresso, dei domani che cantano; ma in presenza di alberi, montagne, persone non umane, paesaggi e fantasmi
Pratiche del molteplice
§ 22-25: appunti per una vita meno fascista
Favole del reincanto
La via del disincanto # 1
. È poco più che una constatazione: l’impresa moderna, con la sua narrazione di progresso e felicità per il maggior numero di individui, è fallita. Il mondo intorno a noi è un disastro.
Dopo quattro secoli di capitalismo, nei paesi occidentali (o ex-colonialisti) è scomparso il terriccio della vita comune. Sotto il giogo della governance neoliberista, la sussunzione è totale: che si tratti di chiacchiere, di salario, di sentimenti o di decisioni collettive, tutto avviene entro una gabbia di regole al contempo vincolanti, incomprensibili e mutevoli, in un deserto affettivo privo di senso esistenziale e con il solo imperativo della crescita economica. L’esperienza triviale della chiamata a un call centre compendia questo sentimento del presente che si estende fino all’intimità, dove disabilità emotiva, stereotipia linguistica e ossessione per il godimento illustrano la miseria dei tempi.
Mentre perdiamo tempo a digitare codici, comprare su Amazon e litigare con il partner, lo sfondo globale che ci sforziamo di non vedere è fatto di violenza strutturale dispiegata, che si manifesta in forma di omicidi, diaspore, sparizioni, stupri, bombe e genocidi; e di una catastrofe climatica di proporzioni inaudite: pare che la quantità di calore che il sistema terra sta accumulando sia pari a quello causato dall’esplosione di una decina di bombe atomiche, come quella sganciata su Hiroshima, al secondo. Tutto questo è noto, ma non ce ne facciamo niente; non ci arriva come un pugno allo stomaco, non lo concepiamo davvero. Se lo facessimo, non potremmo continuare imperterriti nel monumentale spreco energetico che è la nostra vita.
Per vivere come viviamo, siamo tenuti a separare continuamente ciò che sappiamo da ciò che ci muove, ciò che sentiamo da ciò che facciamo, in un regime psicopatologico di dissociazione e impotenza. Non sorprende, allora, la diffusione epidemica del disagio mentale: più di metà dei nostri concittadini fa o ha fatto uso di psicofarmaci regolarmente prescritti; quasi tutti, per arrivare in fondo alle giornate, impieghiamo una varietà di sostanze legali e illegali; mentre i più giovani, l’asettica «fascia pediatrica» delle statistiche, danno di matto come non mai.
Tanto basta per intuire tempi difficili. Eppure manca ancora qualcosa, l’enzima capace di precipitare i problemi in incubi: è la paralisi dell’immaginazione, l’incapacità di guardare oltre le mura della prigione che ci sta soffocando. Quest’alienazione trasforma il disastro in apocalisse, il venir meno del mondo a cui siamo abituati nella scomparsa di ogni mondo possibile. Somiglia a un sortilegio: molti animali muoiono così, fissando paralizzati i fari del treno che li travolgerà. Ci diciamo che forse, a forza di incidenti, i loro discendenti impareranno a distogliere lo sguardo e fare un salto a lato. Contiamo sui tempi lunghi dell’evoluzione. Noi però già siamo figli e nipoti di generazioni travolte e dobbiamo strapparci adesso al maleficio della fine del mondo. Un po’ perché morire così, in mezzo ai binari, è indecoroso; un altro po’ perché ogni cosa fatta dagli umani – e il capitalismo è una di queste – può altrettanto bene essere sfatta.
La via di fuga da un tempo stregato è qualsiasi cosa non sia il disastro incombente. La paralisi si scioglie a contatto con l’altrimenti. Non un altrimenti astratto, fumoso o esotico, ma quello assai prossimo di un mondo che continua a esistere fuori dal fascio abbacinante dei fari: l’erba, il terrapieno, la tana, il sentiero, gli alberi, l’ombra del bosco, gli animali sul prato. La foresta è ancora viva. Quello che cerchiamo è già qui: frammentario, imperfetto, ruvido come le cose reali. Si tratta solo di avvertirne l’esistenza. Cosa ci impedisce il contatto?
