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Nuove eterotopie
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E-book419 pagine5 ore

Nuove eterotopie

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Info su questo ebook

Fantascienza - racconti (356 pagine) - 16 racconti scelti tra il meglio della produzione della corrente letteraria che ha rivoluzionato la fantascienza italiana, più un romanzo breve inedito di Bruce Sterling


Le eterotopie sono luoghi dischiusi su altri luoghi, spazi “connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi designano, riflettono o rispecchiano” (Michel Foucault). Le utopie sono consolatorie, le eterotopie inquietanti: “minano segretamente il linguaggio”, “spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni”. Come i racconti qui racchiusi, che dissolvono i confini tra i generi in una miscela esplosiva di speculazione scientifica, anticipazione tecnologica, sperimentazione linguistica e proiezione sociologica.

Sedici nuove eterotopie, dunque.

Più una: un inedito di Bruce Sterling, scritto espressamente per quest’antologia.

Postfazione di Salvatore Proietti


Sandro Battisti e Giovanni De Matteo sono stati con Marco Milani, nel 2004, gli iniziatori del connettivismo. Insieme hanno fondato Next, la rivista del movimento, da cui si è poi originato il web-magazine Next-Station.org. Entrambi vincitori del Premio Urania, insieme o da soli hanno scritto articoli e racconti, sceneggiato fumetti, curato antologie. Autori di diversi romanzi, i loro ultimi dati alle stampe sono Corpi spenti (De Matteo, 2014) e L’impero restaurato (Battisti, 2015), entrambi per i tipi di Urania.

LinguaItaliano
Data di uscita21 set 2017
ISBN9788825403244
Nuove eterotopie

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    Anteprima del libro

    Nuove eterotopie - Sandro Battisti

    9788867753703

    Uno, nessuno e centomila: di cosa parliamo quando parliamo di connettivismo

    Giovanni De Matteo e Sandro Battisti

    Nel corso di questi ultimi dieci anni, ci siamo trovati spesso a fare i conti con la fatidica domanda che ci veniva rivolta da lettori o semplici curiosi: potremmo spiegare brevemente cos’è il connettivismo?

    La risposta formale, nonché l’appiglio a cui con maggior frequenza ci siamo rivolti mentre eravamo in balia del mare in tempesta delle repliche possibili (e troppo spesso tutt’altro che brevi), ci fotografa come un movimento sorto in seno alla fantascienza italiana, aggregando un discreto numero di autori, spesso portatori di sensibilità disparate ma disposti a specchiarsi con le proprie opere nel manifesto del connettivismo, pubblicato con un certo gusto simbolico a ridosso del solstizio d’inverno del 2004. Questa risposta, purtroppo, si è rivelata spesso anche largamente insoddisfacente, per via della forma ermetica e del gusto criptico che contraddistinguono il manifesto stesso. Ispirato nella forma ai documenti d’intenti delle avanguardie storiche, futurismo in primis, e intriso di una sensibilità enciclopedica e multiforme, nel tempo il manifesto del connettivismo si è visto riconoscere una valenza letteraria forse eccessiva, ma oggi possiamo dire che ad almeno due funzioni ha assolto in maniera eccellente: servire innanzitutto da sirena di richiamo per quegli autori, artisti e spiriti affini che si riconoscevano nei suoi passaggi; e, cosa non meno importante, proporre un dibattito sull’eterogeneità delle strade percorribili all’interno del genere.

    La genesi del connettivismo è ricorsivamente letteraria. Non a caso prende il nome in prestito dal Nexialism di Alfred E. van Vogt: per gli avventurieri spaziali dei racconti poi riuniti nel fix-up Crociera nell’Infinito (1950) indicava una nuova scienza concepita allo scopo di collegare insieme le conoscenze settoriali delle altre discipline, parafrasando Riccardo Valla. Per noi connettivisti, tutti provenienti dalla prima generazione di autori maturata nell’era di internet, costituisce un tentativo di sintesi e ibridazione: tra linguaggi e forme espressive diverse, tra mondi in opposizione e saperi sbrigativamente considerati inconciliabili, tra generi reputati immutabili.

    Possiamo inoltre aggiungere che sotto il profilo storico il connettivismo rappresenta il primo tentativo di elaborazione di un movimento all’interno del pur variegato microcosmo della fantascienza italiana. Il cammino della science fiction anglosassone si è snodato da sempre attraverso tappe cruciali coincidenti con importanti ondate di rinnovamento: il filone sociologico che emerse dalla Golden Age negli anni ’40 e ’50, la New Wave che segnò i ’60 e ’70 e il movimento cyberpunk che ne raccolse il testimone negli ’80. A partire dagli anni ’90 la dialettica interna al genere si è andata frammentando in una molteplicità di voci e posizioni che per semplicità vengono fatte ricadere nel bacino del postcyberpunk.

