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Cosa significa oggi essere di destra?: Alla ricerca di un popolo disperso e di una nazione negata
Cosa significa oggi essere di destra?: Alla ricerca di un popolo disperso e di una nazione negata
Cosa significa oggi essere di destra?: Alla ricerca di un popolo disperso e di una nazione negata
E-book224 pagine3 ore

Cosa significa oggi essere di destra?: Alla ricerca di un popolo disperso e di una nazione negata

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Info su questo ebook

Le parole della politica, al tempo dell’antipolitica, sono quasi tutte indebolite di significato. C’è in Italia un movimento di successo (il M5s) che, come altri movimenti in passato (dall’Uomo qualunque alla Lega, all’Italia dei Valori) rifiuta le categorie storiche e si dichiara oltre la destra e la sinistra. A capo del partito più rappresentativo della sinistra c’è un uomo che
viene dal Centro ed è accusato di fare politiche di destra. Intanto la destra sembra liquefatta e – come previsto da un uomo di destra quale Montanelli – risulta irriconoscibile dopo lo stravolgimento portato nello scenario politico da un uomo come Berlusconi, che con la destra non aveva nulla in comune.
Ma la destra? Ce n’è ancora bisogno? Pare di sì. Mai prima di ora se n’è parlato così tanto e in modo così inconcludente. Fino a venti anni fa, una destra chiaramente riconoscibile in Italia esisteva. Alla fine, banalmente, era il mondo che si ritrovava nel Msi e
in Alleanza nazionale, semplicemente perché, fino al ‘94, nessun altro in Italia si assumeva il rischio di dichiararsi “di destra”. In giro per il mondo di destre se ne possono trovare varie e di difficile omologazione tra di loro, ma questo è piuttosto dovuto al fatto che le destre, per loro stessa natura, sono un prodotto “tipico”, con tratti peculiari a secondo dei popoli e delle nazioni. Dopo che ad essere stata egemone all’interno del polo di destra, per consenso ma anche per risorse e capacità comunicative, è stata un’aggregazione composta da “destri per caso”, molti dei quali venivano dalla sinistra socialista o comunista, oggi, al netto di una moltiplicazione di gruppi parlamentari di cui non sono chiari i contorni o le strategie, a proporsi come guida è Salvini, leader di un movimento che nasce anti-italiano e che rivendica radici personali di sinistra (era il capo dei “comunisti padani”). Forse, in questo Caos, cercare di ridisegnare un perimetro che abbia una coerenza dottrinaria, storica e valoriale della Destra può apparire quasi velleitario, ma non per questo meno necessario e forse persino meritevole.

 
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2017
ISBN9788868225612
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    Anteprima del libro

    Cosa significa oggi essere di destra? - Marcello De Angelis

    Collana

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    MARCELLO DE ANGELIS

    Cosa significa oggi

    essere di destra?

    alla ricerca di un popolo disperso e di una nazione negata

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2017

    ISBN: 978-88-6822-561-2

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Siti internet:www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Ai miei padri

    Ai miei fratelli

    Ai miei figli

    Introduzione

    Nel 1995, un grand’uomo americano di nome Christopher Lasch scrisse un libro intitolato La ribellione delle élite[1], nel quale tentava di spiegare che la causa della crisi della democrazia negli Usa e del suo modello di società andava ricercata nel fatto che «le élite politiche e intellettuali hanno perso i contatti con la realtà in cui vivono e si muovono in un mondo falsamente cosmopolita di consumi assurdi e di mode fine a se stesse»[2]. In parole povere: chi comanda vive in una realtà parallela rispetto al resto dei cittadini, non li rappresenta e non è in grado di capirli o comunicarci.

    Negli ultimi venti anni vari autori hanno ripetuto la sua analisi sostenendo che lo stesso problema – nato, come tutte le trasformazioni economiche, politiche e sociali, negli Usa – aveva ormai infettato anche l’Europa e nel nostro caso l’Italia. Ma sono rimasti tutti inascoltati, quando non sono stati attaccati e messi all’indice.

    I difensori e rappresentanti di quelle «élite che hanno tradito la democrazia» descritte da Lasch, hanno usato tutte le loro armi mediatiche, economiche, accademiche e politiche per resistere al dilagare di questa critica del loro potere, dei loro privilegi e della loro pretesa superiorità. Ma hanno solo guadagnato tempo. O piuttosto lo hanno fatto perdere al resto degli abitanti del mondo occidentale, che tuttavia ha preso progressivamente coscienza della necessità di scrollarseli di dosso.