La via del disincanto
# 2. È un problema di superstizione, vocabolo dall’etimologia incerta e dalla storia notevole. Un editto di Marco Aurelio puniva con la deportazione chi terrorizzava il prossimo con la superstitio, ovvero con l’eccessivo timore delle divinità. Poco importavano l’origine, il nome e gli attributi del dio: la legge colpiva coloro che trasformavano la pietas in terrore, mestatori e profittatori che catturavano anime al laccio del sacro. Qualche tempo dopo, tuttavia, quando pagani e cristiani cominciarono ad accusarsi reciprocamente, già usavano la parola in due modi diversi. Per gli uni i culti cristiani erano superstiziosi perché eccessivi, non conformi alle pratiche misurate della religione romana: la questione era dunque di tipo etico. Per gli altri i culti pagani erano superstiziosi perché tributati a divinità false, diverse dall’unico vero dio: la questione si faceva quindi ontologica. In questo scivolamento la superstizione non è più rischio di tutti, ma qualcosa che, per definizione, riguarda solo gli altri, coloro che non beneficiano dell’unica vera fede rivelata.
Questa declinazione ontologica ha conosciuto vita lunga nella civiltà cristiana ed è passata, in forma appena differente, all’evo moderno, dove la superstizione colpisce solo chi ancora non ha accesso all’unica vera conoscenza: quella delle leggi di natura rivelate dalla scienza.
Gli altri credono, noi sappiamo. Cosa succede, però, se l’unica conoscenza vera porta dritti al disastro planetario? Se il sapere diventa paralisi esistenziale? Se i metodi d’indagine richiedono la distruzione dell’oggetto conosciuto e, alla lunga, anche del soggetto conoscente? Ribadita da tutti i manuali e innestata nel profondo del nostro impianto pulsionale, questa incrollabile presunzione di superiorità è l’enzima che trasforma il disastro in apocalisse. Le ragioni della nostra supremazia devono essere difese a qualsiasi costo: meglio un uragano scientifico che un rifugio magico; meglio morire che essere come tutti gli altri. Il ridicolo che abbiamo riversato sulla possibilità che esista qualcosa oltre a ciò che vediamo ci paralizza in mezzo ai binari.
Conviene, in queste peste, riattivare il significato primo del vocabolo: l’idea che tutti, tranne noi, vivano nella superstizione (intesa come credenza non vera) ci impedisce di accorgerci di quanto la nostra adorazione della verità unica sia a sua volta superstizione (intesa come credenza paralizzante). Questa presunzione stregata è il Credo stesso dei moderni, conficcato in noi sotto una lega di violenza, ideologia e alienazione.
La via del disincanto
# 3. Avvicinarsi al confine che separa il conoscere dal credere, la scienza dalla magia, il razionale dall’irrazionale significa, nel Vecchio Mondo, correre due rischi. Il primo è quello epistemologico della squalificazione, del bando dalla città dei Lumi. Il secondo è quello politico dell’accostamento al mix di machismo, superomismo, banalizzazione, risentimento, arroganza e prevaricazione comunemente noto come «fascismo». Questo testo dovrà affrontarli entrambi. La sua riuscita dipende dalla possibilità di saltar fuori dalla superstizione moderna tenendosi alla larga da qualsiasi tentazione totalizzante. Per questo l’analisi del fascismo si ripresenterà diverse volte in punti chiave dell’argomentazione.
Ci sono eccellenti ragioni perché, in Europa, le cose stiano così. Altrove, dove il totalitarismo storico non ha catturato e traumatizzato intere generazioni, negli ambienti della sinistra ecologista, anarchica e rivoluzionaria si può ragionare senza troppi preamboli di reincanto, psicomagia, tecniche di protezione. Da questa parte dell’Atlantico, invece, anche le proposte più timide devono essere introdotte da lunghe premesse, da distinguo e discrimini, e devono vincere a ogni passo la diffidenza degli interlocutori. Di fatto, non si arriva mai a parlare di reincanto con la stessa libertà delle compagne e dei compagni statunitensi, per non dir nulla dell’America latina, dove da quattro secoli i vinti continuano segretamente a dare voce al mondo. Qui invece, dove ora ci troviamo – e cioè in Europa, all’inizio di questo testo – una premessa è inevitabile.