    La fantascienza-dopo-il-cyberpunk, che spesso conserva solo una somiglianza superficiale con il canone classico, propone punti di vista innovativi su temi che affondando le radici negli albori della fantascienza moderna: il rapporto tra l’uomo e la tecnologia, l’impatto del progresso sulle strutture sociali e il profilo culturale in continua evoluzione della nostra civiltà. Da questo magma creativo con il nuovo millennio sono venute alla luce esperienze che replicano il rito di rigenerazione che ha periodicamente svecchiato la linfa del genere. Si attesta così il cosiddetto filone postumanista, una galassia di opere – piuttosto che di autori – dai contorni sfumati, con una più o meno marcata vocazione filosofica nell’affrontare tematiche dalle forti connotazioni etiche, e con una certa attitudine alla contaminazione dei generi. Emergono inoltre, con una credibilità sempre più convincente, voci globali esterne al mondo anglosassone, per le quali viene coniato il concetto di World SF. E in Italia i connettivisti muovono i loro primi passi, incontrando un riscontro crescente per le loro opere e avviandosi lungo un percorso di crescita che ha varcato di slancio il traguardo della prima decade di attività.

    In un articolo del 2009 pubblicato su Fantascienza.com (Connettivisti e fantascienza: l’audacia del futuro, poi ripreso nel 2011 sulla webzine di cultura connettivista Next-Station.org) scrivevamo:

    Il nostro progetto aveva e ha l’obiettivo di aggregare esperienze e prospettive eterogenee, ma accomunate dalla stessa sensibilità: l’attitudine a interrogarsi sul presente assumendo il punto di vista del futuro, il coraggio di non fermarsi sulla barriera del tempo ma spingere lo sguardo oltre il contingente, la volontà di trovare nuovi spazi di sperimentazione all’intersezione tra i generi e non al di fuori di essi.

    Crediamo che gli interstizi non rappresentino le zone franche di separazione tra i settori dell’immaginario, ma il loro tessuto connettivo. È insinuando gli occhi attraverso di essi che confidiamo di poter cogliere punti di vista obliqui sulla realtà che ci circonda. A ben guardare, è quanto la fantascienza va facendo fin dalle sue origini, usando gli strumenti della letteratura fantastica e del terrore dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento: cercare un’angolazione inusuale per far detonare le contraddizioni del mondo in cui viviamo.

    Un proposito a cui ci siamo mantenuti fedeli. Ogni connettivista è in effetti interprete di una propria specifica sensibilità, così da rendere quanto mai opportuno riferirsi al movimento come a una pluralità di voci, piuttosto che come a un gruppo omogeneo e monolitico.

    Nell’editoriale del Numero Zero di Next, la rivista che ci ha accompagnati fin dalla prima apparizione del manifesto fungendo da vetrina per la nostra produzione, incubatore di idee e spazio di confronto, individuavamo le nostre direttrici di ispirazione. L’intento, fin dall’inizio, è stato di proseguire la riflessione sull’impatto sociale delle nuove tecnologie, attingendo all’immaginario – fantascientifico e non – con l’attitudine postmoderna che già aveva contraddistinto il cyberpunk. Fin da quelle pagine denunciavamo l’approccio, tutt’altro che conformista, ai problemi complessi correlati con le ricadute del progresso nelle società in cui viviamo, riconoscendo l’influsso del decadentismo e aprendo alla seduzione dell’ignoto, della vertigine cosmica e dell’irrazionale che cova alla base del fantastico a tinte nere, in un cammino parallelo con il ritorno d’interesse vissuto negli ultimi anni dalla letteratura weird.

    Alternandoci tra estrapolazione scientifica, speculazione filosofica e sperimentazioni linguistiche, ci siamo sforzati di realizzare nei fatti un superamento dell’annosa dicotomia tra la sensibilità umanistica e il sapere scientifico, cercando di gettare un ponte sul solco scavato da decenni di dogmi e pregiudizi. Sedotti dall’approccio dei cyberpunk, che proprio quest’abisso avevano colmato proponendo un’integrazione tra la tecnologia e la controcultura degli anni ’80, all’impronta crociana che ancora vizia la cultura italiana – con la sua esclusiva contrapposizione tra le menti universali dei filosofi idealisti e gli ingegni minuti di tecnici e scienziati, e il rifiuto categorico di riconoscere la scienza e la matematica come forme di conoscenza – abbiamo preferito la visione inclusiva e lungimirante di Charles Percy Snow, prestando le nostre penne e tastiere alla campagna per la conciliazione delle Due Culture, lavorando per una sintesi delle sensibilità e dei linguaggi.

