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Il lessico delle armi
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E-book256 pagine3 ore

Il lessico delle armi

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Questo viaggio negli “anni di piombo” si pone l'obiettivo di analizzare il percorso deviante di sei militanti delle Brigate Rosse, attraverso loro interviste, biografie e autobiografie.Dopo aver contestualizzato il periodo storico, l'autrice procede per fasi (adesione, militanza, distacco dalla lotta armata), prendendo in esame per ognuna quelle motivazioni ricorrenti, che possano costituire un dato “generazionale”, una sorta di “portato sociale”.Vi sono spiegazioni o motivazioni che, aldilà delle differenti individualità, ricorrono nel momento della adesione alle BR? E, durante la militanza, si può ritenere che negazione, rimozione e neutralizzazione costituiscano meccanismi di autodifesa ricorrenti, attuati dai militanti per sostenere il peso della lotta armata, scelta “totalizzante”, che comporta clandestinità e rottura dei rapporti affettivi? Infine, si esamina il distacco, momento in cui, spesso dal carcere, l’individuo riflette sul suo percorso, cercando, o creando, spiegazioni per il suo agire. Che cosa spinge un militante a mettersi in discussione? È possibile ricavare un tracciato comune, un “voler fare i conti” con la sconfitta storica e politica subita? E, in quest'ambito, come affronta, chi non si distacca, il problema della lealtà nel gruppo armato, lo smarrimento e la paura di fronte a chi ha tradito? Un viaggio intenso ed avvincente, condotto con un'ottica del tutto originale, che lambisce il confine tra psicologia e sociologia.
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2016
ISBN9788896771617
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    Il lessico delle armi - Giovanna Gasdia

    Il lessico delle armi

    Un’analisi

    socio-criminologica

    della militanza

    nelle Brigate Rosse

    Giovanna Gasdia

    Giovanna Gasdia

    Avvocato in Ravenna.

    Sito professionale: www.gasdia.it

    E-mail: giovanna@gasdia.it

    Pagina Facebook: Studio Legale Avvocato Giovanna Gasdia Ravenna

    Blog: http://giovannagasdia.blogspot.com/

    Copyright © 2012 Giovanna Gasdia

    ISBN 978-88-96771-61-7 (eBook)

    Edizioni Homeless Book / homelessbook.it

    Introduzione

    La peculiarità del fenomeno delle vecchie Brigate rosse – quelle che nascono negli anni settanta ed agiscono fino alla metà degli anni ottanta – rende questo viaggio particolarmente avvincente oltre che complesso.

    Avvincente, perché per dare un’interpretazione criminologica di un fenomeno dalle chiare connotazioni politiche occorre procedere partendo da dati storici, sociali, spesso biografici, fino a far confluire gli stessi in un discorso più ampio, di portata generale, che parta proprio dal dato concreto per approdare a riflessioni di stampo socio-criminologico.

    Complesso, perché per tentare questo tipo di interpretazione occorre operare una sorta di forzatura in una scienza sociale, la criminologia, generalmente attenta più alle esigenze di classificazione e prevenzione della devianza comune in funzione di ottimizzazione del controllo sociale, che all’indagine di quelle forme di devianza non comuni, come nel caso del terrorismo politico.

    È abbastanza agevole riscontrare, infatti, una generale assenza, perlomeno in Italia, dell’analisi socio-criminologica della devianza di matrice politico-ideologica. Su questo è opportuno riflettere, poiché probabilmente tale disinteresse ha a che vedere con l’importante funzione che il diritto penale – e tutto ciò che vi è connesso, criminologia compresa – innegabilmente svolge nel nostro modello di Stato.

    Insieme al diritto penale, infatti, anche la criminologia può essere utilizzata come instrumentum regni, non tanto perché essa venga volontariamente protesa alla conservazione dello status quo, o alla difesa dell'élite dominante, quanto piuttosto perché essa spesso assume i caratteri di un’indagine condotta dall’alto della società verso il basso, dal potere verso il non-potere in una prospettiva in base alla quale le scienze sociali si pongono al servizio della costruzione di un consenso tra masse sociali di cui si avvertiva sempre più come necessaria la piena collaborazione (Melossi, 2002).

    La criminologia in Italia si è concentrata maggiormente su altri aspetti della devianza non comune, sviluppando o discorsi tesi alla criminalizzazione delle teorie e dell’agire brigatista o altri – di stampo quasi neo-lombrosiano – che dipingono i brigatisti come dei deviati mentali e non come soggetti che intraprendono un percorso deviante volontariamente, in aperto scontro con l’ordine costituito.