Eccola: il rifiuto del fascismo è, per chi scrive, una sorta di grado zero, qualcosa che va da sé e non richiede alcuna giustificazione. E tuttavia, nel desiderare una «vita non fascista» posizionarsi sic et simpliciter come antifascisti non basta. A una vita non fascista bisogna arrivare e i conti da fare sono lunghi e faticosi. Usato come bandiera, l’antifascismo rischia di fare le cose troppo facili.
Per cominciare, definirsi a partire dall’avversario è pericoloso. C’è un mimetismo nascosto, una fratellanza segreta fra A e non-A che satura il campo del pensabile e nasconde tutto ciò che, essendo altro, rifiuta di farsi catturare nella logica binaria. Questa trappola concettuale ha avvelenato lo spazio politico novecentesco, generando ortodossie speculari e spingendo tutto il resto ai margini e nell’insignificanza. Meglio allora definirsi a partire da ciò che si è o si vorrebbe essere.
La seconda ragione ha a che fare con la complessità del mondo, delle forme di vita, delle relazioni e delle poste in gioco. Indipendentemente dai contenuti delle lotte, la sinistra ha bisogno di quella stessa complessità che la destra vorrebbe nascondere, dell’intelligenza e della sensibilità che servono per navigarla, della pazienza di chi va per la via lunga diffidando delle scorciatoie. Deve imparare a resistere a ciò di cui agli altri è sufficiente approfittare. Così, dove al fascismo è stato sufficiente far leva sull’inerzia delle idées reçues o sulla potenza di un mito semplificato, i non fascisti dovranno allontanare da sé ogni tentazione di banalizzazione – fra cui quella di razzializzare i fascisti e quella di liquidare la sfera di ciò che sta fuori dai binari ascrivendola al misticheggiare degli avversari.
L’ultima ragione è più difficile da fissare. È come se nel fascismo ci fosse una difficoltà analitica specifica: più lo si comprende storicamente, meno si riesce a confinarlo a un’epoca particolare. C’è sicuramente differenza fra incatenare schiavi neri nei campi di cotone, organizzare cacce all’uomo in Amazzonia e predisporre le filiere migratorie del nuovo Lumpenproletariat globale: ma dove passa il confine? Le signore borghesi che si commuovevano per l’opera civilizzatrice dei «nostri ragazzi» in Tripolitania erano peggiori di quelle che oggi promuovono il microcredito fra le donne somale? E cosa differenzia l’apologia della naturale prevaricazione del forte sul debole dal funzionamento ideale dei mercati? La specificità che vorremmo trovare nel fascismo rimanda continuamente a una storia molto più ampia, che include anche noi, che non smette di far danni e con cui i conti non sono mai finiti. Perfino quando – ricorrendo al mito, al vitalismo, alle pulsioni dell’inconscio sociale – sembra opporsi ai suoi presupposti espliciti, il fascismo non fa che portare all’estremo limite una logica di dominio che lo precede: il fascismo è uno degli esiti, forse quello più chiaro, della modernità.
Il che complica le cose, perché se prendere distanza dai rictus del duce e dal ghigno dei suoi seguaci è relativamente facile, la modernità è l’acqua stessa in cui nuotiamo, la matrice dei presupposti pulsionali, emotivi e cognitivi presenti in noi, pronti a entrare in azione al presentarsi delle giuste condizioni. È possibile, allora, che fare conoscenza del fascismo significhi anche, e forse in primo luogo, fare conoscenza con la parte più oscura di noi stessi. Serve un giro lungo.