    In veste di curatori, rifacendoci al modello imprescindibile delle raccolte che hanno segnato le tappe fondamentali nella storia del genere, tra cui appunto l’antologia manifesto del movimento cyberpunk Mirrorshades, ci siamo sforzati di compilare un campionario degli spunti tematici e degli approcci stilistici di alcuni tra gli autori più rappresentativi che hanno partecipato all’esperienza connettivista. Ci scusiamo per le inevitabili assenze, ma i vincoli di spazio e il taglio che ci siamo prefissi di dare a questa antologia ci hanno guidati nelle nostre scelte; magari le esclusioni rappresenteranno una spinta e una motivazione sufficienti per ripetere l’iniziativa in futuro, o almeno questo è l’auspicio che confidiamo vorrete condividere con noi.

    Nei lavori connettivisti non è raro imbattersi in scenari distopici. Il progresso tecnico e scientifico contribuisce attivamente alla costruzione di scenari complessi, in cui la tecnologia acquisisce talvolta tratti che sconfinano in una dimensione sovrannaturale, o comunque metafisica – nel significato etimologico della parola – senza tuttavia mai dotarsi di un potere salvifico. Intelligenze artificiali, nanotecnologie, interfaccia uomo-macchina: come anticipava già Bruce Sterling nella seminale prefazione di Mirrorshades, la tecnologia offre all’uomo forme sempre nuove di dipendenza. Il concetto forse più popolare della fantascienza degli ultimi anni, la Singolarità Tecnologica originariamente teorizzata dallo scrittore e matematico Vernor Vinge, invece di rivestirsi di un’aura totemica viene declinato in accordo all’approccio di ciascun autore e filtrato dalla prospettiva di suo interesse. L’ecosistema in cui si muovono i personaggi è spesso altamente integrato, profondamente connesso e in ogni caso radicalmente modificato dall’impatto umano rispetto alla sua natura originaria. In queste pagine non mancano inoltre originali variazioni sui temi più classici del repertorio del genere: il viaggio nel tempo, il multiverso, la scoperta di forme di vita extraterrestri (quando non addirittura provenienti da dimensioni parallele), la fantarcheologia, i misteri nascosti nelle pieghe della storia, la sfida al limite estremo della morte. Il registro narrativo spazia dal drammatico al surreale, passando per il grottesco, il satirico, l’orrifico, ma anche attraverso pagine ora erotiche o sensuali, ora elegiache e perfino poetiche.

    Dai padri del romanzo scientifico Jules Verne e H. G. Wells, coinvolti in un duello al di là del tempo nel magico racconto di Simone Conti che apre i giochi (e che può aspirare di diritto allo status di piccolo classico del genere), all’ombra di Kurt Vonnegut che si allunga sulle pagine di Fernando Fazzari con il suo improbabile viaggiatore nel tempo; dagli incubi sociologici di Ray Bradbury e J. G. Ballard che fanno capolino nei nuovi giochi da bambini di Lukha B. Kremo (che vedremmo bene anche come soggetto per una nuova puntata di Black Mirror) alle suggestioni eliotiane di Alex Tonelli brillantemente contaminate con la space opera di Iain M. Banks e gli scenari alieni di Stanislaw Lem, i racconti che abbiamo selezionato ripercorrono anche la storia degli influssi incamerati dai nostri autori attraverso la lettura dei maestri del genere – e non solo.

    Tra queste righe e nelle opere prodotte in questo lungo decennio di attività, potrete cogliere di volta in volta echi di Olaf Stapledon, Fritz Leiber, Alfred Bester, Isaac Asimov, Arthur C. Clarke, Robert A. Heinlein, Theodore Sturgeon, Frank Herbert, Philip K. Dick, Harlan Ellison, Ursula K. Le Guin, Cordwainer Smith, Michael Moorcock, Samuel R. Delany, Roger Zelazny, John Brunner, M. John Harrison, Alice Sheldon (a.k.a. James Tiptree Jr.), Boris e Arkadi Strugatzki; o ancora William Gibson, Bruce Sterling, Pat Cadigan, Kim Stanley Robinson, Paul Di Filippo, Lucius Shepard, Richard Calder, Ken MacLeod, Greg Egan, Ian McDonald, James Patrick Kelly, Audrey Niffenegger, China Mieville, Richard K. Morgan, Ted Chiang, Charles Stross, Alastair Reynolds, Cory Doctorow, Aliette de Bodard; e, guardando sui bordi e poco oltre i confini del genere, sicuramente Edgar Allan Poe, Robert W. Chambers, William Hope Hodgson, Algernon Blackwood, H. P. Lovecraft, Robert E. Howard, Shirley Jackson, Stephen King, Thomas Ligotti; Dashiell Hammett, Raymond Chandler, Cornell Woolrich, Elmore Leonard, James Crumley, James Ellroy, Joe R. Lansdale, Derek Raymond, Jean-Patrick Manchette, Jean-Claude Izzo, Hugues Pagan; Franz Kafka, Jorge Luis Borges, William S. Burroughs, Thomas Pynchon, Don DeLillo, Roberto Bolaño; Italo Calvino, Dino Buzzati, Primo Levi, Tommaso Landolfi – anche qui con molte, troppe, colpevoli omissioni.

