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I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani
I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani
I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani
E-book867 pagine7 ore

I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani

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Info su questo ebook

I percorsi dell’immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani è un volume che vuole rendere omaggio a uno dei maggiori studiosi italiani di estetica, di cinema, di arti e nuove tecnologie.

Diviso in cinque sezioni (Filosofia, Semiotica e teoria dei linguaggi, Cinema, Teoria delle arti e Tecnica e media), che sono altrettante articolazioni di analisi e di riflessione sul presente e la contemporaneità, il libro si avvale della partecipazione di illustri studiosi italiani e internazionali: Alberto Abruzzese, Leonardo Amoroso, Francesco Antinucci, Gianfranco Bettetini, Piero Boitani, Silvana Borutti, Romeo Bufalo, Mauro Carbone, Massimo Carboni, Giovanni Careri, Francesco Casetti, Stefano Catucci, Claudia Cieri Via, Antonio Costa, Massimo De Carolis, Roberto De Gaetano, Pina De Luca, Georges Didi-Huberman, Giuseppe Di Giacomo, Roberto Diodato, Ruggero Eugeni, Edoardo Ferrario, Maurizio Ferraris, Richard Grusin, Tarcisio Lancioni, Enrica Lisciani Petrini, Herman Parret, Isabella Pezzini, Giovanna Pinna, Andrea Pinotti, Massimo Prampolini, Antonio Somaini, Elena Tavani, Valentina Valentini, Stefano Velotti.

Ogni sezione è inoltre chiusa da una conversazione con un artista: Franco Maresco, Roberto Perpignani, Alfredo Pirri, Costanza Quatriglio e Mario Sasso.

Il volume è curato da Daniele Guastini e Adriano Ardovino.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2016
ISBN9788868224417
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    Anteprima del libro

    I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani - Maurizio Ferraris

    I PERCORSI DELL’IMMAGINAZIONE

    Studi in onore di Pietro Montani

    a cura di

    Daniele Guastini e Adriano Ardovino

    Il volume è stato pubblicato con il contributo di:

    Dipartimento di Filosofia della Sapienza-Università di Roma

    Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza-Università di Roma

    Prof.ssa Valentina Valentini, Dipartimento di Storia dell’Arte e Spettacolo della Sapienza-Università di Roma

    Dipartimento di Scienze Filosofiche, Pedagogiche ed Economico-Quantitative dell’Università G. d’Annunzio di Pescara-Chieti

    Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Stampato in Italia nel mese di giugno 2016 per conto di Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 (ex Via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Prefazione

    Oltre all’autorevolezza scientifica e al prestigio accademico, una Festschrift misura anche il raggio d’azione di un lavoro di ricerca. La sua Wirkung scientifica in senso stretto, ma anche quell’insieme di indicazioni, spunti, stimoli che fanno la vivacità di una biografia intellettuale.

    Festeggiando Pietro Montani, e per non attenersi alla semplice celebrazione di uno studioso, si è provato a misurare esattamente il raggio d’azione del suo lavoro, peraltro ancora ampiamente in fieri.

    Più che alla definizione di un ambito circoscritto, ciò che ne è scaturito somiglia alla descrizione di un percorso, o meglio ancora a un insieme di percorsi (contrassegnati da alcune nozioni-chiave, di cui si dirà più avanti). La delimitazione di un ambito di ricerca, del resto, finisce presto o tardi per delimitare anche i confini di una scuola, con tutti i rischi di irrigidimento intellettuale che ciò sempre comporta. Ma anche i percorsi sono esposti ad alcuni rischi. In particolare, a quello di andare incontro a una dispersione, a uno sviamento, in cui la strada maestra viene smarrita, cessando di essere riconoscibile come tale e trasformandosi piuttosto in un punto di incontro tra le più variegate compagnie di viaggio, accomunate da una curiositas – nel senso anche negativo che già gli antichi davano a questo termine – che, oggi più che mai, finisce per coincidere largamente con il conformismo mentale e culturale tipico di itinerari intellettuali già difettosi in partenza. Tali, o perché così eclettici da finire inesorabilmente per essere attratti dagli argomenti più alla moda, o perché, viceversa, talmente monolitici da essersi troppo presto esposti, a fronte della complessità di una realtà sempre più difficile da decifrare con categorie precostituite (molte delle quali, peraltro, provenienti proprio dalla tradizione filosofica), a delusioni. Delusioni precorritrici, in quanto tali, di successive e incontrollate aperture e disseminazioni.

    Un percorso possiede invece un’altra connotazione: quella di indicare una direzione, se non univoca, quanto meno identificabile. Esattamente quella che è possibile riscontrare nella biografia intellettuale di Pietro Montani, in cui si vede bene come il confronto con la realtà e la sua crescente complessità, abbia mostrato una precisa strada maestra. Quella che potremmo in prima battuta individuare come una sua tipica capacità di apertura alla realtà stessa, e che si proverà adesso a qualificare in modo un po’ più specifico, anche ricorrendo ad alcuni dei tanti testi presenti in questo volume. I quali, riconoscendola, hanno provato per parte loro a definirla, oppure, anche senza definirla, l’hanno effettivamente praticata, occupandosi di questioni anche lontane dagli interessi specifici di Montani, ma in qualche modo rientranti nel suddetto raggio d’azione della sua ricerca.

    Potremmo, dunque, innanzitutto considerarla come una capacità di imprimere alla ricerca una multi-linearità. Quella che, ad esempio, Georges Didi-Huberman, nel suo saggio, riconduce al concetto eizenštejniano di «ibridazione», senz’altro eccentrico rispetto alle rotte più tradizionali dell’estetica basate sulla questione, com’è noto così cruciale per la sua formazione disciplinare, di sintesi delle arti.

    Del resto, è stato lo stesso Montani – per Ejzenštejn, ma alla fine anche per la propria ricerca – ad anteporre all’idea di una sintesi quella di «un’amicizia» tra le arti. E questo la dice lunga sul modo in cui la suddetta ricerca si è sviluppata. Non è, infatti, tanto a un quadro disciplinare che bisogna rifarsi, solo apparentemente disperso nei cinque ambiti che si ritroveranno in questo libro e di cui si dirà fra poco, quanto alla sensibilità che ne muove l’esplorazione. Qualcosa che si potrebbe ricondurre anche allo stupore; nozione su cui, peraltro, un altro saggio, quello di Piero Boitani, lavora (nella forma del thaumaston) analiticamente, e che è l’esatto contrario della mera curiositas intellettuale di cui si diceva sopra. Lo stupore che si prova di fronte alla crescente complessità della realtà che ci circonda, e che più di uno studioso ha, pur con termini e modalità diverse, richiamato, pensando a Montani.

    Lo ha fatto ad esempio Alberto Abruzzese, parlando dell’«inquieto senso di attesa di nuove realizzazioni umane» che muove la ricerca di Montani. Lo ha fatto Roberto De Gaetano, avvicinando l’occhio critico di Montani a quel modo di vedere che, unico a garantire la possibilità di un’effettiva esperienza della realtà, con vocabolario baziniano, chiama uno «stare-con dello sguardo e del mondo». Lo ha fatto, in definitiva, anche Maurizio Ferraris, ricordando i loro comuni percorsi formativi e associandoli a un senso di realtà capace di includere, cosa spesso colpevolmente tralasciata dalla filosofia, quello che nel suo saggio chiama «l’attrito del mondo». Lo ha fatto, in modo sobrio e al contempo risoluto, Enrica Lisciani Petrini, parlando dell’«intenzionalità etica», della «valenza politica» e infine della «vigilanza critica» che accompagnano il lavoro teorico di Pietro Montani.

    Un sentimento, insomma, un senso. Nel quale gioca forse la parte più profonda e produttiva, l’unica rimasta davvero attuale, quel principio estetico che il maestro di Pietro Montani, Emilio Garroni, ha chiamato, con Kant, Bestimmungsgrund, ossia principio di determinazione, non intellettuale, dell’esperienza. Qualcosa che però Montani ha declinato in un’accezione per certi versi ancora più radicale, dislocandolo sul versante benjaminiano della storicità della percezione e dell’immaginazione.

    Le cinque sezioni in cui si articola questo libro rispecchiano, in primo luogo, altrettante nozioni-chiave della ricerca di Pietro Montani. Il linguaggio e le arti, l’immagine audiovisiva e le nuove tecnologie rappresentano infatti i maggiori fuochi della sua riflessione. Una riflessione che ha saputo meritare, raccogliendo appunto l’eredità di Garroni, il titolo di un’estetica intesa come filosofia non speciale, e pertanto uno stile di pensiero critico, mobile e attento, mai rinchiuso nei confini di una disciplina, sempre aperto alla contingenza del presente e della storia che l’ha preceduto.

