Antropocene fantastico: Scrivere un altro mondo
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L’idea che sta alla base di questo anti-manuale narrativo è semplice: scrivere nell’Antropocene non è una prerogativa
riservata ai soli autori in cerca di storie attuali, ma è una pratica democratica, accessibile a chiunque, dove il linguaggio e l’immaginario sono strumenti centrali per inventare un ‘altro mondo’ per tutti. Le riflessioni su generi narrativi, animalità, creature fantastiche, spazio onirico e tempo in frantumi sono altrettante zone di lavoro per costruirsi un kit di sopravvivenza poetica: comunque sarà l’Antropocene, dovremo imparare a raccontare storie forti e convincenti, per insegnare a un bambino come si fa a resistere alla durezza del mondo, per dare speranza alla nostra tribù, per costruire una visione del dopo alla portata dei nostri sogni. Come in un’Ars poetica delle origini, il volume si chiude con un’antologia di frammenti esemplari. Bisogna mettersi a scrivere. Farlo nell’Antropocene ha le sue regole.
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Anteprima del libro
Antropocene fantastico - Matteo Meschiari
Matteo Meschiari
Antropocene fantastico
Scrivere un altro mondo
Antropocene Fantastico. Scrivere un altro mondo
© Matteo Meschiari, 2020
© 2020 Armillaria
I edizione digitale Armillaria - ottobre 2020
isbn 978-88-99554-40-8
Progetto grafico: Armillaria
armillaria.org
armillariaedizioni@gmail.com
Armillaria è un progetto di
Mara Bevilacqua & Manlio Della Serra
ISBN: 9788899554408
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
Antropocene fantastico
POSSITOPIE
GENOCENE
ZOOCENE
TERIOCENE
ONIROCENE
KAIROCENE
MYTHOLOGIARIUM
Ringraziamenti
Armillaria Edizioni
#LGE
Antropocene fantastico
Scrivere un altro mondo
Then a powerful demon, a prowler through the dark,
nursed a hard grievance. It harrowed him
to hear the din of the loud banquet
every day in the hall, the harp being struck
and clear song of skilled poet
telling with mastery of man’s beginning,
how the Almighty had made the earth
a gleaming plain girdled with waters;
in His splendour He set the sun and the moon
to be earth’s lamplight, lanterns for men,
and filled the broad lap of the world
with branches and leaves; and quickened life
in every other thing that moved.
Beowulf/Heaney
POSSITOPIE
Una premessa futura
Primo luogo possibile. Una ragazza o un ragazzo di 30.000 anni fa entra in una grotta profonda. La lampada a grasso vacilla, moltiplica rilievi e cavità, ombre e brillamenti degli accidenti rocciosi, crepe. Le dita sulla pietra viscida seguono i solchi delle unghiate di un orso delle caverne. Gocciolii. Echi di passi. Vuoto. Poi, all’improvviso, la monotonia cromatica del calcare si spezza, appaiono macchie nere, rosse, tratti violenti ma compressi in un ordine temporaneo, gemme e feti d’immagini, e infine, grandiosi, immensi, devastanti, arrivano i corpi dei mammut riflessivi, dei bisonti arroganti, dei cavalli liberi, dei felini vagamente antropomorfi che tendono agguati all’occhio e al cuore di chi li guarda. Questa grotta profonda è la letteratura, è il passato ciclico che da Neanderthal a Platone a Vico abita con immagini la caverna del nostro cranio, è la tana dove Grendel, che è il presente dell’Antropocene, si preme le orecchie per non ascoltare pieno di invidia, geloso, i canti nella reggia di Hrothgar.
Questi canti, sull’inizio dell’uomo e dei paesaggi terrestri, sono ciò che ci ha salvato dalla Glaciazione, dal Diluvio, dal Contagio. Sono i canti che carsici riappaiono come fontanili in qualche romanzo contemporaneo, in un poema dei margini, nei sogni della Quarantena o in un film di serie B, in un videogioco. Sono la speranza. Ma Grendel non può sopportare il clear song of skilled poet, perché la cosmogenesi che viene cantata a Heorot è appunto quella che ha bandito il suo corpo deforme di mostro, generato da Caino, negli angoli senza luce e senza festa del mondo. Così, un po’ Grendel un po’ Beowulf, lo scrittore nell’Antropocene deve fare i conti con la caverna. Ogni alternativa coincide con la fine. Ogni fine è un inizio solo se si ricomincia a narrare. L’Antropocene sarà fantastico o non lo vedremo finire mai.