    Che la vocazione che muove gli autori sia globale e insofferente al provincialismo si evince facilmente dagli scenari in cui spaziano i diversi racconti riuniti in questo volume: se Giovanni Agnoloni ci conduce per le strade notturne di una Firenze trasfigurata e sospesa sull’orlo del tempo, Umberto Bertani ci proietta alla velocità di un proiettile lungo i viali ghiacciati della Siberia centrale e di una Mosca sepolcrale, in cui si annidano indicibili minacce; con Giovanni De Matteo ci ritroviamo nella West Bank, culmine di un intrigo che si snoda da Kaliningrad a Vladivostok, con tappe intermedie in Estonia, catapultati in un vortice che trascina con sé frammenti di epoche storiche diverse – e forse addirittura di universi paralleli; Marco Milani si addentra invece del Messico del ‘500, al seguito di un contingente di conquistadores che troveranno pane per i loro denti nelle foreste ancora inesplorate del Nuovo Mondo. Un’avventura che si districa nello spazio e nel tempo è quella che ci racconta Roberto Furlani, imbastendo una storia che sulle tracce dell’arca perduta spazia dalla Palestina pre-biblica all’Europa Centrale e all’America di fine XXI secolo; con Francesco Verso addirittura lo spazio si smaterializza e il tempo si annulla: il suo protagonista insegue un’identità perduta non nel mondo da cui proviene, bensì nell’universo tascabile che si è scelto in un gioco di ruolo multimediale online.

    I confini sono per i connettivisti pretesti per mettersi in discussione e limiti da sfidare. Lo testimoniano racconti come quelli di Francesca Fichera, la cui protagonista scivola per lavoro dal proprio continuum originario ad altri adiacenti, o di Domenico Mastrapasqua, in cui una proliferazione di singolarità tecnologiche mette in contatto la nostra con altre realtà contigue; oppure come l’incursione onirica di Roberto Bommarito, toccante epilogo di una storia d’amore ricostruita con piglio visionario e scanzonato.

    Pagine atipiche impreziosiscono questa raccolta, sfide narrative che solo virtuosi della prosa come Umberto Pace e Marco Moretti avrebbero saputo maneggiare con successo: il primo alle prese con una irriverente dimensione satirica, il secondo con un tour de force che ci conduce alla scoperta di un impossibile Liber monstrorum de diversis generibus aggiornato all’era spaziale. O come il resoconto commovente di una giornata speciale vissuta dal protagonista di Sandro Battisti, in un racconto che mette in risonanza epoche e generazioni diverse grazie alle potenzialità intrinseche della tecnologia.

    Sempre nell’articolo citato, chiosavamo:

    Come connettivisti, sentiamo in questo momento l’importanza di indagare il panorama del futuro codificato nel mondo che ci circonda. Un panorama, questo, che oscilla in fluttuazioni convulse tra la prospettiva cupa di un futuro zero, disinnescato, annichilito e appiattito sul presente, e quella di ardua decrittazione di un futuro alieno, impossibile da anticipare nella densità dei presupposti che si sovrappongono nel nostro presente. Abbiamo sempre prediletto le possibilità di contaminazione e per questo riteniamo che l’ibridazione sia ormai nel nostro DNA. Tra le strade che ci sono date, da connettivisti ci proponiamo di addentrarci sempre di più nello scenario di una fantascienza ripotenziata, che impieghi senza riserve gli strumenti del genere anche al di fuori dei suoi confini, approfittando della fluidità e mobilità degli stessi anche per contribuire ad allargare la base dei lettori della fantascienza. Non rinneghiamo l’audacia della fantascienza, ma al contrario la riteniamo indispensabile ed è nostra intenzione servircene diffusamente, farla nostra per insinuare ovunque il meme del futuro.

    Non più distinzioni, ma immersioni e compenetrazioni. E i margini come nuovi spazi di indagine.