    In secondo luogo, però, le sezioni indicano anche le tappe principali del cammino già percorso e l’orizzonte più attuale – dalla bioestetica all’immaginazione interattiva – di quello ancora da percorrere. Mossa dall’esigenza di rapportarsi all’altro o all’esterno del pensiero (la realtà, la vita), la ricerca di Montani ha attraversato e oltrepassato campi disciplinari assai diversi: da quello della semiotica, messo presto in crisi dall’idea del debito del linguaggio, a quello della teoria del cinema, tematizzando in particolare, di quest’ultimo, il cruciale fuori campo, e ripensandone in un senso filosofico rigoroso la nozione e la pratica operativa più importante, quella del montaggio. Altrettanti passaggi emblematici di quel rapporto tra il pensiero critico e l’eterogeneità e complessità del reale di fronte alle quali Montani non ha mai arretrato, ma di cui si è sempre fatto carico.

    È così che, nel corso di tali attraversamenti e distanziamenti critici, egli si è potuto rivolgere da un lato alla pluralità e all’apertura dialogico-ermeneutica della parola romanzesca, così come alla complessità della poesia tragica; e dall’altro alle implicazioni politiche della produzione artistica delle immagini, insistendo soprattutto sulla centralità di un’etica della forma come orizzonte di produzione e di sperimentazione dell’opera e del suo ruolo testimoniale. Raccogliendo ancora una suggestione di Emilio Garroni circa il progressivo venir meno, nelle società odierne, della funzione esemplare dell’arte in quanto spazio di progettazione ed elaborazione del senso comune, Montani ha successivamente approfondito la storia dei legami (anche di quelli irrimediabilmente perduti) tra arte e verità e lo statuto del rapporto (o meglio della difficile distinzione e dell’ambivalente prossimità) tra arte e tecnica.

    Quello della tecnica, anche al di là di Heidegger, non poteva non rappresentare il punto di approdo più estremo della riflessione di Pietro Montani, posto che l’impatto delle nuove tecnologie sulla sensibilità umana – con tutti i suoi correlati: dalla manipolazione digitale dell’esperienza all’inaudita esternalizzazione e circolazione delle immagini – configura una tappa decisiva nella storia della percezione, e per molti versi la vera posta in gioco legata alla sopravvivenza (o meno) della creatività come tratto di fondo della vita umana.

    Per tutti questi motivi, le cinque sezioni, di cui il volume rappresenta, per così dire, il montaggio, vengono raccordate e rilanciate da altrettante soglie, che assumono la forma di colloqui con esponenti del mondo delle pratiche iconopoietiche contemporanee, legati a loro volta al fuori campo e al debito non più o non tanto del linguaggio verbale, quanto delle immagini, ossia al legame etico-politico con il reale e la vita che quelle immagini prendono in carico, e di cui riconfigurano in modo inedito il senso, tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo, tanto sul versante delle sperimentazioni di frontiera quanto su quello delle pratiche più anonime, quotidiane e diffuse.

    ***

    La presente raccolta è a sua volta in debito, quanto al contenuto e alla realizzazione materiale, con molte persone. Il primo sentimento di gratitudine è riservato ovviamente agli studiosi autorevoli e di alto profilo internazionale – colleghi e amici di Montani – e agli artisti che hanno accolto con entusiasmo la proposta di festeggiare i suoi settant’anni, rendendo così omaggio a un esercizio di pensiero condotto in costante e fecondo dialogo con molti di loro, lungo l’arco di quasi cinque decenni e nel contesto di sedi accademiche prestigiose come l’università Sapienza di Roma e l’università di Urbino. Un doveroso ringraziamento va poi indirizzato all’amico Roberto De Gaetano, direttore della collana che ospita questo volume; all’Editore, che generosamente lo ha accolto; e alla dott.ssa Anna Vigorito della Sapienza, che ne ha seguito puntualmente il complesso iter istituzionale, agevolandone non poco la realizzazione. Un ringraziamento particolare spetta infine ai giovani e meno giovani studiosi – allievi e amici di Pietro Montani – che hanno curato e introdotto le singole sezioni, realizzato i colloqui e allestito la bibliografia dei suoi numerosi scritti. La quale testimonia, una volta di più, quanto in queste righe si è cercato di dire, sobriamente ma affettuosamente, intorno al suo lavoro.

    Adriano Ardovino e Daniele Guastini

    Filosofia

    Nota introduttiva

    Dario Cecchi e Martino Feyles

    Il tema dell’immaginazione è al centro di una sorta di trilogia che negli ultimi vent’anni anni ha scandito il lavoro di Montani, segnando un progressivo allargamento dell’orizzonte e un approfondimento dell’analisi. Ne L’immaginazione narrativa (1999) questo problema è tematizzato in un dialogo tra filosofia e cinema. Undici anni più tardi, ne L’immaginazione intermediale (2010) l’orizzonte si allarga e il dialogo tra filosofia e immagini, pur avendo ancora nel cinema un referente privilegiato, comprende anche le immagini digitali e la rete. Infine nel più recente Tecnologie della sensibilità (2014) – che reca il sottotitolo significativo Estetica e immaginazione interattiva – il problema dell’immaginazione viene messo in relazione con le tecnologie della sensibilità, intendendo questo termine nella sua più ampia accezione. Nello stesso tempo l’interattività, la realtà aumentata e i fenomeni estetico-politici che si producono in rete diventano i riferimenti privilegiati del discorso.

    Si vede bene che la riflessione di Montani si muove, come si direbbe, al passo con i tempi, seguendo – e in taluni casi anticipando – gli sviluppi tecnologici e sociali che segnano il nostro presente. Ma come sempre accade in un pensiero che merita questo nome, una lettura così attenta dell’attualità si nutre di un passato autorevole. Alle spalle di questa trilogia c’è infatti un’interpretazione originale di Kant che prosegue idealmente il percorso di ricezione critica inaugurato da Emilio Garroni.

    In Kant Montani trova il primo e più decisivo riconoscimento del significato trascendentale dell’immaginazione. Ma si tratta dell’acquisizione di un problema più che di un risultato. In effetti il grande interrogativo che Kant consegna ai filosofi a venire, è quello della relazione tra sensibilità e intelletto, tra le immagini che l’intuizione configura e i concetti che a queste immagini devono essere adeguati. Nella riflessione di Montani tale problema riceve luce da un cambio di prospettiva essenziale, che deriva, tra l’altro, anche dalla lunga frequentazione dei maestri della linguistica e della semiotica. Più che di concetti, e soprattutto più che di concetti puri, nei libri di Montani si parla di linguaggio. Il problema diviene allora: come è possibile che il linguaggio si riferisca alle nostre rappresentazioni sensibili? Il tema kantiano dello schematismo si ripropone così in una prospettiva originale e può beneficiare dei risultati più rilevanti che provengono dall’analisi linguistica e semiotica del riferimento (un problema che Montani tematizza già in modo esplicito già ne Il debito del linguaggio).

    Questa sintesi tra la riflessione trascendentale sull’immaginazione e il problema del riferimento è senza dubbio una delle cifre più caratterizzanti e più originali della riflessione di Montani. Ma c’è almeno un terzo apporto fondamentale che contribuisce ad approfondire ulteriormente il quadro teorico. Immaginazione e riferimento vengono ripensate da Montani alla luce di una riflessione sulla tecnica che si avvale delle suggestioni di autori classici come Heidegger, Benjamin, Leroi-Gourhan, Simondon, ma anche delle più recenti analisi sui media e sullo statuto delle immagini.

    In effetti in un contesto caratterizzato dall’emergere delle nuove tecnologie dell’immagine il problema del riferimento si ripropone in modalità inedite. Nel momento in cui diviene incerto il confine tra spettacolo e realtà, si pone la questione di comprendere in che modo e a quali condizioni un’immagine possa ancora pretendere di riferirsi alla realtà. Il ricorso alla categoria di testimonianza consente a Montani di evitare gli opposti estremismi di un’opzione ingenuamente referenzialista – che non coglie la problematicità della nozione di realtà – e di un’opzione esasperatamente costruttivista – che si indirizza verso ambienti immersivi, che non lasciano spazio per alcun fuori campo. La linea teorica individuata e proposta da Montani si basa invece sul riconoscimento di un possibile incrocio tra istanza documentaria e istanza finzionale. È qui che interviene una delle categorie più interessanti elaborate da Montani, quella di intermedialità. La possibilità di autenticare le immagini, restituendo loro un valore testimoniale, passa infatti attraverso un complesso lavoro di montaggio tra i diversi formati mediali dell’immagine.