    Ma è proprio per questo elemento di scelta deviante compiuta dai brigatisti (in maniera più o meno consapevole, a seconda dei soggetti e delle circostanze) che ritengo impossibile applicare ad essi quelle teorie socio-criminologiche riconducibili al multifattorialismo, cioè alla teoria-madre che potremmo definire del male-chiama-male, secondo cui il male della criminalità deriva pressoché automaticamente da un altro male – la povertà, la malattia, l’emarginazione sociale – con infinite possibilità di combinazioni. Si tratta di valutazioni decisamente insufficienti, poiché, se condizioni di vita disagiate conducono con più probabilità l’individuo dentro canali illegali di vario genere, è pur vero che non tutti i poveri, non tutti i disagiati e gli emarginati delinquono e che, al contrario, anche soggetti che non si trovano in quelle condizioni intraprendono un percorso criminale:

    La povertà, accompagnata dallo spettacolo della ricchezza nelle vetrine, nelle strade e al cinema, significa generalmente invidia e odio nei riguardi dei ricchi, insieme alla sensazione di star molto perdendo della vita a causa della mancanza di soddisfazione di desideri fondamentali. La povertà spesso costringe la gente a rubare o a prostituirsi per non fare la fame. I suoi effetti fondamentali sono spesso più sugli atteggiamenti di fondo, che direttamente sull’organismo fisico dell’individuo. È tuttavia sorprendente quanti poveri non diventino delinquenti, piuttosto di quanti lo diventino. (Sutherland, 1924).

    Tali teorie risultano perciò inadatte alla complessità di quei fenomeni criminali che nulla o ben poco hanno a che vedere con la povertà o l’emarginazione dell’individuo, come ad esempio la criminalità dei colletti bianchi (Sutherland, 1949) o – come vedremo – anche il terrorismo politico.

    Per un’analisi il più possibile aderente alla peculiarità del fenomeno brigatista in Italia, occorrerà dunque partire da un’indispensabile contestualizzazione storica del periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla fine degli anni ’70: il dopoguerra, Scelba, le lotte operaie, lo stragismo di stato, il fermento giovanile e culturale del ’68, la congiuntura economica negativa successiva al boom degli anni ’60, il movimento del ’77 e l’assetto dei partiti in Italia, con particolare interesse alla complessa situazione di transizione del PCI.

    Passerò quindi ad occuparmi del momento della scelta deviante, cioè il momento in cui si decide di aderire alle Brigate Rosse, tra motivazione politica individuale e portato sociale: saranno fondamentali in questa fase della mia indagine i dati tratti da biografie, autobiografie e interviste di vari ex brigatisti che hanno raccontato la loro storia, in molti casi al termine di un lungo percorso di riflessione e ripensamento sulle proprie scelte passate.

    Il dato più interessante da riscontrare sarà quello di una certa frequenza statistica di alcune motivazioni che portano ad aderire alla lotta armata, come per esempio la frequentazione con ex partigiani, o lo shock successivo alla strage di Piazza Fontana, la strage di Stato, o al colpo di stato di Pinochet in Cile: in questi casi non si può trattare semplicemente di dati biografici ricorrenti che si sommano, ma occorre rendere conto della presenza in tanti soggetti, diversi per provenienza culturale e geografica e anche per età, di medesime motivazioni per aderire alla lotta armata, che diventano quasi motivazioni generazionali condivise; elementi, cioè, di possibile rilevanza sociologica.

    In questa fase mi avvarrò soprattutto delle interviste realizzate da Luigi Manconi, Raimondo Catanzaro e Donatella Della Porta, e delle relative interpretazioni e conclusioni che essi traggono sia da quelle testimonianze che da vari documenti delle BR.

    Seguirà poi la parte del mio studio relativa ai meccanismi di diniego, rimozione o neutralizzazione, come possibili tecniche messe in atto dal terrorista per sostenere il peso materiale e morale della partecipazione alla lotta armata, in quanto scelta di vita assolutamente totale, che comporta clandestinità, rottura dei rapporti affettivi e familiari, nomadismo.