    Non abbiamo mai nascosto i nostri debiti con il passato e la presenza di un ospite del calibro di Bruce Sterling, con un racconto scritto in esclusiva per quest’antologia, sancisce in qualche modo la chiusura del cerchio. Senza la cruciale stagione del cyberpunk non saremmo qua e non avreste questo libro tra le mani o caricato sul vostro lettore di ebook. La partecipazione di Sterling, da diversi anni ormai trapiantato a Torino e commentatore d’eccezione della scena hi-tech, nonché autore di racconti italiani con la firma del suo alter-ego Bruno Argento, ci impone l’urgenza di ringraziare quanti hanno percorso un tratto di strada insieme a noi. A cominciare da Danilo Arona, Vittorio Catani, Valerio Evangelisti, Luca Masali, Arielle Saiber, per arrivare ad Alberto Cola, Lanfranco Fabriani, Giorgio Raffaelli, Flora Staglianò, Dario Tonani, Carmine Treanni e Andrea Vaccaro. Abbiamo mosso i primi passi ispirati dal lavoro seminale di Lino Aldani (figura-chiave per tutta la fantascienza italiana) e Nicoletta Vallorani (che per prima, e con instancabile convinzione, ha creduto in una declinazione italiana del cyberpunk e operato sulla convergenza dei generi); siamo cresciuti grazie ai contributi eclettici con cui Vittorio Curtoni e Riccardo Valla hanno arricchito il panorama del genere (e non solo) in Italia, e grazie ai suggerimenti di viaggio di un infaticabile esploratore di territori di confine qual era Sergio Alan D. Altieri; e i nostri lavori sono diventati reali grazie al catalogo di Ernesto Vegetti. Salvatore Proietti è stato testimone, confidente e consigliere prezioso lungo il tragitto, raccomandandoci spesso itinerari ancora da scoprire e non avari di sorprese. E infine molti di noi hanno avuto il privilegio di lavorare con curatori fuori dall’ordinario, come Giuseppe Lippi, leggendario timoniere di Urania, e Silvio Sosio, che ha fortemente voluto questo libro. È grazie a tutti loro che siamo arrivati fin qui.

    E adesso che ogni cosa è connessa, non ci resta altro da fare che dare inizio alle danze.

    Rendiamo reale il futuro, ancora una volta.

    Amiens, 1905

    Simone Conti

    Nato a Reggio Emilia nel 1970, Simone Conti si è ritagliato gradualmente ma con autorevolezza uno spazio tra le voci ucroniche più originali del panorama fantascientifico italiano. Predilige storie che intrecciano le epoche e stravolgono le conquiste della tecnologia, minando le certezze della storia convenzionalmente acquisita.

    Con i suoi lavori si è distinto in numerosi concorsi nazionali, tra i quali i premi Alien, Galassia, Yorick, Odissea. Ricordiamo in particolare i racconti Il vecchio che sognava macchine volanti in Supernova Express (Ferrara Edizioni, 2007), L’ultimo viaggio del Neanderthal elettrico e il trittico Dampferchroniken sulle pagine di Next, Festung Europa (a quattro mani con Giovanni De Matteo) e il suo seguito Nürnberg sulle pagine elettroniche di Continuum e il romanzo Ersatz (Edizioni Scudo, 2012).

    Conti riconosce come suoi modelli letterari due giganti del fantastico italiano come Valerio Evangelisti e Luca Masali e i padri dello scientific romance Jules Verne e H. G. Wells. Amiens, 1905 era già stato incluso in Frammenti di una rosa quantica (Kipple Officina Libraria, 2008), dove appariva in chiusura, ma abbiamo ritenuto che fosse la perfetta porta d’ingresso per questa antologia. La verità implicita in questo fatto è che probabilmente questo piccolo gioiello potrebbe impreziosire qualsiasi raccolta, così siamo felici di proporlo anche in questa sede.

    Veicoli per andare sott’acqua? Servirebbero solo ad annegare gli equipaggi.

    H.G. Wells

    Ho letto i suoi libri: molto strano, molto inglese…

    Jules Verne

    23 marzo

    Risalendo rue des Ostages la carrozza imboccò boulevard de Longueville, e dopo averne percorso un breve tratto si fermò davanti a una casa di mattoni rossi, disposta su due piani, prospiciente alla ferrovia. Il solo tempo alla ribalta di aprirsi, e al passeggero di scendere, che la frusta del vetturino schioccò e la vettura, scivolando sul selciato umido, si allontanò in tutta fretta nella notte.

    Il passeggero – un uomo dall’aspetto severo e dalla postura militaresca – bussò alla porta, stringendosi nel nero pastrano che lo riparava dal vento gelido della Somme. Per sua fortuna l’attesa fu breve, e quando la porta si aprì, cigolando, si ritrovò a incrociare il volto gentile di un giovane di bassa statura che, mostrando un tiepido sorriso sotto folti baffi neri, si presentò come Zilippimus Nadar, il domestico. – Buona sera – sussurrò, sporgendosi in avanti. – Vi stavamo aspettando.