    In virtù di questo passaggio attraverso la filosofia della tecnica e i media studies anche i problemi kantiani vengono riorientati in una direzione tecno-estetica. Montani istituisce un legame essenziale tra immaginazione e tecnica, oltrepassando la lettera di Kant, ma in una direzione che lo stesso Kant sembra talvolta indicare. L’immaginazione – leggiamo in Tecnologie della sensibilità – ha «la tendenza ad esternalizzarsi in una tecnica». Questo processo di esteriorizzazione ha un effetto di ritorno: la relazione che il soggetto intrattiene con il mondo non è solo mediata da un sistema di tecniche, ma è istruita, guidata, potentemente riorientata dai dispositivi tecnici. In questo senso il rapporto tra l’immaginazione e il suo altro non si pone più soltanto nei termini di un’azione, bensì nei termini di una interazione. Montani sottrae così la riflessione trascendentale sull’immaginazione alle angustie del paradigma moderno della rappresentazione. L’immaginazione non può più essere intesa in termini soggettivistici, come attività di un soggetto che produce o domina un oggetto, proprio perché è essenzialmente interattiva: il che significa che interagendo con l’oggetto si lascia a sua volta determinare da ciò che manipola.

    Manipolare è un termine importante, che indica una direzione essenziale verso cui muove questa riflessione. Si deve intendere in questa parola il riferimento alla mano e dunque al corpo. L’immaginazione a cui pensa Montani, infatti, non è solo tecnica e interattiva, ma è anche essenzialmente incorporata. L’immaginazione interattiva è una manipolazione prima ancora che una rappresentazione.

    Si giunge così ad una decisiva riformulazione della terminologia kantiana. Accanto alla funzione riproduttiva e alla funzione produttiva – già individuate da Kant – trova posto un’inedita funzione interattiva. Questa funzione, «senz’altro la meno indagata», è determinata dal fatto che, mentre modifica l’ambiente con cui è in relazione, si lascia «guidare da ciò che vi trova» e proprio per questo può essere a buon diritto nominata come interattiva.

    La riflessione di Montani si iscrive nel solco della proposta garroniana, sulla scia non di un kantismo pedante, ma su quella – suggerita qui anche da Leonardo Amoroso – di una filosofia critica attenta alla dimensione antropologica e carnale del soggetto. L’estetica viene concepita non come filosofia dell’arte, ma come filosofia non speciale che riflette sulle condizioni di senso dell’esperienza. L’esemplarità dell’opera d’arte – la capacità cioè di attestare, nella contingenza di un’esperienza determinata, condizioni di senso valide per un’esperienza in genere – non è più garantita, ma richiede che se ne specifichi sempre di nuovo il significato. In questa sezione, la questione è discussa da Stefano Velotti, con una ricognizione dei nuovi contesti dell’arte, e da Giovanna Pinna, tramite la ricostruzione dei rapporti di Hegel con la modernità estetica.

    Montani privilegia l’idea, di matrice kantiana, di una filosofia come esercizio di un pensiero critico: non tanto risalimento a condizioni di possibilità che trascendono la contingenza, quanto ricerca, dall’interno dell’esperienza, delle sue condizioni di senso. Il contributo di Montani a una ricerca sul senso, di cui indichiamo ora le principali tappe, rimanda così alla rifondazione della filosofia trascendentale che ha luogo nella Critica della facoltà di giudizio. Tale percorso emerge nella tensione tra senso-sensatezza e senso-sensibilità.

    Il debito del linguaggio (1985) rinvia alla necessità di presupporre una condizione estetica di senso per garantire il riferimento dei significati linguistici. In dialogo con questo momento della riflessione di Montani sono il saggio di Romeo Bufalo – che ricostruisce nella filosofia italiana contemporanea alcune tappe della storia di scambi tra estetica, linguistica e semiotica – e quello di Silvana Borutti, la quale, all’incrocio tra schematismo kantiano e giochi linguistici wittgensteiniani, riflette sul rapporto tra seguire una regola e profilare il senso di un’immagine.

    In Estetica ed ermeneutica (1996) il progetto ermeneutico di ripensare la verità oltre la metafisica – non più adaequatio rei et intellectus, bensì a-letheia, dis-velamento assegnato alla storicità del suo manifestarsi – è collegato alla contingenza come orizzonte imprescindibile di qualsiasi istituzione di senso. È proprio sull’eredità, e sui limiti, della Destruktion heideggeriana della metafisica che si concentra il saggio di Maurizio Ferraris.

    Dalla riflessione sul senso-sensatezza Montani si volge, nei vent’anni successivi, all’indagine del senso-sensibilità. La sensibilità umana presenta il tratto specie-specifico di una illimitata apertura allo stimolo, tale da comportare il rischio di indistinzione tra segnale e rumore, ma disponibile anche alla progettazione di nuove forme di vita. L’estetica è ricondotta decisamente all’oggetto da cui deriva il suo nome, l’aisthesis: sensazione, sensibilità, sentimento e percezione, ma più profondamente ancora l’essere esposti al mondo tramite un commercio creativo e rielaborativo.

    La rielaborazione dell’esperienza è pertanto, giocoforza, una costante della riflessione di Montani. Si tratta di un concetto di derivazione freudiana, la cui portata teorica è ampliata dal campo della psicoanalisi a un ambito d’applicazione più vasto: la ricostruzione di un’esperienza, anche traumatica, attraverso la condivisione e la riattivazione dei processi di interazione con il mondo. Tale riformulazione si muove tra due poli principali: da una parte il lavoro del lutto, teorizzato da Freud in Lutto e melanconia (1917); dall’altra la rielaborazione propriamente detta, o Durcharbeitung, nozione che emerge nello scritto freudiano Ricordare, ripetere e rielaborare (1914). Montani fa riferimento soprattutto al secondo concetto. La rielaborazione costituisce un momento del setting analitico in cui l’interpretazione proposta dallo psicoanalista rifluisce nel vissuto del paziente, il quale ne conferma o ne respinge la validità, dandole il carattere di interpretazione sentita. Collegandole alla rifigurazione del mondo, teorizzata da Paul Ricoeur in Tempo e racconto (1981-85), Montani valorizza gli aspetti produttivi, anche schiettamente finzionali, di tali forme di ricostruzione della realtà, appunto oltre il campo della psicoanalisi. Sono tutte le forme di «drammaturgia della realtà» (di cui parla Costanza Quatriglio nel colloquio qui riportato): il «cinema del reale»; l’uso intermediale delle immagini, in cui si rendono disponibili nuove modalità del testimoniare; ma anche esperimenti come Memofilm, fortemente orientati all’intreccio tra rielaborazione individuale e condivisione intersoggettiva. Questa linea di pensiero risuona, tra i saggi qui presentati, nella proposta di Herman Parret di un’etica della ragione incarnata nel sentimento comune.

    A partire da Bioestetica (2007) la riflessione di Montani sulle forme di rielaborazione dell’aisthesis si apre a un dialogo con la biopolitica. Il confronto con la filosofia pratica risale già all’importante seminario sulle interpretazioni dell’Antigone, documentato dal volume collettivo Antigone e la filosofia (2001). Ma solo con Bioestetica – e non senza aver ripensato nei volumi collettivi Arte e verità (2002) e L’estetica contemporanea (2004) la rottura moderna dell’alleanza di arte e tecnica e le sue riconfigurazioni contemporanee – tale confronto assume connotati precisi. All’originaria esposizione della sensibilità umana alla progettazione di senso corrisponde una predisposizione alla «delega tecnica». Montani la concepisce secondo due direttrici. La prima, basata sul governo del biopotere, rinvia a forme di «canalizzazione dell’esperienza». La seconda, prevedendo una biopolitica affermativa, rimanda a forme di prolungamento dell’esperienza, che trovano la loro ultima configurazione nelle tecnologie della sensibilità. Con tale esito del pensiero di Montani dialoga il saggio di Enrica Lisciani-Petrini, che ne sottolinea il legame con la riflessione merleau-pontiana sulla «carne del mondo». La nozione di carne ritorna in Montani nel confronto con l’analisi di Simondon sui processi di individuazione, attraverso cui il soggetto si colloca nell’intreccio tra il mondo e la sua stessa soggettività.

    Immaginazione, riferimento, testimonianza, rielaborazione, sensibilità: sono alcuni dei problemi che Montani ha affrontato. Problemi impegnativi e diversi, eppure, nella loro diversità, legati da una unità profonda, che è quella che la sezione restituisce.

