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L’Anarchismo: Teoria, pratica, storia
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E-book221 pagine3 ore

L’Anarchismo: Teoria, pratica, storia

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Rileggere l’anarchismo nei suoi risvolti storici, teorici e pratici significa anzitutto contrastare gli stereotipi culturali che gettano discredito su questa dottrina politica: la sua associazione con il caos, il disordine, la violenza; l’identificazione dei suoi militanti quali facinorosi sovversivi, quando non geneticamente criminali; l’equivalenza tra anarchico e terrorista.
In realtà le teorie anarchiche sono di gran lunga più complesse di una simile caricatura, oltre ad avere tutt’altri obiettivi rispetto a quelli che questa cupa visione gli ascrive. È infatti indubbio che molte aspirazioni e conquiste del nostro grado di civiltà affondano le loro radici nel pensiero e nella pratica dell’anarchismo: dall’emancipazione delle donne alle diverse forme di Stato sociale, dalla devoluzione di poteri e competenze al progetto di una federazione internazionale in chiave pacifista, dall’idea di uno sviluppo sostenibile alla concezione del benessere individuale quale autorealizzazione creativa.
L’anarchismo mette cioè a critica questioni fondamentali della convivenza umana: i rapporti di potere e di coercizione, l’autorità, la gerarchia, orientando le aspirazioni di ognuno in direzione del rifiuto e dell’abolizione di ogni forma di dominio e delle forme di violenza in cui esso si esplica.

Andrea Salvatore insegna Filosofia politica presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Roma Sapienza. Ha curato la nuova edizione de La situazione della scienza giuridica europea di Carl Schmitt ed è autore, con Mariano Croce, de L’indecisionista. Carl Schmitt oltre l’eccezione (Quodlibet 2020).
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2021
ISBN9788865483879
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    L’Anarchismo - Andrea Salvatore

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    Andrea Salvatore

    L’anarchismo

    Teoria, pratica, storia

    La pubblicazione è stata realizzata con il contributo del Dipartimento di Filosofia della Sapienza Università di Roma con i fondi del Progetto PRIN 2015 «Trasformazione della sovranità, forme di governamentalità e dispositivi di governance nell’era globale»

    * * *

    Input è una collana di formazione politica. Con pamphlet e volumi agili, attraverso un linguaggio rigoroso e accessibile, si pone alla continua ricerca degli strumenti teorici per sfidare il presente

    * * *

    Input, collana a cura di Gigi Roggero

    Andrea Salvatore

    L’anarchismo

    Teoria, pratica, storia

    © 2021 DeriveApprodi srl

    tutti i diritti riservati

    DeriveApprodi srl

    piazza Regina Margherita 27, 00198 Roma

    info@deriveapprodi.org, www.deriveapprodi.org

    Progetto grafico: Andrea Wöhr

    Impaginazione e realizzazione digitale/Plan.ed

    www.plan-ed.it

    ISBN 978-88-6548-387-9

    Introduzione

    Se è vero che la storia la scrive chi vince, le anarchiche e gli anarchici non godono di buona storiografia, men che meno di buona stampa. Un po’ perché hanno quasi sempre perso – almeno se per vittoria si intende la definitiva eliminazione di ogni forma di dominio – e un po’ perché, tra la non esigua cerchia dei perdenti, sono coloro che hanno tentato e tentano con più lucidità, determinazione e costanza di disarmare chiunque (o qualsiasi cosa) risulti di fatto in grado di dominare altri esseri umani, quali che siano origine e natura di un simile potere; il che solitamente non fa piacere ai detentori del potere medesimo (a titolo di esempio, Theodore Roosevelt contraccambiò definendo, con una certa esuberanza, l’ideale anarchico «un crimine contro l’intera razza umana»).