    L’uomo si produsse in un leggero inchino; di rimando Zilippimus Nadar si fece da parte chiamandolo a entrare.

    – Come sta? – chiese senza preamboli l’uomo, assaporando nel contempo il tiepido calore che regnava all’interno della casa.

    Il domestico scosse il capo, sconsolato. – Le sue condizioni sono peggiorate. – Dopo una breve pausa, aggiunse: – Tuttavia c’è tempo.

    Subito dopo invitò l’ospite a porgergli il pastrano, e nell’esatto momento in cui egli se lo tolse gli occhi di Zilippimus Nadar si posarono sull’uniforme da ufficiale dell’Esercito Coloniale Francese, che l’uomo indossava con evidente orgoglio.

    – Avete fatto buon viaggio? – chiese, cercando di stemperare la tensione del momento.

    L’uomo gli posò una mano sulla spalla. – Avrei preferito arrostire al sole del deserto, pur di non rientrare in Francia in un giorno come questo.

    – Lui sarà felice di vederla – lo rincuorò Zilippimus Nadar, ricacciando nello stomaco il groppo che gli si era formato in gola.

    L’oscurità era attenuata dal bagliore tenue delle candele di sego che ardevano su un candelabro a tre fiamme posato sopra a un cubo metallico, accanto a una caraffa e un bicchiere sbeccato. Nonostante l’ottima qualità dei moccoli, la luce non era sufficiente a illuminare per intero la figura di un vecchio morente.

    Dopo aver bussato, Zilippimus Nadar entrò nella stanza precedendo l’uomo giunto dalle assolate terre d’Africa. Quest’ultimo – non appena fu dentro – si tolse il berretto, rilasciando nell’aria una leggera nube di polvere. Il domestico notò che anche i capelli dell’ufficiale, ricciuti e di un nero corvino, erano ricoperti da un sottile velo di sabbia.

    Tutto a un tratto dal fondo della stanza si levò una flebile voce: – Chi è?

    – Ci sono visite – rispose Zilippimus Nadar.

    Il vecchio fu colto da un violento attacco di tosse. Il domestico si precipitò al suo capezzale, cominciando a prodigarsi in mille attenzioni, ma il Maestro, ignorandolo, si rivolse invece all’ospite e gli fece segno di avvicinarsi.

    Con passo incerto, e il cuore che gli batteva all’impazzata, l’uomo venne avanti. In vita sua aveva affrontato avventure incredibili e pericoli di ogni genere, ma adesso – in quel luogo e in quel momento – sentiva di aver smarrito la sua proverbiale sicurezza.

    – Avvicinatevi – ordinò nuovamente il Maestro.

    L’uomo si sporse sul letto. – Sono qui per servirla – sussurrò.

    Fu allora che Jules Verne si ritrovò ad incrociare il volto di un caro e vecchio amico. – Ettore Servadac! – esclamò. – Mio Dio, siete esattamente come vi ho immaginato…

    Gli occhi del capitano Servadac si accesero di nuova luce. – Anche voi siete tale e quale all’uomo che pensavo sareste stato: un vecchio barbuto, d’aspetto docile, creatore di mondi straordinari.

    Jules Verne scosse il capo, come a rifiutare l’alta considerazione espressa dal capitano Servadac. – Sto morendo e non c’è nulla che io possa fare per impedire al destino di compiersi. – Era un diabete mal curato ad averlo ridotto in quelle condizioni. – Ma come si dice… sapersi rassegnare quando non si può fare altrimenti.

    Ettore Servadac sorrise. – E questo è il nostro caso¹ – aggiunse. – Ben Zuf. Capitolo ottavo, pagina 54.

    Nella mente di Jules Verne presero forma i ricordi di un felice passato. – Scrivendo quel dialogo non sospettavo che un giorno sarebbe risuonato così profetico.

    Il capitano Servadac avrebbe voluto rispondere, ma il Maestro lo anticipò. – Quando si è prossimi alla morte è tempo di bilanci – disse. – Non posso andarmene da questa terra col dubbio di aver deluso i miei viaggiatori.

    Ettore Servadac gli strinse la mano e per qualche istante la sua mente tornò alle mirabolanti avventure vissute tra le pagine del libro. – Ho viaggiato attraverso il mondo solare – dichiarò con enfasi – e al contrario di altri non l’ho fatto in ottanta giorni, per scommessa o per confutare teorie scientifiche. Non sono stato sparato da un cannone, tantomeno costretto a esplorare gli abissi marini rinchiuso in un angusto sommergibile ai comandi di un uomo in guerra con il mondo intero. – Quella che esprimeva era autentica gratitudine. – Lei mi ha donato la vita! – Servadac scosse il capo. – Io non ho lo spessore morale e l’eleganza di Phileas Fogg o le capacità scientifiche del capitano Nemo. Sono soltanto un semplice ufficiale di una sperduta guarnigione militare, protagonista di un sogno che si ripete ogni qualvolta si aprono le pagine del libro. – Strinse più forte la mano del Maestro, trasmettendogli un sincero calore. – Io esisto grazie alla sua smisurata fantasia: in tutta sincerità cosa potrei chiederle di più?