    Un’esperienza di Kant

    (secondo Robert Gernhardt)

    Leonardo Amoroso

    Come mio contributo per festeggiare il collega e amico Pietro Montani desidero proporre alcune considerazioni[1] a proposito di una poesia umoristica di Robert Gernhardt[2] in cui viene descritta una singolare «esperienza» di Kant. Analizzando questa poesia, o prendendo spunto liberamente da essa, chiamerò anche in causa temi e testi dello stesso Kant[3]. Ma per cominciare, come primo approccio a Gernhardt, si può invece prendere le mosse da una sua poesia in cui pure compare Kant, ma, in questo caso, non – come nell’altra – nelle vesti di protagonista assoluto, bensì solo come uno dei vari personaggi.

    In questa poesia Gernhardt mette in scena un’allegra compagnia di filosofi, ognuno dei quali propone che si beva ancora un bicchiere. Tale gioco al rilancio ha una funzione simile, come motore di un processo, a quello che può avere in filosofia lo schema di tesi, antitesi e sintesi. Se quest’ultima può diventare a sua volta tesi di una nuova triade, e così via, analogamente il giro delle bevute può anch’esso continuare indefinitamente, almeno secondo l’invito finale fatto pronunciare (come vedremo subito) da Adorno. Dall’analogia o piuttosto parodia suddetta deriva il titolo stesso della poesia: Theke – Antitheke – Syntheke, che ricalca appunto la triade These – Antithese – Synthese. Ma per apprezzare la cosa, bisogna sapere che Theke significa, in tedesco, «bancone» (anche) di un bar, dove si serve appunto da bere. Antitheke e Syntheke sono invece neologismi scherzosi coniati per l’occorrenza da Gernhardt e non hanno altro significato se non quello che deriva loro, al modo che si è detto, dal contesto.

    Nella poesia si trovano poi anche altre parole inventate o, più precisamente, storpiate, per poter stare in rime baciate (dall’effetto particolarmente comico) con nomi di illustri filosofi. Così, per rimare con Husserl, Schluss («fine») diventa Schlusserl, sie («li») perde la i in modo da poter rimare, dopo un du («tu»), con Marcuse o, ancora, vorne («avanti») viene alterato in vorno per rimare con Adorno. E per trovare (cosa non facile) una rima con Nietzsche, Gernhardt ricorre a un improbabile Gequietsche (qui da intendersi – suppongo – nel senso delle risatine di gioia che fanno i bambini). Ma ecco la poesia:

    Theke – Antitheke – Syntheke

    Beim ersten Glas sprach Husserl:

    ,,Nach diesem Glas ist Schlusserl."

    Ihm antwortete Hegel:

    ,,Zwei Glas sind hier die Regel."

    ,,Das kann nicht sein", rief Wittgenstein,

    ,,Bei mir geht noch ein drittes rein."

    Worauf Herr Kant befand: 

    ,,Ich seh ab vier erst Land."

    ,,Ach was", sprach da Marcuse,

    ,,Trink ich nicht fünf, trinkst du se."

    ,,Trinkt zu", sprach Schopenhauer, 

    ,,Sonst wird das sechste sauer."

    ,,Das nehm ich", sagte Bloch, 

    ,,Das siebte möpselt noch."

    Am Tisch erscholl Gequietsche, 

    still trank das achte Nietzsche.

    ,,Das neunte erst schmeckt lecker!" 

    ,,Du hast ja recht, Heidegger",

    rief nach Glas zehn Adorno: 

    ,,Prost auch! Und nun von vorno!"[4]

    Abbozziamo una traduzione che non ha pretese letterarie, né tenta di ricreare in italiano giochi di parole simili a quelli dell’originale, ma ha il solo scopo di agevolare la comprensione letterale del testo (anche se non è certo il senso letterale, ma invece l’effetto comico, «giocato» sulle rime e, in generale, sul piano del significante, ciò che più conta in questo tipo di componimenti)[5]:

    Al primo bicchiere disse Husserl: / «Dopo questo, basta». / Gli rispose Hegel: / «Qui la regola sono due». / «Non può andare così», esclamò Wittgenstein, / «A me ce n’entra ancora un terzo». / Al che il signor Kant sentenziò: / «Solo dal quarto io vedo terra». / «Macché» disse allora Marcuse, / «Se non ne bevo cinque io, li bevi tu». / «Bevete alla salute» disse Schopenhauer, / «se no il sesto diventa acido». / «Lo prendo io», disse Bloch, / «Il settimo sa ancora di tappo». / A tavola squillarono risa, / alla chetichella Nietzsche aveva bevuto l’ottavo. / «Solo il nono dà veramente gusto» / «Hai ragione, Heidegger», / dopo il decimo bicchiere esclamò Adorno: / «Salute anche a voi! E ora daccapo!».

    Per quanto riguarda il distico dedicato a Kant si può osservare la felice presenza di due espressioni consone al suo lessico. Fra i verba dicendi usati per i vari personaggi, quello adoperato per Kant è befinden, quasi sinonimo di urteilen («giudicare») e beurteilen («valutare») e dunque particolarmente adatto al filosofo della critica. L’altra espressione felice è Land sehen («veder terra»), una metafora marinaresca simile a quelle che si trovano di frequente nel lessico del filosofo di Königsberg, importante città portuale[6].

    A livello di contenuto, l’effetto comico di questa poesia deriva in gran parte dal contrasto fra i nomi illustri dei personaggi e la scena pedestre (in questo caso, propriamente, da taverna). La cosa è sottolineata – e il contrasto con i nomi illustri aumentato – dal ricorso a espressioni del parlato, se non addirittura di gergo colloquiale (Umgangssprache). Si tratta di una tecnica tipica di Gernhardt. La ritroviamo anche nella poesia dedicata a Kant, che rientra, più precisamente, in un ciclo di tre episodi intitolato Kleine Erlebnisse grosser Männer (Piccole esperienze di grandi uomini). Ma qui prescindiamo dal secondo e dal terzo episodio, che hanno come protagonisti, rispettivamente, Bismarck e Steiner (e quest’ultimo in colloquio con Mann, Kafka e Hesse) e riportiamo solo il primo episodio, dedicato all’esperienza di Kant:

    Eines Tags geschah es Kant,

    dass er keine Worte fand.

    Stundenlang hielt er den Mund,

    und er schwieg, nicht ohne Grund.

    Ihm fiel absolut nichts ein,

    drum ließ er das Reden sein.

    Erst als man zum Essen rief,

    wurd’ er wieder kreativ,

    und er fand die schönen Worte:

    ,,Gibt es hinterher noch Torte?"[7].

    Anche in questo caso abbozziamo una traduzione letterale, senza pretese letterarie:

    Un giorno capitò a Kant / di non trovar parole. / Per ore tenne la bocca chiusa / e tacque, non senza motivo. / Non gli veniva in mente assolutamente nulla, / per questo smise di discorrere. / Solo quando chiamarono a pranzo / tornò a essere creativo / e trovò le belle parole: / «C’è anche la torta, dopo?».

    Questa poesia, come molte fra le prime di Gernhardt, riprende la tradizione del nonsense e, più precisamente, il modello del limerick[8], mediato da quello del clerihew[9], cioè una brevissima poesia umoristica dedicata a un personaggio famoso nominato nel primo verso[10]. La storiella raccontata da questi versi può essere anche considerata – come suggerisce una studiosa – come la parodia degli aneddoti in cui personaggi celebri pronunciano sentenze memorabili[11]: la parodia consiste ovviamente nel fatto che queste «belle parole» non sono propriamente di quelle che vale la pena di ricordare e di citare. Con un altro critico si può inoltre dire che qui l’autore gioca con l’aspettativa prodotta da un nome famoso[12].

    Ora, a parte il riferimento (peraltro decisivo in Gernhardt) ai nomi, l’idea che il comico sia un gioco con un’aspettativa che si risolve in nulla[13] è esattamente la concezione sostenuta da Kant (come peraltro Gernhardt ben sa)[14]. Concludendo la parte della terza Critica dedicata all’arte e alle arti, Kant dedica una nota[15] a quelle arti che propriamente non meritano di essere dette belle, ma solo gradevoli, dato che si rivolgono alla mera sensazione (Empfindung) e quindi al soddisfacimento (Vergnügen) e non a un compiacimento (Wohlgefallen) che si fondi invece sulla valutazione (Beurteilung), com’è il caso dei giudizi estetici di riflessione[16]. Anche in queste arti si ha a che fare con un «libero gioco» (come nei giudizi di gusto)[17], ma soltanto – appunto – nel senso di un «libero gioco delle sensazioni». «Libero» qui significa, più precisamente, «alterno». È per questo che il gioco delle sensazioni «soddisfa», giacché «promuove il sentimento della salute», «la vitalità», il «benessere corporeo»[18]. Forme di questi giochi sono il «gioco di fortuna», il «gioco di suoni» e il «gioco di pensieri». Qui c’interessa il terzo, il Gedankenspiel. In esso c’è, a dire il vero, un riferimento (come peraltro anche nel secondo)[19] alle «idee estetiche»[20], tuttavia questo riferimento non è fatto in vista della riflessione intellettuale (nel qual caso si tratterebbe di arti belle), ma interessa solo per la sua ricaduta sensibile, anzi corporea.