    All’improvviso, tutti i commentatori hanno cominciato a usare un termine apparentemente innovativo (ma vecchio di un paio di secoli) populista, per definire in termini negativi e mettere al bando chiunque sposasse l’analisi secondo cui i popoli erano stati traditi dai propri strati dirigenti e avessero il diritto di tornare a far sentire la propria voce.

    Non potendo ingabbiare un fenomeno dilagante in categorie preconcette, i difensori delle dette élite hanno cominciato a parlare di populismi di destra, estrema destra, ultradestra e populismi di sinistra, oppure di populismi antipolitici e via dicendo, adattando il termine a nazioni e contesti diversi, radicando e confermando però, loro malgrado, l’idea che una divergenza profonda tra i popoli occidentali e chi li domina, sia assolutamente reale.

    Quando gli inglesi hanno votato la Brexit hanno detto che erano ignoranti e rozzi, indegni del diritto al voto. Quando un terzo dei francesi ha votato per Marine Le Pen hanno scritto che si trattava di razzisti e antisemiti. Quando gli ungheresi hanno eletto Orban erano tutti nazisti. Diverso il caso di Tsipras in Grecia o di Podemos in Spagna, perché almeno lì si notavano le magliette con le icone barbute alle quali la sinistra progressista-liberal resta comunque affezionata.

    Poi è arrivato Trump e si è scatenato il diluvio. Come hanno potuto gli americani, che hanno inventato il politicamente corretto, le leggi speciali che favoriscono le minoranze contro le maggioranze (la discriminazione positiva) e hanno mandato truppe e bombardieri in giro per il mondo per assicurarsi che tutta l’umanità si adeguasse a quegli standard, eleggere l’uomo che tutti i media, gli attori, i designer di moda, le rock star (e insomma tutti quelli che fanno parte del club dei migliori della nostra società) avevano stigmatizzato come l’uomo da non votare assolutamente?

    Anche all’indomani del referendum italiano, che ha visto prevalere il No, la maggior parte degli analisti e commentatori hanno parlato di populismo. Salvando però da questa classificazione gli attori e cantanti che si sono schierati per il No per motivi ideologici di estrema sinistra, che sono per questo, quindi, giustificati.

    Quello che sembra ancora sfuggire proprio alle persone che teoricamente dovrebbero essere le più informate e intelligenti, è che questa loro faziosità – che li spinge a voler descrivere la realtà per come vorrebbero che fosse e non per quello che è – sta seriamente prosciugando le loro capacità di comprendere cosa gli stia accadendo attorno.

    Fa tristezza vedere persone che parlano e scrivono molto bene – perché lo fanno per professione – continuare a sostenere a se stessi che solo loro hanno ragione e tutti gli altri sbagliano. Ad esempio, se l’accusa di populismo, inteso come volgarizzazione del termine demagogia, può valere per personaggi politici e partiti, cambia di significato quando è esteso a larga parte dei cittadini. Un popolo che diventa populista è semplicemente un popolo che si è stufato di farsi trattare come se fosse un minorato sotto tutela, di farsi dire cosa deve pensare, come deve votare, come si debba correttamente esprimere, chi e cosa debba amare o odiare.

    Forse – ma dico forse – cari amici giornalisti intelligenti abituati ad avere sempre ragione, è venuto il momento di porsi la fatidica domanda: e se invece mi sbagliassi io?

    [1]Christopher Lasch, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano, 2001

    [2] Christopher Lasch, op. cit.

    Premessa

    Mettiamo le cose in chiaro. Chi scrive non è un accademico, un politologo, uno scienziato della politica o uno storico del pensiero. Ho anch’io fatto i miei studi, ma ho iniziato l’università quattro volte e non ho mai conseguito una laurea, spaziando dal diritto costituzionale alla storia delle religioni, dall’antropologia culturale alle lettere antiche. Ho studiato islamistica e orientalistica quando l’Islam non andava di moda e non era ancora il Moloch del Terzo millennio. E anche la lingua araba, con risultati assolutamente mediocri. In compenso, per gli accidenti della vita, ho vissuto a Londra e Parigi tra i venti e i trent’anni e almeno ho imparato due lingue, che parlo e leggo. Così ora so cosa dicono gli analisti che contano – cioè quelli americani – e i filosofi alla moda – cioè quelli francesi – prima che le loro tesi vengano tradotte e diffuse in Italia e grazie a questo ho fatto a volte la figura di uno che vedeva lontano.