    Il volto di Jules Verne si accese di una gioia ormai sopita. In cuor suo sapeva che le gesta di Servadac non avevano raggiunto la notorietà di avventure ben più famose; tuttavia era orgoglioso di aver dato alle stampe Le avventure del capitano Servadac attraverso il mondo solare.

    – Sono contento che tu sia qui – confessò Jules Verne. – E Ben Zuf, il tuo prode attendente, come se la passa?

    Il capitano Servadac alzò gli occhi al cielo. – A Montmartre, tra le gambe di qualche grassa sgualdrina!

    Jules Verne annuì e ruppe in una fragorosa risata. Poi chiamò a sé Zilippimus Nadar, ma il domestico era già uscito dalla stanza: qualcuno, di sotto, bussava alla porta.

    Vestiva abiti eleganti l’uomo che dopo esser sceso dalla carrozza, e averla vista allontanarsi nell’oscurità della notte, gettò l’ennesima occhiata al quadrante del suo antico orologio da tasca, oggetto di raffinata fattezza. Con gesto repentino lo ricacciò nella tasca del doppiopetto, si aggiustò sul capo la tuba che indossava con gran classe, e riprese a picchiettare la porta con la punta metallica del suo bastone da passeggio. L’impugnatura, in avorio scolpito, riproduceva il globo terrestre. Al suo fianco un uomo di bassa statura, certamente il domestico, lanciava maledizioni alla servitù della casa, colpevole a suo avviso di non essere all’altezza della situazione.

    – Non ricordo l’usanza francese di far attendere gli ospiti all’addiaccio! – protestò il domestico.

    In quel preciso istante la porta si aprì e il nobiluomo impugnò nuovamente l’orologio. – Trentasette secondi: un ritardo inqualificabile.

    – Buona sera, signori – rispose Zilippimus Nadar, come se nulla fosse. – Entrate pure in casa.

    Il nobiluomo si fermò al centro del piccolo salotto, arredato con esotica eleganza. Le pareti erano adornate con splendidi quadri raffiguranti scene di viaggi straordinari, il pavimento ingentilito da tappeti orientali di rara bellezza. Il nobiluomo si guardò attorno con curiosità, ignaro dell’espressione di puro stupore che si era disegnata sul volto del suo domestico.

    – Assolutamente pregevole – considerò il nobiluomo. – Ma cosa c’è? – aggiunse all’indirizzo del suo accompagnatore.

    – Ma come? Lo vede anche lei – borbottò il domestico. – Quel tizio è tale uguale a me!

    Il nobiluomo non pareva affatto meravigliato dall’incredibile somiglianza tra i due. – Direi che abbiamo scoperto quale sia stata la fonte d’ispirazione del Maestro nel crearti – constatò, mentre porgeva a Zilippimus Nadar mantello, tuba e bastone. – Lui come sta?

    – È debole e malato – rispose Zilippimus Nadar. – Ma sarà molto felice di incontrarvi. – Detto questo invitò entrambi a seguirlo al piano di sopra.

    – Phileas! – esclamò Jules Verne, contenendo a fatica l’emozione. – Passepartout, anche tu qui!

    – Sempre al fianco del signor Fogg! – rispose con un certo orgoglio il domestico.

    Jules Verne si passò la lingua sulle labbra screpolate. – Acqua…

    Zilippimus Nadar prese la caraffa dal comodino, riempì il bicchiere e si precipitò al capezzale dell’illustre padrone il quale, dopo essersi dissetato, si scusò con gli ospiti. – Mi spiace di aver dovuto interrompere la vostra impresa.

    Phileas Fogg, uno dei più stimati membri del Reform Club di Londra, scrollò le spalle. – Non importa. Basta tener conto della differenza – rispose senza batter ciglio.

    Jules Verne sorrise nel sentir pronunciare quelle precise parole dalla viva voce di Fogg. Notò tuttavia che il nobiluomo stava onorando il capitano Servadac di un’occhiata infastidita.

    Nell’immaginario del Maestro, Phileas Fogg avrebbe mal sopportato il dover condividere lo stesso spazio vitale con un personaggio il cui viaggio straordinario aveva venduto un quarto delle copie del ben più famoso Il giro del mondo in 80 giorni. Ora, la fantasia sembrava aver lasciato posto alla cruda realtà; quindi Jules Verne si decise a rassicurarlo. – Resti sempre uno dei miei favoriti – disse, trattenendo a fatica l’ennesimo attacco di tosse.