    La definizione di Kant suona: «Il riso è un affetto che scaturisce dall’improvviso trasformarsi in nulla della tensione di un’aspettativa»[21]. Ed ecco la spiegazione: se la «nostra aspettativa era tesa e all’improvviso svanisce nel nulla»[22], ovvero se «ciò che teneva tirata la corda è saltato d’improvviso», questo provoca una «oscillazione» della corda medesima. «L’idea» che stavamo «inseguendo», ovvero aspettando, ci sfugge, anzi, si scopre che non esisteva, tuttavia il suo fantasma, se così si può dire, «è come una palla che buttiamo ancora per un po’ di tempo di qua e di là, mentre vorremmo solo afferrarla e tenerla ferma»[23], il che è ovviamente impossibile. In conformità al suo tentativo di riportare l’effetto del riso a un piacere corporeo, Kant spiega poi, in modo fisiologico, questa oscillazione collegandola a movimenti corporei involontari e al tempo stesso vivificanti[24]. A conclusione di questo suo interessante excursus, Kant definisce, a livello terminologico, «maniera umoristica [launichte Manier]» o «umore [Laune] in senso buono» «il talento di potersi mettere volontariamente in una disposizione d’animo nella quale tutte le cose vengono valutate in modo diverso dal solito (perfino all’incontrario) e tuttavia in conformità a certi principi della ragione inerenti a tale disposizione d’animo»[25].

    La spiegazione kantiana del Gedankenspiel comico come il risolversi improvvisamente in nulla di un’aspettativa può bene applicarsi alla poesia di Gernhardt su Kant stesso: in particolare il penultimo verso (und er fand die schönen Worte) produce l’aspettativa di parole davvero belle, «epiche», che superino in maniera degna il grave incidente drammatico dell’afasia del protagonista. Ma tutto si risolve appunto «in nulla», ovvero non certo in modo epico. Ma se questo è vero, allora Kant (almeno per come lo stiamo qui «giocando») si prende quasi una rivincita su Gernhardt: era stato messo in burletta, nonostante la sua grande statura di filosofo, e si rivela invece capace di spiegare i trucchi comici del poeta.

    A ben vedere, l’esito comico della poesia di Gernhardt è già in parte suggerito dal distico precedente, ovvero dal fatto che vi si annunci che Kant tornò a essere «creativo» quando lo chiamarono a pranzo. Da questa circostanza vogliamo prendere le mosse per toccare, ma con un nesso a sua volta più «creativo» (e dunque meno stringente) con la poesia, un altro tema kantiano. Si tratta di un tema, fra l’altro, non privo di rapporti con quello dei giochi (di pensieri, ma anche di suoni e di fortuna) appena discusso, se è vero, come dice Kant, che senza questi «giochi non potrebbe quasi esserci intrattenimento» e quindi «soddisfacimento» nelle nostre «serate in compagnia [Abendgesellschaften[26]. Ma un ingrediente (è proprio il caso di dirlo) certo non meno importante di tali serate è bere e mangiare insieme, insomma la convivialità. Ecco il tema che vogliamo ora toccare[27]. Esso rivela, come vedremo, che per Kant gradevole, bello e buono, per quanto ben distinti[28], sono però anche significativamente collegati.

    Del valore della convivialità Kant è un deciso assertore soprattutto in sede di antropologia e, più precisamente, nella sede di un’antropologia «pragmatica», tale, cioè, che consideri ciò che l’uomo «fa ovvero può e deve fare di se stesso» (e «non ciò che la natura fa di lui», cosa che costituisce invece il tema dell’antropologia «fisiologica»)[29]. Nell’opera dedicata a questo tipo di antropologia (un’opera in cui Kant si rivela per tanti aspetti, e più che in altre opere, uomo del suo secolo), si legge per esempio: «Non vi è situazione in cui sensibilità e intelletto si accordano in un godimento che possa essere protratto tanto a lungo, e ripetuto tanto spesso con piacere, come un buon pranzo condiviso con una buona compagnia [Gesellschaft]»[30]. È probabilmente per questo – osserva – che la parola «gusto», che indica propriamente solo un organo sensibile, viene usato metaforicamente, in varie «lingue moderne», anche per indicare il gusto estetico del bello: il piacere sensibile del primo, in quanto comunque collegato a un incremento della socievolezza (Geselligkeit)[31], funge da analogon del sentimento del bello[32], con la sua caratteristica pretesa alla comunicabilità intersoggettiva[33].

    Kant torna poi sul tema della convivialità in un altro luogo di quest’opera di antropologia. È un luogo importante, perché è il paragrafo che conclude la parte dedicata al Begehrungsvermögen («facoltà di desiderare» o «facoltà di appetire») e, con essa, l’analisi delle facoltà dell’animo. Questo paragrafo porta il titolo, assai impegnativo, Del sommo bene fisico-morale[34]. A dire il vero – esordisce Kant –, «le due specie di bene, quello fisico e quello morale, non possono venire mescolate insieme». Tuttavia, è auspicabile una loro proporzione ottimale, ovvero «il godimento di una felicità educata a costumi morali». Rivela «umanità [Humanität]» chi è capace di determinare e praticare tale «unificazione fra il benessere e la virtù nelle relazioni con altri»[35]. Nel seguito Kant ribadisce che «la forma di benessere che sembra ancor sempre accordarsi al meglio con l’umanità è un buon pranzo in buona compagnia (e, se possibile, anche varia)»[36], dove evidentemente si va ben al di là del mero piacere del cibo.

    Ma anche più importante per un possibile rapporto con la poesia di Gernhardt è un’osservazione, alquanto singolare, che si trova poco più avanti, sempre in questo paragrafo. Kant sconsiglia i filosofi da una pratica che egli etichetta anche con un’improbabile espressione latina: «Mangiare da solo (solipsismus convictorii) non è salutare per un dotto che si occupi di filosofia». Infatti, precisa Kant, «colui che filosofa deve continuamente portarsi appresso i suoi pensieri» per riuscire a dar loro una forma idonea. Se è solo a pranzo, egli «non si ristora», ma «si consuma nel pensare mentre pranza in solitudine», e il pasto stesso rischia di diventare «una gozzoviglia solitaria». Se invece egli si trova in buona compagnia, mangiare e pensare possono stare in una felice armonia: invece della «fatica logorante» descritta, si produce «un gioco dei pensieri che vivifica», dato che il filosofo «riacquista» il suo «buon umore [Munterkeit]» quando un commensale, con le sue varie trovate, gli offre per rianimarlo nuovo materiale che egli stesso non avrebbe saputo scovare»[37].

    Qui ritroviamo dunque anche il tema del «gioco di pensieri» e del riso[38] che abbiamo utilizzato come strumento per analizzare la poesia di Gern-hardt. Ma troviamo anche qualcos’altro di ancora più interessante, dato che potrebbe suggerire che forse non è affatto un caso che – stando alla poesia – Kant ritrovi la parola proprio quando lo si chiama a tavola. Il passo di Kant (confermato dalla testimonianza del suo principale biografo)[39] ci consente di supporre che il pranzo a cui – nella poesia – viene chiamato sia appunto un pranzo in compagnia. Ritocchiamo allora così – con un pizzico di libertà ermeneutica – la scena: Kant forse non trovava più parole perché stava cominciando ad aggrovigliarsi nei suoi pensieri, e intanto perdeva il buon umore. Ma ecco che il fedele cameriere Lampe (si sarà trattato senz’altro di lui) lo chiama a pranzare in compagnia. E allora Kant, già solo «pregustando» (è proprio il termine giusto) la situazione che lo farà uscire dai suoi rovelli, ridandogli, insieme al ristoro fisico, l’allegria e magari perfino qualche spunto utile per uscire dal blocco intellettuale, ritrova la parola.