    Politicamente ho delle convinzioni molto precise, che possono apparire tecnicamente come dei pre-giudizi, non necessariamente nel senso gretto del termine, ma sicuramente come dei giudizi ex ante che condizioneranno anche questa mia esposizione.

    Nella società attuale l’impostura è diffusa, molte persone si presentano per quello che non sono e, specialmente nella professione giornalistica, molti fanno finta che i propri giudizi siano obiettivi e assolutamente scevri da coloriture derivanti dalle proprie esperienze di vita. Nel mio caso sarebbe ridicolo nascondersi dietro un dito e tanto vale mettere da subito le carte in tavola.

    Negli ultimi quarant’anni mi sono trovato coinvolto nelle dinamiche di quella che – in senso molto lato – si può definire Destra italiana. Non da osservatore, ma sempre attivamente. Da protagonista, ha scritto qualcuno. Negli anni ’70, liceale, ho partecipato a quelli che a posteriori sono stati definiti movimenti della Destra radicale, pagandone naturalmente le conseguenze con condanne penali. Ingiuste a parer mio e dei miei avvocati di allora e di oggi, ma quando si pretende di fare i rivoluzionari sarebbe piuttosto ridicolo lamentarsi di aver subìto un trattamento ingiusto da parte di quei poteri che si vuole combattere perché ingiusti.

    Grazie a questa esperienza ho però avuto il privilegio di conoscere sulla mia pelle l’ingiustizia e capire quanto brucia. E imparare a riconoscerla e far di tutto per non commetterla contro altre persone.

    L’Italia degli anni ’70 mi appariva assoggettata ad un governo corrotto e coloniale, che rapinava la nostra Patria delle sue risorse per conto di potenze occidentali, che combattevano sul nostro territorio e nella nostra società la loro guerra contro i sovietici, che intanto ci minacciavano di invasione dai confini orientali. Poi c’erano le stragi, il terrorismo, i servizi segreti – che quando venivano colti con le mani nel sacco diventavano per la stampa deviati – e l’antifascismo militante, che bruciava vivi i bambini come nel rogo di Primavalle, o uccideva dei ragazzini a colpi di chiave inglese o facendo il tiro a segno[1].

    A diciott’anni mi sembrava doveroso opporsi a questo stato di cose. I magistrati, pur condannandomi per aver cospirato contro lo Stato, hanno anche cortesemente messo nero su bianco che non ho fatto del male a persone o cose, né sono mai stato trovato in possesso di armi. Quindi me la sono cavata con accuse di velleitarismo rivoluzionario. E credo che un ragazzo di venti anni che non sogni di cambiare il mondo e raddrizzare i torti non sia del tutto normale.

    Ma l’età e la storia hanno i loro punti di svolta. Negli anni ’90 – dopo il crollo dell’infame Muro di Berlino, dell’Unione sovietica e, teoricamente, del sistema di potere corrotto e partitocratico contro cui tutti dicevamo di combattere – vide la luce una formazione di destra che, almeno negli enunciati, guardava al futuro e non più al passato – tragico o glorioso che fosse. Questo mi portò alla decisione di mettere le mie capacità professionali di giornalista al servizio del progetto di questa nuova alleanza nazionale. Alcuni, immancabilmente, mi hanno stigmatizzato come rinnegato e venduto per questo, immaginando che uno che aveva sognato la rivoluzione sui banchi di scuola avesse il dovere di restare cospiratore per sempre e non concedersi mai l’illusione di poter dare invece un contributo costruttivo.

    Dal ’96 ho diretto un mensile di politica e cultura che si chiamava Area e a cui, sin dall’inizio e per più di un decennio, collaborarono attivamente grandi persone come Massimo Pini, Giano Accame, Gianfranco de Turris, Renato Besana e molte altre decine di giornalisti di età ed estrazioni differenti. Area è stata una palestra importante. Tra i miei praticanti ho avuto giornalisti che oggi ricoprono ruoli in testate, organizzazioni e aziende dell’informazione molto importanti. E sono quindi fiero e orgoglioso del lavoro di formazione che ho svolto in quegli anni.

    La testata, definita come «la rivista della Destra sociale», ebbe un rilievo notevole, con riconoscimenti di qualità e diffusione provenienti anche da chi era politicamente critico.