    Esistono, aldilà dei singoli individui, emozioni partecipate, giustificazioni o spiegazioni ricorrenti, tecniche per riuscire a non soccombere sotto il peso della scelta di aderire alle Brigate Rosse? Esiste un modo condiviso per affrontare il peso dell’illegalità, con tutto ciò che essa comporta?

    Questa volta, si tratterà di applicare a criminali non comuni proprio alcuni dei metodi di analisi utilizzati per i delinquenti comuni.

    Tale operazione potrebbe sembrare in contraddizione con quanto ho prima affermato riguardo all’inapplicabilità alla criminalità di matrice ideologica di teorie utilizzate nell’analisi della devianza comune, ma non è così, poiché un conto è rifiutare di applicare quelle teorie che ho in precedenza definito tradizionaliste, come quelle multifattoriali, in quanto non adattabili, per premesse e conclusioni, alla criminalità politica; altro conto è utilizzare teorie contemporanee – elaborate tutte a partire dagli anni ’50 in poi – che trovano la loro matrice culturale proprio nella critica mossa a quelle teorie, considerate troppo meccaniciste, sempre più inadatte, quindi, ad una società in continua evoluzione e profondamente trasformata sia dalla crescente influenza della comunicazione di massa sia dalla diversa distribuzione delle classi sociali.

    In questa fase del mio studio mi avvarrò dunque di teorie criminologiche quali: 1. la teoria dei vocabolari motivazionali di C. Wright Mills (1940); 2. la teoria dell’associazione differenziale sviluppata da Sutherland e Cressey in varie edizioni, fino al 1978; 3. le tecniche di neutralizzazione di Sykes e Matza (1957); 4. la teoria sviluppata da Stanley Cohen in Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea (2003), che ha il grosso merito di aver traghettato l’applicazione di varie tecniche di diniego/rimozione della realtà dapprima dalla psicanalisi alla sociologia della devianza, e, successivamente, dalla criminalità comune a quella politica.

    Tali teorie possono forse aiutarci a comprendere, ad esempio, come questi militanti, in gran parte giovani, donne o uomini di estrazione sociale media e ben istruiti che mai si sarebbero immaginati con un’arma in mano, riescano a compiere rapine, gambizzazioni, e perfino ad uccidere in nome di un’ideologia.

    Nell’ultimo capitolo affronterò, infine, il momento del distacco dai gruppi armati.

    Innanzitutto, cercherò di tracciare un confine tra le esperienze dissociative e quelle di pentitismo, in quanto diverse storicamente e dal punto di vista legislativo, utilizzando nuovamente il metodo espositivo del capitolo secondo, quello che ripercorre le singole biografie.

    Il tema più interessante che i percorsi biografici degli ex brigatisti sollevano è sicuramente quello relativo alla fine della lotta armata in Italia, vissuta dalla maggior parte di loro come una sconfitta personale e generazionale: che tipo di riflessioni suscita questa scoperta in chi ha votato la propria gioventù alla causa della rivoluzione armata? Che cosa spinge tanti – nel nostro caso, tre soggetti su sei – non solo a rivedere il proprio passato, ma ad operare quel doloroso disvelamento, quella decostruzione pezzo per pezzo, necessari per capire come, in nome di un’ideologia, hanno potuto commettere quei crimini? Ci si può affrancare da un passato così pesante senza tradire se stessi, la propria cultura, la propria esperienza di vita? O è necessario continuare in quel processo di negazione che molti hanno usato per resistere durante gli anni della militanza?

    Un altro dei problemi che si riscontreranno sarà quello della lealtà infranta. La lealtà all’interno dei gruppi terroristici è, infatti, elemento fondamentale, sia nell’organizzazione delle azioni, sia nella sopravvivenza quotidiana: come reagiscono, dunque, gli ex compagni di lotta nei casi in cui il militante arrestato si pente e fa dei nomi? Questa reazione riguarderà in misura maggiore coloro – tre su sei nel nostro caso – che non rinnegano il proprio passato e non scelgono né la strada della dissociazione né quella del pentimento.

    Ultime note preliminari. Affronterò i temi più strettamente politici inerenti alla storia di quegli anni solo nella misura in cui occorrerà per chiarire contesto, teorie e prassi sia dei brigatisti che del potere costituito; non è scopo del mio studio giudicare se fossero fondate o meno le rivendicazioni e le critiche mosse dai brigatisti nei confronti dello Stato.