    Tentiamo ora, in conclusione, un passo ulteriore, che richiede – avvertiamo subito – ben più che «un pizzico di libertà ermeneutica», trattandosi di un’interpretazione metaforica alquanto spericolata, la quale si prenderà anzi la libertà, traendo spunto dai versi scherzosi di Gernhardt, di scherzare anch’essa. Ripartiamo dal titolo del paragrafo appena citato. Il «sommo bene» come adeguata proporzione di virtù e felicità (sensibile) non può essere, in sede di antropologia pragmatica, altro che un desideratum o, al massimo, un compromesso soddisfacente. Altrimenti vanno le cose in sede di filosofia pratica (cioè morale in senso stretto), dove la ragione appunto pratica non può non far valere il concetto di un «sommo bene», nel senso, più precisamente, di un bene che sia non solo «supremo» (tale è la «virtù» da sola), ma anche «compiuto» (accoppiando quindi alla «virtù» la «felicità»)[40].

    Di qui la dottrina kantiana dei due «postulati» della ragione pratica, l’«immortalità dell’anima» e «l’esistenza di Dio»[41], che rendano appunto possibile la realizzazione del sommo bene (ma non certo in questa vita, né in pranzi conviviali). La necessità di questi postulati permette, secondo Kant, «un’estensione della ragion pura in funzione pratica, senza che con questo si estenda la conoscenza di essa come ragione speculativa»[42], ossia – come dicono tutti i manuali – riapre, ma solo da un punto di vista pratico, quella porta del soprasensibile (ovvero della dimensione metafisica) che per la ragione teoretica era – e resta – invece inesorabilmente chiusa.

    Non sempre Kant l’aveva pensata così: da giovane, come seguace della metafisica razionalistica di Wolff e Baumgarten, egli riteneva perfettamente possibile parlare, in sede di filosofia teoretica, dell’anima e di Dio. Ma poi incontrò lo scettico Hume – lo ricorda lui stesso e lo riportano, anche questo, tutti i manuali – e fu così svegliato dal «sonno dommatico»[43], pur restando convinto che «l’esigenza metafisica» non può «neppure andar mai perduta», «giacché le è intimamente connesso l’interesse della universale ragione umana»[44]. Di qui il grandioso e laboriosissimo compito appunto di una critica della ragione nei suoi vari profili: ragione teoretica, ragione pratica, etc.[45]

    A questo punto si sarà intuito quale sia l’interpretazione spericolata con cui vogliamo giocare. L’afasia da cui Kant è preso, secondo la poesia, potrebbe magari essere quella dei tanti «anni del silenzio» (la letteratura critica li chiama spesso proprio così), durante i quali Kant, ormai risvegliato dal sonno dogmatico della vecchia metafisica, ma non per questo disposto ad assumere un atteggiamento scettico o agnostico, lavora alla sua critica trascendentale, con la quale ritroverà poi anche un accesso, attraverso la via pratica, alla dimensione del soprasensibile.

    Più difficile interpretare metaforicamente, secondo questa linea, la «chiamata»: anziché a tavola, a mangiare, ci starebbe bene, semmai, una chiamata della coscienza ad agire bene, secondo quella legge morale che parla in ogni uomo. Ci si può forse arrivare – certo attraverso vari passaggi – a partire dall’interpretazione morale che Kant dà del passo biblico secondo cui, dopo il peccato e la cacciata, Dio dice al «primo uomo» che deve «lavorare, se [] vuol mangiare»[46].

    Ma, una volta superato questo scoglio ermeneutico, l’interpretazione della torta, o meglio della speranza di una torta hinterher, viene invece facilissima: sarà metafora del noumeno «dietro» al fenomeno, ma lo sarà, più precisamente, solo da un punto di vista pratico, nel senso della speranza di un sommo bene «compiuto» (comprendente anche la felicità insieme alla virtù), quale ci si può attendere, «dopo» questa vita, per chi l’abbia condotta bene. Ecco come Kant recupera l’esigenza metafisica irrinunciabile della ragione, che mira al soprasensibile. Si vede, per citare di nuovo l’altra poesia di Gernhardt, che egli ormai ha «visto terra», avendo già bevuto il «quarto» bicchiere. Infatti «il bere – lo dice lui stesso – scioglie la lingua» e «apre anche il cuore»[47].

    [1] Ringrazio Donatella Bremer, Alberto L. Siani e Paola Vitaloni, che mi hanno dato stimoli e consigli preziosi.

    [2] Dato che questo autore è pochissimo noto nel nostro paese (mentre lo è molto in Germania), converrà dare qualche sia pur rapida notizia su vita e opere. Nato nel 1937 in Estonia, a Tallinn (ted. Reval), da genitori tedeschi, Robert Gernhardt ha vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale in Germania, dove ha studiato pittura e germanistica. Dal 1964 ha abitato a Francoforte, dove è stato redattore delle riviste satiriche «Pardon» e poi «Titanic» (organo degli autori della cosiddetta «Nuova Scuola di Francoforte»). La sua opera letteraria è iniziata, negli anni Sessanta e Settanta, con poesie nonsense, ma Gernhardt si è cimentato anche in altre forme del comico (e non solo). È stato anche disegnatore di vignette umoristiche e autore di testi illustrati (cfr. Vom Schönen, Guten, Baren, 1997). Ha scritto la sceneggiatura del film Otto, 1985, che ha riscosso un enorme successo, e una pièce teatrale, Die Toskana-Therapie, 1986 (in Toscana, e più precisamente nella sua casa vicino ad Arezzo, Gernhardt ha trascorso lunghi periodi). Al genere comico ha anche dedicato saggi teorici (Was gibt’s denn da zu lachen?, 1988). Dall’esperienza di una grave malattia cardiologica è invece nata la raccolta di poesie Herz in Not, 1996. Gernhardt è morto a Francoforte nel 2006.

    [3] Nei rimandi alle opere di Kant verrà utilizzata l’Akademie-Ausgabe, indicata con la sigla AA e seguita da un numero romano per il volume e da un numero arabo la pagina.

    [4]R. Gernhardt, Gesammelte Gedichte, 1954-2006, Fischer, Frankfurt a.M. 20082, pp. 854-55. La poesia è stata pubblicata per la prima volta nella raccolta Im Glück und anderswo, 2002.

    [5]Traduce in versi e rime baciate e riesce anche a ricreare qualche gioco di parole con i nomi dei filosofi, Donatella Bremer, Quando il nome è un gioco. L’esempio di Robert Gernhardt [in corso di stampa]. Per la traduzione del titolo, Bremer ipotizza un neologismo che renda il doppio statuto di pensatorie insieme bevitori dei protagonisti: Dissetazioni (sic!) filosofiche.

    [6]Cfr. per es. un famoso incipit di capitolo nella Kritik der reinen Vernunft, 17872: B 294-95, tr. di A.M. Marietti: Critica della ragione pura, Rizzoli, Milano 1998, p. 366.

    [7]R. Gernhardt, Gesammelte Gedichte, cit., p. 47. La poesia è stata pubblicata per la prima volta nella raccolta Besternte Ernte, 1976.

    [8]Si tratta, com’è noto, di un tipo di componimento poetico inglese: il contenuto è appunto nonsense, la forma è regolata da precise regole metriche. Fu reso popolare da Edward Lear (The Book of Nonsense, 1846). Ma il nome limerick è successivo, e deriva (forse) da quello della cittadina irlandese di Limerick, talvolta menzionata in queste poesie.

    [9]Così chiamato dal nome del suo inventore, Edmund Clerihew Bentley (1875-1956).

    [10]Cfr. Bremer, op. cit.

    [11]Cfr. K. Hoffmann-Monderkamp: Komik und Nonsens im lyrischen Werk Robert Gernhardts. Annäherungen an eine Theorie der literarischen Hochkomik, Dissertation Universität Düsseldorf, 2001, p. 122, che argomenta anche che a questo genere letterario rimandano le frasi stereotipate (significativamente introdotte entrambe da und) del quarto e del nono verso.

    [12]Cfr. T. Eilers, Robert Gernhardt. Theorie und Lyrik. Erfolgreiche komische Literatur in ihrem gesellschaftlichen und medialen Kontext, Waxmann, Münster 2011, p. 354.

    [13]Si tratta palesemente di una forma specifica del classico aprosdòketon.

    [14]Cfr. R. Gernhardt, Zehn Thesen zum komischen Gedicht nel volume da lui curato (insieme a Klaus Cäsar Zehrer) Hell und schnell, Fischer, Frankfurt a.M. 2004, p. 13.

    [15]Questa nota della Kritik der Urteilskraft, 1790, è numerata, nell’edizione dell’Accademia (ma non in altre edizioni) come § 54. Da essa sono tratte, salvo diverse indicazioni, le citazioni che seguono.