Secondo luogo possibile. Salgo in Appennino ma l’Appennino non c’è più. Tutto è lì, identico a prima. Le faggete, i denti di arenaria, le nevi residuali. Ma l’Appennino non è più lì perché qualcosa mi impedisce di fare ponte tra quello che ho sotto gli occhi e quello che in più di quarant’anni si è raccolto, tra desiderio e memoria, nel mio paesaggio mentale. Le cucine delle osterie sono ancora calde, le piste tra i cuscini di foglie sono le stesse che percorrevano i manipoli celtici o le brigate partigiane, l’odore del fumo dai comignoli è quello di mio padre e di mio nonno. Ma
l’Appennino è scomparso. Non posso più contare su di lui, vaporizzato. Dall’alto del Crinale guardo la cappa lenticolare sopra Modena, sul polo ceramico, sulla Pianura padana. Ma non è solo la nube delle polveri sottili e delle zattere di CO 2 alla deriva sopra cervelli e polmoni. È come il 1962, come se una nuova Rachel Carson collettiva avesse scoperchiato il vaso di Pandora su una verità inconfutabile: non c’è angolo della Terra che sia salvo. Ieri erano le molecole di DDT, oggi è il virus pandemico, che sta impattando come un iceberg di panna contro il Titanic di pastafrolla delle coscienze.
Fino a sei mesi fa l’Appennino era per me quello della Resistenza, delle strade ducali, di Lazzaro Spallanzani, dei viaggiatori del Grand Tour, di Annibale e Silla, degli insediamenti neolitici e paleolitici, dei ghiacciai scomparsi, delle balene fossili. Ma negli ultimi sei mesi la gente, perfino gli intellettuali e gli scrittori, hanno imparato a usare parole come Antropocene, Collasso, Sopravvivenza, Contagio, Emergenza, Estinzione. Fino a sei mesi fa eravamo bloccati in una sterile dialettica tra nuovi apocalittici e nuovi integrati, tra chi urlava ‘è la fine del mondo’ e chi continuava a pensare che il ruolo dell’intellettuale e dello scrittore fosse quello di stare calmo, di non farsi prendere dal panico, di raccontare il presente anche se poi il presente è sempre quel bozzolo mummificato tra gli Anni Sessanta e Novanta del Novecento. Dopo appena sei mesi, parole-chiave di nicchia, quelle su post-umano/non-umano, clima, alterità, deantropizzazione, cigni neri, eventi X, animismo, cosmologia, immaginario e ovviamente Antropocene sono diventate parole d’ordine. E tutti ad allestire in pochi mesi il prossimo manufatto editoriale, tutti ad aggiornarsi su Wikipedia. Ma la base cognitiva e intellettuale rimane la stessa, vincolata a una specie di canone minore. Anche le discussioni più autorevoli su virus, stato di eccezione, biopolitica e società di controllo non sono
riuscite a smarcarsi da un bias cognitivo invalidante: l’esercizio del linguaggio, in tempo di vera crisi, è un muro di nebbia, è solo un altro modo per negare il trauma, per rimandare in eterno la presa di coscienza raggelante: nessun uomo è un’isola, ogni uomo è parte della terra e questa terra è rapita a colpi di vanga da un mare di inadeguatezza e arroganza.
Dopo aver guardato laggiù, nelle pianure, il mio Appennino è un’altra cosa. Gli essiccatoi per le castagne sono piccoli bunker dove immagazzinare provviste. I laghi sono riserve idriche contro le prossime epoche di siccità. I sentieri in fondovalle sono luoghi per tendere imboscate. Il Crinale è una linea di rudimentali pale eoliche e di reti per la raccolta di vapore acqueo da nuvole e nebbia. Non ci sono più le vecchie matriarche a cuocere crescentine tra tigelle e foglie di castagno, ma bambine magre a mescolare gamelle di zuppa liofilizzata. Non c’è più il cacciatore di cinghiali dal naso rubizzo, ma il filo di ferro del bracconiere, del trapper che torna a casa a mani vuote. E non ci sono più le passeggiate della domenica, ma la guerriglia ultima, tra sopravvissuti che portano il fuoco e bande di predatori affamati. Il mio Appennino insomma non esiste più. È bastata qualche settimana di