Vita fra le rovine # 1. Piazza Elefteria, un po’ prima delle sette del mattino. All’unico negozio aperto compro una colazione minimale che mangio aspettando l’autobus. Quando arriva, l’autista sventola la mano per farci passare: è la settimana del referendum e i trasporti pubblici di Atene sono gratuiti. Usciamo lentamente dalla città e imbocchiamo Hiera odos, la via sacra: i venti chilometri che portano a Elefsina, l’antica Eleusi, si chiamano ancora così, però oggi si manifestano nelle forme di una superstrada polverosa, costeggiata da palazzoni e incessantemente trafficata in su e in giù da umani e mezzi a motore.
Al sito archeologico mi staccano il primo biglietto della giornata e per un’ora mi aggiro fra le rovine in completa solitudine. Poi qualcun altro arriva alla chetichella a visitare le vecchie pietre, ma pochi: i pullman extralusso scaricano altrove le comitive. Cosa cercano quelli che si sono avventurati fin qui, a cosa pensano? Qualcuno di loro avrà la mia stessa hidden agenda? Per oltre un millennio intere generazioni di uomini e donne, schiavi e padroni, greci o che almeno parlassero la lingua, alla sola condizione di non aver commesso assassinio, andavano a Eleusi per essere iniziati ai Misteri. Si preparavano per diverse settimane, poi seguivano la processione rituale che partiva da Atene e durava un’intera giornata. Nel mezzo della notte, dopo aver bevuto il kikeon, entravano nel telesterion e «vedevano». La visione, dicono unanimi i cronisti, cambiava il loro rapporto con la vita e con la morte, metteva in pace i loro cuori.
Non sappiamo cosa vedessero, né come fosse preparato il kikeon, e il fatto più straordinario è proprio questo: la nostra ignoranza. Eleusi non è, per i greci, una pista clandestina o l’occasionale deviazione di pochi marginali; è un evento ricorrente, pubblico, politico, collettivo; è l’impegno di tutta una comunità, un dispositivo iniziatico di massa. Secoli e secoli di iniziazione rituale e nessuno ne rivela niente. Alcuni, in epoca tarda, dissacrano il rito parodiandolo nel salotto di casa, ma subito vengono irrisi e comunque dalla loro blasfemia non si ricava nulla di sensato. Così siamo lasciati a congetturare.
Per chi a Creta si è aggirato fra altre rovine, più antiche, è ovvio supporre che la Demetra di Eleusi arrivasse da lì, contraltare del macho furore miceneo. E c’è qualcosa di comico nell’acribia con cui i romani, ogni volta, ingigantiscono i luoghi attrezzandoli con tutti i sinequanon per un ameno soggiorno: bagni, palestre, taverne, alberghi, postriboli. Ma nel VII secolo a.C., quando viene fondato, il tempio di Eleusi nasce piccolo, non più grande di una chiesetta di campagna. Cerco di rintracciare i segni murari, quasi del tutto interrati, del primo telesterion. Provo a immaginarmi alla sua porta, in una notte fra estate e autunno, nel mese di Boedromione. Giorni di digiuno, poi l’uscita da Atene, un lungo camminare sotto il sole accanto ai carri in processione, cantando, invocando. Qualcuno mi porge una ciotola con la mia dose di kikeon. So che come sempre avrei timore, un senso di soggezione. Ma non mi sentirei spaesata. Ho già vissuto questo momento, un paio di anni fa, a migliaia di chilometri da qui.
La via del disincanto
# 4. Nella sua forma egemone, la modernità è il mondo umano che ha preso forma in Europa, fra Cinquecento e Settecento, nella coalescenza di tre giganteschi processi storici: colonialismo, capitalismo e scienza. Senza l’oro, la manodopera e le sperimentazioni schiavistico-industriali delle colonie non ci sarebbe stata l’accumulazione primitiva. Senza la piega antropologica del protestantesimo, l’accumulazione primitiva non avrebbe innescato il circuito del plusvalore e la transizione al capitalismo. Senza la scienza non sarebbero state possibili l’oggettivazione del mondo, la giustificazione delle nuove gerarchie globali e il mito del progresso. Il convenire di questi tre fenomeni ha dato origine al potente dispositivo di centralizzazione e omogeneizzazione necessario al suo funzionamento (lo Stato nazione) e al tipo di soggettività richiesta dalla nuova