    Di qui tutta una serie di classici stereotipi (cfr. McLaughlin 2007, pp. 5-14; Pelletier 2010); di qui l’associazione immediata tra l’anarchia e il caos, il disordine, la violenza; di qui anche l’altrettanto conseguente identificazione degli anarchici quali facinorosi sovversivi, quando non geneticamente criminali (come nel 1894 teorizza in Gli anarchici Cesare Lombroso, il quale pure propone al riguardo misure di prevenzione radicalmente antirepressive). Di qui anche l’usuale generalizzazione secondo cui anarchico e terrorista indicano essenzialmente la stessa cosa, ignorando come tali siano stati solo alcuni di loro, bombetta in testa e bomba nella borsa, grosso modo un secolo fa, con sparuti e incomparabili emulatori contemporanei (per riprendere un esempio caro agli anarchici, sarebbe un po’ come identificare il sistema giudiziario delle democrazie contemporanee con le misure repressive che furono prese da tutti gli Stati nazionali per combattere il terrorismo anarchico e altri tentativi insurrezionali in quegli stessi anni).

    In realtà le teorie anarchiche risultano di gran lunga più complesse e articolate di quanto una simile caricatura lasci intendere, oltre ad avere tutt’altri obiettivi rispetto a quelli che tale visione cupamente ascrive loro. Per limitarci all’essenziale, è indubbio che molte aspirazioni e conquiste, oggi salutate unanimemente come innegabili indicatori del grado di civiltà di ogni forma di vita associata, affondano le loro radici nel pensiero e nella pratica dell’anarchismo: dall’emancipazione femminile alle varie forme di Stato sociale, dalla devoluzione di poteri e competenze al progetto di una federazione internazionale in chiave antibellica, dall’idea di uno sviluppo sostenibile alla concezione del benessere individuale quale autorealizzazione creativa e non già mero benessere materiale.

    Anche all’interno della letteratura anarchica, tuttavia, non sempre sembra emergere una circoscrizione chiara e distinta della teoria in questione. Per indicare quale sia l’obiettivo polemico comune alle diverse formulazioni, in essa vengono presi in considerazione, singolarmente o unitariamente, i seguenti rapporti: potere, coercizione, violenza, autorità, gerarchia, dominio; dal che segue che il modello sociale ricercato si distinguerà per l’assoluta assenza di uno o più di essi. In realtà – sebbene molto qui dipenda dalla specifica accezione dei concetti in questione di volta in volta sottintesa – una società senza potere e coercizione (e dunque determinate e particolari forme di violenza) è impensabile, come ben dimostra di sapere gran parte del pensiero anarchico; mentre la presenza di gerarchie e autorità, se liberamente accettate, non costituisce un problema di legittimità. Alla luce di tali specificazioni, l’autentico comune denominatore di tutte le teorie anarchiche può pertanto essere individuato nel rifiuto e nell’abolizione di ogni forma di dominio e al contempo delle forme di violenza in cui esso si esplica, di cui esso è causa e di cui esso è conseguenza.

    Nelle pagine seguenti si cercherà quindi di circoscrivere più esattamente la fattispecie generale dell’anarchismo (cap. 1), per poi scandirne i momenti teorici costitutivi – essenzialmente: l’assetto sociale che si vuole abbandonare (cap. 2), il modello sociale che si vuole raggiungere (cap. 3) e le varie strade per passare dal primo al secondo (cap. 4) – e infine dar conto dei momenti storici in cui esso si è in certa misura inverato, ovviamente non senza attriti e tragici dilemmi, nella realtà (cap. 5).

    Nel disegnare questo percorso si farà riferimento molto più alle cose pensate che a pensatrici e pensatori di esse (per un’esaustiva trattazione delle quali e dei quali, cfr. Berti 1998; Marshall 2010; Woodcock 2009), nel rispetto di una delle convinzioni più diffuse nella storia del pensiero anarchico, vale a dire la tesi per cui tanto le teorie quanto gli eventi storici da esse più o meno direttamente ispirati sono frutto sempre della cooperazione, dell’esperienza e del contributo di tutti – ne siano questi ultimi consapevoli o meno – e mai di un singolo brillantissimo pensatore o folgorante personaggio storico. Non a caso, a differenza di altre correnti di pensiero e di azione, non esiste né un corpus dottrinale codificato, una sorta di canone ufficiale, né un unico o anche solo prevalente teorico (e spesso neanche più teorici) cui i sostenitori dell’ideale in questione o la più ampia opinione pubblica associno immediatamente la teoria e la pratica anarchiche; non esiste, per intenderci, un Marx o un Freud dell’anarchismo.