    E infine, per sgombrare il campo da un pesante interrogativo storico di fondo, intendo assumere il fenomeno brigatista che si sviluppa negli anni di piombo come fenomeno tendenzialmente autentico, non prendendo in considerazione, cioè, quelle teorie che sostengono che alcuni membri delle BR siano stati manipolati o reclutati da settori deviati del potere italiano o straniero. Tale scelta si rende necessaria non certo perché tali teorie non meritino considerazione o credito, ma piuttosto perché risulterebbe impossibile, in un elaborato come questo, trovare soluzione a questi pesanti interrogativi storici, che molti autori illustri si sono posti, raggiungendo peraltro convinzioni eterogenee, spesso persino inconciliabili tra loro.

    Inoltre, si rende necessaria da parte mia un’ulteriore delimitazione storica: le Brigate rosse di cui mi occuperò sono esclusivamente le vecchie BR, cioè quelle che si formano, agiscono e idealmente cessano di esistere con la cattura di Barbara Balzerani, l’ultima del nucleo storico ad essere arrestata, nel 1985. Le azioni rivendicate da quelle che sono state definite le nuove BR, che comprendono l’omicidio di D’Antona a Roma nel 1999 e di Biagi a Bologna nel 2002, non entrano nella mia analisi per due validi motivi: innanzitutto, perché non si conosce ancora a fondo questa nuova realtà e vi sono indagini attualmente in corso – è notizia di qualche settimana fa l’inizio della collaborazione con gli inquirenti da parte di Cinzia Banelli, militante delle nuove BR; inoltre, perché anche gli ex brigatisti di cui tratto nel mio studio hanno disconosciuto pubblicamente, attraverso interviste e lettere a quotidiani nazionali, la linea delle sedicenti Brigate Rosse attuali, come nell’intervista di Andrea Colombo su il manifesto dell’1 novembre 2003, dal titolo Queste Br, non figlie nostre in cui l’ex brigatista Barbara Balzerani afferma:

    Il rapporto tra movimento e organizzazioni armate è abissalmente diverso da quello degli anni ’70. Oggi non c'è spazio alcuno per l’opzione armata. Allora se ne parlava ovunque. Noi volevamo la rivoluzione. Questa invece è un'opposizione sociale e alla guerra. [..] Allora c’erano migliaia di militanti nelle organizzazioni armate, e le azioni militari erano centinaia. Non dico che i gruppi armati fossero maggioritari nel movimento. Ma i militanti erano davvero migliaia. Da quel che si capisce, oggi si tratta di un gruppo molto ristretto, una quindicina di persone che in 15 anni ha fatto due azioni militari. Restano fatti gravissimi, è ovvio, ma si tratta di un fenomeno residuale.

    1. Contesto storico

    Già nell’introduzione ho chiarito che ritengo fondamentale, prima di entrare nel vivo dell’argomento, occuparmi in maniera piuttosto approfondita del contesto storico dell’epoca, in quanto vedremo che gli avvenimenti storico-sociali convulsi di quel periodo entrano con molta prepotenza nella vita delle persone, anche di quelle che poi scelgono di aderire alla lotta armata.

    Nella scelta dei brigatisti sono soprattutto gli avvenimenti politici e sociali a rivestire importanza, specialmente quelli che si hanno a partire dagli anni sessanta, ma sarebbe tuttavia sbrigativo ed incompleto escludere dal quadro storico il dopoguerra, periodo che si trova alle radici della storia repubblicana italiana, e anche di alcuni dei suoi conflitti.

    Esaminato il quadro del dopoguerra, passerò a trattare degli anni sessanta e settanta, sempre concentrandomi il più possibile sulle tematiche politico-sociali interne al nostro paese.

    Degli anni sessanta sarà importante sottolineare da un lato la novità politica rappresentata dai governi di centrosinistra; dall’altro lo scossone impresso alla società sia dal movimento studentesco sia da quello operaio, che in un certo momento, come vedremo, convergeranno, dando luogo ad uno dei maggiori momenti di lotta sociale del paese.

    Per quanto riguarda gli anni settanta, poi, il quadro storico si allargherà per descrivere brevemente quella situazione economica internazionale che, di riflesso, ha avuto effetti anche nell’economia e nella società italiane, come il caro petrolio.

    1.1: Il Dopoguerra¹

    1.1.1: La fine del conflitto mondiale

    La seconda guerra mondiale si conclude ufficialmente il 7 maggio 1945 in tutta Europa, con la resa tedesca che avviene dopo la diffusione della notizia del suicidio di Hitler.