    La destra sociale, prima di essere svilita come corrente interna di An, era una teoria politica di una certa dignità e valenza, soprattutto in una fase in cui la politica nazionale cercava e meritava nuove declinazioni. La definizione veniva da lontano – secondo alcuni da Bismark e Benjamin Disraeli – e fu oggetto di un rilancio proprio grazie allo stesso Giano Accame, che pubblicò un pamphlet intitolato La destra sociale[2], proprio quando nasceva la nostra rivista.

    «La destra può e deve essere sociale, così come la sinistra può e deve essere anche nazionale in una democrazia dell’alternanza», così iniziava il suo primo capitolo e in questa frase c’erano tutti i termini del perimetro in cui si voleva inquadrare la nostra proposta.

    Quindi, ecco indicato il primo dei pregiudizi che condizionerà le mie considerazioni: per me la destra è il Partito della Nazione. Ma non quello che a un certo punto ha lanciato Matteo Renzi – cambiando discorso subito dopo – e cioè semplicemente la proposta di un grande inciucio, una Grosse Koalition funzionale a far passare ’a nuttata. Quando dico Partito – che è una brutta parola, perché sottintende la prevalenza di una parte sul tutto – della Nazione, intendo una forza politica che antepone l’interesse nazionale a qualunque altro interesse e quindi propugna la sua (della Nazione) unità, concordia, sicurezza, prosperità.

    Il secondo pregiudizio, che credo appaia chiaro da subito, è che per me la Destra o è sociale o non è. Non si può sostenere di anteporre il bene della Nazione a qualunque cosa e dimenticare che la Nazione è composta di persone e da ogni singolo cittadino.

    Al contrario dei politologi, sono convinto che la politica sia una cosa molto semplice e che possa e debba essere declinata in termini semplici. Soprattutto se si opera all’interno di una democrazia, dove si dà per scontato che tutti partecipino con il voto e quindi debbano capire che cosa votano. Chi fa discorsi difficili evidentemente ha l’intento di confondere le acque. E questo vale anche per chi – come va di moda di recente – piazza termini inglesi nei discorsi istituzionali come se fossero punti e virgole. Si tratta della modernizzazione del latino di Don Abbondio, utilizzato ad arte per non farsi capire. Questo vale tanto per la spending review (che si potrebbe chiamare tranquillamente revisione di spesa), che per la stepchild adoption o cose simili.

    Credo che una Destra abbia il triplice dovere di parlare italiano: in primis perché è la nostra lingua e va protetta e trasmessa, in secundis perché bisogna farsi capire da tutti i componenti della comunità nazionale, senza distinzione di livello sociale e culturale, in ultimo perché parlare – spesso in modo approssimativo – la lingua altrui per darsi un’aria di superiore competenza, dimostra solo una sudditanza psicologica che poi si declina – ahimé – anche in politiche di sudditanza effettiva nei confronti dei titolari della lingua in questione.

    Credo che sia molto semplice, per chiunque, quando ricopre incarichi istituzionali, rendersi conto se un provvedimento vada nell’interesse della Nazione e della comunità dei cittadini o contro, e sia quindi evidente chi voti secondo questo principio e chi no. Pensiamo al Fiscal compact o allo European stability mechanism (sempre ammesso che uno capisca cosa sono).

    Nel 2006 mi venne offerto di candidarmi al Senato della repubblica con Alleanza nazionale, avevo 46 anni e non avevo mai ricoperto incarichi elettivi se non al liceo, quando venni votato come rappresentante di istituto. In compenso avevo fatto il manovale, il lavapiatti, il cameriere, il tipografo, l’impaginatore, il grafico e il giornalista, quindi non si può dire che fossi un politico di mestiere. E, con buona pace dei banditori dell’anti-castismo, sapevo benissimo quanto costavano un litro di latte e un chilo di pane.

    Ritenevo che An fosse la formazione che più aveva a cuore la Nazione e all’interno della quale c’erano persone in sintonia con la visione della Destra sociale. L’avversario in quella competizione era una coalizione guidata da Romano Prodi, che riuniva dai rappresentanti dei poteri forti e delle banche d’affari ai nostalgici del comunismo. Una foto di gruppo – nella mia opinione – di tutte le forze che erano contro la Nazione. Vinsero loro, anche se la maggioranza non resse a lungo.

    Nel 2008 si tornò alle elezioni con un soggetto che a mio parere era nato più dalla volontà popolare – in particolare espressa in una enorme manifestazione di piazza il 2

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