    Il tutto cercando di rendere, per quanto possibile, la diversità di accenti, toni e anche piani di analisi della polifonia anarchica. Non esiste, infatti, solo il registro della speculazione ideale, della progettualità teorica e delle considerazioni strategiche: gran parte riveste anche, e forse soprattutto, l’ineliminabile esperienza soggettiva del singolo di fronte a quanto più o meno fedelmente portato a compimento. E dal momento che la società anarchica è pensata per soddisfare i bisogni e le aspirazioni di ogni singola persona, giudice supremo della desiderabilità di quanto si staglia all’orizzonte non può che rimanere quest’ultima. Tale insostituibile e inanticipabile momento di riprova personale, e insieme di consapevole critica, rivendicato strenuamente dal pensiero anarchico, è reso in modo esemplare dallo scetticismo attribuito all’attivista russa Emma Goldman (1869-1940), la quale, a un giovanotto che le fece notare come la presunta frivolezza di certi suoi atteggiamenti avrebbe finito per danneggiare la Causa, rispose seccamente: «Se non posso ballare, non è la mia rivoluzione».

    Ed è sempre Goldman a rimarcare, nella prefazione a L’ABC dell’anarco-comunismo di Alexander Berkman (1870-1936), uno dei tratti costitutivi della storia del pensiero libertario: «La qualità che distingue la letteratura anarchica dagli scritti delle altre dottrine sociali è la semplicità del suo stile». Si tratta di una caratteristica innegabile, al cui tacito monito non sempre la presente trattazione è riuscita a rimanere fedele. La speranza è che quanto sacrificato in chiarezza sia stato riacquistato in profondità, vale a dire in una tendenza alla problematizzazione che eviti di far scadere la semplicità in semplificazione, tanto nelle forme della caricatura quanto in quelle, opposte ma non meno falsanti, dell’agiografia.

    1. Che cos’è l’anarchismo

    Definizione dell’anarchismo

    Il termine anarchia deriva dal greco αφν-αφρχηω e significa letteralmente «senza governo» o, più in generale, «mancanza di un principio direttivo». Più estesamente, con tale termine si indica la negazione o assenza di ogni forma di dominio esercitato anche da una sola persona nei confronti anche di un’altra sola persona (e al limite finanche di sé stessi). In un assetto siffatto, il singolo non desidera né esercitare autorità senza il libero consenso altrui né subire alcuna autorità contro il proprio volere: il dominio consiste appunto nell’imporre una simile autorità, ovvero nel volere esercitare un controllo su altri e nel disporre dei mezzi necessari a rendere efficace tale imposizione.

    Più esattamente, alla luce del complessivo sviluppo del pensiero anarchico, anarchia è la condizione in cui si trova un’associazione di persone, consensuale, paritaria e cooperativa, contraddistinta dall’assenza di ogni forma coercitiva a carattere istituzionale. Per «forma coercitiva a carattere istituzionale» si intende ogni forma di coercizione non costituitasi per semplice aggregazione di equivalenti quote individuali di potere – di per sé sempre singolarmente revocabili in modo consapevole, critico e responsabile da parte di individui liberi e uguali che regolano i loro conflitti di norma senza ricorrere alla forza –, ma al contrario frutto di irriflesse, acritiche e anonime forme centralizzate di costrizione fondate sulla violenza, la gerarchia e la disuguaglianza tra chi esercita e chi subisce una simile forma di controllo; asimmetria a sua volta garantita e perpetuata tramite la minaccia almeno implicita del ricorso alla coercizione (in forme materiali e immateriali). Nel primo caso, il singolo è libero di scegliere se, in quale misura, con quali modalità e a quali condizioni esercitare il proprio potere coercitivo: l’assenso a un’eventuale intrapresa collettiva è libero e può dunque essere revocato in qualsiasi momento senza limitazioni né conseguenze di sorta. Nel secondo caso, invece, il singolo è costretto a cedere interamente e definitivamente il proprio potere coercitivo a un’istituzione sovrana che rivendica il monopolio della forza: in questo secondo caso, il consenso non può essere mai negato, almeno non senza conseguenze (del resto il più delle volte esso non viene neanche richiesto).