    Nonostante ciò, nell’agosto dello stesso anno, gli Stati Uniti sganciano due bombe atomiche su Nagasaki e Hiroshima – quest’ultima caratterizzata da una densità urbana altissima – provocando più di centomila morti immediati e decine di migliaia per le conseguenze a medio e lungo termine del fungo atomico. La seconda guerra mondiale segna così un salto di qualità nella distruzione e nelle perdite dovute al conflitto; solo in Italia si contano circa 400 000 vittime tra militari e civili. È proprio questo uno degli elementi più importanti, la rottura definitiva dei vecchi schemi di guerra che tenevano distinti e separati in modo netto, durante il conflitto, militari e civili: lo sterminio sistematico di interi popoli o etnie, i bombardamenti su città abitate, le bombe atomiche, hanno effetti diretti e devastanti proprio sulla vita dei civili inermi.

    A livello geopolitico, poi, la fine della seconda guerra mondiale segna anche la fine della centralità dell’Europa negli equilibri mondiali, poiché le due principali forze vincitrici – Stati Uniti e Unione Sovietica – non possono certo essere definite europee. L’Europa, nelle trattative di pace che ricostruiscono il mondo, sembra destinata perciò ad essere oggetto di trattativa, piuttosto che soggetto.

    1.1.2: La divisione del mondo in blocchi

    La spartizione che viene condotta dalle potenze vincitrici (Trattato di Yalta del febbraio 1945) prevede due aree di influenza mondiali: all’URSS viene assegnata l’egemonia nell’Europa orientale; gli USA invece perseguono

    il disegno ambiziosissimo di un assetto mondiale stabile e fortemente unitario, sorretto da una serie di istituzioni sovranazionali, [..] nel quale gli Stati Uniti avrebbero assunto la funzione di centro unificante, non capofila di una propria area d’influenza, ma punto di riferimento al di sopra di tutte le aree d’influenza (sovietica, inglese, francese) esistenti. (p. 646)

    Ma in realtà nei primi anni del dopoguerra si ha subito un brusco cambiamento di politica, che fa sì che gli USA diventino il paese-guida di uno dei due grandi blocchi in cui il mondo è diviso. La domanda nasce spontanea: è la formazione di un blocco sovietico minaccioso e potente a spingere gli Stati Uniti a rinsaldare un sistema di alleanze politiche e militari per contenere l’avanzata del comunismo, come ama dire il presidente Truman (democratico, in carica dal 1945 al 1953), o al contrario è la minaccia rappresentata dalla potenza globale americana a spingere l’Urss ad accelerare la costruzione e il consolidamento di una cordata di paesi socialisti? La risposta, come spesso accade, non è scontata: chi sostiene che sia la minaccia avvertita dagli Usa a spingerli verso il consolidamento delle alleanze politiche occidentali forse tiene poco conto della particolare situazione interna degli Usa. Le lobby economiche più interessate all’area del Pacifico sono infatti convinte che solo attraverso una politica aggressiva gli Usa possano garantire una crescita economica effettiva ed evitare una recessione postbellica.

    Nel giugno del 1947, George Marshall (il segretario di Stato americano del governo Truman) pronuncia il famoso discorso col quale dà il via al cosiddetto piano Marshall (E.R.P.): il programma per la ripresa europea prevede che gli Usa diano finanziamenti per oltre 13 miliardi di dollari a quegli Stati europei che, in cambio, si prestino a tenere una politica in opposizione all’Urss e ai suoi paesi-satellite. La rottura che avviene con l’Urss immediatamente dopo il varo del piano economico dà agli aiuti elargiti un nuovo aspetto:

    non si trattava infatti solo di favorire la ripresa economica del partner commerciale più importante degli Usa, l’Europa occidentale, né di offrire ampio sbocco alle merci americane, scongiurando almeno per qualche anno lo spettro di una recessione postbellica; il piano aveva fini anche propriamente politici, poiché poteva servire a far crescere, all’interno dei paesi europei, l’influenza dei gruppi politici moderati contro altri, in particolare contro i comunisti. (p. 648)

    Nel giro di due anni, poi, lo schieramento che comprende gli Usa e i paesi dell’Europa occidentale dà vita alla Nato, l’alleanza militare costola del Patto Atlantico² : la contrapposizione tra asse sovietico e asse occidentale è politica, ma ormai anche militare.

    La netta

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