    [16]Cfr. AA V 330, tr. di L. Amoroso: Critica della capacità di giudizio, Rizzoli, Milano 19982, p. 487.

    [17]Cfr. ivi, § 9, AA V 217, tr. cit., p. 201.

    [18]Cfr. AA V 331, tr. cit., p. 489.

    [19]Ma fuoriesce dal nostro argomento il complesso problema della concezione kantiana della musica.

    [20]Cfr. AA V 331-32, tr. cit., p. 491.

    [21]AA V 332, tr. cit., p. 493.

    [22]AA V 333, tr. cit., p. 495.

    [23]AA V 333, tr. cit., p. 497.

    [24]Cfr. AA V 334, tr. cit., pp. 497-99, dove Kant parla di «un alternarsi di tensione e rilassamento delle parti elastiche delle nostre viscere che si comunica al diaframma (qualcosa di simile al solletico, per chi lo soffre), mentre il polmone butta fuori l’aria a intervalli velocemente susseguentisi».

    [25]AA V 335-36, tr. cit., pp. 501-503. Quando la cosa accade involontariamente e non per un fine (quello di far ridere o sorridere) si ha non un’esposizione launicht («umoristica»), ma – soggiunge Kant – una personalità launisch («umorale», lunatica).

    [26]AA V 331, tr. cit., p. 491.

    [27]Cfr. Gabriele Tomasi, Un bicchiere con Hume e Kant. Divertissement estetico-metafisico, Edizioni ETS, Pisa 2010, pp. 142-48, di cui tengo ampio conto.

    [28] I. Kant, Kritik der Urteilskraft, § 5, AA 209-210, tr. cit., p. 165-67.

    [29]Cfr. Idem, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798, 18002), Vorrede, AA VII 119, tr. di G. Garelli: Antropologia dal punto di vista pragmatico, Einaudi, Torino 2010, p. 99.

    [30]Ivi, § 67 Anm., AA VII 242, tr. cit., p. 247.

    [31]Ibidem. Cfr. anche Ivi § 22, AA VII 159, tr. cit., p. 149, dove Kant osserva che tra i «sensi del godimento», il gusto, a differenza dell’olfatto, «ha il privilegio peculiare di favorire la dimensione sociale [Geselligkeit]».

    [32]Cfr. ivi, § 67, Anm., AA VII 242, tr. cit., p. 247. Ancora più notevole – aggiunge Kant subito dopo – è il passaggio metaforico dal sapor alla sapientia.

    [33]Il tema percorre tutta la terza Critica, dal primo al quarto momento dell’Analitica del bello, dalla Deduzione alla Dialettica.

    [34]È il § 88 dell’Anthropologie…, dal quale sono tratte, salvo diversa indicazione, le citazioni che seguono.

    [35]A VII 277, tr. cit., p. 287.

    [36]A VII 278, tr. cit., p. 288.

    [37]Cfr. AA VII 279-280 e nota, tr. cit., p. 290 e nota.

    [38]Se ne parla più esplicitamente subito dopo: cfr. AA VII 280-81, tr. cit., p. 291.

    [39]Cfr. Ludwig Ernst Borowski, Darstellung des Lebens und Charakters Immanuel Kants, 1804, tr. di E. Pocar: Descrizione della vita e del carattere di Immanuel Kant in Aa.Vv., La vita di Immanuel Kant narrata da tre contemporanei, Laterza, Bari 1969, pp. 50-51.

    [40]Kant, Kritik der praktischen Vernunft, 1788, A V 110-111, tr. di A.M. Marietti: Critica della ragion pratica, Rizzoli, Milano 1992, pp. 373 sg.

    [41]Cfr. AA V 122 sgg. e 124 sgg., tr. cit., pp. 403 sgg. e 409 sgg.

    [42]AA V 134, tr. cit. p. 433.

    [43]Idem, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, 1783, AA IV 260, tr. di P. Carabellese riv. da H. Hohenegger: Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 13.

    [44]AA IV 257, tr. cit., p. 7. Che l’intento di Kant non sia certo quello di accantonare semplicemente la metafisica lo dimostra già il titolo stesso dell’opera da cui stiamo citando.

    [45]Lo «etc.» allude naturalmente a quella sorta di «ragione estetica» che è la Urteilskraft e quindi a quel completamento (ma anche approfondimento) dell’impresa critica che è l’opera dedicata a questa facoltà.

    [46]Idem, Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, 17942, AA VI 73, tr. di A. Poggi riv. da M.M. Olivetti: La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 78 nota. E cfr. Gen 3, 17-19.

    [47]Idem, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, § 29, AA VII 171, tr. cit., pp. 164.

    Sull’opera d’arte

    nell’epoca del controllo tecnico

    Stefano Velotti

    […] gli irrisolti antagonismi della realtà

    ritornano nelle opere d’arte come problemi

    immanenti della loro forma.

    Theodor W. Adorno, Teoria estetica.

    Etica della forma

    L’esergo adorniano è ricordato da Pietro Montani in un suo libro di alcuni anni fa[1], proprio nelle pagine dedicate ad analizzare la soglia ultima dell’estetica e dell’arte moderne. Oltre quella soglia si apre un territorio inedito tutto da esplorare, un territorio in cui «la tecnica e il biopotere stanno ridisegnando – e soprattutto anestetizzando – i connotati dell’umano»[2]. Adorno, quale protagonista «dell’ultima grande riflessione estetica della modernità», riconosce infatti a quelle estreme forme d’arte «negative», che prendono su di sé la crisi del senso, ancora un carattere di esemplarità[3]. Erede della concezione kantiana dell’arte, tale esemplarità assume in Adorno – di fronte alla totalità strumentalmente amministrata della società capitalistica – un ruolo antagonistico e resistenziale di autenticità. Ma è proprio l’esaurirsi di tale ruolo esemplare dell’arte, sostiene Montani, che segna la soglia che Adorno non ha saputo varcare.

    Non si tratta, però, di dolersi di tale esaurimento dell’esemplarità dell’opera e della riflessione estetica che vi corrisponde, né di liquidarle interamente entrambe, ma di aprire quella riflessione ad «altri oggetti, altre emergenze, altre possibili figure di una sensibilità carnale [che] già vanno profilando nello spazio che fu il suo [dell’arte] i tratti di un’etica della forma capace di contrastare dall’interno il programma anestetico del dispositivo tecnico globale»[4].

    Se dunque quell’esergo adorniano resta valido, occorre però riconoscere negli «irrisolti antagonismi della realtà» qualcosa a cui Adorno, a differenza di Benjamin, non era sensibile, vale a dire l’emergere di una pervasiva realtà tecnica, da non intendere in senso strumentale, ma come il nostro effettivo mondo-ambiente.

    Ed è in questo riconoscimento che si colloca l’esigenza di un’«etica della forma», delineata ripetutamente nelle riflessioni di Montani. Se si resta fedeli all’esergo adorniano, infatti, non si tenterà di recuperare la dimensione etica dell’arte e della letteratura guardando al contenuto più o meno edificante delle opere d’arte (come si è fatto negli ultimi decenni soprattutto in ambito analitico[5]): bisogna guardare invece innanzitutto al sedimentarsi del contenuto nella forma dell’opera (anche se di opera, come vedremo, non è più lecito parlare nella riflessione più recente di Montani). Una forma che implichi una dimensione etica all’altezza dei tempi è una forma che costringe a elaborare autonomamente (nel senso del durcharbeiten freudiano[6]) i processi di individuazione inediti a cui ci sfidano, appunto, le nostre forme di vita capillarmente intessute dalle nuove tecniche. E innanzitutto sotto i profili più evidenti dell’immersività e dell’interattività, che sono i due caratteri salienti, universalmente riconosciuti, dell’inedito ambiente elettronico che caratterizza le nostre vite.

    Riformulando l’esergo da Adorno alla luce del nuovo quadro teorico: la forma delle opere-prodotti o le forme della nostra vita – forma e forme caratterizzate dall’avvolgerci immersivamente e dal costringerci a un’interazione più o meno preordinata con esse – sono i «problemi immanenti» alle opere-prodotti che tendono non solo a «ritornare» in essi dagli «irrisolti antagonismi» della realtà, ma a fondersi con la realtà stessa, se questa viene riconosciuta – come Adorno non è stato in grado di fare – come una forma di vita essenzialmente caratterizzata da tecniche molto complesse.