    Anarchismo indica al contempo tanto la filosofia sociale che avanza determinate ipotesi interpretative sulle forme di convivenza umana e la loro evoluzione storico-sociale, quanto la pratica politica che sulla base di esse prefigura idealmente e tenta di realizzare in concreto un ordine comunitario fondato sia sulla pari disponibilità effettiva di potere sia su procedure di risoluzione dei conflitti di norma nonviolente. Se basato soltanto sulla prima componente, l’ideale anarchico non si distinguerebbe da uno stato di natura di stampo hobbesiano; se basato soltanto sulle seconde, non si distinguerebbe da un sistema democratico rappresentativo. L’assetto ricercato è pertanto ritenuto non solo possibile, ma anche più naturale, razionale ed equo rispetto all’ordine esistente, fondato di contro su una impari disponibilità di potere e su procedure di risoluzione dei conflitti violente (e dunque ritenuto artificiale, irrazionale, iniquo).

    Il primo ricorso in ambito politico al sostantivo anarchico, seppure con accezione negativa, risale al 1792: con questo termine i giacobini e i girondini appellarono polemicamente i sans-culottes e il movimento degli Enragés (così chiamati per il fervore con cui conducevano le loro azioni di protesta contro ogni forma di rendita, patrimoniale o di potere). Gli Enragés – capeggiati da Jacques Roux, Théophile Leclerc e Jean Varlet – chiesero inutilmente al governo giacobino di approvare misure radicali (controllo dei prezzi, requisizioni di grano, tassazione delle rendite) inizialmente volte a proteggere gli artigiani di Parigi dalle speculazioni, oltre a caldeggiare il ricorso ad azioni dirette per arginare nel frattempo queste e altre forme di sfruttamento. Pur respingendo quella che all’epoca ancora era considerata l’accusa di anarchismo, costoro si battevano per un’effettiva uguaglianza insieme civile, politica e sociale, ritenevano una contraddizione in termini l’idea di un governo rivoluzionario e rifiutavano l’idea di un rivolgimento imposto a colpi di decreto, in favore di forme di democrazia diretta e mutua assistenza (cfr. Guérin 1979). A certificare un primo epocale cambiamento, nel 1798 la quinta edizione del Dictionnaire de l’Académie française alla voce Anarchiste distingue per la prima volta l’anarchico inteso quale agitatore (fauteur de troubles) dall’anarchico inteso quale sostenitore della neonata prospettiva libertaria (partisan de l’anarchie): non senza una certa ironia, i «principi anarchici» e il «sistema anarchico» vengono ammessi ufficialmente a corte.

    Il primo ad attribuire un significato positivo al termine anarchia – fino ad allora connotato negativamente e considerato sinonimo di una società in cui nulla è proibito e in cui dominano pertanto caos, disordine e insicurezza – fu il filosofo francese Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) nel suo scritto Che cos’è la proprietà? del 1840. Proclamandosi anarchico, Proudhon contesta radicalmente l’identificazione tra anarchia e assenza di ordine (anomia): non solo è falsa la tesi che individua nell’esercizio dell’autorità la condizione necessaria e sufficiente per il darsi dell’ordine, ma è anche vero il contrario, vale a dire sia che l’ordine si stabilisce spontaneamente sia che il disordine risulta il più delle volte frutto dell’imposizione – e non già dell’assenza – di un’autorità coercitiva esterna (e pertanto estranea) e trascendente rispetto all’ordine sociale; è proprio tale imposizione dall’esterno che, suscitando risentimento e ribellione, diviene la causa prima del disordine che pure, tramite essa, si intenderebbe governare e ricomporre. Di qui la celebre massima proudhoniana secondo cui la libertà non è figlia, bensì madre dell’ordine.