    – Non lo metto in discussione – precisò Phileas Fogg. – Ma rimango della mia idea.

    Jules Verne si rese conto che era inutile intavolare una discussione con un uomo pervaso dalla tipica supponenza anglosassone, sebbene fosse stata la sua stessa fantasia ad averlo creato in quel modo. – Dimmi la verità – riprese, incrociando lo sguardo poco tollerante di Phileas Fogg. – Avremmo potuto farcela in meno di ottanta giorni se solo ti avessi lasciato escogitare qualcosa di più rapido e futuribile, non credi? Allora sì che saremmo risultati imbattibili per chiunque!

    Passepartout rimase di stucco: quelle sul volto del suo padrone erano forse lacrime?

    – Non sarà una yankee a mettere in discussione la nostra impresa straordinaria – rispose Phileas Fogg. – Il viaggio di Miss Bly è del tutto privo di fascino e classe!

    Durante la notte, Zilippimus Nadar scese numerose volte al piano di sotto. Nel giro di poche ore, infatti, in boulevard de Longueville giunsero viaggiatori straordinari di ritorno da viaggi straordinari: dal professor Otto Lindembrok, suo nipote Axel e il gigante islandese Hans – riemersi in tutta fretta dalle profondità della terra, equipaggiati di piccozze, pile di Bunsen, declinometri e inclinometri – al capitano John Hatteras, imbacuccato in pelli di foca, di ritorno dalle lande ghiacciate del polo. V’erano gli eleganti membri del Gun Club di Baltimora, capeggiati dal giovane Michel Ardan, come eleganti apparivano il professor Samuel Fergusson, il suo domestico Joseph Wilson e l’amico cacciatore Richard Kennedy, di rientro dai cieli dell’Africa equatoriale.

    Gli occhi di un incredulo Jules Verne inquadrarono sul fondo della stanza la figura severa dell’ingegner Robur, l’unico a non essere giunto in carrozza. Improvvisamente il vecchio romanziere sentì crescere dentro di sé una strana eccitazione all’idea che la popolazione di Amiens avrebbe scorso nel cielo della città, in perfetto volo stazionario reso possibile dalle numerose eliche di sospensione, quella meraviglia di tecnologia aeronautica chiamata Albatros. Accanto a Robur, Jules Verne intravide la sfuggente sagoma del Professor Ox che, spalle alla parete, era intento a progettare il modo più rapido ed efficace per immettere ossigeno nella stanza.

    Illuminati dai tenui barbagli delle candele, Verne incrociò i volti sorridenti del capitano Harry Grant e dei suoi inseparabili figli Mary e Robert, mentre alle loro spalle Michele Strogoff, che aveva interrotto il suo avventuroso viaggio attraverso le steppe ghiacciate della Russia pur di non mancare all’appuntamento, disquisiva di chissà quali argomenti con Sèbastien Zorn, giunto ad Amiens in compagnia dei colleghi del quartetto orchestrale di Milliard City. A pochi passi dalla finestra, Cèsar Cascabel e il conte Mathias Sandorf, discutevano sulle condizioni di salute del Maestro. In verità i due sembravano nutrire un certo pessimismo mentre dello stesso parere non sembrava l’uomo in djellaba e turbante che stava al loro fianco: era Kèraban, il mercante turco famoso per aver compiuto a piedi l’intero periplo del Mar Nero pur di non dover pagare un pedaggio irrisorio imposto a chi voleva attraversare il Bosforo da Scutari a Costantinopoli. Accanto a lui, un giovane bretone meglio noto come mastro Antifer non sembrava interessarsi oltremodo delle condizioni di salute del Maestro. Il ragazzo era impegnato in un’accesa discussione con Sauk – figlio del Kamylk-Pascià – riguardo a una generosa eredità, mentre accanto a loro Ben-Omar, ambiguo notaio, gesticolava animatamente nel disperato tentativo di far valere il proprio diritto di mettere le mani sul prezioso lascito del Califfo egiziano.

    Jules Verne non fu capace di trattenere l’emozione nello scoprire che amici di una tale risma gli sarebbero restati accanto nell’ultimo viaggio straordinario della vita.

    Per tutta la notte Zilippimus Nadar fece la spola tra le cucine e la stanza, dispensando a ospiti tanto straordinari stuzzichini appetitosi e ottimo vino: anche in quelle ore dolorose, casa Verne era un luogo accogliente e raffinato.

    D’improvviso, Jules Verne notò un uomo che sino a

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