    Bisogna allora intendersi sui due termini-chiave di immersività e interattività: il primo sta a indicare una modalità di relazione con il mondo che è tendenzialmente opposta a quella rappresentazionale o simbolica, mentre la seconda indica un’opposizione tendenziale a un atteggiamento contemplativo o riflessivo.[7] Ma è proprio nello specificare i caratteri di queste due nuove modalità dominanti del nostro rapporto con il mondo che si gioca la partita di un’etica della forma. L’immersività non dovrà risolversi in una pseudo-esperienza simulacrale, tipica della realtà virtuale, (o, per altri versi, di certi parchi a tema, o anche di certe opere-installazioni tendenti a trasformarsi in luna park sensazionali) ma dovrà semmai aumentare le relazioni che intratteniamo con il mondo reale (non solo in termini percettivi, ma anche sociali: una realtà sensibile-sociale aumentata). Per quanto riguarda il secondo termine-chiave, l’interattività, Montani distingue ben cinque livelli di crescente complessità – che qui non posso commentare – i quali marcherebbero, ciascuno con le proprie modalità, una differenza specifica rispetto a quella «cooperazione interpretativa» che ogni testo e ogni opera – anche la più tradizionale – richiede al lettore-fruitore-spettatore-visitatore, fino a farne un vero e proprio «utente» che arrivi a «modificare la matrice del programma, esponendo l’ipertesto a un destino radicale che lo altera fino a farlo diventare un’altra cosa»[8].

    Il problema di un’etica della forma sta innanzitutto nel verificare se le nostre protesi tecniche, l’«ambiente associato» (Gilbert Simondon) o il mondo-ambiente tecnologicamente innervato con cui abbiamo a che fare favorisca una percezione del mondo (e delle relazioni sociali) in tutta la sua complessità (una complessità, anzi, arricchita, aumentata protesicamente), o se invece la inibisca. Se favorisca, dunque, o inibisca i processi di elaborazione e comprensione (la vita, la dimensione del sentire, la riflessione, le relazioni, la deliberazione) dal suo interno, o se invece ci condanni a una pulsionalità «ipomediale» o a un sensazionalismo «ipermediale»[9]. Vale a dire, rispettivamente, a mettere in scena frammenti di vita e spinte pulsionali non-mediate e incontrollate (la rete ne è piena), o invece caleidoscopi di immagini sensazionali, ipercontrollate e tendenzialmente manipolatorie, ma del tutto indifferenti a ogni riconfigurazione critica del nostro sentire e pensare, a ogni possibilità di elaborazione sensata o di consapevolezza etica. O, in una parola, a ogni etica della forma.

    Dissoluzione dell’opera?

    L’esito più estremo della prospettiva qui delineata in alcuni dei suoi tratti principali conduce Montani a mettere in questione la stessa nozione di opera – non importa quanto aperta alla inevitabile e tradizionale cooperazione interpretativa da parte del fruitore:

    Intendo riferirmi a un cambio di scenario assai più radicale: dal modo di esistenza tipico dell’opera (e dopo tutto anche le performance e le installazioni rientrano nella famiglia delle opere) a un modo d’esistenza che chiede di essere meglio definito come una vera e propria forma di vita tecnica.[10]

    Montani sa bene che è questo il punto cruciale: se l’interattività spinta fino alla modifica del «testo (audiovisivo o di altro tipo)» si liberalizzasse al punto di diventare uso anarchico del testo[11], i testi in questione conterebbero meno delle macchie di Rorschach (che almeno innescano proiezioni valutate in base a complessi parametri statisticamente normativi), e sarebbero dei pretesti indifferenziati. Per riprendere liberamente una distinzione di Kendall Walton, il «mondo dell’opera» sarebbe interamente assorbito nel «mondo del giocatore»[12], e l’opera perderebbe il suo statuto normativo (la sua pretesa di guidare l’immaginazione del giocatore autorizzando o meno certi percorsi e aperture) rischiando di diventare uno stimolo disponibile a ogni proiezione, così che il giocatore incontrerebbe solo il già noto, mancando l’opportunità di ristrutturare la propria esperienza. Non è certo questo che intende Montani, il quale ipotizza invece un’installazione che preveda la possibilità che il fruitore-utente-visitatore interrompa o integri il testo con «qualcosa che gli sembri utile, o pertinente o anche solo legittimo»[13] – aggettivi scelti con cura, e che tuttavia non possono costituire naturalmente una garanzia di fedeltà alla norma dell’installazione – ma soprattutto che questo «intervento sia recepito in qualche forma dall’installazione in modo che esso vada successivamente a integrarsi in un ipertesto non solo più esteso, ma anche sostanzialmente imprevedibile nei suoi sviluppi futuri e nella sua stessa configurazione complessiva»[14]. In altre parole, il nodo della questione è che l’«oggetto sorto dal processo interattivo», dimesso il suo statuto di opera, assuma una «vera e propria forma di vita tecnica, capace di trasformarsi […] in modo non programmabile, benché conforme a regole».[15]

    Se non sbaglio, almeno da un punto di vista formale, restano le esigenze che una riflessione estetica di ispirazione kantiana ha fatto valere per il carattere esemplare dell’opera d’arte: una conformità a regole (anzi, l’istituzione di regole da parte dell’opera, una sua auto-nomia) unita alla massima contingenza dell’opera (non solo nella costruzione o nella scelta dell’ oggetto candidato a caricarsi di una necessità solo esemplare, senza alcuna garanzia di riuscita, ma anche nella stessa fruizione, affidata a un’esigenza di universalità legittima, ma non dimostrabile[16]). Tuttavia, ciò non è detto per ricondurre la prospettiva aperta da Montani al già noto: è infatti proprio questa affinità formale che permette di misurare le differenze sostanziali con l’opera tecnicamente interattiva e immersiva. La conformità a regole dell’opera esemplare kantiana poteva appellarsi, sì, alle regole tecniche di ciascuna arte – regole determinate, necessarie ma non sufficienti per la riuscita dell’opera –, ma rimandava in ultima istanza a regole indeterminate (alle idee della ragione) che potevano essere esibite (analogicamente, inadeguatamente) dall’immaginazione in «un’intuizione interna» (le «idee estetiche»), la cui «espressione» in un medium materiale potrebbe dar luogo a un’opera d’arte riuscita[17]. Per quanto reinterpretate o rifunzionalizzate nel tempo individuale e collettivo della fruizione, le opere così prodotte non prevedono che la fruizione ne alteri la natura o l’identità. Si potrebbe forse dire che l’opera, nella sua materialità, è sì la protesi immaginativa del suo autore (nelle sue intenzioni e nella sua non-intenzionabilità), che istruisce e guida l’immaginazione del fruitore in itinerari inediti – riuscendo magari a ristrutturarne l’esperienza –, ma resta materialmente impermeabile alle elaborazioni immaginative del suo pubblico: l’immaginazione dei fruitori non si esteriorizza nell’opera, o, detto altrimenti, l’opera resta la protesi immaginativa dell’autore, ma non accoglie in sé l’eventuale protesizzarsi dell’immaginazione dei suoi fruitori.

    Nell’ipotesi di Montani, invece, è come se la cosa (il testo, l’installazione, l’opera tecnica e il suo ambiente associato) assorbisse la cooperazione interpretativa del fruitore protesizzando la sua immaginazione, fecondandola con quella dell’autore o gli autori dell’opera fino a renderle inestricabili l’una dall’altra.

    Affinché un’ipotesi di questo genere sia plausibile bisogna naturalmente pensare che i testi o le installazioni a cui si riferisce Montani, per essere realmente interattivi, trovino i modi per reintegrare quella contingenza e quella indeterminatezza che erano proprie delle opere esemplari kantiane: che non siano, cioè, la semplice somma di una serie di algoritmi, che sono procedure effettive e dunque regole determinate per definizione.

    È possibile che ciò avvenga? Per dare una risposta plausibile e articolata occorrerebbero competenze specifiche che, come molti, non possiedo, ma che nei prossimi anni dovranno essere acquisite da chiunque si occupi di tecno-estetica[18]: per il momento posso solo riferirmi al dibattito in corso sulla possibilità di parlare propriamente di creatività computazionale[19], o, assumendo la (non più scontata) rigidità degli algoritmi o una loro incontrollabile complessità, posso rimandare all’uso che se ne potrebbe fare: un uso che potrebbe forse essere creativo e affidato a una conformità a regole indeterminata in misura pari a, o maggiore di, quella dell’uso di strumenti analogici. È questo il nodo della questione, come Montani non manca di dire esplicitamente: «A quali principi e a quali regole dovrebbe conformarsi l’intervento dello spettatore-utente per essere accolto, o respinto, da un’installazione interattiva? È questo, in tutta evidenza, il punto cruciale»[20]. L’utente non sarebbe più un fruitore, per quanto cooperante sul piano dell’interpretazione, ma diverrebbe il co-autore di «un’azione

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