    Dunque, secondo la chiara ed epocale definizione avanzata da Proudhon, è l’anarchia, intesa quale libera autorganizzazione spontanea, a creare naturalmente uno stabile ordine sociale, mentre ogni forma di autorità imposta, intesa quale esiziale eterodeterminazione del libero sviluppo delle interazioni umane, non fa che dar vita artificialmente a un temibile disordine sociale. Sintetizzando l’intuizione di Proudhon, che riassume in una frase l’essenza e la ragion d’essere dell’anarchismo, il comunardo francese Élisée Reclus (1830-1905) definirà l’anarchia come la più alta espressione dell’ordine.

    Tuttavia, il termine anarchico farà fatica a imporsi: nonostante la svolta operata da Proudhon (ma egli stesso preferì in seguito definirsi federalista), tanto i suoi immediati seguaci quanto la successiva generazione di anarchici, giudicando il concetto in questione ancora troppo ambiguo e in fondo implicante una visione più distruttiva che costruttiva, preferiscono definirsi mutualisti (in quanto sostenitori di un sistema bancario popolare di mutuo credito libero e in generale di forme di cooperazione paritaria e orizzontale alternative allo Stato). Il termine anarchico si affermerà definitivamente solo nel corso della Prima Internazionale (1864-1876), ma anche in questo caso per diverso tempo in ambigua coabitazione con l’accezione negativa al tempo implicita nell’uso del sostantivo (come ancora si riscontra nei testi di Bakunin).

    Tramite la definizione proposta è possibile indicare le differenze fondamentali tra l’anarchismo e tre tradizioni di pensiero e azione con cui esso è stato e continua a essere spesso confuso, quando non immediatamente identificato: il nichilismo, il terrorismo e l’utopismo. Sebbene non pochi teorici e propugnatori dell’anarchismo si siano definiti (e siano spesso anche stati) ora nichilisti, ora terroristi, ora utopisti, è possibile indicare alcuni tratti costitutivi di fondo che distinguono l’anarchismo, come sopra definito, da sue torsioni o radicalizzazioni che finiscono inevitabilmente per contraddirne tanto l’originaria ispirazione quanto la stessa ragion d’essere. Dal che segue che le tre direttrici indicate costituiscono altrettanti sviluppi sempre possibili da cui l’anarchismo deve (o dovrebbe) costantemente guardarsi, se vuole preservare la sua coerenza pratica e dottrinale.

    Se si intende il nichilismo come l’affermazione dell’inesistenza, dell’impossibilità o dell’impensabilità (in ordine di radicalità crescente) di un ordine sociale giusto o anche semplicemente accettabile agli occhi di chi si ritrovi a farne parte, l’anarchismo se ne differenzia radicalmente per la semplice ragione che ritiene un simile ordine sociale non solo pensabile e possibile, ma, come si vedrà, anche in parte già esistente. In quest’ottica, il nichilista può essere considerato un anarchico che si limiti a negare la legittimità morale e politica dell’ordine sociale in vigore, riconoscendo consapevolmente l’impossibilità di rintracciare un ordine alternativo in grado di poter essere giustificato quale assetto almeno più intelligente e giusto dell’attuale.

    Come accennato, di contro, anche la critica più distruttiva avanzata dall’anarchismo nei confronti dello stato di cose esistente è sempre finalizzata a far emergere quelle spontanee e autonome forme di organizzazione sociale, fondate tanto sulla coercizione reciproca e paritaria quanto su un potere decentralizzato e orizzontale che origina esclusivamente dal basso, cui artificiali sovrastrutture centralizzate e verticistiche non permettono di esprimersi liberamente (ovvero senza restrizioni) e compiutamente (ovvero in ogni ambito dell’esistenza). Inoltre, mentre il nichilismo, in conseguenza di quanto detto, non può ammettere la validità di alcun principio morale, l’anarchismo di contro presenta un’etica sociale talmente articolata da essere ritenuta in grado di sostituirsi completamente a qualsivoglia apparato coercitivo istituzionalizzato; dal che segue che la riflessione sul potere non solo politico, lungi dall’essere una questione colpevolmente trascurata, costituisce al contrario il

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